Archivio degli articoli con tag: rapporto

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Se resto

Alla fine un’ora è poco.

È un’altra gag di Bruno arrivare tardi, ammesso che arrivi: un’ora è il minimo, scherzano a volte i suoi amici dello Spazio.

Il mio, di Amico, mi chiede in collegamento da Napoli chi me lo fa fare. E dire che da un po’ rigavo dritto! Avevo preso casa da sola, e mollato il mondo accademico appena avevano smesso di pagarmi. Avevo lavorato il tempo sufficiente a beccarmi un sussidio. Se li invitassi a pranzo, quei due o tre matti che mi vengono dietro non si presenterebbero certo con un’ora di ritardo! Cos’altro voglio?

Sentire, rispondo. “Rigando dritto” ho rimediato un licenziamento improvviso, un vicino che distrugge le antenne, e amici che desiderano, sopra ogni cosa, installarsi un ascensore. Con Bruno è assurdo che ci capiamo in tutto, ma è così. Vorrei non sentire ciò che sento, ma ciò che sento è lì. E sono stanca di avere paura. Di cosa, chiede l’Amico. Rispondo: di scoprire ciò che voglio.

L’Amico mi informa che sembro la sorella scema di Laura Pausini. Poi si arrende, tanto Bruno ha appena suonato al citofono.

Una volta che ha divorato il pranzo, il mio ospite difende con ferocia il suo diritto a pensarla a modo suo, ad “avere dei gusti”, a fare ciò che gli pare. E allora lo dicesse, mi ostino: dicesse che c’è qualcosa che va al di là delle sue hit parade, dei suoi schemini così ordinati! Quando l’ho messo proprio alle strette, lo sento sbottare:

“Vuoi sentirmi dire che ti stenderei? Come se avessi problemi ad ammetterlo!”.

Lo urla come se litigasse con sé stesso, poi se la prende con me: sono contenta, adesso? Forse è solo imbarazzato, forse non sapeva dirlo in altro modo. Nel mio salotto cala un silenzio che non so riempire, perché non so cosa voglio. Così è lui a rompere gli indugi.

Accostando la sedia mi abbraccia come se stesse affondando, e volesse aggrapparsi alla mia schiena. Sembriamo controfigure in Titanic: due passeggeri che non hanno raggiunto in tempo la scialuppa. A un certo punto mi aspetto davvero che una voce fuori campo gridi: “Stop! E ora, rifatela meglio”.

Almeno le sue labbra sono piacevoli da mordere. Dio, quanto detesto gli almeno.

Dopo mi chiede se può restare a dormire. Mi giro verso il libro che tenevo già pronto sul comodino: un’edizione economica, con immagini tratte dal film. È la storia famosissima di una coppia che si forma solo quando tutti e due sono disposti a cambiare.

“Ti spiace se resto, allora?”.

Dalla copertina, Keira Knightley mi sorride con gli occhi altrove.

A venerdì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Ti avevo avvertito

La mia è una rabbia ipocrita.

Di ciò che vomito a Bruno in chat penso ogni parola: gli sembra normale catapultarmi in quella sua classifica campata in aria? Scommetto che alle donne dà anche i voti da uno a dieci!

Ma ciò che mi ferisce di più è che, per lui, non sono neanche un sette.

Bruno mi oppone una logica stringente: eppure me l’aveva premesso! Lui non sa mai cosa dire e cosa no, cos’è che il mondo è disposto a sentire. Sembra convinto che mettere le mani avanti lo assolva da tutto. Io ti avevo avvertito.

Anche l’uomo col mastino mi aveva avvertito. Eravamo quasi amici: l’italiana dell’attico e il tipo che era cresciuto nel palazzo, restandoci grazie a un antico calmiere sugli affitti. Si censurava quando voleva prendersela coi guiris, stranieri bianchi come me: ci chiamava turistas. Aveva incassato impassibile il mio “No, grazie” quando, dopo una birretta dietro l’angolo, mi aveva invitato a prendere un bicchiere da lui. Prima mi aveva mostrato scherzando gli addominali scolpiti, e mi aveva pure spiegato che, da bambino, giocava a calcio dove adesso c’era il mio terrazzo. Quella era casa sua, mi aveva avvertito. Eppure non poteva più abitarla a suo piacimento: il mio terrazzo era chiuso da un muricciolo, e quello attiguo, accessibile all’intero condominio, era invaso “dalle antenne dei filippini”. Adesso come faceva lui, a prendere il sole nudo?

Aveva tagliato i cavi delle antenne senza sapere che tra quelle c’era anche la mia. Pensava che gli dessi ragione lo stesso: tanto ce l’aveva coi filippini, io a casa sua potevo restare! Poi aveva scoperto cheç, in fin dei conti, non gli ero tanto solidale. Era stato poco prima che si procurasse il mastino.

Anche adesso sento rumori, ma è troppo presto. Da quando ha cambiato il lucchetto del terrazzo condominiale, l’uomo col mastino sale soltanto di notte. Ma il piccolo tonfo sul mio terrazzo mi spaventa un istante solo: è la gatta dei vicini. La vita non fa poi così paura.

Bruno in chat continua a fare quello ragionevole: vatti a fidare di una che fa l’amicona, quella con cui si può parlare di tutto!

La gatta tigrata mi fissa, in attesa delle crocchette. La osservo e digito:

“Ti va di parlarne dal vivo? Vieni a pranzo da me sabato prossimo”.

A mercoledì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

scusate11 Devo dire che l’ho sentita in due lingue, e da uomini.

Più amici mi hanno raccomandato, sulla storia di volere figli, di “non dirlo subito a un uomo, che noi poi scappiamo”. Messa così, la questione mi sembra rilevare due cose:

  • la fragilità di uomini che della “fuga” fanno quasi un orgoglio, un adorabile difetto;
  • l’idea triste che abbiamo delle relazioni.

Queste ultime, lungi dall’essere un momento d’incontro, di sincerità, di comunicazione efficace, diventano machiavellici do ut des, in cui devi usare strategie per ottenere ciò che vuoi dall’altro, e magari, a dirla tutta, ignori ciò che l’altro voglia sul serio. Dirlo e basta non rientra quasi mai tra le opzioni.

Nella Barcellona da bere non ho molti amici con relazioni stabili, ma sul fronte italiano mi confidano di tutto: a volte mi sembrano liceali che vivono con il tipo o la tipa per cui hanno una cotta, però “non sanno se ricambia”. Altre volte mi sembrano generali che si squadrano attraverso un campo di battaglia – perlopiù la cucina – in attesa di chi farà la prima mossa.

In un rapporto così, fatto di piccole battaglie vinte e guerre mai combattute, si crea un effetto paradossale come quello del climatizzatore col riscaldamento globale: alimentiamo lo stesso problema che, in teoria, staremmo risolvendo momentaneamente.

Per questo rivendico il mio diritto alla sincerità, che parte da quello, poco alla moda, di sapere ciò che voglio. Se so che voglio figli, come mi può andar bene con uno che non ne vuole? Omnia vincit amor un par de ciufoli. Allo stesso modo non voglio rapporti a distanza, perché cerco un contatto fisico quotidiano, e ho imparato ad assicurarmi che per l’altro non sia un problema nel caso, frequente nella Barcellona mileurista, che entrassero più soldi a me (l’orgoglio inculcato negli uomini sull’argomento è duro a morire). Le circostanze della vita potrebbero farmi cambiare idea sulle mie priorità, ma il punto è questo: se sappiamo cosa vogliamo, e sappiamo comunicarlo, siamo sicuri di volerlo mandare a monte per “l’ineluttabilità dell’amore”?

Perché so che queste di sopra possono sembrarvi aride elucubrazioni. Anche io sono cresciuta guardando Disney, e apprendendo dalla pubblicità che col rossetto giusto finirò per uscire con Jason Momoa. Ed è così affascinante l’idea che lì fuori ci sia una persona, e una sola, che vada bene per me, che manderà a monte tutti i miei progetti (tipo l’eliminazione del soffitto di cristallo) e basterà guardarci per capirci.

È un’idea affascinante, ma complica la vita invece di rallegrarla, quando non la rovina.

Perché qui siamo oltre il pensiero per cui l’amore romantico “crea false aspettative“: a me sembra, piuttosto, che crea falsi bisogni. Perché di uno che mi mandi a monte i progetti, francamente, non ne ho bisogno: se ancora considerassi sul serio l’ipotesi di una relazione, ne vorrei una che mi accompagnasse nella mia vita, invece di stravolgerla.

Per questo ho tradotto un articolo de La Vanguardia di quelli che di solito salto a pie’ pari, sulla “psicologia di coppia”: questo qui mi sembra utile e scritto bene. Il che, considerata la testata che lo ospita, è quanto dire.

Spero ne facciamo una “via di fuga”, questa sì intelligente, da una vita di bugie e sotterfugi che non meritiamo.

(Traduco qui sotto quest’articolo di Rocío Navarro Macías, pubblicato sull’edizione online de La Vanguardia del 28/10/19. Lo faccio perché la questione della sincerità mi sembra una delle più paradossali tra le faccende umane: come ideale è un pilastro della nostra società, ma spesso viene del tutto rimossa dalla nostra educazione sentimentale. Magari, con una persona cara, ci viene infinitamente più spontaneo “farglielo capire”, o arrabbiarci, rispetto a dire esattamente cosa ci affligge e perché.)

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Forse c’è un errore, tu non parli bene…

 Ottenere uno scambio d’informazioni fluido è la chiave per mantenere la connessione emozionale e una relazione soddisfacente

Il fatto che lo scambio d’informazioni non fluisca scatena una serie di sfortunate circostanze in una coppia: “La comunicazione è la risorsa fondamentale per mantenere un rapporto di coppia soddisfacente”, spiega Nando Quesada Pérez, psicologo esperto in terapia di coppia del Centro de Psicología Bertrand Russell di Madrid.

D’altronde, è comune che sorgano problemi man mano che la relazione avanza. Uno dei motivi che provocano queste difficoltà è un aspetto inerente alla condizione umana: i cambiamenti che si producono nelle persone nel corso del tempo. “Non dimentichiamo che una coppia è formata da due individui che sono in continua evoluzione. Sarebbe davvero eccezionale se le necessità, gli interessi o le preferenze di ciascuno dei due fossero sempre alla pari” aggiunge.

Le conseguenze di non aggiornare tutti questi aspetti si associano a situazioni di stress, litigi e frustrazione. A questo si unisce la sensazione di stare insieme a qualcuno che, realmente, non conosciamo più. Questa situazione, inoltre, provoca una disconnessione emozionale che incide sulla difficoltà di arrivare ad accordi o decisioni più complesse. La buona notizia è che si può lavorare per stabilire una buona comunicazione e con quella migliorare molti ostacoli che appannano la relazione.

Gli scogli da affrontare

Miti romantici, aspettative poco reali

Nessuno riceve un manuale d’istruzioni per saper gestire la coppia. Di solito neanche si pensa alla questione finché non cominciano a sorgere i primi problemi. La questione è che, a meno che non si sia esperti in materia, la comunicazione nei rapporti affettivi non è affatto semplice. Inoltre, esistono molti miti romantici che creano aspettative poco reali e iniziano a ostacolare lo scambio d’informazioni.

“Un esempio di ciò è ‘il mito della divinazione’, che consiste nel credere che il o la partner dovrebbe sapere cosa voglio o come mi sento per il semplice fatto di amarmi. Questo fa sì che tacciamo alcune cose, perché ‘non dovremmo neanche dirle'” confida Quesada.

A questo si aggiungono altri ostacoli, come la capacità di esprimersi in modo corretto con il compagno. “Questo può inibire la comunicazione e aggiungere ulteriori problemi da risolvere” spiega.

L’atteggiamento

Più tempo si sta insieme, maggiore è la necessità di comunicazione

Quando s’inizia una relazione di tipo romantico, di solito entrambe le parti hanno interessi e obiettivi comuni. Però, col passare del tempo, è difficile che l’evoluzione di entrambi vada nella stessa direzione. “Può trattarsi di una specializzazione eccessiva all’interno della famiglia. Per esempio, tu ti occupi dei bambini, della casa, del contatto con la famiglia, e io dell’economia, della burocrazia annessa, e degli affari. Questo, dopo tanti anni, può generare due universi mentali molto diversi” analizza lo psicologo clinico Esteban Cañamares.

Di solito, il fenomeno progressivo di non riconoscere più l’altra persona ha come effetto una disconnessione emotiva. “L’inizio delle relazioni è molto più semplice, perché generalmente non ci sono decisioni rilevanti da prendere, al di là di cenare in un determinato posto o vedersi ‘a casa tua o a casa mia’” rivela Quesada. Si tratta di una tappa in cui la comunicazione è più facile e sensoriale. “Inoltre ci troviamo in condizioni biochimiche specifiche. Man mano che passa il tempo, ci torniamo a stabilizzare da un punto di vista chimico e cominciano ad arrivare decisioni più complesse da risolvere. È allora che si richiede una comunicazione più sofisticata. Qui, di solito, cominciano le difficoltà” confida Cañamares.

Lo specialista ricorda che esistono quattro atteggiamenti che deteriorano una coppia. “L’indifferenza o l’evitamento, come ad esempio il fatto di guardare il telefonino quando l’altra persona sta cercando di comunicare qualcosa, o rimandare costantemente il momento di parlare. Un’altra cosa è la critica globale, con etichettature non necessarie come ‘sei uno sconsiderato’. C’è anche l’ironia o il disprezzo, con cui si sminuiscono i desideri dell’altro; e, per ultimo, il contrattacco“.

A volte il messaggio che vogliamo trasmettere non è quello che comunichiamo

Comunicare con assertività non è sempre facile. Dipende dal carattere, dallo stato emotivo che ci troviamo ad affrontare e dall’abilità di mantenere una postura ferma e essere chiari nell’esprimerla. Però, oltre a questa capacità, esistono altri aspetti che possono rendere difficile in certa misura il fatto che il messaggio che vogliamo dare giunga a destinazione.

“Magari si sta usando una formula non adeguata (come dare all’altra persona la responsabilità del mio malessere), un canale di comunicazione infelice (WhatsApp a volte non è la migliore opzione per certe cose), un momento inopportuno (come una fase di grande stress lavorativo)… Inoltre, dobbiamo tenere in conto che il destinatario del messaggio può avere difficoltà e distorsioni nella sua interpretazione al momento di riceverlo” spiega Quesada.

Le interferenze tra quello che vogliamo trasmettere e ciò che realmente comunichiamo possono venire anche dagli stessi conflitti interni. “La causa può risiedere nel fatto che i nostri veri interessi si impongano al momento di comunicare” aggiunge Cañamares. Per questo, è fondamentale fare un’autovalutazione della situazione prima di lanciare il messaggio.

Migliorare la comunicazione è un compito non solo necessario per chi parla, ma anche per chi ascolta. Però esistono strumenti applicabili in entrambi i casi che possono facilitare il processo. “Questi schemi possono essere complessi se prima non c’è un esercizio individuale interno per aggiustare aspettative o rivalutare credenze che possono stare interferendo nel modo di agire” avverte Quesada.

Un lavoro semplice che può fare la differenza per chi ascolta è evitare termini assoluti come “sempre”, “mai”, “tutto”, “niente”… In questo modo si trasmette un atteggiamento più flessibile, che darà luogo a un’atmosfera più conciliante.

Allo stesso tempo è importante trattare un solo argomento in ogni conversazione, per non correre il rischio che si finisca per parlare di qualcosa di diverso da quello che abbiamo proposto.

Altri aspetti da valutare sono legati all’empatia. “Il ponte tra due persone è molto più bravo se proviamo a capire l’altro, e non pretendiamo il contrario. Va considerato anche il linguaggio non verbale, perché diciamo di più con il tono, i gesti e la postura che con le parole” confida l’esperto in terapia di coppia.

Inoltre, ricorda che è importante evitare di dare la colpa al/alla partner del nostro proprio malessere, perché genererebbe una resistenza da parte dell’altra persona.

È importante anche trovare il momento opportuno per parlare. Sia il contesto che lo stato emotivo influiscono in modo evidente nella comunicazione. Risulta ovvio pensare che una situazione di stress non è il miglior momento per cominciare a parlare, ma quando si sente il bisogno di sfogarsi con urgenza si ignorano molti di questi fattori condizionanti.

“La fluidità nella comunicazione può essere difficile quando, da un punto di vista emotivo, siamo molto reattivi o vulnerabili; è preferibile parlare in condizioni di serenità” raccomanda Quesada. Per questo, è meglio rimandare la conversazione se siamo particolarmente stanchi, c’è un bambino che piange o si presenti qualsiasi altra situazione che alteri lo stato d’animo.

“A volte è interessante anche scegliere il posto adatto. Può essere raccomandabile uscire dalla zona abituale di conflitto, associata alle discussioni, e parlare in un altro posto, prendendo qualcosa da bere, facendo una passeggiata…” conclude.

princecharming Quanto detestavo quegli articoli su Donna Moderna, tipo Come far funzionare un rapporto.

Fregavo il giornale a mia madre, indignata dal contenuto prosaico, quando l’amore per me significava più o meno cantare come una scema davanti a un pozzo o in una foresta e trovarmi un ficcanaso alle spalle che dicesse: “Ho sentito tutto e sono quello che fa per te”.

Ora capisco, ovviamente, anche se continuo a diffidare di linguaggi troppo scientifici o tecnicistici di un fenomeno che sfuggirà alle nostre analisi perfino quando si sarà trasformato in mutui da pagare e figli da sfamare.

La questione è che, tradita dall’amore romantico e dalla sua idea disneyana, l’ho confuso spesso col pathos, o più squallidamente con le montagne russe. Con quelle situazioni da amore non amore, ti chiamo non ti chiamo, oggi mi piaci e domani no…

E stavo molto attenta a scegliermi gente che mi lasciasse nell’incertezza il maggior tempo possibile (per non avere nessun dubbio, magari, con la fortunella che mi avrebbe sostituito).

Allora per me questo era diventato la normalità, come l’imprinting per le paperelle.

Adesso so che succede quando le cose “funzionano” sul serio e la questione “ma siamo innamorati? e tutti e due?” è a posto.

Prevedibilmente o meno, la domanda successiva è: e mo’?

So che c’è gente che per evitare la risposta cerca sempre l’amore litigarello o impossibile, hai visto mai ci si dovesse annoiare o assumere responsabilità. Ma a lungo termine la trovo la più noiosa delle soluzioni, quindi l’interrogativo resta.

Insomma, se ti chiamo e rispondi sempre, se ti propongo di uscire e ci sei, anzi mi stavi chiamando tu, se non hai nessuna intenzione di metterti con la mia migliore amica o di abbandonarmi senza neanche curarti di farmelo sapere, che cavolo facciamo, tu e io?

Ecco: funzioniamo.

Non solo tra noi. Perché chi è abituato a stare la maggior parte del tempo a soffrire per amore, a non mangiare perché non ti vuole ecc. ecc., una volta svanito quest’alibi deve proprio funzionare. Vivere. Ammettere che c’è tutta un’esistenza da occupare in altro modo.

Facendo quello che vogliamo, per esempio. O quello che più ci riesce congeniale, intanto che continuiamo a fare quello che ci serve per vivere, mettere il piatto a tavola, procurarci salute e benessere q. b.

Insomma, tutto sto papiello per dire che, con buona pace di Disney, ho finalmente capito cosa significhi far funzionare un rapporto.

Significa funzionare e basta. Proprio noi.

Smettere di passare il tempo a risolvere problemi che ci creiamo da soli, come se non ne avessimo abbastanza di reali, e scoprire quante altre cose possiamo farci, con le nostre giornate.

Rischiare di annoiarci, anche.

Che per me a un certo punto diventa il più grande dei lussi.

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