Era in una bella casa, che visitavo ogni tanto. Per quanto mi arrampicassi al parapetto del suo balcone (e mamma già mi vedeva sfracellata giù), la sfinge ignorava me e guardava il mare. Mare Nostrum. Male Nostrum, scherzavano le pubblicità progresso in funicolare, mostrandoci tutti i rifiuti gettati dalle crociere. Ma era sempre il Mediterraneo.
L’altro giorno un’amica mi ha parlato di un summit mondiale su un bene primario, tipo l’acqua, e del fatto che la sua organizzazione, prima di andarci, si sarebbe riunita “con gli altri paesi del Mediterraneo”, per mettere sul piatto le questioni comuni. Ho ripensato all’amico meridionalista che sognava una lega dei paesi mediterranei, che forse, nella mia terra d’origine, sarebbe stata più “sentita” e vicina dell’Europa. Poi mi sono ricordata dei miei incontri col centro euro-arabo, dove l’ora della riunione è sempre indicativa e se arrivi con venti minuti di ritardo ti anticipi di molto. Allora, scherzando, mi sono detta no, meglio mescolarci, che ormai siamo molte cose insieme: Mediterraneo, Europa, mondo. E per quanto non ci piaccia siamo anche Google, che, trent’anni dopo le mie maldestre arrampicate su una ringhiera, mi ha permesso di guardare in faccia la sfinge che mi preferiva il mare.
È che la sfinge, adesso, sono io. Che vi aspetto. Che mi sono soltanto spostata su un’altra sponda del Mediterraneo, e non sento l’esigenza di essere in Italia per partecipare delle cose italiane. Per venirmi a trovare, voi dall’Italia, dovrete pure cambiare paese, per quello che vale, ma non avrete cambiato mare. O continente, nonostante tutto.
Mediterraneo, Europa. Concetti che sono cambiati nel tempo, ma aleggiano sulle acque più sfigate del mondo: le nostre. Che dovrebbero essere quelle di tutti, di tutte, di tutto.
Ti voglio, per decidere ogni giornodella nostra vita se il pane lo compro io o ci pensi tu.
Oppure: vuoi passare il resto della tua vita a decidere con me chi deve pulire il bagno?
Queste erano le dichiarazioni d’amore che mi sono venute in mente dopo aver visto la serie di Zerocalcare. Purtroppo lui ha vissuto sulla propria pelle qualcosa che io ho solo descritto in un vecchio racconto: fanciulla viene a mancare (nel mio racconto era pura sfiga), amico va al funerale, amico scopre che lei lo ha sempre amato, o qualcosa del genere.
Il problema di questo genere di storie è che non ci rendiamo conto di una cosa: se si fossero realizzate, sarebbe stato bellissimo, emozionante, meraviglioso, e… quotidiano. Nel senso che, come direbbe Zero, poi ce le dobbiamo accolla’.
Me lo ricordo soprattutto adesso che pubblicherò Sam. Rispetto a un romanzo, la vita va avanti. E la vita è fatta di sbalzi, litigi, o anche di momenti bellissimi, ma tutti più prosaici di un addio.
Non ci può essere paragone tra le storie d’amore come le immaginiamo oggi (spoiler: sono perlopiù storie d’innamoramento), e quello che succede in caso quell’amore non corrisposto o taciuto a lungo si dovesse realizzare. Non a caso le favole finiscono lì, perché è lì che inizia il lavoro.
Forse, se con quella persona le cose fossero andate bene, avremmo trovato un modo fantastico di dividerci l’acquisto del pane e la pulizia del bagno, meglio di quanto avremmo fatto con altre. Ma il lieto fine, anche con quella persona lì, sarebbe stato solo l’inizio. Poi sarebbe venuto il bello, o il brutto. O il “così così”.
Quindi, vi auguro di comprare il pane insieme alla persona che avevate desiderato da sempre.
Altrimenti, pazienza. Sarà bello croccante lo stesso, basta aspettare la nuova infornata.
Voi e la vostra mania di avere una vita. Adesso che, come s’è detto, faccio una toccata e fuga in Italia, mi state coinvolgendo (bontà vostra) in attività di ogni genere: e quello ha la bambina che compie un anno, e sua sorella ha scoperto un nuovo dolce che vuole farci provare… Quell’altra va addirittura a correre la mattina, e accetta proseliti!
Ma io sono agnostica e, soprattutto, asociale.
E vi confesso un’altra cosa: faccio tanto la figa, ma non ho il coraggio di mandarvi a quel paese. Come voi non avete il coraggio di farlo con me (vivibbì!). E allora, come la mettiamo? Mi tocca davvero fare cose, vedere gente?
Ci pensavo mentre scolavo i fusilli di lenticchie: li vendono in pacchi da 250 grammi (maledeeetti!), dunque ogni volta li cucino tutti, e ogni volta mi dimentico che la mia padella da sugo è troppo piccola per poterceli saltare. Così li scolo, li verso nel sugo, e solo dopo mi rendo conto che è impossibile mescolare, o i fusilli cadranno. E quelli di lenticchie, specie in una padella non nuovissima, non hanno una consistenza che dia tempo di prendere mestoli, tentare lenti travasi… Allora impreco, afferro una presina (il compagno di quarantena ha giubilato il manico della padella), e provo a rovesciare di nuovo i fusilli nella pentola in cui li ho cotti. Anche lì, mission impossible: la padella è tonda e non ha un beccuccio come il bollilatte, quindi i fusilli cadranno, in quantità indefinite.
Insomma, non c’è modo di fare le cose alla perfezione. L’unica è non provarci nemmeno, e sacrificare un fusillo: se la traiettoria è precisa e non mi tremano le vene e i polsi, riesco a immolare un solo fusillo alla causa del mio pranzo. Il reietto cadrà sul piano cottura o nel lavandino, e a quel punto, se proprio gli va bene, finirà nelle fauci di Archie (che tanto fa merenda con la stoffa del materasso…). Capi’? Se non sacrifico un fusillo, perdo metà pranzo!
Allora sono così soddisfatta che ripenso addirittura a un canto semidimenticato dell’Odissea: a quando Ulisse, per poter viaggiare tranquillo, accetta il sacrificio di non ricordo quanti uomini (che ci teneva, quel Nettuno!).
Anche per il mio viaggio in Italia, sacrificherò un fusillo: un pomeriggio di foto in giro per Napoli, immolato sull’altare di una rimpatriata con dolce non vegano (“Ma come mai non sei solo vegetariana?”). Mezz’ora di corsa con l’amica sportiva, prima di deviare verso la cornetteria di sempre (“Avete cornetti vegani?”). Un’intera giornata a fingermi morta se viene l’amica di famiglia che mi incita ad avere figli “prima che sia troppo tardi” (mi sa che lo è già, signo’).
Si tratta di sacrificare un fusillo, in attesa di decidermi a buttar via la padella senza manico.
Se poi avete il coraggio di venire voi ad assaggiare i miei fusilli, giuro che non mi fingo morta.
Dio, torno in Italia qualche giorno. Devo. E non so cosa mettermi!
No, scherzo, butterò due gonne e tre calze nello zaino. Ma riassumevo il mio shock post-lockdown, che mi porta a girare con i capelli lunghissimi perché mi scoccio di trascorrere anche mezz’ora dalla parrucchiera. E vado addirittura con i pantaloni della tuta (chi mi conosce sa che è inaudito!).
Specie fino a poco fa, le donne che “si curavano poco” (espressione che odio, “curarsi” per me è fare il ca’ che ti pare) erano spesso tacciate di pigrizia.
Invece, una scrittrice come Zadie Smith ha dichiarato che a sua figlia concede solo un quarto d’ora da passare davanti allo specchio: il fratellino non è sottoposto alla stessa pressione estetica per uscire di casa tutto caruccio, così ha il tempo di fare altro.
Tipo? Beh, io, la sera che ho smesso di documentarmi sulla gloriosa lotta ai punti neri, ho visto un documentario su Mayakovski.
Dite che sono meglio i punti neri? De gustibus! Io ho la sensazione che il lockdown ci abbia confermato qualcosa che sospettavano in tante, senza mai articolarla: se andiamo in giro nature, non si ferma il mondo. Nonostante i vari meme scimpatici su come sarebbero state pelose le donne a fine quarantena. Nonostante gli inviti della giornalista boomer madrilena, che si faceva un punto d’onore di mettersi il reggiseno anche per lavorare in casa (e varie ventenni le hanno fatto ciaone con il no bra movement, di cui sono seguitrice inconsapevole da anni).
Sì, già vi vedo: “Ci voleva il lockdown”. Non lo dite a me! Intanto, è la prima volta in vita mia che, quando osservo le vetrine sul Portal de l’Àngel, devo controllare il nome del negozio per accertarmi che sia Benetton e non Oysho! Il “look pigiama” introduce nuovi orizzonti.
Però (apro parentesi sociale), non posso prevedere grandi cambiamenti di costume se l’economia non si muove di un millimetro, se il lockdown ha fatto perdere il lavoro a un’incredibile quantità di donne: allora, la dipendenza economica può spingere una a rendersi il più indispensabile possibile (anche rinforzando gli stereotipi di genere), per non finire in mezzo a una via. Io dico scherzando che la maggior emancipazione che in Catalogna è dovuta alla crisi economica, che ha costretto tante coppie giovani ad avanzare verso la parità: la mattina lavora il papà, il pomeriggio la mamma, e i soldi per l’asilo non ci sono, quiiindiii… Sul serio, al mio arrivo ero stupita da quanti papà vedessi in giro coi figli nel marsupietto, o come si chiama.
Ora (chiudo parentesi sociale), conveniamo che la parità ottenuta con le pezze a culo non è l’ideale. Però è importante trarre qualsiasi lezione legittima dal periodo demmerda che stiamo trascorrendo. Una è che il “Lo faccio per me stessa” non sempre sta in piedi, se riferito ai soldi e al tempo che crediamo di dover investire per renderci accettabili (visto che, così come siamo, non andiamo mai bene…).
Quando mi tornerà lo sfizio, riprenderò a truccarmi gli occhi, perché mi diverte giocare coi colori, e in strada avvisto molti più ragazzi che si cimentano.
Speriamo che, un giorno, la mia nipotina nata nel 2020 possa uscire in pigiama o addobbata come un lampadario, o senza niente addosso: come più le gira di fare.
Avete presente quando vi ordino di rinunciare a voler controllare tutto?
Ebbene, sono incappata in una situazione in cui il controllo ce l’avevo, o quasi. Quello che mi mancava erano informazioni.
Sto delirando? No, è che non posso dare troppi dettagli: mica so’ Dagospia! Diciamo che, tre giorni fa, una persona con cui stavo svolgendo un piccolo lavoro ha cambiato umore in un nanosecondo. Quindi ha cominciato a evitarmi, sabotando il lavoro stesso.
Rimasta sola, dopo aver citato più volte gli Squallor, mi sono detta che sapevo di avere a che fare con un personaggione umorale, e che era inutile farsi domande. Meglio andare per la mia strada, accettare le cose che non posso cambiare, ecc.
Quando sono riuscita a ottenere un cavolo di confronto, a cui mi sono presentata dopo svariate pere di camomilla, ho scoperto che il problema era stato qualcosa che avevo detto: uno scherzo generico sulla sciatteria, che era stato interpretato come una critica personale. Il bello era che la parte di lavoro svolta dall’altra persona mi sembrava troppo “leccata”, altro che sciatta! Forse era l’altra persona a sentirsi sciatta di suo (il che spiegava l’approccio “leccato” al lavoro).
Ho ripensato a quella rimpatriata che organizzavo anni fa in chat. Visto che una sola amica (che chiameremo Lucia) aveva proposto delle date per vederci, avevo commentato con: “Grazie, Lucia! Però voglio incontrare anche gli altri, eh!”. Lucia mi aveva scritto in privato: “Questa te la potevi risparmiare! Io ti dico in che giorni sono disponibile, e mi snobbi così?”. Quando le avevo spiegato cosa intendessi, lei aveva provato a buttarla sul “Vabbè, abbiamo sbagliato tutte e due: tu a esprimerti, io a interpretare”.
No, Luci’. Se tu hai problemi di autostima, o di paranoia, la colpa forse non sarà tua, ma di certo non è mia. E meno male che era un equivoco scemo. Mi è capitato invece un interlocutore molto ansioso, che si appigliava a ogni parola che gli avessi detto o scritto per vederci un attacco personale: forse ci trovava solo l’incarnazione delle sue paure.
Almeno, la persona di cui parlavo all’inizio del post ha ammesso che il nostro era un equivoco “alla Lucia”: io non c’entravo niente con le sue insicurezze. Le avevo solo subite!
Due conclusioni.
1. Vi rendete conto di quante energie ci avrebbe risparmiato un confronto immediato, che scattasse subito dopo la frase “offensiva”? Quella volta che abbiamo il controllo di una situazione, non sprechiamolo.
2. Parafrasando Thais Gibson: se vi dico venti volte che siete l’orco delle favole, non vi convincerò mai, a meno che… A meno che non crediate voi di essere l’orco delle favole!
Io ero un’adolescente in vacanza con la famiglia, e lui uno più grandicello che diceva le parole giuste, o il giusto numero di parole perché risultasse “un mistero”. Come persona, dico: le sue opinioni su tutto erano talmente poetiche e fumose che potevano significare ogni cosa, e il suo contrario. Era un po’ troppo perché un’adolescente fricchettona, che amasse sentirsi la pecora nera della situazione, non fosse almeno intrigata dal tipo.
Rimasi indietro il giorno della partenza: gli adulti sarebbero andati a fare l’ultima gita (che palle!), e io avrei esplorato un posto mai visto con questo concentrato di carisma e sintomatico mistero… Un posto un po’ isolato e molto romantico: pure troppo. Infatti io, teenager timidona, per calmarmi feci una battutaccia: “Dai, chissà quante ne porti qui!”. Flagellatemi pure, ma inso’, ero alle prime armi, e giuro che, da brava nerd, stavo più o meno citando un film con Gastone Moschin.
Apriti cielo. Il tipo si risentì tantissimo, mi schifò all’istante e mi riportò indietro. Adesso, spero che siamo più o meno d’accordo su questo: siccome lui non aveva mostrato chissà che segni d’amore appassionato, quella mia battuta per sdrammatizzare poteva essere infelice, non imperdonabile. Ma spiegatelo a un’adolescente complessata, prontissima ad addossarsi le colpe di tutto. Diciamo che quell’episodio spiacevole influì un bel po’ sulle mie scaltre scelte sentimentali degli anni a venire.
Ebbene, ieri su LinkedIn ho ribeccato il fenomeno. Stando ai suoi commenti su varie pagine (*indossa il cappotto da ispettore Clouseau*), lui è convinto delle seguenti verità:
i vaccini servono per inoculare un nanochip che, tra le altre cose, ti fa prendere Radio Maria;
c’è un complotto in atto per farci morire di cancro;
il complotto vale solo per la popolazione bianca: quella nera pensa a rubare e a dormire negli hotel a 5 stelle (e gli italiani finiscono in strada!1!1!!);
ci vuole un bel colpo di stato (dichiarazione seguita, giuro, da un preventivo step-by-step).
Magari il tipo non è sempre stato così. Magari i suoi discorsi fumosi q.b. avrebbero portato a qualcosa di diverso, anche se dopo l’incidente della battuta avevo già indagato con la “comitiva del mare” (esistevano ancora le lettere!), e scoperto che il Nostro aveva guai con la giustizia (poi rientrati), e delle simpatie politiche che, per intenderci, prevedevano pose da giuramento degli Orazi… Alla luce di ciò che ho letto ieri, mi è difficile non pensare che questo qui era, diciamo, un caso perso già allora. Così vedo sotto altri occhi quella reazione inconsulta davanti alla mia battuta, così poco normativa per una pulzella da corteggiare alla vecchia maniera.
Non è la prima volta che mi succede, di spiegarmi il passato con informazioni che arrivano a distanza di decenni. Il precedente più triste riguarda una compagna di università che mi lasciò sola a fare una presentazione che avevamo scritto insieme, dividendoci le diapositive da esporre in classe. Solo anni dopo, a una rimpatriata, scoprii che la poveraccia, proprio in quel periodo, era invischiata in una relazione violenta: forse il giorno della presentazione non aveva davvero le forze per presentarsi in classe.
La vita è una narrazione che abbiamo ricavato da informazioni parziali, anche nel senso di “un po’ di parte”. Capire i perché delle cose non è risolutivo, ma aiuta. Ci permette di scoprire come sarebbe andata se avessimo interpretato lo stesso fatto in modo diverso. Non ottimistico, o positivo a tutti i costi: diverso.
E voi, avete un episodio fumoso che vi ha cambiato la vita, o almeno la media universitaria? Potete giurarci, che le cose siano andate proprio come ve le raccontate?
Pensateci un po’, e se vi va fatemi sapere.
(Dell’estate col tipo “peculiare” mi è rimasta questa bella canzone, che mi ispirò il titolo per il mio primo romanzo!)
A volte viene alle 5, a volte alle 7. Pensavo dipendesse da quante crocchette avesse nella ciotola, ma no: va proprio a sfizio suo.
Di solito, una volta sul letto, si accoccola contro la mia ascella (temerario!) e mi lascia dormire. Per un’oretta. Poi vengo svegliata dal rumore di una piccola mascella al lavoro, e mi rendo conto che il “fiero pasto” sono i miei capelli.
In realtà non ci pare, ma Archie non sa bene cosa vuole. Per questo a un certo punto batte a ferro e fuoco il mio letto, che manco Attila, flagello di Dio. Quello che vuole, lo so io: mi basta disporre le gambe nella posizione in cui mi è impossibile prendere sonno, e lui ci si accoccola felice.
Visto? Sapere ciò che si vuole è tutto. Finché non lo sai, giri a vuoto e mastichi capell… Uhm, scusate, esempio troppo specifico.
Succede anche a un mio amico, che ha una caratteristica assurda: è un agente immobiliare onesto! Cioè, rifiuta “regalini” per spuntarti il prezzo che vuoi (visto coi miei occhi), e aggiusta sempre la cifra a favore di chi compra. Il segreto? È un “culoinquieto“, come si dice in spagnolo: niente di volgare, significa solo che non sta mai fermo. Infatti voleva diventare coach aziendale, ma quando c’è riuscito si è dato alla ludoterapia. Poi ha lasciato il suo lavoro in agenzia per mettersi in proprio, diventare finalmente meno agente e più “faccendiere” in senso buono: ti accompagna in tutto il processo che ti porterà a “sentirti a casa”, ristrutturazioni comprese. Ma non è contento neanche adesso, e non ne ignora il perché: non sa ancora qual è il suo cammino.
Sono tante, le persone così. Il mio caro Archie al confronto è un dilettante, col suo unico dubbio riguardo a come condannarmi all’insonnia.
Ho scoperto che ci sono un sacco di connazionali all’estero che sfoggiano i loro curriculum eclettici, vantandosi di una grande multipotenzialità (considerata da poco un vero e proprio fenomeno psicologico).
Invece, eccomi qua a studiare di nuovo, così de botto e senza senso, e a riformulare la mia idea di famiglia. Intanto penso: pessimismo e fastidio! Perché non ho la vita controllata al millimetro?
Devo arrendermi: è vero che l’eterna indecisione è una posa, a volte, ma spesso non sappiamo davvero cosa fare, per la scarsa capacità di prevedere ciò che ci renderà felici. Ammesso che il precariato ci permetta di scoprirlo, le persone sposate, dal terzo anno in poi, non sarebbero più felici di quelle non sposate, e neanche i figli sono una discriminante significativa. Quanto ai soldi, al di sopra di una certo guadagno annuale (bello altino, per la verità) non importa se sei Rockefeller: il grado di felicità potenziale sarebbe lo stesso.
Io sono fritta perché, stando al tipo che si occupa di queste cose, la vera felicità sembra risiedere nell‘interazione pacifica tra esseri umani, che è la mia attività più aborrita dopo quella di pulire la lettiera di Archie.
Quindi devo accettare questa realtà provvisoria: so di non sapere. Ammetterlo è il primo passo per… sapere, appunto.
Vabbè, facciamo una cosa: mi sono sempre rifiutata di cliccare sul video qui sotto. Troppa gente sui social lo vedeva e dichiarava: “Ecco perché ho venticinque lauree e trentamila interessi: sono una persona speciale!”.
Al che io, che volevo una vita tranquilla (la la), mi sentivo il latte alle ginocchia.
Sono al Port Vell di Barcellona, davanti a un praticello costeggiato da un parapetto grigiastro, su cui è possibile sedersi. E io, infatti, siedo. A due metri da me, un’intera scolaresca sta osservando un pappagallo.
Capito? I pappagalli sono numerosi in città, ormai da decenni. Ma quelle creaturine di sette-otto anni facevano “oh” lo stesso.
Io non mi sforzavo neanche di guardare. Non ero abbacchiata, ero stanca. Avete presente quando cambiate vita, e allora non riconoscete più la vostra tribù?
La mia tribù è tanto caruccia, ma fa molto Pasqualino Passaguai, come direbbe mia madre: perde il lavoro, perde il cellulare, perde soldi, perde l’appartamento. Non si presenta agli appuntamenti e neanche avvisa, perché ancora resiste alla “dittatura dei cellulari”. Vuole farsi i soldi “senza puntare troppo al guadagno”. Vuole fare acquisiti di qualità, ma “senza spendere troppo”. Prima o poi chiede aiuto per le questioni più assurde, proponendo soluzioni poco legali. Non vi dico se c’è da viaggiare, in questi tempi di “medicalizzazione eccessiva” (sic) e “dittature farmacologiche”. Come se il biglietto se lo procurassero loro, poi.
Credetemi, la mia tribù è estenuante. Soprattutto, non è più la mia tribù.
Non lo è da quando ho affrontato la mia crisi. A volte non si tratta neanche di superare: affrontare basta e avanza. Per questo l’altro giorno, quando mi sono seduta lì al porto, stavo pensando di formare un gruppo MeetUp: Il club della seconda opportunità. Lo so, nome demmerda. Ma ci sarà pure della gente che si trova nella mia stessa situazione. Donne divorziate che hanno scoperto che c’è vita al di là della coppia, e che le loro amiche non la pensano come loro. Emigranti che passano dieci anni a Berlino, e poi tornano in paese: lo stesso paese dell’anziana coppia che anni fa aveva il figlio disperso per Barcellona (il ragazzo dormiva in strada), ma aveva ritardato le ricerche purché non si sapesse in giro. Per usare una metafora letteraria: non sempre il nostro mondo esteriore cambia con la stessa velocità di quello interno.
Stavo pensando a tutto questo, a pochi metri dalla scolaresca che osservava il pappagallo, quando mi sono accorta che le deliziose creaturine, adesso, guardavano me. In effetti, dovevo essere uno spettacolo affascinante, col muso lungo venti mentri che mi ritrovavo.
Era pietà, quella che leggevo negli occhi della bambina davanti a me? La sua mascherina formato Lilliput non mi aiutava a capire. Un compagnello della piccola mi ha buttato lì un “Hola” dolcissimo, all’unisono con un’altra amichetta. Ho ricambiato: mica sono un mostro! E so’ trentacinque anni che degli adorabili marmocchi mi vedono col broncio e si chiedono cosa non vada. Solo che le prime volte ero una loro coetanea, e adesso ho l’età delle loro madri, o giù di lì.
Sarà una mia proiezione, però sembravano chiedersi davvero, magari in catalano, “Chesta che ha passato?”. Con interesse genuino, e pure voglia di aiutare.
Magari mi sbaglio. O magari le future generazioni non avranno bisogno di una seconda opportunità.
Anni fa, un adorabile bugiardo mi diceva che ero bella anche appena alzata. E sottolineo “anche”.
Oggi ho scoperto che invece, secondo il compagno di quarantena, al mattino sembro uscita dall’era glaciale.
Mentre spunto dalle coperte con i capelli sconvolti, pare che abbia viaggiato ventimila anni, e mi stia adattando in fretta a molti cambiamenti. Toh, una lampadina. Ehi, un gatto senza zannoni. Wow, un trentenne con tutti i denti!
Sapete cosa ci è rimasto davvero dell’era glaciale? Il cervello.
Forse ve l’ho già detto, ma i corsi che ho seguito quest’anno raccontavano la stessa storia sull’umanità: siamo la specie che si concentra sulle cattive notizie perché ventimila anni fa, quando dovevamo distinguere tra il frusciare di foglie e lo strisciare di un serpente, era meglio prepararci al peggio. Il worst-case scenario come metodo di sopravvivenza!
Resto convinta che sia la pressione sociale ad avere l’ultima parola, ma il software che abbiamo ereditato dall’era glaciale è come l’InstaPot primigenia di quando ancora cucinavo. L’avrò anche accantonata per cibarmi di hummus e pane di Baluard, ma i suoi richiami ancestrali sono sempre lì, a suggerirmi che ogni tanto due legumi potrei anche cucinarmeli, invece di buttarla sempre sulla pasta di lenticchie!
Esempi scemi a parte, non dobbiamo rassegnarci per forza al cervello cavernicolo.
Prendiamo l’umore nefasto da risveglio: una jattura universale. Eppure, sapete cosa? Se pensiamo che sarà una giornata demmerda, abbiamo ragione. Se pensiamo che andrà bene, abbiamo ragione. E non nel senso del pensiero positivo. Sono poche le piaghe oggettive, come la formula panino al salame + caffelatte dei bar locali. Il resto è più spesso una questione di interpretazione, che dipende da tanti fattori: non ultimo, il nostro atteggiamento. Prendete la mia prof. di storia al liceo! Alla prima interrogazione le parlai del connubio stato-chiesa in non so che periodo medievale: lei assentì tutta contenta. Per quando eravamo arrivate alla seconda interrogazione, l’esimia già mi schifava: quando ripetei il concetto, mi informò disgustata che nell’epoca in questione non c’era alcun connubio stato-chiesa. Ecco un primo pensiero positivo: nessuno di noi è la mia prof di storia al liceo. Noi abbiamo una vita.
Senza scomodare il sistema scolastico italiano, basta un dettaglio minimo a cambiare l’umore e, spesso, la giornata! Stamattina mi sento vispa per pura cazzimma: ronfavo al punto che ho registrato i miagolii di Archie quando questi erano già cessati. E vai! Non me ne vogliate, è che anche il piccoletto miagola per cazzimma, visto che non tollera che io dorma quando è sveglio lui. Da lì è stata tutta una catena di sorrisi, che mi stanno facendo digerire pure l’idea dell’esame di inglese che devo dare oggi su Duolingo (giuro!). Che rottura di gonadi, ma almeno non devo prenotare in anticipo e sganciare 220 euro come per l’IELTS. Che vada bene pure la poracciata Duolingo è un altro lato positivo di aver scelto un’università non proprio facoltosa per il sospirato master in psicologia, anche se, come motivazione, la retta bassina (per il Regno Unito) resta in pole!
Non prometto niente: domani magari mi chiedete di Archie e dell’esame, e io vi mangio a colazione.
Ma oggi mi sono ricordata che dovremmo piantarla con la mania del pessimismo e fastidio a prescindere: pensiamo ci protegga da “ogni evenienza”, e invece l’evenienza si presenta solo una volta ogni tanto, come il serpente che il nostro bis-bis-bis doveva distinguere da una foglia secca. Solo che lo stress, oggi, ammazza più dei serpenti, dunque il rapporto costi-benefici del nostro pessimismo ancestrale non è proprio grandioso, ma è più simile a quello di un’ingombrante pentola elettrica che abbiamo smesso di usare. Va’ che oggi, se il buon umore continua, mi preparo un pranzo come si deve…
Uhm, no, per quello ci vediamo tra altri ventimila anni.
Intuirete che la frase mal si applica ai cuccioli umani, a meno che non siano personaggi di Trono di Spade!
Ma il gattino ha deciso che produco latte, dal pareo. Da tutti e tre i parei che porto in casa: quello lilla (vedi foto), quello arancio sgargiante, e il “veterano” fantasia del 1997, ormai distrutto da un colpo d’artiglio. Per Archie, svezzato troppo presto, queste stoffe dozzinali sono fonti di nutrimento.
Sono la donna acui appiopparono la maternità! Anche se felina. Come a dire: fai attenzione a ciò che desideri, perché potrebbe avverarsi.
Invece no. Dopo settimane di attesa immobile, mentre Archie leccava a velocità supersonica una frangia di stoffa lilla o arancione, mi sono resa conto che mi bastava sfilare il pareo e svignarmela, come in uno sketch di Benny Hill! Archie non si scompone, purché possa proseguire le attività poppatorie. Come si dice? Tutti sono necessari e nessuno è indispensabile.
Confesso che all’inizio sono stata sul punto di recriminare al poppante: “Per te sono solo un pareo!”. E invece, meglio così.
Sentirci indispensabili può conferire una sicurezza a cui sacrifichiamo tanto, perché i vantaggi sono evidenti. Se abbiamo l’autostima della lettiera di Archie (che, vi assicuro, deve essere molto bassa), è facile credere che il prossimo non ci si fila, a meno che non ci possa “usare” per qualcosa. Secondo una teoria mal infocata, ma interessante, molte donne si rendono indispensabili nel lavoro di cura come reazione alla loro dipendenza economica: senza di me, chi ti stira le camicie a mezzanotte?
Pensiamo a una figura che spero (e dispero) appartenga al passato: la “zia di casa”. Quella che non si era sposata né aveva potuto apprendere un mestiere, quindi cucinava, rammendava e badava alla prole delle sorelle, con la premessa implicita che dovesse essere a disposizione sempre. Dopotutto, il resto della famiglia le “dava da mangiare”. L’unica Zia Tula che ho conosciuto io ci teneva molto a sottolineare i “sacrifici” che faceva per noi: un modo tutto suo per dire “non lasciatemi sola”.
Ma mi sto allontanando molto dalle frange del pareo, e senza neanche sfilarmelo di dosso! Allora lasciatemelo dire un’ultima volta: che sollievo, non essere indispensabili. Cedendo il pareo, io faccio le mie cose e Archie è contento lo stesso. Se mi cerca è perché vuole giocare, non perché crede di aver bisogno di me.
Che diamine, sono molto più di un pareo: sono anche un paio di gambe da graffiare!
E comunque lui, tra me e il pareo, sceglie quasi sempre me.