Archivi per la categoria: fame

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Il linguaggio del corpo e della fame

da granconsigliodellaforchetta.it

Torno a Barcellona con una valigia piena di cose da mangiare.

Mentre gli scrivo mi accorgo che la mia camera è gelida: sarà un problema. L’unico linguaggio che condividiamo al momento è quello del corpo, e della fame.

Ci mette un po’ a rispondere: è tornato da poco anche lui, ha delle cose da fare. La pulizia della casa, il bucato… Non mi aspettavo certo si precipitasse! Magari il giorno dopo, o l’altro ancora…

No. Per vedermi gli servono quattro giorni. Aspetterò?

Chiudo gli occhi. Non ci vediamo da quindici giorni. Insieme ne abbiamo trascorsi solo due. Anche così, la sua lavatrice viene prima di me. Visto che avevo ragione? Era meglio chiuderla prima di Natale.

L’ho spiazzato ancora una volta: che problema c’è? Lui funziona così. Deve togliersi le preoccupazioni dalla testa, per potersi godere qualcosa.

Io non sono “qualcosa”, ricordo a me stessa chiudendo la conversazione. Non tornerò a ricordarmelo per un bel po’.

Il giorno dopo, la Petulante mi annuncia che Bruno e io abbiamo lo stesso disturbo. È un colpo basso: lei è la mia psicologa, e Bruno non l’ha mai visto. Le diagnosi non si fanno così. Ma ne è sicura, ci siamo trovati. Io da piccola ero di una religiosità ossessiva, dovevo recitare ogni Ave Maria senza distrarmi un attimo, o c’era da ricominciare. A volte guardavo sfinita giù dal balcone e pensavo: è solo un salto, tanto i bambini vanno in paradiso lo stesso. Secondo la Petulante, queste cose non passano mai per davvero. Bruno non mi ha mai parlato di epoche così, ma i suoi impegni quotidiani sembrano una tela di Penelope da disfare ogni minuto, e io sono già diventata un difetto nella trama.

“Sei a casa?”.

Il messaggio mi arriva alla fine di una giornata piena d’ansia.

Bruno scrive come se non fosse successo niente. Sta uscendo ora dallo Spazio, se voglio può “passare”. Questo uso del verbo mi colpisce sempre: per me vuol dire al massimo “fare una capatina”, per lui significa restare a cena, o anche a dormire.

Anticipo l’irritazione per il tempo che ci metterà a salutare tutti, e percorrere settecento metri. Impiega mezz’ora, stavolta: sta ancora imprecando contro la folla in strada mentre si getta sul divano. Ha un atteggiamento remissivo, e un po’ compiaciuto: è passato perché gli dispiaceva che “me la fossi presa”, ma lui è fatto così, mi assicura, prima il dovere e poi il piacere. E, a proposito di piacere…

Ritiro la mano che mi ha appena afferrato e scatto in piedi. È l’unica cosa che è venuto a fare? Allora è solo per questo che ha sottratto tempo alle pulizie generali! O magari vuole un premio per la sola generosità di “passare”…

L’ho spiazzato un’altra volta.

“Forse avevi ragione” borbotta. “Dovremmo chiuderla qui”.

Solo perché avrei voluto spiccicarci due parole, prima di ritrovarmi con la mano su una zip?

“Purtroppo so quello che voglio” dichiaro. “E so che tu non me lo puoi dare”.

Mentre lo vedo andarsene, ci credo pure.

A mercoledì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Quella dopo

Davvero mi ha nominato la sua ex?

Perché al mattino mi sembra tutto confuso, mentre ci arrangiamo col pane del giorno prima e nessuno di noi due vuole farsi sei piani per portarne di fresco. La colazione insieme non era prevista, così come non era previsto che lui, ore prima, mi informasse ridendo che avevo i pori del viso dilatati. Ho abbozzato: grazie per l’informazione! Da qualche parte, David Cameron era davvero sul punto di gridare che bastava così, che potevamo iniziare a sfracellarci contro l’iceberg.

L’iceberg è stato la Bella Stronza. Bruno l’ha rievocata durante certi equilibrismi che con lei erano più facili, visto che era alta. In tempi non sospetti mi aveva mandato delle foto, e io avevo pensato che forse non era fotogenica. In fondo l’ho capito subito, che ero “quella dopo”: una di passaggio che serviva a farlo tornare in carreggiata. L’ho capito e ci ho riso su, eppure… Quando ho sentito nominare la Bella Stronza mi sono accasciata su un lato. Davvero stavo piangendo? Mentre ci decidiamo a uscire di casa, ripenso alle parole della psicologa, la Petulante: il tuo corpo sa le cose prima di te. Maledetta.

Ci salutiamo sulla Rambla. Abbiamo entrambi cose da fare, posti in cui stare. La nostra vita continua. Mi avvicino al suo giubbino troppo leggero per sussurrare:

“È stato bellissimo”.

“Anch’io” risponde.

Quella sera, in chat, mi chiede cosa succede adesso. Può andare anche con altre, vero? Ormai ha “rotto il ghiaccio” dopo la Bella Stronza, e avrebbe un altro paio di occasioni… Me l’aspettavo, ma non così. Come un automa rispondo che non c’è obbligo, ma se ci fosse un’altra vorrei saperlo. In quel caso mi ritirerei in buon ordine, ma non glielo dico. Almeno comincio a capire cos’è che non voglio. Detesto gli almeno.

“A Natale la chiudiamo, okay?”.

Glielo propongo nel buio, la volta dopo. Resta zitto mentre spiego che non so gestire queste cose, che poi finisco per inn… innam… quella cosa lì.

Forse a unirci è stato il momento. È stata la mia disoccupazione e anche la sua, di cui parla poco perché c’è poco da dire: dopo anni non gli hanno rinnovato il contratto, punto. E poi c’è stata la volta che mi volevano assumere part-time a 500 al mese, spuntati dopo una trattativa feroce, ma solo se potevano spacciarlo per un praticantato. Non potevano. Forse a unirci davvero, in questa stanzetta rubata a un terrazzo condominiale, è l’incertezza perfetta di ciò che avverrà.

Ed è troppo poco per unirci.

Bruno rompe il silenzio: in casi come il nostro, anche lui finisce per inn… innam… Quella cosa là. Decido che non è un esempio generico, che parla di me, e sono più contenta di quanto vorrei.

Con quel pensiero in testa, il Natale non mi sazia. In paese non riconosco più le strade, né le rare persone che mi salutano. In compenso riscopro una bella canzone in napoletano: il titolo significa “Uccidimi”. Bruno è incuriosito dal napoletano, ma in quei giorni non si fa sentire. Che fine hanno fatto le nostre conversazioni virtuali? Sono sparite, ma lui no. Lui riappare quando inizia proprio a mancarmi.

E quando ci sentiamo per gli auguri di buon anno, capiamo entrambi che torneremo a vederci.

A lunedì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Se resto

Alla fine un’ora è poco.

È un’altra gag di Bruno arrivare tardi, ammesso che arrivi: un’ora è il minimo, scherzano a volte i suoi amici dello Spazio.

Il mio, di Amico, mi chiede in collegamento da Napoli chi me lo fa fare. E dire che da un po’ rigavo dritto! Avevo preso casa da sola, e mollato il mondo accademico appena avevano smesso di pagarmi. Avevo lavorato il tempo sufficiente a beccarmi un sussidio. Se li invitassi a pranzo, quei due o tre matti che mi vengono dietro non si presenterebbero certo con un’ora di ritardo! Cos’altro voglio?

Sentire, rispondo. “Rigando dritto” ho rimediato un licenziamento improvviso, un vicino che distrugge le antenne, e amici che desiderano, sopra ogni cosa, installarsi un ascensore. Con Bruno è assurdo che ci capiamo in tutto, ma è così. Vorrei non sentire ciò che sento, ma ciò che sento è lì. E sono stanca di avere paura. Di cosa, chiede l’Amico. Rispondo: di scoprire ciò che voglio.

L’Amico mi informa che sembro la sorella scema di Laura Pausini. Poi si arrende, tanto Bruno ha appena suonato al citofono.

Una volta che ha divorato il pranzo, il mio ospite difende con ferocia il suo diritto a pensarla a modo suo, ad “avere dei gusti”, a fare ciò che gli pare. E allora lo dicesse, mi ostino: dicesse che c’è qualcosa che va al di là delle sue hit parade, dei suoi schemini così ordinati! Quando l’ho messo proprio alle strette, lo sento sbottare:

“Vuoi sentirmi dire che ti stenderei? Come se avessi problemi ad ammetterlo!”.

Lo urla come se litigasse con sé stesso, poi se la prende con me: sono contenta, adesso? Forse è solo imbarazzato, forse non sapeva dirlo in altro modo. Nel mio salotto cala un silenzio che non so riempire, perché non so cosa voglio. Così è lui a rompere gli indugi.

Accostando la sedia mi abbraccia come se stesse affondando, e volesse aggrapparsi alla mia schiena. Sembriamo controfigure in Titanic: due passeggeri che non hanno raggiunto in tempo la scialuppa. A un certo punto mi aspetto davvero che una voce fuori campo gridi: “Stop! E ora, rifatela meglio”.

Almeno le sue labbra sono piacevoli da mordere. Dio, quanto detesto gli almeno.

Dopo mi chiede se può restare a dormire. Mi giro verso il libro che tenevo già pronto sul comodino: un’edizione economica, con immagini tratte dal film. È la storia famosissima di una coppia che si forma solo quando tutti e due sono disposti a cambiare.

“Ti spiace se resto, allora?”.

Dalla copertina, Keira Knightley mi sorride con gli occhi altrove.

A venerdì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Ti avevo avvertito

La mia è una rabbia ipocrita.

Di ciò che vomito a Bruno in chat penso ogni parola: gli sembra normale catapultarmi in quella sua classifica campata in aria? Scommetto che alle donne dà anche i voti da uno a dieci!

Ma ciò che mi ferisce di più è che, per lui, non sono neanche un sette.

Bruno mi oppone una logica stringente: eppure me l’aveva premesso! Lui non sa mai cosa dire e cosa no, cos’è che il mondo è disposto a sentire. Sembra convinto che mettere le mani avanti lo assolva da tutto. Io ti avevo avvertito.

Anche l’uomo col mastino mi aveva avvertito. Eravamo quasi amici: l’italiana dell’attico e il tipo che era cresciuto nel palazzo, restandoci grazie a un antico calmiere sugli affitti. Si censurava quando voleva prendersela coi guiris, stranieri bianchi come me: ci chiamava turistas. Aveva incassato impassibile il mio “No, grazie” quando, dopo una birretta dietro l’angolo, mi aveva invitato a prendere un bicchiere da lui. Prima mi aveva mostrato scherzando gli addominali scolpiti, e mi aveva pure spiegato che, da bambino, giocava a calcio dove adesso c’era il mio terrazzo. Quella era casa sua, mi aveva avvertito. Eppure non poteva più abitarla a suo piacimento: il mio terrazzo era chiuso da un muricciolo, e quello attiguo, accessibile all’intero condominio, era invaso “dalle antenne dei filippini”. Adesso come faceva lui, a prendere il sole nudo?

Aveva tagliato i cavi delle antenne senza sapere che tra quelle c’era anche la mia. Pensava che gli dessi ragione lo stesso: tanto ce l’aveva coi filippini, io a casa sua potevo restare! Poi aveva scoperto cheç, in fin dei conti, non gli ero tanto solidale. Era stato poco prima che si procurasse il mastino.

Anche adesso sento rumori, ma è troppo presto. Da quando ha cambiato il lucchetto del terrazzo condominiale, l’uomo col mastino sale soltanto di notte. Ma il piccolo tonfo sul mio terrazzo mi spaventa un istante solo: è la gatta dei vicini. La vita non fa poi così paura.

Bruno in chat continua a fare quello ragionevole: vatti a fidare di una che fa l’amicona, quella con cui si può parlare di tutto!

La gatta tigrata mi fissa, in attesa delle crocchette. La osservo e digito:

“Ti va di parlarne dal vivo? Vieni a pranzo da me sabato prossimo”.

A mercoledì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Hit Parade

E quindi?

Tutto ciò che ho scoperto dalla “confessione” notturna è che lui magari mi avrebbe baciata, come avrebbe fatto con altre mille. Devo approfondire.

Il sabato successivo siamo di nuovo insieme, di notte, diretti alla metro sulla Rambla.

È stata una di quelle giornate per cui benedico Barcellona: festa di beneficenza allo Spazio, vini fruttati e incursioni proibite sul tetto del palazzo, ad ammirare le guglie di Santa Maria del Mar. Non ho pensato neanche un momento all’uomo col mastino. I Morti di Figo hanno fatto salire certe turiste a brindare con noi, e un cantautore simpatico, un amico di Bruno in visita, ha intonato qualche canzone in dialetto. L’amico cantautore si era già defilato con una, mentre Bruno e io vincevamo il quiz. Gli altri della squadra hanno preteso che ritirassi io il premio: me l’ero guadagnato, dicevano. Solo Bruno non ha fatto commenti. Era sempre sicuro delle sue risposte, e spesso le sbagliava. Ora che siamo soli, e la Rambla è a due passi, come una bambina cerco di estorcergli un complimento qualsiasi.

Eccomi accontentata.

“Non so mai se dire queste cose o no. Però tu…”.

“Io?”.

“Tu sei una via di mezzo tra una ragazza carina e una simpatica. Certo che ce ne sono, di più fighe di te, ma magari sono insopportabili!”.

Perfetto. Barcellona scompare insieme alla giornata allegra, e io torno al bellella.

L’aspetto fisico mi ha condizionato la vita, come succede un po’ a tutte. A Barcellona, città generosa e un po’ cecata, sono stata definita guapa, bonica, o anche buena, da uomini e donne che si divertivano del mio stupore. Non sapevano che in Italia c’era dibattito.

“Pe’ me è bellella!” ripeteva un bambino al parco quando avevo già vent’anni, e il compagno di giochi rispondeva con un secco “Ma statte zitto!”. Certi uomini invece scherzavano a bassa voce, ignari del mio udito bionico: quello che apprezzava “il mio tipo di donna” veniva sfottuto dai paladini della bellezza mediterranea.

Bruno non ha avuto bisogno di deliberare. Mentre cammina è come se le sue dita disegnassero in aria una classifica generale: una “hit parade” di donne, piuttosto che di canzoni. Le nordiche tormentate sembrano schizzare fin sopra i palazzi, e una catalana più minuta e formosa si ferma a un metro dal suolo. Peccato che non sia più carina, dichiara lui, ci si troverebbe bene.

Non riesco a replicare: il premio del quiz era un liquore italiano, e sono brilla. Mi immagino a occupare un posticino giusto al centro di quella classifica “campata in aria”, più o meno in corrispondenza del suo stomaco: sono una merendina stantia, da scartare solo quando non si ha nient’altro da mettere sotto i denti.

Come mai uno brillante, pieno di umorismo e generosità, può diventare così con le donne? Può catalogarle, valutarle in base alla lunghezza della coscia o all’ago della bilancia… Su questo argomento c’è come una moratoria, qualche connazionale mi direbbe persino che lui, “almeno”, è stato sincero.

Io detesto gli almeno.

Il giorno dopo, la sbronza cede il passo alla rabbia. È con quella, e un mal di testa epocale, che decido di affrontarlo una volta per tutte.

A lunedì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qua (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Dove l’hai pescato

Mi alzo sulle punte per baciarlo.

Per un istante il movimento gli deve apparire brusco, come se io non sapessi dove andare a parare. Quando sono vicina al suo volto, ricordo: una volta l’avevo visto cadere dalla sedia.

“E questo dove l’hai pescato?” aveva riso un’amica.

Era per lei che Bruno era caduto dalla sedia: per i suoi occhi blu e i lineamenti affilati. Il tempo di vederla seduta nel bar e aveva iniziato a esagerare i gesti, fino a rovinare a terra.

L’amica Occhiblù faceva parte di un gruppo italo-spagnolo che avevo provato a unire io, con grande entusiasmo dei ragazzi. Le ragazze si erano conosciute a “danza Bollywood”, si annoiavano quando l’insegnante spiegava la storia dei passi. Uno dei ragazzi mi aveva tenuto una sera intera a spiegarmi l’aspirazione del momento: convincere i vicini del palazzo a installare l’ascensore! Anche io volevo diventare così: quella che sognava l’ascensore. Non una che passava la notte a parlare fitto con Bruno.

Alla fine gli scocco un bacio per guancia e corro via. Sulle scale, tutto è silenzio.

Il sabato successivo, a una festa allo Spazio, una ragazza un po’ alticcia si rifugia tra le braccia di Bruno. La tampinavano due della claque del Figo, che io ho ribattezzato “i Morti di Figo”. Bruno di solito incassa con benevolenza i loro sfottò, ma stavolta insorge. Con dolcezza dissuade i Morti e tranquillizza la ragazza, e all’improvviso me lo immagino a salvarmi dall’uomo col mastino. Alla faccia dell’indipendenza, del sapermela cavare da sola.

Quella notte stessa, il mio eroe si lamenta in chat perché non batte chiodo.

Sulle app d’incontri non si spiega l’insuccesso di messaggi suoi tipo: io sono un disagiato, e tu mi deluderai. Gli confesso che a volte mi sembra quasi compiaciuto di non combinare nulla, e lui protesta: certe sere, quando parla con una, spera davvero che ci scappi un bacio. Ma la tizia di turno non la pensa uguale.

Allora trattengo il fiato e digito:

“Io ti avrei baciato, l’altra notte”.

Per un po’ devo spiare lo schermo vuoto, poi lo vedo scrivere.

In effetti, ammette, quella notte si era creata un’atmosfera strana.

A venerdì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Trovate qui le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Litofaga

Ci capiamo su tutto, cazzo.

Abbiamo visto le stesse cose: le stesse okkupazioni, Jack Frusciante che usciva dal gruppo, e la stessa TV, Gialappa’s e Boris.

Strada facendo Bruno mi imita David Bowie che canta in italiano: Ragazzo solo, ragazza sola. Mentre rido come una scema (rischiando di beccarmi una secchiata da un balcone) mi rendo conto che siamo arrivati sotto casa mia. Non invitarlo a salire diventerà difficile, se ce ne restiamo lì a fare casino.

E dire che mi ero promessa di non parlargli mai! Non mi ero rimangiata la parola: ero stata messa, mo’ ci vuole, spalle al muro. 

In fondo sapevo che un giorno l’avrei trovato a cena dall’Amica. I suoi invitati erano spesso membri d’onore della Corte dei Miracoli, che lei sperava di salvare o, almeno, di sfamare una sera.

Quella volta ero arrivata per ultima, l’Amica era barricata in cucina e la visione completa del salotto mi era occultata dal solito pilastro, piazzato tra la tavola già apparecchiata e i due divani. Affacciandomi dal pilastro mi ero ritrovata davanti Bruno, che per una volta ascoltava qualcun altro.

Mi ero guardata indietro: ora o mai più.

Potevo inventarmi un’emergenza in casa, magari un’altra prodezza dell’uomo col mastino… Il mio corpo già si protendeva verso l’uscita. L’avevo fermato.

Ero impazzita? Devi ascoltare il tuo corpo, lui a volte sa le cose prima di te. Lo predicava la mia psicologa, e io per questo la chiamavo “la Petulante”: alla fine cosa aveva da dirmi, ‘sto stronzo di un corpo?

Avevo oltrepassato il pilastro e mi ero sentita addosso gli occhi di Bruno, che mi esaminavano. Avrebbe concluso poi che sembravo più giovane.

Oltre a lui e a una coppia in vacanza, c’era la Divina: era lei a parlare, mentre Bruno taceva. Somigliava a un’attrice di Hollywood dalla bellezza un po’ irregolare, a cui ero stata paragonata anche io perché avevamo le stesse irregolarità. La Divina invece era identica. 

Senza smettere di guardarla, lui si era messo a scherzare con me su quanta fame avesse.  A chi lo diceva! Lo stesso amico che aveva teorizzato la Corte dei Miracoli mi chiamava “litofaga”, perché mangiavo anche le pietre… Bruno aveva riso della definizione. A un certo punto ero stata certa che mi avrebbe aggiunta a Facebook, quella notte stessa o il giorno dopo.

“Ue’, litofaga!”.

Era stato il giorno dopo. Non aveva aggiunto la Divina: “Con quelle come lei ci metto tempo” mi avrebbe spiegato un giorno. Con quelle come me, invece, sticazzi. 

Ripenso al nostro incontro forzato mentre la notte procede senza di noi. Restiamo a ridere davanti al portone un’altra ora, poi due, finché non mi rendo conto: era di questo che avevo fame. Di una notte come questa. Bruno mi ha finito le patatine, mi è debitore! Se adesso si curvasse su di me da quell’altezza che comincio ad ammirargli, se adesso mi baciasse…

No, devo scappare. Ora o mai più.

Con lui è sempre ora o mai più.  

A mercoledì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qua (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

La Corte dei Miracoli

“Quello lì, no”.

Ripenso a questa frase mentre Bruno mi raggiunge in tre balzi, puntando le mie patatine.

Con quello lì non avrei mai parlato: me l’ero giurata la prima volta che l’avevo visto.

Inauguravano lo Spazio, lui era salito con altri sul palco a dire qualche parola, ma dal pubblico non gli lasciavano aprire bocca da quanto lo sfottevano. Mi ero irritata io al posto suo, e avevo fatto male. Ringraziando per “l’attenzione” si era scostato la zazzera dagli occhiali, e aveva accarezzato una barba che non si radeva da chissà quanto. Solo allora mi ero accorta che sorrideva.

Da quel momento l’avevo sempre visto davanti a un pubblico di qualche tipo, e sempre curvo, come a volte lo erano gli uomini alti: sembrava che il mondo gli andasse stretto.

Gli chiedevano pareri su tutto, dalla politica al porno amatoriale, e lui rispondeva a voce molto alta, tra iperboli fantasiose e doppi sensi. Era il membro perfetto della Corte dei Miracoli. Un ex compagno di università chiamava così i miei amici rimasti in Italia: artistoidi che trattavano la vita come una mano di carte già persa.

Era per questo che mi ero detta: “Quello lì, no”.

Avevo messo un mare tra me e la Corte dei Miracoli, ed ecco che quella si presentava apposta per riacciuffarmi.

“Ah, erano tue? Pensavo fossero in comune!”.

Bruno ha spazzolato i due terzi delle patatine: per lui tutto il cibo è in comune, cioè suo. È un’altra caratteristica che fa sganasciare la gente.

Anche lui ride tanto: la sua risata è contagiosa, troppo, e io ho ancora fame. Mi alzo dallo sgabello e faccio per salutare.

Ma sono appena arrivata, protesta lui. Continua a far coincidere la mia apparizione col momento in cui mi ha vista. Mentre sto per richiudere la porta a vetri, mi sento trattenere per un braccio.

“Ti accompagno. Chiacchieriamo un po’, poi torno a piedi a casa”.

Vive a cinque fermate di metro.

Mantengo gli occhi sulla strada al di là del vetro. La via del ritorno è buia e squallida, e prima di uscire ho sentito rumori sul terrazzo condominiale, da cui mi separa un muretto risibile… Sono quasi certa che era lui, col suo mastino. Lascio trascorrere un istante di troppo, poi decido.

“Dai, andiamo”.

E sorrido alla sua immagine riflessa nel vetro.

A lunedì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per motivi di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Stay hungry

È buio e ho fame.

Ho trentun anni e molti amici invidiosi, perché vivo a Barcellona: cerveza, sangría, fiesta… Beata te, mi dicono.

Rispondo che ho perso il lavoro insieme a tutto il mio dipartimento. Nel licenziarmi, il manager belga mi ha confessato che suo padre era stato un ricercatore in materie umanistiche, come me. Insomma, gli facevo un po’ pena.

Adesso è novembre, io prendo un sussidio e Steve Jobs è morto da un anno. Da un anno circola un suo discorso all’università di Stanford: “Stay hungry, stay foolish”.

Io però non so bene di cosa ho fame.

Forse stasera, mentre girovago intorno alla Rambla, mi mancano un po’ gli gnocchi sfatti. Il nonno li amava stracotti, e le donne di casa glieli preparavano così. A un certo punto mi era sembrato assurdo: l’amore doveva significare per forza adattarsi alla volontà di qualcun altro?

Alla fine approdo al bar sozzo, l’ultima spiaggia prima di tornare a casa. Ovviamente li trovo lì: i superstiti di una riunione a cui non ho partecipato. Frequento poco lo spazio artistico che gli altri espatriati chiamano semplicemente “lo Spazio”. Un po’ mi incazzo pure: non dovevano venire al concerto dell’Absenta?

“Quel locale è il passato”.

Il Figo giá si regge al bancone, da quanto ha bevuto. Che non abbia ottenuto la promozione al lavoro? Siamo strani, noi. Ci siamo lasciati dietro il precariato italiano per un’illusione di indipendenza, e a vent’anni funzionava: i cugini rimasti in Italia vivevano ancora con mamma e papà. Adesso i cugini iniziano a “sistemarsi” e noi siamo ancora nei call center, o in fila nelle segreterie di facoltà.

Ordino una birra e supplico la cameriera: “Puoi aggiungerci delle patatine?”. A quest’ora non le sarà rimasta neanche un’oliva. Accanto al bancone, un sessantenne con un cappellino da baseball sta facendo ridere una biondina alticcia. È osservando la strana coppia che intravedo lui.

Appollaiato nell’angolo tra il bancone e la parete, Bruno contempla la biondina come farebbe con un rebus. Per un momento mi sembra vicino alla soluzione.

Forse è per questo che non mi ha vista né sentita, mentre salutavo gli altri. Il sessantenne sta snocciolando una barzelletta dietro l’altra, e la biondina degna quelle battute ammuffite di una risatina ubriaca. Quando si sarà stancata, si alzerà per conto suo e se ne andrà. Vero?

Capisco al terzo sorso di birra che Bruno è invidioso. Vorrebbe essere lui il sessantenne sfacciato, alzarsi dallo sgabello e farla ridere.

Invece segue con gli occhi l’orbita descritta dal piatto di patatine che mi approda davanti. Solo a quel punto incrocia il mio sguardo.

Allora si rizza sullo sgabello e mi punta un dito addosso, scandendo entusiasta il mio nome. Lo fa ogni volta, come se mi battezzasse. Non importa che io sia senza cappotto, che abbia già vuotato metà birra.

Per lui inizio a esistere nel momento in cui mi vede.

Per il seguito, a venerdì!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

E invece va pubblicato sul blog. Non è un romanzo, come credevo. È al blog che appartiene il resoconto della mia relazione più “tossica”: al blog che l’ha seguita in diretta e mi ha aiutato a tirarmene fuori.

A partire da oggi, primo giorno di primavera, pubblicherò un estratto dal mio manoscritto Fame. Lo farò ogni lunedì, mercoledì e venerdì.

Sì, ok, lo stica**i ci sta tutto. Ma se vi va di onorarmi della vostra presenza, qua sto!

Storia di un incontro

Per prima cosa, respira.

Lascia perdere la musica, lascia che ti invada. Tanto lo farà comunque.

She’s touching his chest now

He takes off her dress now

L’importante è che l’immagine ti trovi pronta. Sì, lei gli ha toccato il petto a un certo punto, e lui le avrà di certo tolto il vestito, anche se dalle foto che hai spiato su Facebook lei sembrava molto in fissa coi multitasche anni ’90…

Vabbè, mica sei qui per giudicare. Sei qui per avere un attacco di panico.

Jealousy turning saints into the sea

Adesso fai un respiro, e torna a casa. La canzone è un ricordo. Lui è un ricordo.

E insieme a lui e al pozzo in cui ti ha ficcata hai trovato anche la strada per arrivare fin qua.

Questa non è la storia dell’incontro con lui.

Questo è l’incontro con la parte di te che sa la strada.

A mercoledì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Progetta un sito come questo con WordPress.com
Comincia ora