Giuro che, quando ho visto il quaderno, mi sono quasi commossa.
L’aveva trovato alla tabaccheria dove compra le sigarette, già che si allungava verso il Veritas: il Coaliment di fronte alla nostra strada ha perfino la farina e il riso, ormai rari quanto l’araba fenice, ma è – era – un negozio per turisti, di qualità varia e prezzi maggiorati.
Va anche detto che, ieri, la sola lista della spesa sembrava un’improbabile battaglia navale Italia-Inghilterra, da disputarsi su qualche scogliera artificiale della Barceloneta, che rivedremo chissà quando: se andava al Coaliment, la pasta lunga doveva essere solo Barilla, e solo capellini, tra i pochi formati che tollero di quella marca… “Se non è Barilla, desisti”.
Lui scrutava la mia grafia sul retro della tovaglietta Sandwichez scovata tra le sue cianfrusaglie, visto che non ero disposta a cedere neanche un pezzetto di carta.
“E la trovo, questa marca al Veritas?” mi aveva chiesto infine.
“No! Al Veritas puoi prendere la pasta lunga che vuoi, magari non proprio quella che costa tre euro… però la qualità è superiore“.
“Ma sempre capellini? E poi che significa ‘passata di pomodoro’? Cos’è un pomodoro?”.
Gli stavo per fare un disegnino: se mi avessero detto che un giorno avrei difeso l’acquisto della Barilla, mi sarei messa a piangere. Ma le alternative al Coaliment sono la Gallo e poco altro, chi vive da queste parti sa e capisce. Avessi un po’ di semola di grano duro, altro che farina introvabile!
È finita che è tornato con le bavette Barilla, il latte d’avena e non di soia (ma la marca era Yosoy, che ne sapeva?), e i pomodori da pa amb tomàquet, ma lì è colpa mia: do per scontato che tutti li prendano di default del tipo che serve a fare le pellecchie. Poi, però, c’era il quaderno.
Io i racconti preferisco scriverli su carta. Se il racconto deve vincere per knock out, voglio pestare i quadretti con le mie penne a punta retrattile, finché le parole non fanno quello che dico io.
Sto facendo il classico errore di produrre cattiva letteratura su qualcosa che sta succedendo in questo preciso momento: roba che la gente non vuole leggere per anni, neanche se sfornata da grandi penne (non quelle lisce, dico in senso metaforico). Se Primo Levinon trovava un editore con il bel popò che gli era successo, figuriamoci io, che devo solo starmene a casa e ho il privilegio di starci pure bene, intenta come sono a leggere, scrivere e far di conto… o meglio, farmi due conti.
Non voglio cadere nell’errore di magnificare la vita che ho lasciato, ricordo che c’erano cose che volevo correggere ed ero in una fase di cambiamento. Certo che rimpiango l’uscita del pomeriggio, dopo la mattinata passata a scrivere, ma non al punto di magnificare il mio percorso ozioso tra Fnac e Cafè Costa, in cerca di un bar in cui prendere appunti su quanto avrei scritto il giorno dopo. Sono anche meno concentrata sulle ultime bozze del libro che doveva uscire ad aprile, e ora chissà.
Non importa. Ho ritrovato qualcosa che spesso si dimentica, quando si ha il privilegio di trasformare la propria passione in attività quotidiana: il perché. Come mai ci muove proprio quella passione? Quale piacere ci regalava prima dell’ansia, metti caso, di spostare quella virgola risolutiva? O prima dei dubbi su quanto le descrizioni – di cui non mi è mai fregata una ceppa neanche come lettrice – convinceranno l’editor, l’amica scrittrice, e tutto quello stuolo di gente che si può risentire se accosto due parole che iniziano uguale.
Anche questa può essere una distorsione di quanto accadesse prima: quando sarà tutto finito potrebbe tornare la mia ansia da prestazione, anzi, da descrizione. Ma se la realtà è diventata quest’alternarsi continuo di giornate, cos’è che ci definisce davvero? Forse, quello che nonostante tutto riusciamo ad amare, in tutte le sue rappresentazioni.
Fosse anche un quaderno dalla copertina verde transgenico, che a giudicare dalle dimensioni non mi basterà a scrivere la metà dei racconti che ho in mente.
Di buono c’era che si abbinava alla felpa di chi me l’aveva scovato: allora ho deciso che in tabaccheria l’aveva servito una commessa, annoiata come tante dipendenti che non possono permettersi di essere spaventate e basta. La ragazza aveva visto come gli stesse bene quel cappuccio verde ancora odoroso di lavanderia a gettoni, alzato sui riccioli rossi che si riprendono il loro spazio, e gli aveva scelto proprio quella copertina lì.
E invece, ho saputo poi, alla cassa c’era un tizio di mezza età, che gli ha sbattuto sul bancone il primo quaderno che ha trovato sullo scaffale.
Almeno mi sono ricordata perché mi piace inventare storie.
El cant cada vegada era més alt, més segur, Asturias, patria querida, cantaven tots i també la Natàlia, Asturias, patria querida, la Rambla s’omplí del seu cant, cada vegada més alt, cada vegada més fort, era un cant alegre […]. La Natàlia no cridava contra aquella massa burella que els havia colpejats, ni contra els jeeps, ni contra els tancs d’aigua, no cridava contra els gossos deixats anar que tustaven sense saber per què, la Natàlia cridava contra el seu passat, contra les ires del seu pare, contra el que ella havia estat. I no tenia por.
Montserrat Roig, El temps de les cireres
Ore 8.00
Irene
Una goccia.
Dove sei?
Due gocce.
Mi stai pensando?
Tre gocce.
Sei al sicuro?
Quattro gocce.
Stanno arrivando.
Irene scaglia a terra il suo caffè. Il rubinetto che perde in cucina la esaspera, e Pau non si decide a chiamare l’idraulico. D’altronde si rifiuta anche di comprare le tazzine da espresso italiano, così i frantumi della grande scodella presa dai cinesi si spargono per tutto il salón.
Irene non sarebbe arrivata a tanto se non avesse avuto gli occhi stanchi, se non si fosse svegliata alle quattro del mattino per salutare Pau che andava al seggio, mentre la sveglia digitale che lui aveva spento subito segnava la data che entrambi, per motivi diversi, aspettavano da giorni.
1 d’Octubre.
1-O.
Il Giorno dell’Indipendenza.
Almeno per Pau, che cercando le pantofole nel buio si lamentava di essere già in ritardo.
Per Irene, invece, cominciava il Giorno dell’Attesa.
“Lo so che lì alla scuola occupata avete da mangiare, ma ti ho fatto dei panini. Li trovi in frigo” era riuscita a farfugliargli prima di tornarsene a letto, troppo stanca anche per supplicarlo ancora di restare a casa.
“Con la capresse?” aveva chiesto lui, speranzoso.
Lei aveva scosso la testa:
“Butifarra d’ou e insalata mezclum. Se vuoi la Catalogna, mangia catalano”.
E aveva sbattuto la porta.
D’altronde, prima di coricarsi gli aveva detto con dispetto:
“Stanno scendendo”.
Lui non riusciva a dormire e le aveva pure chiesto:
“Chi?”.
“Loro” aveva risposto perfida. “Dalla nave di Titti”.
Arrivavano gli agenti della polizia nazionale mandati dal Gobierno. Alloggiavano da giorni in una nave italiana con sopra un’immagine di Piolín. Titti. Sui social era partito l’hashtag #FreePiolín.
Pau dopo la notizia aveva ripreso a dormire, o aveva fatto finta. Lei era rimasta con il cuscino sollevato sulla parete: non avevano neanche la spalliera per il letto, in quella topaia con angolo cottura in soggiorno, un bagnetto grande quanto una cabina telefonica e la doccia sospesa sul balconcino, dietro una vetrata che i due tortolitos si erano dovuti montare da soli al loro arrivo.
Non era quello che Irene si aspettava, quando aveva lasciato tutto per seguire quell’Erasmus catalano conosciuto a Roma. Si era abbandonata alle spalle l’Italia per la Barcellona degli affitti che aumentavano di giorno in giorno.
“Ringrazia il cielo di avere un fidanzato catalano” le diceva Marco, un compaesano arrivato da poco, che lei aveva piazzato nel bar di un amico olandese. Secondo lui, se Pau non avesse avuto amici di famiglia che affittassero pateras come quella, avrebbero pagato ben più dei settecento euro di adesso. Anche così ci buttavano quasi metà stipendio.
E quello lì pensava all’indipendenza.
“Nella repubblica catalana” le prometteva spesso in un italiano zoppicante, imparato nei loro mesi insieme a Roma, “gli speculatori stranieri che comprano i nostri palazzi avranno il fatto loro”.
Il salone puzza di caffè anche dopo che Irene ci ha passato lo straccio con la candeggina. I cocci della scodella bucano la busta di plastica che per il momento lei ha appeso alla porta del balcone.
Adesso, almeno, ha una scusa per uscire, quando prenderà coraggio.
Deve andare a buttare l’immondizia, sí senyora.
Adesso sa anche in quale bidone.
Quello a due passi dalla scuola occupata in cui Pau difende con altri il suo “diritto a decidere”.
Pepita
Il pane è caldo di forno e il caffè appena fatto. Mi basteranno due termos? Doncs no passa res, se non portano caffè le altre del Circolo della Sardana torno a casa apposta. Ma ora voglio dare il cambio a mia figlia, è rimasta lì dentro tutta la notte mentre il marito era a casa con la bambina. Meglio che torna a casa a riposare. Sono fiera di lei.
Ho cantato ogni giorno della mia vita di bimba Cara al Sol. Ho aspettato questa mattina per quarant’anni. Mamá era andalusa, ma io sono catalana. Non scrivo bene nella mia lingua, Franco non voleva che la imparassi, ma la parlerò fino alla morte solo per fargli un dispetto, al Cara Garbanzo.
A tomar por culillo (e Visca la terra)!
Ore 10.00
Marco
Guardi, la cacerolada mi ha svegliato alle 22.15, dodici ore fa.
Quelli finiscono di battere sulle pentole, e io mi sveglio troppo rincoglionito per spignattare qui al bar. Anche se per aprire sono andato a letto con le galline. Tipico, mi creda.
Ieri sera mi hanno pure scritto Fernando e gli argentini, amici conosciuti in ostello quando sono arrivato. Alla fine ci sono andati, al Moog, a sentire un DJ latino.
Mi hano mandato una foto col culo di una: aveva i pantaloncini così corti che all’inizio li ho presi per mutande. Questo però non lo metta nell’articolo, per favore, che sembrerò un pervertito. Per quale giornale ha detto che lavora, in Italia? Ah, ok. Non lo conosco, scusi, ma tanto i giornali non li leggo. Scrivete solo stronzate, permetta che glielo dica.
Ieri volevano intervistarmi per Rete 4, ma che gli dicevo? E poi il sabato sera il bar è pieno. Quelli insistevano, erano una giornalista e un cameraman: stai vicino a uno dei seggi principali del quartiere, dicevano, non puoi non aver visto niente.
Io non so perché perdete tempo con me, davvero. Qua a Barcellona ci sono venuto per lavorare. Se no me ne restavo a casa mia, che oggi è domenica e mia nonna… Lo so che è un cliché, ma fa il miglior ragù del mondo. Mi manca mia nonna, lo sa? È quella che mi manca di più.
Come, che lavoro voglio fare? Qualsiasi, no? Va bene anche questo bar. Sto qua da tre mesi, sto imparando lo spagnolo, estoy apprendiendo castigliano. O ci vuole “el”, davanti a castellano? Non ci faccia caso, alla fine col tipo di clienti che mi ritrovo parlo giusto quelle due parole d’inglese, sempre le stesse.
Se arriva l’ispezione, via il grembiule: è che non ho il Nie, che è come il codice fiscale, ma più difficile da ottenere. Sono il cugino del proprietario. Considerando che il proprietario è olandese, non so proprio quanto mi crederanno.
Ok, torniamo a noi. Cosa ne penso di quello che sta succedendo in queste ore, mi chiedeva.
E che vuole che ne pensi? Sono pazzi. Tutti! Sono come la Lega Nord, ha presente? Certo che ha presente, lei vive in Italia, quindi adesso se li sciroppa lei. E io che pensavo di essermeli lasciati alle spalle!
Dico io, venite a Napoli, prima di lamentarvi! Venite a fare la fame come me laureato a ventiquattro anni con 105, e in sei anni non ho trovato uno straccio di lavoro. Che cavolo! E non posso fare chissà cosa neanche qua, finché non imparo lo spagnolo. Il catalano no, mi scoccio, francamente. C’è chi dice che non lo impara per una questione politica, “per rispetto alla Spagna che ci ospita”. Io no, mi scoccio e basta.
Come? Cosa penso della Catalogna? Che potrebbe anche continuare come ha fatto per tre mesi a darmi una casa e un lavoro, invece di mettersi a fare la stronza come l’Italia!
Prendiamo il mio contatto qui, quella che mi ha aiutato a trovare lavoro: Irene Morelli, la sorella di un mio amico.
Lei ha conosciuto a Roma il fidanzato, un fanatico indipendentista di quelli “visca” di qua e “visca” di là. Lui era in Erasmus e lei alla Sapienza a studiare giornalismo.
Ha lasciato tutto per seguirlo, capisce? Vabbe’, diceva che l’Italia non le dava sbocchi, e avrà anche ragione. Ma adesso lavora come una pazza da matrimoni.com, che la sede sta pure a Sant Cugat, deve prendere il treno. Ha lasciato tutto per mettersi in questo casino, cazzo! Era veramente brava, capito? Già scriveva ogni tanto in giornali buoni: se glieli nomino, che lei è del mestiere…
Scusi un attimo, c’è una cliente.
Ciao, Tati! Il macchiato di sempre, vero? Ah, siete in tre, oggi… È vero, fai l’osservatrice per i diritti umani, per il referendum. Me l’hai detto pure, che capa fresca che tieni. Tranquilla, a te lo faccio corto de café, mica ci beviamo il piscio di questi qua…
Ehi, adesso non ti arrabbiare, che questo signore è della stampa italiana! La guardi bene, signore, questa sì che è un’indepe convinta. Da dove viene, secondo lei, con questo gilet fosforescente e la frangetta a metà fronte?
Da Como, viene! Dal ramo del lago eccetera. Ci crede, lei?
Neanche io. È conciata così perché fa l’osservatrice dei diritti umani, va a difendere il seggio di chi può votare: lei da italiana non potrebbe nemmeno!
Sei una bella ragazza, Tati, e sei ancora in tempo. Salvati da questi pazzi!
Ok, ok, sto zitto.
Fanno tre euro e cinquanta in tutto, i tre caffè.
E pure a lei, signore, sono tre euro il caffè e los bollos… volevo dire, le paste. Le faccio uno sconto ma non è che la stampa consumi gratis, qua.
Con tutte le stronzate che scrivete.
Adesso parlate pure tra voi mentre mi assento un attimo. Mi sono finiti i ceci e i clienti fighetti vogliono l’hummus a colazione. Il magazzino sta pure vicino al seggio, speriamo che non mi succede niente. Appena viene il proprietario a sostituirmi esco un attimo. Ah, eccolo.
Tati
E poi vai un attimo a prendere il caffè per tutti e succede questo. Il giornalista italiano che ti vede il gilet di osservatrice dei diritti umani e vuole il sangue.
Nel senso che ti chiede: hai visto la polizia caricare? E la gente che faceva?
Ma tu ancora non hai visto nulla, e speri di continuare così fino a stasera. Sono due giorni che non dormi per la paura e vorresti credere che stai solo sognando: adesso apri gli occhi e sei a casa tua, in una Catalogna libera, accanto a Virginia.
Pobreta, le sbagliano tutti il nome. Padre andaluso e madre dell’Estremadura, ma è nata qui, è la Virginia, con l’articolo davanti come si fa in Catalogna, e anche dalle tue parti. Se non pronunci dolce la “g”, alla catalana, non si gira. Non che le faccia schifo la pronuncia spagnola, che è quella di sua mamma. È che non ci si riconosce.
Ti ha fatto capire lei cosa significhi volere una nazione nuova senza essere razzisti, capitalisti, o stronzi.
Virginia un po’ ti ha salvato la vita e lo sai: ci hai lavorato tanto tu, un po’ da sola e un po’ al collettivo, ma è stata lei a scrollarti di dosso una volta per tutte l’Italia del “Perché non ci provi, almeno, con gli uomini?”, “Magari non hai ancora incontrato quello giusto”, “Ai bambini servono una mamma e un papà. I ruoli!”.
Quando tutto questo sarà finito chiederai a Virginia di sposarti, lo farete nella chiesa sconsacrata che avete visto in quell’escursione col gruppo di Senderisme, e avrete un bambino. Se i tuoi non vogliono venire, gli manderai la bomboniera. La farai apposta per mandarla a loro, coi colori della bandiera catalana e in più la stella anarchica.
Adesso, però, ti tocca prendere i tre caffè e tornare ai seggi, che la giornata è lunga e ve ne mancano tanti da ispezionare.
Inutile parlare con questo giornalista, che crede di aver già capito tutto, di sapere che quelli a votare lì fuori sono leghisti un po’ più civilizzati che non vogliono pagare più tasse.
Vabbe’, che l’Italia si faccia l’opinione che vuole.
L’Italia è finita, da un pezzo.
Per te ormai esiste solo la Catalogna libera. E prima ancora, la Virginia.
Pepita
Quanta gente. Più di quanti me ne aspettassi. Ci sono perfino gli italianini dell’appartamento vicino, quelli che una volta si sono lamentati con me per la cassolada che facevo ogni sera. Da che pulpito, ma mi fa piacere vederli. Allora non servono solo a fare schiamazzi il sabato sera.
Il caffè è finito ma non so se andare o restare. Dai messaggi ai cellulari dicono che stanno arrivando los nacionales. Mia figlia mi ha chiamato terrorizzata. “Mando Marc a prenderti, anche la bambina chiede di te!”.
Se lei fosse qua, resterebbe dove sto io. Seduta a terra davanti a scuola ad aspettarli.
Io difatti non mi muovo neanche morta.
Per tutte le botte che ha preso Carles mentre cantavamo insieme Asturias, patria querida, sulla Rambla, nel ’62.
Per l’aborto che ho dovuto fare a Londra, con lui senza cojones per seguirmi. Si è sposato una del suo paese, una brava ragazza cattolica della Sección Femenina della Falange.
Per tutto quello che credevate di farmi, e che non mi ha impedito di stare qua, oggi, a dirvi che merde siete.
Ore 11.00
L’incontro
Arrivano quando nessuno li aspetta più, preceduti da tre falsi allarmi. “Vanno verso Laietana”. “No, verso il seggio dell’Institut del Teatre”. “Macché, non sono stati neanche avvistati”.
E invece arrivano.
Arrivano all’improvviso e tutti insieme, prima lenti e poi, davanti ai corpi barricati sulle scale della scuola, sempre più decisi. Gli anfibi neri pestano ginocchia che si ritirano per il dolore, calciano mani che anche tra le grida crocchiano di un rumore sinistro. Finché non calano i manganelli su chi ha ancora il sangue freddo per non spostarsi, o semplicemente non può più muoversi.
È la fine di tutto, è l’inizio.
Se ne accorge perfino Irene, che ci ha messo ore a vincere la paura di uscire, ma prima dell’irruzione della Policía Nacional ha buttato la busta coi resti della sua colazione, e non sapeva se farsi largo o no tra la fila di ombrelli in attesa del voto e chiedere di Pau, sempre che fosse ancora là.
Quando vede l’assalto si precipita verso il seggio mentre chiama al cellulare. Nessuna risposta. Si accascia in un angolo della piazza, non vede più niente e non è per la pioggia, che ormai le inzuppa i capelli e la felpa.
La scorge Marco, incamminato verso il magazzino.
“Irene!”.
La trascina via gridando, prima ancora che lei lo veda.
Si divincola, chiede solo dov’è Pau, dov’è Pau.
“Forse l’ha visto Tati, dev’essere qui in giro, chiama lei” le soffia nell’orecchio quando finalmente la porta al riparo, dietro l’angolo.
Non risponde neanche Tati.
Irene si accascia sul suolo bagnato per la seconda volta in quel giorno.
La sua vita diventa il grigio della pioggia in un angolo di strada che sa di umido e bidoni troppo pieni.
Il primo a individuare il gilet è Marco: lo vede tra la folla disordinata che accorre all’ingresso ormai sfondato. Ma è addosso a una ragazza troppo alta per essere la loro amica.
Tati però è lì accanto, nel cordone che gli assediati hanno formato per impedire almeno l’accesso ai rinforzi.
Non ha resistito, nonostante le regole d’ingaggio da osservatrice. Anche lei vuole mettersi tra i manganelli e il seggio, come gli altri appena accorsi.
E come gli altri sparisce subito, cancellata dai corpi estranei in casco nero, ingoiata dalla massa di bandiere e maglie di tutti i tipi che ondeggiano nel corpo a corpo dell’assedio.
Riemerge con una donna, ferita, che sanguina dalla testa. Per non perdere l’equilibrio punta dritta verso i due italiani che si sbracciano man mano che le due si avvicinano.
Quello che non è chiaro è se la donna ferita, capelli bianchi, esile, cammina sulle sue gambe, o è il braccio robusto della ragazza a sostenerla come un peso morto.
“Nonna!” grida Marco, prima ancora di accorgersi di aver aperto la bocca.
“Che cazzo dici?” Irene piange, cerca di mettere insieme il respiro per muoversi.
Marco non risponde, corre verso la donna.
La sostiene tra le braccia nude nell’aria fredda di pioggia. Sembra sorprendersi un momento, tastarla bene per controllare che non sia sua nonna, che sia stato un miraggio della foschia e della concitazione. Ma l’abbraccia lo stesso, col pudore dei ragazzi ormai adulti verso le loro parenti vecchie. Le porta un braccio sulla sua spalla e fa per muoversi, per controllare se la regge bene, se può camminare. Sì, cammina.
“C’è un’ambulanza sul Paral·lel, portala lì” grida Tati, l’occhio di nuovo alla folla che urla alle sue spalle. Arrivano ancora vicini, la polizia forse non riuscirà a requisire le urne.
“Tati, dov’è Pau?” grida Irene, quando la raggiungono.
“Al seggio dell’Institut del Teatre, l’ho visto lì alle sette, credo mancassero scrutatori” Tati abbassa gli occhi, disgustata suo malgrado dal sollievo egoista dell’amica. Irene se ne accorge, e torna buona.
“Adesso vieni con me a casa” le intima, con aria preoccupata.
Tati la guarda con commiserazione e torna indietro. Non si chiede più niente, neanche dov’è Virginia. Ovunque sia, l’unico modo per difenderla è difendere quelli lì, che stanno facendo lo stesso che fa lei.
Marco si allontana con la signora. Pepita, si chiama, così ha detto nella voce confusa e un po’ infantile dei feriti sopraffatti dal dolore. I ceci lo aspetteranno in magazzino, quando avrà finito di soccorrerla. Tanto sono scaduti.
Irene resta sola, nel suo angolo di pioggia. Tra poco tornerà a prendere il telefono, a provare a raggiungere Pau. Ma non ci riuscirà, le viene da pensare. Non ci riuscirà mai.
Prima d’immergersi nella schermata del WhatsApp, si scopre addosso un’ultima volta gli occhi di Marco e Tati.
Un solo sguardo per tutti e tre.
Poi ritornano ciascuno alle sue cose.
Pepita sussurra a Marco, ridendo nervosa sotto il sangue che le cola sul viso, che è la prima volta che gli italianini si rendono utili nella sua vita.
Ma lo dice in catalano e a bassa voce, Marco non capisce e si limita a spiegarle in un misto di lingue che già intravede l’ambulanza, che è vicina, che manca poco.
E no, nonostante l’omonimia, certi divini pennuti non c’entrano niente.
In realtà è puntuale, solo che quando cominci ad andare in coma sette giorni prima, l’aggiungi alle cose da aspettare. Insieme al governo, al presidente e al papa.
Oddio, quest’ultimo lo aspetto solo per vedere se parlerà davvero come Stanlio e Ollio: sperow key mi corrigiretey, stupídi!
La scorsa fumata nera, otto anni fa, mi vedeva a un passo dalla laurea e a molti di distanza da Manchester, dove un 25nne (di un anno più grande di me, ma lì sono uomini presto), mi aspettava per convivere nella casa che si era appena comprato. Io non avevo quella testa, volevo la libertà rob’ cos’. Come il mio amico di Madrid, che aveva lasciato Manchester un anno prima dopo aver infranto vari cuori.
Oggi mi ha chiamato, l’amico di Madrid, e abbiamo parlato a lungo, senza più dover passare all’inglese. Anche se ogni tanto ci mettevo qualche parola in catalano. In questi otto anni io ho finito un dottorato e lui ancora no. Ci hanno licenziati entrambi. E sentimentalmente ci hanno somministrato la stessa medicina che otto anni prima elargivamo noi. Concordiamo sul fatto che sia amara.
Ora siamo entrambi in attesa, perché quando hai fatto tutto quello che devi fare, puoi solo aspettare.
E nell’attesa, ho scritto un racconto sulle attese.
Sangue amaro
E poi Xavi le dà un anello.
Glielo dà sul lungomare di Napoli, per festeggiare la sua promozione. Quale? Non lo sa, ma sa che è un bel lavoro, quello che cercava.
Il tramonto è di quelli di cielo e mare uniti in un unico schizzo di spuma, che in un’impennata d’orgoglio ti plana sugli stivali di mezzi tempi, sugli scogli davanti a Castel dell’Ovo.
Ma stasera ‘a cartulina ha deciso di dare proprio il meglio di sé, e Xavi, che per l’occasione si è messo il profumo regalato al loro terzo non-meseversario, la porterà a mangiare da Zi’ Teresa. Offre lui. E s’impegna a non mettere il parmigiano sulle cozze.
Ora, che tutto questo sia un sogno, Rosa lo sa.
Sa pure che la sveglia del cellulare è suonata dieci minuti fa, e con la cazzimma delle sveglie moderne si appresta a ripetersi. Ma vuole stare ancora un po’ sotto il piumone a credere che sia tutto vero, ancora un po’, per favore…
Ecco. Tu-tu-tu-tuuu. Sembra un elettroencefalogramma. Il braccio lotta col buio, svogliato, sapendo di perdere, allora afferra il lume come un tentacolo e cerca l’interruttore.
Tuuu.
Niente, tanto ormai il telefonino è illuminato a festa. Ci mette qualche istante ad affrontare la logica delle sveglie da cellulare spagnole. Quando suona questa, sull’enorme schermo rettangolare compaiono due scritte equidistanti:
Aceptar
Repetir
Se non accetti la cruda realtà (che ti devi alzare), ripeterai all’infinito il tuo errore (fingere che non sia tardi).
Le sveglie spagnole sono un po’ filosofe.
Si alza e corre verso il bagno. Ma lei non sta in Spagna, sta a Barcellona. E nel suo mozzico di quartino, 30 metri quadrati per tre coinquilini, l’unico bagno, quando ti serve, è occupato da un Erasmus.
– Vanessa, por favor, ci ho il ginecologo!
– Un momento!
Sì, un momento. Si mette una mano sulla pancia, per ascoltarsi. Vanessa a lezione non ci va mai, può svegliarsi all’ora che le pare, e non le lascia libero il bagno una volta che si sveglia alle 7.30 del mattino.
La pancia tace. Eppure. Guarda il mare, dalla finestrella delle dimensioni di un oblò. Che differenza, col sogno. È grigio, carico di pioggia. Come il cielo che incombe sulla giornata gonfia che le si apre davanti, dopo un altro quarto d’ora, come la porta del bagno, prima che la sfondi.
Quando doveva arrivare? Fa il calcolo. Stavolta è una settimana. Non si è mai preoccupata, tanto incinta non è, Xavi è in tournée da un mese e doveva chiamare tre giorni fa.
Il reggiseno l’ha lasciato già in bagno, quello una misura più grande, della fase premestruale. È l’unica cosa buona, se non le facessero così male. La panza, come un otre che cerca di comprimere nei jeans, non la guarda nemmeno. Maledetto progesterone. Il bottone con su scritto Levi’s si chiude a stento.
Correndo verso l’ambulatorio incrocia tutte e due le dita, spera che ci sia la vecchia.
Quella la fa visitare da tutti e due gli assistenti, maschio e femmina, e le fa domande tipo quanti uomini ha avuto e a che età il primo rapporto sessuale, ma almeno è seria.
– La dottoressa Grau ti aspetta – fa alla reception il tizio simpatico, che improvvisamente le diventa antipatico.
No. Crudelia. Solo che rispetto a Crudelia De Mon, si accorge precipitandosi nella sala di ostetricia, stavolta si è fatta i capelli rosso paprika, che con la montatura degli occhiali a chiazze dalmata fanno una combinazione deliziosa.
– Che succede, stavolta?
La sedia gestatoria si staglia alla sua destra contro la parete color Brooklin – freschezza da baciare. Minacciosa.
– Non mi viene il ciclo.
Crudelia fa un sorriso ironico.
– No, non sono incinta – spiega subito lei. – Mi succede sempre. Ma da tre mesi a questa parte è fisso.
– Tre mesi – scrive l’altra pensierosa, su un taccuino. – E che è successo, tre mesi fa?
Ecco, ora la rende nervosa. Si morde un labbro, incrocia le scarpe sotto i jeans che da seduta sembrano sul punto di scoppiarle addosso.
– Non so – dichiara infine.
Crudelia si toglie gli occhiali dalmata.
– Te lo dico perché sarò franca, con te. È inutile che guardi la sedia gestatoria, lì. Non ti visito. Posso pure infilarti un dito lì dentro e controllare, ma già so cos’è. Te lo leggo in faccia.
Rosa sospira. Pure la ginecologa veggente, ti legge le ovaie attraverso gli occhi.
– C’è qualcosa della tua vita che devi cambiare. Una cosa che non ti serve a niente, che ristagna. Ma tu non la lasci andare. Cambia quella e starai bene. Intanto…
Per essere esattamente l’antimedico, ha una grafia nitidissima.
– Ibuprofeno? E che è? – Luigi legge la ricetta, appoggiato alla macchinetta del caffè. Si sono presi la pausa insieme per commentare il crollo del palazzo a Riviera di Chiaia, quella mattina, e lei ne ha approfittato per fargli vedere il foglio di Crudelia.
– Acqua calda, questo è. Sti stronzi non hanno l’Aulin. Hai detto a Carlo di metterlo in valigia, mo’ che viene questo fine settimana?
Pensano tutti e due a Carlo e alla sua valigia. Col contratto di affitto dello stabile, già visionato dal suo notaio. Carlo è sicuro che farà un buon affare, lui è figlio e nipote di ristoratori. Rosa non vede l’ora di aiutarlo nella gestione del ristorante che metteranno su tutti e tre, e mandare affanculo i telefoni del call center.
Luigi schiaccia pensieroso il pulsante della cioccolata.
– Quello non sa ancora se viene venerdì o sabato. Ma prenotasse, coi prezzacci che ha messo la Vueling…
Rosa gli scompiglia i capelli tenuti su dal gel buono, brizzolati e affascinanti da quando stavano all’università. Facoltà di Economia della Federico II. Lui, tesi in Economia Aziendale, lei Economie dei paesi in via di sviluppo.
Nessuno dei due, arrivando a Barcellona sei anni prima, aveva mai studiato Servizio di Attenzione al Cliente.
– Quale ibuprofeno. Quello che devi fare tu è liberarti di Xavi. Si ricorda di te tra un concerto e l’altro, quando gli mancano le groupie.
– Te l’ho detto, ancora non ho deciso. Non è detta l’ultima parola. E anche se fosse… Potrebbe andarmi bene così.
– A te? Ma nun me fa’ ridere. E allora cos’è, che staresti trattenendo, signorina Freud?
– E io che ne so. Tutto questo, forse.
– Azz, le nostre giornate al telefono? Pronto si’ tu, nun attacca’? Bell’affare, che fai.
E hanno pure fortuna, che l’azienda è piccola e l’hanno trovata al terzo tentativo. 1.200 al mese con la crisi non sono male, specie se netti.
– Te l’ho detto, Lui’, non lo so. Ho la sensazione che potrei rimpiangere tutto questo, precario e buono.
– Rimpiangere cosa?
Sorride.
– I Pavesini che mi porti la mattina, per prendere il caffè.
E pure Xavi che va e viene, ma quando viene è una festa, camera chiusa a chiave per un giorno indero, direbbe “Cicci” D’Alessio.
– Il punto non è la paura di non trovare mai pace, Lui’. Le nottate, prima o poi, passano. I nostri nonni che hanno mangiato polvere di piselli sotto le bombe ci sputerebbero in faccia. Il punto è che, guarda un po’, io tutto questo potrei anche rimpiangerlo, precario e buono. Pure le cose così così, a volte, si rimpiangono. Ti ci affezioni…
Lo stomaco le brontola in maniera inverosimile, mentre conclude:
– Non vorresti mai lasciarle andare.
– Aspetta di stare uccisa di lavoro alla cassa del Restaurante Bella ‘Mbriana – Cocina típica napolitana, e vedrai come le lasci andare.
Sì, decide lei. Stavolta, stavolta fanno il botto, col ristorante.
– La pizza con la scarola, Rose’, la pizza con la scarola, facciamo.
Luigi si emoziona sempre su questo punto. La pizza fritta con la scarola a Barcellona proprio non si trova, e non ci stanno santi, può pure affacciarsi il peruviano, come adesso, a fargli capire che devono tornare al lavoro.
– Chitebbivo – bisbiglia sorridendogli, e facendo un cenno che può voler dire qualsiasi cosa. – Il coordinatore del servizio clienti italiani sono io? E comando io. Hai visto, Rose’, tu sei mille volte più buona di me, e sempre al masculo hanno dato l’incarico, ricchione e buono.
Rosa sta pensando ancora alle scarole.
– Povia dice che puoi guarire – sorride sarcastica, mentre si scosta dal distributore per far posto alla russa appena assunta, di IT.
Allora Luigi si avvicina alla nuova venuta, le fa il baciamano e dichiara nel suo inglese:
– Ciao, il mio ragazzo stasera non c’è. Che dici, vieni a casa mia?
La ragazza balbetta qualcosa, afferra un cucchiaino di plastica da sopra alla macchinetta, e si allontana con quello, senza un caffè in cui girarlo.
– E che sarà mai – borbotta Luigi. – Ma come fanno, con voi, gli altri uomini? Che poi mio padre all’Arenella questa terapia d’urto voleva propinarmi: ce ne andiamo insieme giù Napoli, in un posto che so io, le mie amiche ti daranno una mano…
Occhiolino. Rosa si risiede schifata, s’immerge nel lavoro per non pensare al bottone che le preme contro la pancia impazzita, ai capezzoli sensibilissimi contro il reggiseno che solo per questa settimana li conterrà a stento. Ma quando arriva, sto ciclo? E quando chiama, Xavi? Ma già, sa che adesso lei è al lavoro, non la disturberebbe mai.
Due coreani si sono spersi per Firenze, il proprietario dell’albergo la chiama più volte, aspirando tutte le t: il thour operathor sei thu, devi fa’ qualcosa. E che parla coreano, lei?
È proprio perché s’impone di non guardare il telefono ogni cinque minuti, e dimenticare un po’ Xavi, che se ne accorge solo dopo. Molto dopo.
Quando la segretaria ha già strillato il suo nome non sa quante volte, e quelli di IT hanno fatto spazio alla valigia all’ingresso, e verificato che delle uniche lingue che sa parlare il nuovo venuto, napoletano e un po’ d’italiano, loro sanno solo ue’ uaglio’ e spaghetti.
– Rosa, Luigi, c’è un amico che chiede di voi.
Stavolta il peruviano si alza.
– Siete appena tornati al lavoro dopo una pausa di mezz’ora. Volete guadagnarveli, questi soldi, o gli italiani li manteniamo per beneficienza?
Luigi fa il sorriso scemo di quando non vuole discutere. Non si accorge, quindi, che Rosa scatta dalla sedia e si precipita verso il peruviano, che rimane immobile con la barbetta curata e la prosopopea che gli dà la condizione di veterano in quel servizio clienti. Pure ‘e pulece teneno ‘a tosse, pensa all’improvviso, ma non sa come tradurlo.
E allora gli grida:
– Senti, noi qua di te non ce ne freghiamo proprio, capito? Noi ci mettiamo a fare la pizza con la scarola, e se vieni nel nostro ristorante prova a chiedermi una di quelle tortillas di merda che ci hai portato per il tuo onomastico, vedrai che buona. Pure nell’acqua, ti sputo, strunz’.
Luigi le è addosso in tempo per soffocarle l’improperio finale. Tutti (o meglio, tutte) guardano.
– E lasciami!
– Rose’, niente sceneggiata… Perdona, sabes, le deve venire il ciclo.
Sgrana gli occhi, incredula.
Il peruviano già stava per scivolare silenzioso nell’ufficio del manager, col suo nome in punta di labbra. Ma ora la squadra, da capo a piedi, e lei si sente nuda sotto il maglione più grande, più gonfio.
Finché non gli vede le labbra storcersi in una smorfia ironica, che vuol essere un sorriso.
– Quand’è così. Va bene, Rosa, per oggi passi, che sono un caballero. Ricorda che quando stai così male puoi sempre chiedere un giorno di malattia. E la prossima volta vai in farmacia. Per queste cose di donne, ormai, ci sono diversi rimedi.
Le colleghe hanno gli occhi bassi. Qualcuna la guarda con un sorriso solidale, da dietro lo schermo del computer.
Rosa attraversa il corridoio tirando Luigi per il bavero della giacca.
– Che cazzo ti è venuto?
– A me? Ma se ti ho salvato il posto di lavoro! E poi scusa, non è vero? Se non stavi male la facevi, questa sparata? Si sa che quando state così siete tutte uterine, specie tu.
Scuote la testa. No, si dice tra sé. Nel suo caso è dismenorrea, ciclo doloroso. L’ha sempre avuto. È come stare col mal di denti per tre giorni di seguito senza potersi togliere la carie. Vorrebbe vederlo, Luigi, in quelle condizioni.
Speriamo che Carlo porti l’Au…
– Carlo!
La valigia. Parcheggiata vicino alla scrivania della segretaria, che li guarda con aria di rimprovero.
– Per ricevere gente dovete avvertirmi prima, o non li faccio passare.
– Sì, sì, scusa – interviene Luigi, prevenendo nuovi scatti di Rosa. – Andiamo in cucina.
– No, me ne torno a Napoli – Carlo si lascia cadere sul divanetto accanto alla scrivania, incurante del giaccone che ci sta sopra. Si prende la testa tra le mani e capiscono che non possono fare altro che aspettare. Infatti, dopo un po’, butta via il giaccone e dice:
– Ragazzi, il ristorante non si apre più.
E Rosa sa che è vero prima ancora di chiedere spiegazioni. Che nell’acqua del peruviano non ci sputerà mai, e deve vedere se il giorno dopo lo guarderà ancora in faccia dalla sua scrivania, o alla fine lui andrà dal manager. Si lascia cadere sul divano anche lei, davanti alla segretaria che la fulmina con gli occhi perché non torna al lavoro, e ascolta la storia.
– Mi ha chiamato ieri notte l’avvocato… Il tuo amico, Luigi, come si chiama? Carlèsss, come me. Dice ci sono problemi. Chiamami domani e ti spiego meglio, fa. Ma quale chiamare, ho preso l’aereo. Tenevo tutto già firmato, mio padre mi aveva dato i soldi, dicendomi che se fallivo stavolta arrivederci e grazie. Arrivo da quello, col primo taxi, in culo alla Diagonal dove sta, e mi dice che c’è la normativa.
– Ma quale normativa? – Luigi scatta, facendo girare la segretaria. – Le abbiamo verificate tutte, tutte le cazzo di normative che vanno trovando questi per mettere su un fetente di ristorante. Le uscite di sicurezza erano a posto. I metri quadrati, adeguati. Non c’erano altri ristoranti nel raggio di…
– E qui casca l’asino. Sai quel parcheggio all’angolo, là vicino? Avevano chiesto l’autorizzazione prima di noi. Ci metteranno su un… nun m’arrecordo manco comme se chiamma… Un Sabors del Món, una cosa così.
Rosa e Luigi si guardano. Conoscono la catena, arrampicatasi da poco per l’Eixample e pronta a invadere, piano piano, pure il centro. Nel Raval non potrebbe mai, inutile pagare 10 euro per un riso indiano che al kebabbaro ti danno per 2 euro. Ma dove volevano farlo loro, il ristorante, sfidando la roccaforte catalana con l’offerta dell’amico di Luigi che chiudeva, hai voglia.
– E come sappiamo – conclude Luigi, la fronte precocemente stempiata resa lucida dal sudore – due ristoranti a così poca distanza non si possono mettere.
Rosa si mette le mani sulla pancia, come se fosse incinta. Le contrazioni sono quelle, decide, ma niente. Non si muove niente. Neanche lei, quando il peruviano le manda la collega francese, per non andare lui a ricevere un’altra sfuriata.
Ma lavora come una zombie, sa che Luigi ha convinto Carlo a restare, che la valigia sta nello sgabuzzino e lui al bar di fronte, ad aspettare paziente che finiscano di lavorare per prendersi una birra in riva al mare.
– Non è il mare di Napoli – commenta che è buio pesto, osservando una ragazza che corre in pantaloncini verso la skyline di Vila Olímpica.
Sono gli unici nella terraza, i tavolini all’aperto riscaldati dalla stufa. Le nuvole sono lì ad aspettare solo di scaricare il loro peso. Rosa si è sganciata il bottone fin dalla seconda clara, non ne può più.
– E come va, con quello, là… Xavi? – chiede Carlo, con un sorriso che dice fammi distrarre pensando ai guai degli altri.
– Come vuoi che vada? – interrompe Luigi. – Pare Ragione e sentimento di Maria Nazionale: scema, che aspiette p’ ‘o lassa’…
Carlo coglie la palla al balzo per rispondere in falsetto ma io lo amo…
Rosa si getta su Luigi, lottando coi bottoni della sua giacca, finiscila, finiscila. Ma quello continua, ridendo:
– Chillo, è tutto ‘nfamità… So’ ‘nnammurata…, ribatte Carlo, senza smettere di fissare il mare.
Va bene, pensa Rosa guardandolo. Sfotti me, tu sei quello che ci ha perso di più. Ostenta noncuranza e commenta:
– Questa canzone l’abbiamo cantata tutti insieme proprio qua, no? Per far disperare la prof d’Italiano. Era la colonna sonora trash della nostra gita a Barcellona.
1999. Il millennio era alle porte e Barcellona era Gaudí di giorno, e discoteca di notte.
– Voi stavate nell’altra sezione – ride Carlo. – Quante fughe notturne, sotto gli occhi di Donzelli di Chimica. Facevano pure la ronda notturna col prof. di Latino, e noi mettevamo gli zaini nei letti per fingere di star dormendo, tipo telefilm americano.
– A me Barcellona non piacque manco, allora – ride Luigi. – Che ne sapevo, che ci trovavo l’uomo della mia vita.
– Seh, e quel ricciolone l’ultima sera, quando ci perdemmo per il Gotico… Ancora facevi quello misterioso, dicesti che ci andavi a cercare non so che bar, e invece… Sparito dalla circolazione per tutta la sera.
Luigi sorride, trasportato dai ricordi. Ricordi di 20 anni ancora da compiere. Di una città buona per bersela tutta con menta e vodka, non per lavorarci e mettere su famiglia. Anche se una famiglia Luigi non la può avere, a Napoli.
– Ma la gita più bella fu alla Città della Scienza, con Cardinale di Fisica. Vi ricordate?
– Ua’, sì – risponde pronto Carlo, alzando il bicchiere vuoto per chiedere altra birra, come si fa là.
– Io non ci venni, avevo la febbre – ricorda Rosa, prima che comincino a rivangare cose che lei non sa.
– Facesti male, scema. Dovevi venire con tutta la febbre. Non ci sei mai stata, là?
– No – ammette, a malincuore.
– E vacci. Fu una grande gita. A un certo punto seminammo Cardinale. E io m’infrattai con Enzo Avossa nel Planetario.
Carlo quasi cade dalla sedia.
– L’amico mio? Quello mo’ ha due figli.
– Nessuno è perfetto – ride Luigi, fino a rovesciarsi la birra. – Ma ce l’hai su facebook? Fammi vedere come si è fatto.
Carlo caccia l’iPhone 4.
– No, io non ce l’ho, ma Pasqualino Grimaldi sicuro lo tiene.
Rosa non ascolta nessuno, solo la sua pancia. Niente. Non parla. È arrabbiata con lei. Vuole che la liberi. Ma io come ti libero, figlia mia? Come? Ci pensa un attimo, poggia la clara sul tavolo e dice:
– Facciamolo, ragazzi.
Carlo alza gli occhi dall’iPhone.
– Il bagno di notte? Ma veramente facevi, in metro?
– No. Prendiamo l’altro magazzino. L’altro che offriva il tuo amico, non scontato. Un po’ più grande, a due strade dal nostro. Stringiamo la cinghia e pigliamo quello. Ormai lo sfizio della pizza con la scarola lo tengo.
– Ma ti ricordi quanto sta? – Carlo smanetta nervoso, il blu facebook le balena un momento negli occhi e scopre che ricorda il blu Barilla. No, nel ristorante al massimo pasta De Cecco. Se non la fanno loro a mano.
– Lo so – guarda Luigi in cerca di complici, capisce che stavolta non sarà facile. – Ma pensateci, ormai è fatta. Se torni a casa tuo padre ti dice che sei un fallito e aveva ragione lui. E tu, Lui’, quanto ancora vuoi restare in un call center, invece di fare quello che volevi?
– Ma Joan e io cerchiamo casa, e il mutuo…
– E ja’! – ecco, si arrabbia di nuovo. Il mare frusta furioso la battigia troppo alta, specchio inquieto del temporale che lo minaccia.
Rosa si alza, gli occhi lucidi, il bottone evidentemente sganciato sotto la maglia.
– Almeno pensateci.
– Ragazzi, la Città della Scienza sta bruciando!
– Cosa? – fa Luigi.
Carlo gli passa il cellulare. Rosa si affaccia a guardare.
– È una foto fatta mo’, sta sulla pagina facebook di Lino Grimaldi.
Rosa guarda e non capisce niente. Vede un fiume rosso sul mare di Napoli. Fumo.
Capisce solo che alla Città della Scienza non ci andrà più, come aveva capito quella mattina che il ristorante non si faceva e amen.
E che Napoli è una città che normalmente ti ammazza piano piano, in un giorno non era mai stata così infame. Una città in cui il malessere ristagna sotterraneo, come le catacombe che visitano i turisti, di solito è più discreta, non ti getta la disperazione in faccia in un giorno solo.
Sulla home di facebook si accavallano messaggi di rabbia.
È arrivato il momento di andarsene, fa un amico di Carlo che lei non conosce.
Pure quelli in comune, è tutto un “lasciamo Napoli, adesso”.
– Come se arrivando qua trovassero il Paradiso – sorride Luigi, amaro.
– L’incendio è doloso?
Pare di sì. Stanno bruciando 4 capannoni. Il sindaco…
Rosa afferra la borsa, come un riflesso condizionato che ha dai tempi di casa, e si avvia verso il mare.
– Dove vai? – le grida Luigi. – Hanno già iniziato una petizione…
Da lontano non li sente.
Accende il suo, di smartphone, e sì, nel cordoglio generale qualcuno già si muove. Si parla di conti corrente, flashmob.
Sta talmente ubriaca e dolorante che manco si accorge del messaggio di Xavi, e quando lo fa si sorprende a dirsi che lo leggerà dopo. Ora pensa a come può essere una pizza Planetarium, nel ristorante.
Perché a quei due li convince, il ristorante lo aprono.
E il primo incasso sarà per la Città della Scienza, che non ha mai visto ed è troppo tardi.
Non sa più che pensa. Cerca un pezzetto di luna tra i nuvoloni grigi.
Niente. Ma sa che sta là, nascosta, a spadroneggiare sulle maree.
E allora si lascia cadere e guarda le onde che frustano la sabbia, senza capire se quello che le arriva addosso sia una goccia di pioggia, finalmente, o le maree che le dicono… Cosa?
Qualsiasi cosa le dicano, però, lei risponde.
Da qualche parte, dentro di sé. Nel ventre che ora accarezza con la mano mentre affonda pure i capelli nella sabbia, vinta, contenta.
Qualsiasi cosa sia, la lascia scorrere via come la manciata di pietruzze che ora le cadono dalle mani, spargendosi sulla maglia che l’avvolge paziente, un attimo prima che cominci a piovere.