



Ecco il nuovo capitolo. Se doveste ascoltarne solo uno, vi prego, scegliete questo.
Ho tradotto questo breve post nel blog di Coral Herrera Gómez, studiosa di spicco nel mondo spagnolo e latino. Non sempre sono d’accordo con lei, ma credo vada ascoltata. Prima di pensare che “certe cose in Italia non succedono” (sicuro?) dobbiamo tener conto che Herrera si riferisce alle conseguenze dell’amore romantico in tutto il mondo.
Come si evince anche da questa intervista, non si tratta di eliminare il romanticismo, ma di rendersi conto delle trappole in cui la strumentalizzazione dell’amore romantico può far cadere chiunque, a prescindere dal genere. Le donne però sono più esposte a quest’influenza, dunque tendono a subire le peggiori conseguenze. Contrassegno con asterisco le affermazioni su cui rifletto a fine traduzione.
A cosa serve l’amore romantico?
Ecco alcuni degli usi perversi con cui gli uomini patriarcali abusano delle donne in tutto il mondo.
– L’amore romantico è l’arma perfetta per avere una domestica gratuita, disponibile 24 ore su 24, 365 giorni all’anno*. Viene utilizzato da moltissimi uomini che non hanno autonomia e hanno bisogno di una cuoca, di una donna delle pulizie, di un’infermiera, segretaria, psicologa, bambinaia. Inoltre, desiderano ricevere cure senza doverle dare, e desiderano che la donna li serva con un sorriso permanente, che sia accomodante e che copra i loro bisogni sessuali*.
– L’amore romantico viene utilizzato anche perché uno sembri un uomo rispettabile e un padre di famiglia.
– Viene usato per avere discendenti coi propri geni. La donna che ti permette di riprodurti si occuperà di tutta la cura e dell’educazione della prole, gratuitamente.
– L’amore romantico serve come intrattenimento per gli uomini annoiati, con un’autostima molto bassa, e affinché gli uomini possano sentirsi importanti, essenziali, necessari, ed essere trattati come degli dei.
– Serve a mettere in ginocchio le donne più autonome e potenti, e anche le più vulnerabili: con l’amore romantico, gli uomini patriarcali possono avere giovani amanti che hanno bisogno di aiuto per studiare all’Università, o per sfamare i loro bambini.
– L’amore romantico può servire anche alla donna per sostenersi, in alcuni casi, e per arricchirsi in altri: gli uomini patriarcali lo usano per imparentarsi con famiglie benestanti**, per defraudare le donne, per vivere come dei re, per chiedere soldi a credito in nome dell’amante, per fare affari con i loro risparmi e beni.
– I trafficanti lo usano anche per rapire ragazze e adolescenti per la tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale e riproduttivo: la tecnica più efficace per schiavizzare le donne povere è farle innamorare, per poi portarle fuori dal Paese per piazzarle nei campi di concentramento in Europa. La tecnica per far innamorare le donne è antichissima: gli uomini gonfiano la loro bassissima autostima in modo da far credere loro di essere uniche e speciali, bombardandole di regali, complimenti, promesse di futuro. Una volta che si sono innamorate, bisogna farle scendere dal paradiso all’inferno, distogliendo progressivamente le attenzioni e le lusinghe, perché [le vittime] comincino a soffrire e a sentirsi insicure.
In questo momento i signori patriarcali le hanno già ai loro piedi e possono manipolarle come vogliono. [Le vittime] si chiederanno mille volte perché lui si comporta così, e vivranno nella speranza che le tratti nuovamente come regine. Ecco perché ci mettono un po’ a capire che il loro ruolo è in realtà quello di serve. È urgente che le ragazze e le adolescenti riconoscano questi usi perversi dell’amore romantico, che ascoltino le vittime sottoposte allo sfruttamento domestico, lavorativo, sessuale e riproduttivo, abbiano il diritto di conoscere la verità sulla truffa romantica. Le ragazze devono armarsi di strumenti per lavorare sul proprio ego e sulla propria autostima e per raggiungere la propria autonomia emotiva ed economica. È l’unico modo perché l’amore romantico non le soggioghi e non distrugga le loro vite. Non possiamo continuare a educare le nuove generazioni di donne a diventare dipendenti dall’amore romantico: è una droga molto potente, che ci fa molto male. Dobbiamo proteggere tutte le donne dalla sottomissione chimica [sic] e formare reti di sostegno reciproco per salvare coloro che cadono sotto il potere di manipolatori, narcisisti, molestatori, truffatori, schiavisti e femminicidi.
Ne va della nostra vita.
* Questo si dimentica spesso quando si dice: “Lei resta [più tempo di me] in casa, quindi le toccano le faccende domestiche”. Tu dopo circa otto ore lasci il posto di lavoro, e a Dio piacendo avrai diritto a una pensione. Da una casalinga ci si aspetta che sia disponibile 24 ore su 24 vita natural durante, prendendosi cura prima dei figli e poi dei nipoti a meno di non pagare un’altra donna, spesso razzializzata, che lo faccia per lei. Non c’è equità.
** L’idea di mogli e compagne come di “lavoratrici sessuali gratuite” mi è sembrata stranissima finché non mi sono resa conto di quante donne si lamentino, in gruppi come Bridging the Gap, perché non desiderano più avere rapporti sessuali col proprio uomo o ne diminuirebbero la frequenza, ma temono di contrariarlo o di essere tradite/lasciate, o di creare un’atmosfera irrespirabile in casa. Molte parlano di stanchezza per le faccende domestiche che già si accollano, e di rancore per un uomo che ritiene che il tempo della compagna valga meno del proprio. D’altronde ciò che oggi intendiamo per rapporto sessuale è pensato per il piacere maschile, e il fatto che la penetrazione non favorisca quasi mai un’adeguata stimolazione clitoridea viene frainteso come un “Le donne vogliono fare meno sesso”.
*** Questo aspetto per me è sottovalutato: si parla soprattutto della “gold digger” donna perché le donne hanno meno potere economico, ma tantissimi uomini nella storia hanno usato i legami affettivi per entrare in certe società: dai normanni in Meridione, che si imparentavano con i nobili locali sposandone le figlie, passando per i fidanzati delle moderne celebrità. L’istituzione della dote prova quanto il matrimonio fosse un patto di interesse per entrambe le parti. Infine, vivendo a Barcellona vi assicuro che uomini senza i documenti in regola sono disposti a corteggiarvi, a sposarvi, e pure a pagarvi (a suo tempo erano 5.000 per una coppia di fatto, il doppio per un matrimonio) per ottenere tramite voi la cittadinanza europea. Le persone discriminate, svantaggiate in una società, usano qualsiasi mezzo per aiutarsi a prescindere dal genere.

Per chiudere col Carnaval do Brasil seguito alle dimissioni di Rubiales, traduco male questo articolo de El País, scritto da Isabel Valdés e Ana Torres Menárguez, sul piccolo MeToo spagnolo sorto in seguito ai fatti del Mondiale: Se Acabó, che significa “è finita”, dunque “basta così”. Secondo le autrici, questo movimento si differenzia dall’originale perché “non si limita a denunciare”, e perché trova una società già sensibilizzata e pronta ad accoglierlo.
Non sono la stessa cosa né hanno avuto, fino a questo momento, la stessa estensione né ripercussione, ma il Me Too e il Se Acabó sono indissolubilmente uniti e condividono la stessa origine: l’averne abbastanza, l’esasperazione delle donne davanti alla violenza e alle disuguaglianze, e all’impunità di coloro che le esercitano, permettono e sostengono. Il Me Too è aggiunto a ogni post, ogni manifestazione, ogni concentrazione e ogni messaggio reso pubblico o condiviso nelle reti private da milioni di donne nel mondo dal 2017. Il 15 ottobre di quell’anno, Alyssa Milano pubblicò un tweet alle 22.21: “Se sei stata vittima di abusi o di aggressioni sessuali, scrivi Me Too [yo también, in spagnolo] in risposta a questo tweet. Lo scorso 25 agosto alle 12.34, è stata la calciatrice Alexia Putellas a pubblicare il suo tweet, per dare sostegno a Jenni Hermoso dopo il bacio che, senza il suo consenso, il presidente ora sospeso [e adesso dimissionario, n.d.R.] della Real Federación Española de Fútbol, Luis Rubiales, le ha imposto pochi secondi dopo che le pendesse al collo la medaglia di campionessa del mondo di calcio: “Esto es inaceptable. Se acabó. Contigo compañera Jenni Hermoso”.
Questo “se acabó” è diventato virale come in passato avvenne con l'”yo también”, perché entrambi concentrano idee ed esperienze comuni all’immensa maggioranza delle donne: nessuno dei due può intendersi unicamente come il sostegno per un episodio concreto, ma è piuttosto espressione degli episodi che condividiamo. Quel “bacio a stampo”, come lo ha definito Rubiales, non era “un bacio a stampo”, ma il riflesso di decenni in cui le donne hanno ricevuto tanti altri “baci a stampo”. Non è la particolarità di un solo episodio, ma l’accumulo di molti che sono stati naturalizzati e normalizzati all’interno del sistema.
Mentre il Me Too fece uscire allo scoperto, soprattutto, aggressioni e abusi che sono socialmente più facili da identificare per la gravità che presuppongono, il Se Acabó lo ha fatto con tutte quelle piccole cose che si verificano tutti i giorni, ogni giorno, e che in realtà non sono piccole, ma sono la base stessa della struttura. Sono quelle “azioni quotidiane meno evidenti che dimostrano dominazione di genere” di cui parla Berta Barbet, dottoressa in Scienze Politiche all’Università di Leicester (Inghilterra).
E mentre il Me Too presupponeva una cesura col silenzio ed era soprattutto associato alla violenza sessuale, il Se Acabó fa un passo avanti, e ingloba questioni che vanno al di là di tale violenza, anche se è stato un bacio non autorizzato a iniziarlo; il “se acabó” contiene in sé stesso il significato di dover rompere la struttura, cambiarla, farla finita con tutte quelle azioni e quegli atteggiamenti che la mantengono in piedi e per cui c’è ancora chi non vede niente di male in quel “bacio a stampo”. Nuria Romo, docente di Antropologia Sociale dell’Università di Granada, sostiene che prima “non c’era la possibilità di dare risposte a certi comportamenti maschilisti, era parte del ‘mandato di genere’; la donna era chiamata a mantenere il decoro, a mostrarsi sottomessa. Ora tutto questo è stato spazzato via e la società è più consapevole di come si sentano le donne”.
Da qui l’idea che il Me Too si prefiggesse di denunciare e il Se Acabó di trasformare.
Questo salto da un passaggio all’altro ha molto a che vedere col contesto concreto da cui è uscito il secondo movimento: una squadra di giocatrici ignorate, controllate e sottomesse da diversi allenatori e presidenti della federazione, da 30 anni a questa parte. Questa situazione, all’interno dell’ambito sportivo, è stata per molte donne – e molti uomini che pure hanno dato il giusto nome a quel gesto [di Rubiales] in modo quasi istantaneo – equiparabile a quella che hanno attraversato e attraversano nei propri ambiti di riferimento.
Per questo, nel corso dell’ultima settimana, l’hashtag #seacabó ha iniziato due processi che si sono estesi sia tra le donne che tra gli uomini. Il primo è un processo di revisione. Molti uomini sono stati spinti a “ricordare” e “riflettere” sul passato, dice Daniel González, un uomo di 34 anni che “si è messo a pensare se qualche volta fosse successo qualcosa del genere” nella sua vita. Victor López, 36 anni, afferma che non è stato tanto “questo caso in particolare”, ma “come è cambiata la società”, ed è stato “negli ultimi anni” che ha iniziato a fare questa riflessione.
Nel caso delle donne, non ha provocato solo questa riflessione, ma ha anche risvegliato dei ricordi che adesso inquadrano in un altro modo. Questo ha fatto sì che donne di età e origini geografiche diverse iniziassero a tirar fuori storie nelle quali sono state vittime di abuso di potere in luoghi pubblici, davanti agli occhi di terze persone, come ad esempio in casi di abuso di potere da parte dei loro superiori nel bel mezzo di un posto di lavoro.
Qualche giorno fa, la giornalista Cristina Fallarás – che nel 2018 diede origine all’hastag #cuéntalo, raccontalo, invitando le donne a raccontare le aggressioni subite per evidenziare la veridicità delle denunce e la dimensione del conflitto (ormai si è arrivate alla somma di 40.000 storie narrate in prima persona) – ha pubblicato un articolo in un giornale digitale nel quale raccontava la “carognata” che subì da parte di alcuni colleghi della cronaca sportiva in un giornale nazionale nel quale aveva lavorato. La sua intenzione era quella di unire il calcio alle questioni lavorative, visto che, a quanto racconta, si chiedeva quante donne avessero ricordato le aggressioni subite, dopo aver ascoltato le parole di Luis Rubiales. Decine di donne hanno iniziato a mandarle i loro racconti e lei ne ha pubblicati alcuni sul suo profilo Instagram.
Ispirata da questo appello, una giornalista ha pubblicato nelle sue reti sociali il suo racconto personale del #seacabó. Ha raccontato come il suo capo, un noto giornalista che si occupa di cultura, dopo una serie di incontri sessuali consenzienti, la maltrattò per anni con grida e umiliazioni davanti ai suoi colleghi di redazione, che fingevano di non vedere. “Durò per anni, minò la mia autostima e mi distrusse i nervi” raccontava. La giovane giornalista si mise in congedo volontario, infilò la porta e corse via. Nel suo post denunciava che questo giornalista continuava a lavorare e a firmare reportage sul femminismo, con “un’ipocrisia” che le “ritorceva le budella”.
Una delle sue ex colleghe del giornale pubblicava poche ore dopo un tweet con la storia, e il giudizio pubblico in rete fece il resto: più di 2,2 milioni di visualizzazioni, e in meno di 24 ore la testata in cui collaborava il giornalista accusato lo ha mandato via. Senza denuncia davanti ai tribunali né sentenza. È bastata la testimonianza di questa donna.
Barbet, la politologa, avverte che c’è il rischio che questa nuova ondata di denunce pubbliche si trasformi in una guerra dei sessi sui social, e segnalare e perseguitare un solo uomo e porre fine alla sua carriera può pregiudicare l’obiettivo di fondo: rivedere i motivi per cui, nell’ambiente lavorativo, le persone abbassano la testa, e incentivare le imprese ad approvare protocolli per individuare abusi e accertare responsabilità. “Non si tratta di distruggere carriere, ma di generare contesti in cui questi atteggiamenti smettano di essere impuni. Non bisogna presentarla come una questione di cattive persone all’interno di un sistema, ma di riconfigurare le strutture che la rendono possibile” segnala. Barbet considera inutile proiettare una visione manichea e dicotomica di comportamenti corretti e scorretti, visto che in questo modo cesserebbero solo i comportamenti più evidenti e non la cultura che sottendono. “Bisogna favorire una riflessione di fondo”.
Dopo il caso Rubiales, su Twitter sono circolate addirittura liste coi nomi e cognomi di coloro che potrebbero essere i prossimi a cadere: comici, giornalisti, opinionisti… “È un comportamento assolutamente tossico che alimenta la retorica per cui ‘nessun uomo è a salvo'” sostiene Barbet. La politologa crede che in questo modo gli uomini si sentono puntare il dito contro, e perciò collaboreranno di meno a questo cambiamento di modello. “Generare dubbi e ombre su di loro non è la strada giusta” dichiara Barbet.
La risposta immediata che si sta verificando col movimento #seacabó è dovuta secondo Rosa Cobo, professoressa di Sociologia di genere dell’Università de La Coruña, al fatto che questa quarta ondata femminista ha trovato un terreno “molto fertile”. “Una volta che le donne hanno ottenuto di essere credute, adesso cercano cambiamenti drastici, e cercano di evidenziare i tantissimi micromaschilismi normalizzati dalla società, ai quali dicono basta”.
Come si spiega il silenzio, complice o meno, di terze persone davanti a un abuso di potere, per esempio in un posto di lavoro? È una questione di valori che “fortunatamente” evolvono, spiega Patricia Gabaldón, rettrice del corso di Economia all’IE University. “Per decenni il leader più stimato è stato il più aggressivo, si creavano livelli diversi di paura in contesti differenti, in ufficio o in famiglia, e davanti a questa minaccia era più facile concentrarsi sulla vittima e credere che avesse fatto qualcosa per meritarsi questa situazione”. Adesso il cambiamento di paradigma sta aprendo la porta a comportamenti più empatici, nei quali la gerarchia della paura non la fa più da padrona.
A differenza del Me Too, nel Se Acabó non tutto ciò che viene denunciato, e la condanna sociale che genera, costituisce un reato dal punto di vista legale. La professoressa di Diritto penale dell’Università di Cadice, Maria Acale, crede che, a differenza degli abusi denunciati col Me Too, con il Se Acabó la risposta penale non è sempre quella più idonea. Interpellata sul caso Rubiales, la docente spiega che non bisogna analizzare i fatti come se l’unica caratteristica che li contraddistingue fosse l’aggressione sessuale. Ad esempio, “C’è un nuovo reato di trattamento degradante, l’articolo 173.4 della legge organica 10/2022, che contempla comportamenti che attentano contro l’integrità morale”.
Se c’è una cosa su cui Acale si trova d’accordo con il resto delle esperte, dopo due settimane di analisi di quanto accaduto, è il fatto che la società “è passata da una timida denuncia da parte di molte donne nel #metoo a un movimento che ha sbattuto i pugni sul tavolo. È un punto e basta alle situazioni indegne che affrontano le donne”. Per lei, “in questi anni si è prodotta una riflessione sociale sul consenso e su fin dove possa arrivare l’autonomia della persona”.
Anche così, può ancora succedere che l’ambiente di lavoro possa ignorare le vessazioni in modo inconsapevole, per il fatto di non disporre degli strumenti necessari per emettere un giudizio di condanna, oppure può farlo in modo consapevole e deliberato. È ciò che Clara Vall, avvocata penalista e criminologa, definisce come una “roccaforte di popolazione estremamente reazionaria” che nega questi abusi. “Coloro che sostengono Rubiales si rifiutano di accettare che noi donne abbiamo guadagnato tutto questo terreno a livello di egemonia culturale, e ricorrono a vecchi cliché di trent’anni fa, come quello di analizzare il comportamento della vittima, e addirittura diffondere video di Jennifer Hermoso nell’autobus durante la celebrazione. È un segno ridicolo e inequivocabile dell’agonia di alcuni uomini davanti alla fine del patriarcato”.
Tuttavia, tra entrambi i movimenti c’è una differenza che riflette il cambiamento, lento ma solido, su cui hanno lavorato il femminismo, e la società, in questi sei anni. Il Me Too è iniziato con la denuncia diretta di Milano, mentre il Se Acabó, anche se creato come tale da Putellas nel suo tweet, cinque giorni dopo gli eventi, lo ha fatto in modo immediato, attraverso post di cittadine e cittadini che stavano vedendo tutto in televisione, e che hanno filtrato tutto ciò che significa quel bacio senza consenso attraverso la coscienza femminista che ha preso terreno nell’ultimo decennio. Col Me Too c’è voluta una voce individuale per iniziare: quella di chi denunciava. Col Se Acabó, la società era già preparata per farlo da sola, in modo autonomo e istantaneo.
Traduco (male, come sempre) questo breve articolo d’opinione della scrittrice Nuria Labari, pubblicato su El País otto giorni prima che Pepe Rubiales si dimettesse, questa domenica 10 settembre, come presidente della Federazione spagnola di calcio. Nonostante le criticità rilevate anche da osservatrici italiane, la legge di libertà sessuale, detta legge del solo sì è sì, ha provato a definire i termini del consenso e a mettere al centro le intenzioni dell’accusato, invece di limitarsi a far ricadere sulla presunta vittima l’onere di dimostrare la violenza.

A volte le leggi non sono importanti solo per ciò che sanzionano, ma anche per ciò che comunicano. E questa comunicazione è imprescindibile per la vita civile e per convivere civilmente. Dunque la missione di una legge non è solo penale e coercitiva, ma ha anche una funzione comunicativa e pedagogica. In questo senso, quando giudichiamo la legge del solo sì è sì per i risultati coercitivi, dimentichiamo l’altra questione fondamentale di qualsiasi legge, che era ciò che comunicava e dove situava il suolo morale delle violenze commesse contro le donne. E questo, alla luce di quanto accaduto con l’abuso di Rubiales, è qualcosa che è cambiato in questo paese.
Finalmente abbiamo messo al centro il consenso.
È vero che il Codice penale del 1995 puniva già qualsiasi atto sessuale realizzato senza il libero consenso della vittima, ma la legge del solo sì è sì ha stabilito, per la prima volta, che ci sarà consenso solo “quando sia stato manifestato liberamente mediante azioni che, in considerazione delle circostanze del caso, esprimano in modo chiaro la volontà della persona”. Questa definizione del consenso è parsa a molte persone innecessaria, poiché poneva un problema probatorio: è difficile distinguere quando esiste o meno consenso in campo sessuale. E in effetti, in una società che non fosse profondamente maschilista, la linea del consenso potrebbe incrociare molte zone grigie. Tuttavia, la legge ha costituito un grande avanzamento in questo senso, perché il problema per molte donne spagnole è che vivevamo in una società così profondamente maschilista che era capace di tollerare e consentire l’esistenza di tipi come Luis Rubiales, fino a trasformarli in una specie di psicopatici socialmente accettati, cioè in uomini che aggrediscono le donne e abusano di loro, e sono, allo stesso tempo, incapaci di riconoscere il danno arrecato alle loro vittime. Il genere di uomo che bacia senza chiedere. E dopo, nel caso venisse biasimato, risponde tutto abbattuto che si è trattato solo di un bacio a stampo. E qui la parola bacio si può facilmente sostituire con la parola penetrazione nella mente del maschilista o dell’aggressore, se si dà il caso.
Perché il Rubiales di turno mette sempre al centro le sue intenzioni, il suo desiderio, la sua volontà, la sua euforia, i suoi interessi. La novità questa volta è che Luis Rubiales ha affrontato una società che da quasi un anno riflette e dialoga sul concetto di consenso, e questo dialogo, che spesso è un dibattito acceso, sebbene non ci abbia fatto trovare un accordo su tutto, ci ha aiutato però ad arrivare in buona forma teorica, in materia di consenso sessuale, al Mondiale di calcio femminile. È vero che prima del caso Rubiales le definizioni di consenso spaziavano tra quelle teoriche, giuridiche, politiche, civili. Ma questo caso è stato una sorta di esame pratico che abbiamo superato a pieni voti.
Esigere legalmente il consenso esplicito in campo sessuale può risultare confuso ed esagerato, ma diventa chiaramente necessario quando è un uomo maschilista a interpretare i limiti di tale consenso. In tal senso, Rubiales ci ha aiutato a chiarire l’opinone della maggioranza: la Spagna non tollera uomini che non collocano il consenso al centro delle loro relazioni sessuoaffettive. Il consenso deve occupare dunque il posto che gli è dovuto nella convivenza civile, e solo così i “maschilisti arroganti” occuperanno definitivamente il loro.

Ecco da dove venivano i meme!
Dovete sapere che, mentre ero immersa in faccende che avrei romanzato qui, e giorni prima che iniziasse il confinamiento (lockdown) in Spagna, cominciavo a vedere sul web dei cartelli retti da donne che rivendicavano il diritto di ubriacarsi senza che la cosa pregiudicasse, sapete, questo vizio che abbiamo di voler comunque tornare a casa sane e salve, checché ne dica Giambruno (che manco conoscevo)… Perché anche qui, nella terra del botellón, l’idea prevalente era ancora: la violenza maschile è inevitabile, stai attenta tu a non esportici. Figuratevi da noi! Un amico, ricercatore italiano a Londra, postava il caso dei due ragazzi italiani che avevano violentato una ragazza ubriaca in un locale di Soho, e una commentatrice italiana coglieva l’occasione per far notare che “questi [gli inglesi], hanno un problema di alcol davvero serio”. Sì, replicavo, ma sono inglesi anche espressioni come victim blaming e slut shaming, che per qualche arcano motivo sono difficili da rendere in italiano. Lei poteva forse illuminarmi sul perché?
E invece, qui in terre iberiche, daje coi cartelli che tradurremo come “sola e ubriaca, voglio arrivare a casa” o quello che dopo vent’anni da girovaga ci ho proprio tatuato nell’anima: “Quando torno a casa voglio essere libera, non coraggiosa” (anche se di solito mi si diceva che “avevo avuto fortuna”).

La ministra spagnola delle Pari Opportunità, Irene Montero, aveva citato il primo slogan nel corso di interviste TV in cui difendeva la legge sulla libertà sessuale, detta anche “legge del ‘solo sì è sì'”, che nonostante il persistente fuoco amico della coalizione veniva presentata come “pioniera in tutto il mondo”. Si prefiggeva infatti di cambiare sia il codice penale che la mentalità che accompagnava certe scelte giuridiche: stavolta al centro della questione c’era il consenso, esplicito, in assenza del quale si parlava di aggressione sessuale, eliminando così anche la differenza tra abuso e aggressione. Era inoltre necessaria una riforma in ambito educativo, sanitario, giudiziario, per fomentare la prevenzione di casi di violenza e promuovere l’accompagnamento delle vittime, impedendo il solito copione per cui queste ultime o non venivano credute (e Montero citava il famoso “Sorella, io ti credo” sorto in seguito alla violenza de La Manada*) o subiscono una seconda vittimizzazione in cui viene loro chiesto “cosa stessero facendo” per cadere vittima di un’aggressione sessuale. In realtà un aggressore, puntualizzava la ministra, ti colpisce a prescindere da dove tu vada, da come tu vada vestita, da se ballassi o meno…**
Lo slogan “sola e ubriaca” compariva in una campagna ministeriale, che voleva trasformarlo “in una realtà per smettere di vivere nella paura”, e chiosava: “I diritti delle donne non si perderanno mai in vicoli oscuri”.
Prima che facciate il biglietto sul sito della Vueling: l’opposizione si è fatta sentire subito, con le argomentazioni che immaginerete. Pablo Casado, del PP, parlava di istigazione all’alcolismo e ricordava che la OMS suggeriva di bere con moderazione, mentre i mai troppo rimpianti (scherzo) Ciudadanos, nella persona di Inés Arrimadas (nostalgia canaglia!), parlavano di un “settarismo” del governo Sánchez che ostacolava la “vera” lotta per i diritti delle donne. Anche Pepe Rubiales, come accennavo qui, parlava di femminismo buono e cattivo, oltre ad aggiungersi alla tradizione di uomini che spiegano come si debba reagire a un abuso. Il mio preferito resta Santiago Abascal (l’amico di Giorgia Meloni) che vedete qui nella sua foto che preferisco, quando incitava alla reconquista di Spagna che manco i Re Cattolici:

Scusate, dovevo mostrarvela, ma torniamo a noi, anche perché il leader di Vox è l’autore della dichiarazione più pittoresca: “È una cosa tra il comico e l’aberrante. L’obiettivo del ministero delle pari opportunità è che le donne vadano sole e ubriache per strada? Qualcuno può spiegare a questo governo che un ministero non è un pigiama party, e che coi soldi degli spagnoli non si promuovono idiozie?”.
Ebbene sì, anche qui, anche all’interno della stessa sinistra, le critiche possono riguardare il modo in cui vengono spesi “i soldi dei contribuenti”, con l’accusa in stile Arrimadas di alimentare settarismi, piuttosto che occuparsi di questioni che interessino “todos los epañoles” (scusate, traduco subito: “tutti gli spagnoli cis etero di classe media”***). Capirete però, e lo dico nonostante le mie critiche a Sánchez sulla questione catalana e repubblicana, e soprattutto sulle politiche migratorie, che il benaltrismo è un’obiezione più difficile da muovere a una sinistra che, invece di trascurare i diritti sociali per fingere di portare avanti quelli civili (scusate l’immaginario fantascientifico!), taglia l’iva sui beni di prima necessità, prova a regolarizzare i contratti di lavoro, e riesce con una manovra in cui non credevo neanche io a salvarsi a rotta di collo dal (re)conquistador di cui sopra.
Per la cronaca, Montero ha replicato alle accuse con questo tweet: “Quando le donne gridano per le strade ‘Sola e ubriaca, voglio arrivare a casa’ dicono qualcosa di fondamentale: né il tuo modo di vestire, né il fatto che tu abbia bevuto, NIENTE, giustifica o attenua un’aggressione sessuale. Questo ministero lavora perché la Spagna sia un paese libero dalla violenza maschilista”.
Mica solo il ministero.
*Come spiega questo articolo, non si tratta di attentare alla presunzione di innocenza, ma di contestare la linea di difesa degli aggressori per cui la vittima “se l’è cercata”. Dunque, l’imputato è sempre innocente fino a prova contraria, ma non può più costituire una prova di innocenza il fatto che la presunta vittima, come nel caso de La Manada o di alcune vicende italiane, non avesse reagito alla violenza nel modo che si aspettavano i giudici, o i legali, o certa stampa.
**Io mi sento solo di confermare le statistiche, perché dall’età adulta sono sempre andata dove volevo a qualsiasi ora, e le mani sul sedere o sui genitali le ho avute mentre ero vestita di tutto punto, davanti ad altre persone che magari mi volevano bene – un saluto al vecchio rattuso del supermercato sotto i portici, che mi diede una pacca sul sedere davanti a mia madre – e quasi sempre in pieno giorno, di sicuro mai in strada da sola. Quindi mi diverte ricordare l’amico molisano che diceva: “Ah, già, tu devi essere di quelle che non si fanno riaccompagnare a casa la sera”. No, è che non ci ho mai pensato: la mano sulla patana a 14 anni l’ho avuta alle quattro del pomeriggio a Napoli, sul famigerato e affollatissimo autobus R2! E poi, attenzione a chi si offre di accompagnarti: una sera del lontano 2004, in Inghilterra, ero io ad accompagnare un ragazzo austriaco ai cancelli del mio studentato, che si aprivano solo con un chip in dotazione di noi residenti. Il tipo provò a baciarmi nonostante le mie resistenze, in presenza di un ubriacone che passava di lì e gridava: “Pure io!” (cioè, per colmo di ironia, “Me too!”), per poi farmi sapere che mi rifiutavo solo perché ero “a chick”, ‘na zoccoletta. Poi mi chiese scusa (l’austriaco, non l’ubriacone).
*** Scusate, mi ricorda troppo l’intellettuale italiano che si chiedeva: a una lesbica precaria interessa di più il linguaggio inclusivo o trovare lavoro? E quando nei commenti Facebook si provava a dire “Why not both?”, peraltro in toni piuttosto pacati, un sostenitore del filosofo qui sopra (che non linko per compassione) si lamentava perché “non si può più parlare di niente senza manifestare rabbia”. E non ve la prendete se stavolta vi traduco questa, che è una frase italiana, con l’ennesima, efficacissima espressione inglese.
Traduco, come sempre “a sentimento”, questo articolo di opinione del giurista Octavio Salazar, comparso sull’edizione online di Público il 27/08/23.

In questi giorni il caso Rubiales ci sta dimostrando che la società spagnola è cambiata molto, e in meglio. L’azione instancabile delle femministe e l’impulso politico che ha individuato determinate questioni nel dibattito pubblico – come, per esempio, la centralità del consenso nell’approccio giuridico alle violenze sessuali – hanno contribuito al fatto che azioni e comportamenti che fino a pochissimo tempo fa erano irrilevanti diventino ora intollerabili.
È il dato più positivo che possiamo ricavare da eventi che ci stanno dimostrando, come se fosse la lezione base di un manuale di studi di genere, come la mascolinità è stata e continua a essere uno strumento di potere, un artefatto culturale e politico sempre più eroso e messo in discussione, il che sta provocando reazioni da parte di uomini offesi e furibondi. Si tratta di una contestazione che è parte centrale del discorso dell’estrema destra che avanza in tutto il mondo, e che incontra terreno fertile sui social, dove assistiamo alla crescita pericolosa di ciò che le esperte chiamano ‘manosphere’: un termine con cui oggi nominiamo la misoginia di sempre, che però ora viene proiettata sugli schermi, a loro volta in mano a poteri maschili.
Le reazioni di Luis Rubiales, e in particolare il modo in cui ha articolato il suo discorso nell’Assemblea della Federación Española de Fútbol, rispondono fedelmente alle esigenze di un mandato che è costruito sull’idea di dominio, e sulla negazione della soggettività e autonomia femminili. Allo stesso tempo, questo mandato è bisognoso del sostegno dei “confratelli” [fratría], in una specie di performance riaffermativa e celebratoria.
È così che, nella lunghissima storia del patriarcato, è venuto fuori con insistenza ciò che Celia Amorós denominava “patti giurati tra maschi”, dei quali fanno parte, come abbiamo potuto ben vedere in questi giorni, le complicità silenziose e le comodità dietro le quali noi uomini ci siamo abitualmente trincerati, beneficiando sempre, benché in modi diversi, dei rapporti asimmetrici con le donne. Il desiderio di dominio, che è anche desiderio di possesso, si proietta singolarmente sui corpi e la sessualità delle donne. È da lì che sussiste ancora oggi una delle frontiere che definiscono il polso di un regime, quello patriarcale, che non vuole saperne di sparire.
Il problema che abbiamo dunque con la mascolinità, intesa come ‘megastruttura’ culturale e politica che ci definisce in maniera personale e collettiva, è un problema politico. E lo è perché ha a che vedere col potere, coi (dis)valori associati alla mascolinità stessa, e coi meccanismi che per secoli hanno mantenuto noi uomini come la metà privilegiata dell’umanità: coloro che definiscono l’umanità e gli amministratori dei beni e delle opportunità, i re della casa e i principi della città, coloro che di solito non hanno avuto nessuno scrupolo a usare vilmente le donne come scudo, o coloro che hanno usato con frequenza la strategia di trasformare le vittime dei loro abusi nelle “femmes fatales” che avrebbero distrutto le loro vite.
Non ci bastano le soluzioni individuali o la buona volontà dei singoli, ma è urgente una trasformazione sociale che metta il dito nelle piaghe dei poteri – inclusi, non lo dimentichiamo, quelli economici, che sono quelli che dettano legge – e che costruisca una cultura di emancipazione: niente di più e niente di meno di ciò che da secoli cerca di fare il femminismo, non quello “buono” o “cattivo”, ma l’unico*, che a sua volta si proietta in centinaia di ramificazioni che partono dallo stesso tronco. È un orizzonte che sarà possibile solo se, insisto, cominciamo a rompere questi patti che ci sostengono e fomentano: un compito che tocca singolarmente a noi che in maggior o minor misura beneficiamo di tali patti. Dobbiamo svolgerlo intanto che impariamo a riconoscere il valore e l’autorità delle donne, in quanto soggetti che ci equivalgono in qualsiasi ambito umano, e per i quali non dobbiamo continuare a essere il punto di riferimento a cui aspirare.
Oltre a quanto detto in precedenza, il caso Rubiales dovrebbe farci riflettere anche sulla necessità di non aspettarsi troppo dalle soluzioni che possano venire dal Diritto Penale. Va da sé che, se le azioni del personaggio in questione hanno gli estremi per una denuncia, e si agisce per vie legali, la legge dovrà essere applicata con tutte le sue garanzie e conseguenze. Tuttavia, quando parliamo di questioni relative alla cultura che abitiamo e che ci abita, la risposta dovrebbe provenire dalla comunità, dalla reazione della società e dagli effetti pedagogici che possano tenere i limiti e i freni posti a partire dall’esercizio delle responsabilità pubbliche. Pertanto le possibili sanzioni, come ad esempio il ritiro del sostegno economico, devono avere più valore per le conseguenze negli immaginari collettivi, che per il livello di punizione che costituiscono. Ricordiamoci una volta di più che il Diritto Penale non ha mai contribuito a una maggiore uguaglianza, e nemmeno a una maggiore giustizia sociale.
Il caso Rubiales ci sta insegnando, inoltre, che noi uomini abbiamo davanti un lungo processo di apprendimento, però anche di dis-apprendimento di tutto ciò che il maschilismo ha convertito per noi in punti di riferimento e aspettative. È un processo che dev’essere accompagnato da un impegno militante e pubblico che, come minimo, ci faccia prendere le distanze, come finalmente hanno iniziato a fare alcuni calciatori, da coloro che ancora si prodigano a imporre la legge del più forte. A patto che, ovviamente, questo impegno non obbedisca alla necessità di ricoprirci con la gloria del politicamente corretto o delle “nuove mascolinità”**, ma che risponda alla necessaria cooperazione che le donne reclamano da noi per rendere questo mondo più giusto ed egualitario. E questo passa, per forza di cose, per il coraggio di guardarci allo specchio e iniziare a smontare il Rubiales che tutti, in maggiore o minor misura, portiamo dentro di noi.
*Anche a queste latitudini, molti benaltristi e lo stesso Rubiales distinguono tra un femminismo buono, come quello che esigerebbe “la parità” (che per questi uomini spesso significa ignorare il lavoro di cura gratuito e risparmiarsi l’assegno di mantenimento), e uno cattivo, costituito da ragazzine capricciose che pretendono addirittura un’adeguata legislazione sul consenso, o la distribuzione paritaria del lavoro di cura. Che tempi.
**Per me il politicamente corretto è uno spauracchio delle destre, e quanto alla critica delle nuove mascolinità… Público è un po’ tankie, e i contributi femministi mi fanno spesso cadere le braccia. Ma abituata agli standard italiani trovo facile continuarlo a leggere.

Per il ciclo “Niente fiori, ma opere di bene”, qui sotto traduco male gli spezzoni di un’interessante intervista a Brigitte Vasallo, autrice di un libro importante sulla decostruzione della monogamia che in Italia è stato pubblicato da Effequ. Per me l’intervista è una chicca: sollecitata da domande poco accomodanti, Vasallo spiega ciò che *non va* del poliamore.
Fin dall’introduzione del suo nuovo libro, lei avverte che il poliamore è rientrato alla perfezione nel discorso neoliberale: consumiamo corpi.
Il poliamore può anche essere una monogamia con un altro nome. È successo che ci siamo messi a smontare la monogamia senza capirla. Ci siamo ritrovati molte volte con una questione numerica – con quante persone stai – senza addentrarci a definire “chi era costei” [la monogamia, n.d.R.].
Ci piace parlare delle relazioni poliamorose, ma non delle ferite che lasciano. Cosa si fa con questa persona, una volta che si utilizza nella “poligamia di mercato”?
Si sostituisce. Come si fa con il cellulare: ne esce uno nuovo sul mercato e, senza chiederci se ne abbiamo bisogno o no, lo sostituiamo. Perché la novità, nelle relazioni, è un valore in sé. Dunque, quando parliamo di libertà nel libro bisogna considerare due linee: quella libertaria, che è un esercizio filosofico classico; un altro tipo di libertà, quella capitalista, nella quale cadiamo costantemente nel poliamore… Una perversione della parola. Se la libertà nell’amore è fare ciò che ti pare e badare solo ai tuoi desideri, dobbiamo ridefinire cosa significa “libertà” e dobbiamo affrontarla da una prospettiva politica.
Nel libro metti una © di copyright a concetti como amor, amor-de-mi-vida, ecc. Alla fine, se non si ridefiniscono, tutti questi concetti sono semplici marchi registrati?
Sì, è così. Faccio lo stesso quando parlo di uomo, lo indico come marchio registrato, o di donna, a sua volta un marchio registrato. È una lettura semplice, di forte impatto visivo. Non stiamo parlando di ciò che ciascuno fa nella sua vita con le proprie decisioni. Il sistema ci impone molte cose attraverso queste etichette.
Tutto questo si combatte facendo dell’amore uno strumento politico? Non è naïf pensare che smontare le relazioni private possa cambiare un sistema?
Non so se si tratta tanto di pensare che dalla sfera privata si possa smontare un sistema, e la risposta è sì, quanto di pensare fino a che punto i sistemi si ficcano nella nostra sfera privata. È il primo passo per capire tutto ciò. Con l’amore continuiamo a credere che sia una cosa naturale, spontanea e libera da qualsiasi condizionamento. Come se non fosse la costruzione sociale che è. Il nostro modo di provare sentimenti è costruito socialmente.
Nel libro parla di come, per mantenere l’esclusività sessuale, è necessario generare un “terrore costante”. Dice che a un/a partner si potrebbe spiegare facilmente una notte brava, il fatto di bersi un whisky di troppo, ma non una notte di sesso.
Il sesso è trascendete perché ha una serie di connotazioni [cargas]. Però ciò che mi sembra importante è che bisogna aprire il ventaglio delle definizioni di desiderio. Il desiderio si trasforma nella costruzione di un’identità chiusa, e questo presenta alcune condizioni. Quante decisioni che ci vengono date di default potremmo prendere, se definissimo di nuovo questo desiderio? Viviamo una grande penalizzazione della sessualità, ed esiste una alimentazione della sessualità promiscua come conquista, capitale sociale… Ciò che abbiamo bisogno di smontare non è la pratica in sé, ma i fattori condizionanti che portano la pratica a essere così.
La monogamia è definita dall’esclusività. Lei precisa: “Ciò che definisce la monogamia non è l’esclusività, ma la gerarchia di alcuni tipi di affetto sugli altri”.
La base di tutto ciò è la gerarchia. Questo non è un libro di shortcuts, di scorciatoie, ma mi sembra importante pensare che l’argomento dell’esclusività è conseguenza e non causa della monogamia. Perché questo sistema gerarchico funzioni, l’esclusività sessuale è necessaria, perché bisogna costituire un’identità sessuale chiusa.
Il sistema fa competere le relazioni tra loro?
Sì. Puoi avere una relazione di coppia, una relazione a tre, ma senza problematizzare questa gerarchia e cercare un equilibrio. E non si tratta del tempo che dedichi a ogni persona, ma del peso che viene dato ad alcune relazioni rispetto ad altre. Soprattutto se sappiamo e abbiamo incorporato la idea che la costruzione romantica dell’amore, che a me piace amare “amore Disney” (perché non ha niente di buono), è attraversata dalla violenza, e gli occhi che ci servono per vederlo non sono contaminati da questo romanticismo.
A quale violenza si riferisce?
Gli squilibri che si verificano nelle relazioni sono intrinseci alla romanticizzazione delle stesse. Non è una deviazione dal sistema, non è qualcosa di aneddotico, è il sistema in sé a essere così. Questo non vuol dire che non possiamo costruire una relazione. Vuol dire che dobbiamo costruirla in un altro modo. Perché dico questo? Viviamo in un mondo di merda e nell’ora della verità, quando sei malata, inevitabilmente chi si prende cura di te è la famiglia o la persona con cui hai una relazione*. Ma questo è parte delle conseguenze di star costruendo così gli amori: alcuni vincoli hanno la responsabilità di prendersi cura di te, e altri no. Nei contesti queer ci è chiaro, perché continuiamo a essere espulse e dobbiamo costruirci un cuscinetto a partire da altre prospettive che non includano la romanticizzazione. Una delle perdite più gravi che ha provocato questo sistema monogamo è il fatto di disgregare la comunità in atomi molto piccoli: la famiglia nucleare o la relazione normativa, coi suoi annessi e connessi.
(Continua)
*Da donna etero mi sono divertita a questa affermazione perché, hashtag not all men ecc., ci sono studi decennali sulla frequenza con cui gli uomini abbandonano la partner quando questa ha una malattia debilitante.