Archivi per la categoria: L’amore ai tempi del Raval

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Requiem per una gatta

Mi avvertono solo al mattino.

Sto scendendo le scale in fretta perché ho rimediato una sostituzione: un amico che insegna italiano ha avuto un’emergenza in famiglia, e ha affidato a me l’ultima lezione del corso. Già pregusto il viaggio in treno come una pendolare qualsiasi, e la sala professori in cui mi saluteranno con cordialità: la nuova “collega”. Forse dovrei insegnare italiano a tempo pieno…

La mia allegria, però, si infrange due piani più sotto. Il piccolo tunisino non mi guarda più con la curiosità che riserva alla “donna sola” nell’attico. Si sente molto importante a darmi la notizia, e allo stesso tempo ha timore.

La gatta è precipitata dal terrazzo condominiale.

Il pensiero mi stordisce. La sera prima ho sentito dei rumori provenire proprio dal terrazzo: il mugolio di un cane, e una voce familiare che provava a rabbonirlo. Quella voce, una volta, era gentile anche con me. Il ragazzino non è soddisfatto dei dettagli che mi ha fornito, come se avesse fatto i compiti a metà: purtroppo, si giustifica, “il signore che comanda nel palazzo” ha cambiato ancora la serratura del terrazzo comune, il che impedisce a chiunque di accedere al “luogo del delitto”.

All’improvviso non voglio più prendere il treno. Inutile fingere che sia solo il dolore a paralizzarmi: comincio a temere sul serio per la mia incolumità.

I miei genitori mi telefonano al ritorno dalla lezione, che ho tenuto con finta allegria. Mamma simula la nonchalance di quando è preoccupata davvero: adesso che vengono a trovarmi, promette, cercheremo insieme una soluzione.

Quale? Le case a Barcellona vanno per “momenti storici”, e in questo qui è impossibile trovare un buco in affitto senza un contratto di lavoro, o senza una di quelle caparre impossibili che, con una scusa o l’altra, non vengono mai restituite per intero. Ho trentadue anni, cazzo. Possibile che per trovare casa abbia bisogno di mamma e papà?

Della coppia che teneva la gatta, trovo solo il ragazzo che lavora da casa: non ha dubbi su chi sia il responsabile. 

Quando gli hanno riportato la gatta in fin di vita, ha scavalcato in un istante il muricciolo che lo separava dal terrazzo condominiale. Sul parapetto, tra i cavi tagliati delle antenne, c’erano escrementi. Eppure la gatta aveva sempre usato la lettiera: perfino io le facevo trovare in terrazzo una scatola di scarpe con dentro dei sassolini. Se l’è fatta addosso mentre “qualcuno” la tratteneva per buttarla giù, afferma il ragazzo. È un tipo alto e robusto, e il suo fidanzato è molto simile a lui: possono permettersi di provare una rabbia perfetta. Io a quella devo aggiungere anche la paura.

Un giorno scoprirò che i gatti precipitano e basta, se non ci sono reti a proteggerli. In quel momento non ne so nulla, né saprò mai se la spedizione notturna dell’uomo col mastino fosse una coincidenza, proprio quella notte. Così decido di far installare un gancio alle ante del terrazzo: per un po’ ingannerà l’ansia. Avrò più tempo per correre fuori se sento un tremolio prolungato di vetri.

Invece non trovo niente per placare il rimorso.

L’ultima volta che la gatta era venuta da me, l’avevo cacciata via. Si era messa a miagolare sotto la mia finestra in una delle notti che passavo a piangere, da quando Bruno se n’era andato. “Lasciami in pace!” avevo urlato fin dai primi miagolii, ma lei non voleva saperne di star zitta, e neanche io. Avevamo ingaggiato una gara assurda a chi urlava di più, lei sotto la luna, io nel buio perfetto. Non avevo le forze di alzarmi e aprire la porta sul terrazzo: volevo solo cancellarmi dal mondo, quella maledetta gatta non aveva il diritto di rificcarmici dentro.

Adesso è lei che non c’è più.

A lunedì per il seguito!

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La gatta e la luna

Non ci riesce.

Per lasciarmi si ingarbuglia in un’ora inutile di discussioni, che ci vede finire sul letto solo per parlare.

Sono io a gettare la spugna.

“Vuoi chiuderla qui?”.

“Sì!” grida lui.

Lo grida come quella donnina in camicia da notte gridava di essere prigioniera, la sera che doveva sancire l’inizio del mio grande amore. Il mio soltanto, a quanto pare, perché per Bruno è durato una settimana scarsa: proprio non riusciva a sopportarmi un giorno di più.

Come una malata, mi sottraggo alla luce. All’inizio, a farmi uscire di casa ci sono gli impegni allo Spazio. Riesco perfino a collaborare con Bruno a una rassegna cinematografica, omaggio improvvisato a un regista italiano appena morto. La prospettiva di vederlo comunque riesce a calmarmi un po’ l’ansia, ma a rassegna finita mi sento riavvolgere dal buio. Fortuna che, con quello, torna la gatta.

Aveva iniziato a intrufolarsi in casa mia passando per il terrazzo condominiale, che ora l’uomo col mastino ha chiuso agli umani. Di solito lei si piazzava su un lettino che mantenevo nel ripostiglio, per poterci dormire se avevo ospiti. L’unica volta che si era acciambellata addosso a Bruno, lui l’aveva accarezzata con un certo imbarazzo, poi aveva dichiarato che puzzava. Mi aveva incuriosito la combinazione tra le sue carezze impacciate e gli improperi che le dirigeva.

Subito dopo la rottura, me la sono presa con la gatta e col suo sguardo curioso: come si permetteva di intrufolarsi nel mio dolore? Un giorno ho provato a farla scendere dal lettino, e le è bastato allungare un artiglio per regalarmi un fiorellino di sangue. Alla fine mi è sembrato che scappasse via per pietà, quasi intenerita dalla mia impotenza. Da allora, mentre affondavo la testa nel cuscino per smorzare le urla, sentivo le sue zampine pestare forte il terrazzo condominiale, riportandomi a un mondo di suoni. Quella presenza lì, potevo accettarla.

La gatta ritorna una notte che sto piangendo.

Sono distesa sull’amaca che mi sono fatta montare in terrazzo, e non so con chi parlo: ti manifesteresti un momento, chiedo al buio, o ti devi sempre far pregare per tutto?

È proprio a quel punto che sento un richiamo acuto: quasi un grido alla luna, che la gatta osserva dal davanzale di mattonelle. Poi c’è un tonfo di zampette, e uno strusciare ovattato che si interrompe solo quando sento un fagotto sotto la mia schiena, nel punto in cui la stoffa azzurra dell’amaca sfiora il suolo in pendenza. Da lì la mia ospite non può certo guardare la luna, ma la cosa non sembra importarle. È come se non avessimo mai litigato, come se in tutto questo tempo mi fosse rimasta accanto.

Decido che è un segno, perché mi serve crederlo. Ecco che mi sono ridotta ad aver bisogno di un segno. Ma ne ho abbastanza dei pasti che sto saltando, delle notti che passo sull’amaca a piangere e parlare in diretta con Dio.

La gatta sarà il mio nume tutelare, uno scudo felino contro il mio primo mito di fondazione: Partenope che non riesce a sedurre Ulisse, e per questo si lascia morire. Ho abbandonato quella storia sull’altra sponda del Mediterraneo, ma non è servito. Sei tua, mi dice il mito, finché non incroci il desiderio di un uomo. In quante ci abbiamo creduto, e per quanto tempo?

Eppure sulle spoglie di Partenope sorge una città.

A lunedì per il seguito!

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Non convinco

Si addormenta dopo cena.

Dopo la sua breve performance da fidanzato si è incupito: è stanco, dice, il giorno dopo deve tornare a casa presto. Mi appare davanti un’immagine che mi perseguita da un po’: un gatto a cui provo invano ad abbassare la testa. La bestiola gira il collo, mi schiva la mano. Ogni volta l’immagine svanisce prima che io sappia se ci sono riuscita, se il gatto è domato.

Perché Bruno è rimasto a dormire, visto che deve fare una levataccia? Ma quando si alza è giorno fatto, e io sono al computer.

Mi è arrivata la risposta della casa editrice appena fondata, che mi aveva richiesto la scheda di un libro. La mia intermediaria è dispiaciuta: le editrici non sono convinte. Manca il confronto tra il libro che mi hanno incaricato di leggere (un romanzo di cinquecento pagine sui lupi mannari) e altri volumi del genere. Sono livida: per cinquanta euro a scheda volevano pure un trattato di letteratura comparata sulla licantropia?

Eravamo rimaste che mi pagavano, chiede l’intermediaria, o la prova era gratuita? Nel primo caso, mandassi pure il mio conto corrente.

Segnalo a Bruno di farsi il caffè, poi inizio a martellare la tastiera: quelle pezzenti delle “editrici” si tenessero pure i loro quattro soldi! Pretendevano di sfruttarmi a cinque euro l’ora e si chiedono pure se mi devono pagare… Sono già alla frutta prima ancora di iniziare, e in ogni caso si meritano la rovina.

Mentre serve il caffè nelle tazze, Bruno si unisce alla mia indignazione: le delusioni lavorative sono un argomento che riesce a unirci. Ma lui è svogliato nel consolarmi, e io sono furibonda. Non è solo per la mail, o per le ore perse a leggere un libro di cui non mi fregava niente. Lui siede davanti a me, finisce la colazione e poi annuncia: “Rimango un altro po’”. Come se il tempo che si è prefissato di dedicarmi non fosse ancora scaduto. Ma ha lo zaino già in grembo, gli auricolari pronti.

Esito a lungo. Se sto zitta andrò a cena da lui, conoscerò quell’amica che a quanto ne so è dalla mia parte. Dimostrerò a Bruno che è il caso di ammettermi ufficialmente nel suo mondo, visto che lo abito già da un pezzo.

Invece non riesco a tacere. Sento qualcosa bloccarmi il respiro, come il residuo vischioso di un raffreddore. Se non lo sputo via resterà lì anche dopo la benedetta cena con l’amica di Bruno. Resterà sempre, non potrò più respirare.

Punto gli occhi su di lui e sparo. Non sono arrabbiata solo per il lavoro perso: c’è qualcosa di strano nel modo in cui lui mi ha trattata l’altra notte, e mi sta trattando adesso. Sta recitando un copione che non sembra neanche aver letto. È evidente che non crede a una parola di ciò che dice.

Non dimenticherò mai lo sguardo che mi rivolge. I suoi occhi si spalancano un istante, poi si fanno tristi, rassegnati. L’ho colto sul fatto.

Per quanto si sforzi, in fondo di me non gliene frega niente.   

A venerdì per il seguito!

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Prigioniera

Cosa diavolo ho visto?

Sono a cento metri da casa di Bruno, dalla cena che a quanto pare ci consacrerà come coppia. Ma devo tornare sui miei passi: dietro a un portone con le inferriate moderniste, una donnina molto anziana, in camicia da notte, sta spingendo i vetri con tutte le sue forze. L’hanno chiusa dentro, mi grida, una donna malvagia l’ha ingannata. Che sia la vittima di un furto, ancora sotto shock? Provo a bussare ai citofoni, ma non risponde nessuno. Bruno accorre alla mia chiamata con una velocità che non mi aspettavo: mi avverte che quella è una casa di riposo.

Alle spalle dell’anziana si materializzano un uomo e una donna in camice verdolino. Questa fa sempre così, assicura l’uomo, è pazza. Non è vero, grida la diretta interessata, e pure io accenno a protestare, ma l’uomo non mi ascolta: sta per portarsi via quella donnina in camicia da notte, e l’unica cosa che posso fare è prometterle che verrò a visitarla. Il pensiero sembra tirarla un po’ su.

Arrivo a casa di Bruno che sono ancora senza parole. Lui inizia a raccontarmi di una nonna lontana che conosce solo il dialetto, e in nessun momento accenna a noi due, alla storia che inizia una volta per tutte. Col mio strano ultimatum gli ho dato un’occasione d’oro: riconoscere che stiamo insieme senza mai ammetterlo ad alta voce. Bastava l’invito a cena. In fondo lui ama cucinare.

Non mi arrendo: sul suo letto a una piazza provo a scucirgli le parole, come se fossero una formula magica che spazzi via l’ansia. Allora, stiamo insieme o no? Lo vedo soppesare la domanda.

“Se no, non ti invitavo” risponde.

È comunque una festa.

Il mio corpo esulta di una gioia perfetta, e mi risveglio pure con meno lividi del solito. Rivestendomi ricordo il testo di una canzonetta Brit pop, dei tempi del mio Erasmus: questa potrebbe essere la fine di tutto, quindi perché non ce ne andiamo in un posto che conosciamo solo noi?

Che sciocchezza, questo per noi è l’inizio! E poi Bruno troverebbe quel pezzo troppo commerciale.

Tornando a casa passo davanti alla mia chiesa preferita, Sant Pau del Camp: ho una voglia improvvisa di dire grazie a qualcuno. Ma vengo fermata all’ingresso: una donna seduta a un tavolo disseminato di santini mi fa capire che, se non sgancio un obolo, la mia presenza lì non è gradita.

Allora saluto senza rimpianti la navata avvolta in penombra. Dietro la chiesa ci sono due file troppo ordinate di alberi immersi nel sole, piantati apposta per fare ombra a qualche auto, ma all’improvviso quel boschetto improvvisato mi sembra più sacro della navata buia, dei santini in vendita.

Osservando il sole tra le foglie penso: se ci sei, grazie. Fa’ che stavolta vada bene.

Ma l’immagine della donnina che scuote il portone non mi abbandona più.

A venerdì per il seguito!

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Ultimatum

Non conosco più le regole.

Lui “passa” da me, si emoziona, mi emoziona. Ci sono le risate e il cibo condiviso, la passione e il sonno. Poi capisco dal suo silenzio che sta per andare. Prima di uscire si infila gli auricolari, e io divento rumore di fondo. Lo dice anche lui: finché sta con me, sta bene. Poi scivolo via dalla sua giornata, e non sa come impedirlo.

Una sola volta non mi ha resistito: eravamo allo Spazio, io esibivo un taglio nuovo e indossavo un vestito di marca, appena comprato in offerta. Lui aveva avuto una brutta giornata, di quelle che ti fanno credere di essere fuori dal mondo. Voleva sentirsi normale. Continuava a dirmi che ero proprio carina, quella sera. Mi ha abbracciata tra i sacchi della spazzatura che ci eravamo offerti entrambi di buttare, andando via insieme. Non l’avevo mai visto così, non in strada, davanti ai passanti. Mentre mi rannicchiavo tra le lenzuola e la sua pelle odorosa di cibo, l’ho scoperto a fissarmi con un sorriso benevolo: ero così “brava”, mi ha detto, che avrebbe voluto che tutti gli altri mi provassero. Anche stavolta non si è spiegato le mie lacrime improvvise, e si è affrettato ad abbracciarmi: il suo voleva essere un complimento, autentico. Gli dispiaceva che l’avessi presa così, quando ero con lui dovevo sentirmi sempre a mio agio.

C’è un rituale che ormai accompagna le nostre rotture: prima di infilarsi gli auricolari mi dà tre baci, i primi due sulle guance e l’ultimo, più lento, sulla fronte. Lui si sente molto nobile nell’addio: sta facendo la cosa giusta, si ripete, a costo di non battere chiodo per chissà quanto. Poi torna a “passare”, e io non lo mando via. Non lo so fare più.

Gli sembra normale questa roba?

Questo gli scrivo, dopo che mi ha piantato di notte sulla Rambla per preparare una salsa piccante. Quello che non gli scrivo è che ho cominciato anch’io a paragonarmi alle altre. Per strada, nei negozi, le osservo una a una e mi dico: “Questa gli piacerebbe più di me, questa no”. È un vizio che non mi abbandonerà mai per davvero, che tornerà nei periodi più agitati. Per sentirmi più sicura mi “faccio bella” con due soldi, vado spesso da Kiko e nelle catene di parrucchieri a buon mercato (una volta gli è piaciuto il mio ritorno al biondo scuro, quasi castano). Cerco vestiti di seconda mano che mi evidenzino i “punti forti”, e facciano sparire il resto. Mi ripeto che lo faccio per me.

I complimenti altrui non mi saziano. L’unica a rimanere perplessa dal mio cambiamento è la Divina: quella troppo bella perché Bruno la aggiungesse a Facebook in contemporanea con me. A una serata di danze brasiliane mi squadra i capelli dalla tinta giallastra, sbagliata da una parrucchiera inesperta. Non mi dice niente, ma mi arrabbio lo stesso: non siamo mica tutte bellissime al naturale, come lei! Sulla Rambla i turisti ubriachi mi chiamano Shakira o Lady Gaga, a seconda di come mi sia pettinata, e quasi mi diverte l’idea di rievocare donne così diverse.

Ma di questo a Bruno non scrivo nulla.

La sua riposta al mio sfogo arriva la sera successiva: non riesce a vederci come coppia, sta provando a capire perché. C’è ancora la nobiltà di quando parla di chiudere, privandosi dell’unica “occasione” sicura, ma la chiosa è ambigua, come se lasciasse a me l’onere dell’ultima parola.

Lo contatto all’istante: e quindi? Non ho capito, che vuole fare? Va fuori dai gangheri. Sapeva che gli avrei scritto proprio in quel momento! Sta per uscire ed è già in ritardo, lui che mi fa aspettare anche due ore quando l’appuntamento ce l’ha con me. E poi non può spiegarsi meglio, va bene? Non sa come farlo. Capisco che si sente molto generoso, a parlarmi ora che dovrebbe solo scappare. È tutto preso da quell’impegno più urgente di me.

Ripenso alla storiella della rana nella pentola: se questo schifo fosse successo solo un mese prima, gli avrei riso in faccia e l’avrei cancellato dalla mia vita. Ora non ci riesco. Con Bruno non è mai tutto orribile, né tutto fantastico: c’è sempre la giusta miscela che lo fa tornare, che mi fa aprire la porta da cui lui uscirà con gli auricolari a palla, riducendomi a un rumore di fondo.

Chissà se mi fa una colpa anche di questo, della mia incapacità di bastargli.

Io invece sono nelle sabbie mobili. Non voglio credere di aver perso tutto questo tempo, e allora aspetto, e ne perdo ancora di più.

Ma ora so cosa succederà. Bruno tornerà presto a “passare”, e una sera saremo allo Spazio, e i Morti di Figo lo stuzzicheranno con domandine su questa o quella ragazza. Lui darà il suo “parere tecnico” proprio davanti a me, a quella che avrà finto di incontrare giusto sotto il portone, un’ora dopo averle lasciato dei lividi addosso.

Allora qualcosa in me si incepperà.

Quando succede tutto questo, è l’ultima volta che fuggo. Per arrivare a casa imbocco scorciatoie, evito i passanti sulla Rambla senza esimermi dal dare giudizi: questa gli piacerebbe, quella no. 

Una volta a casa, il messaggio che mando a Bruno è un ultimatum.

Lo rivedrò solo se stiamo insieme, davvero. Se accetta mi invitasse a cena da lui, per una volta. Altrimenti gli basta non rispondere, e sparirò dalla circolazione. 

Quando mi arriva il suo messaggio è tardi, e io vorrei solo dormire. Mi devo calmare un bel po’, prima di leggere.

A mercoledì per il seguito!

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Alla più bella

Arriviamo insieme.

Arriviamo trafelati e in disordine, ma davanti agli altri dello Spazio lui si comporta come se ci fossimo appena incontrati sul portone.

Decido di ignorarlo. Vivo a Barcellona, ci sono cause migliori da perdere! E lo Spazio ha il problema di tutti gli spazi: prima era meglio. A sentire gli habitué se n’è andata troppa gente, lasciando le redini al Figo e alla sua claque di Morti. È una situazione che all’improvviso voglio cambiare, che so cambiare. Voglio implicarmi in qualcosa, e questo desiderio si traduce sia in spagnolo che in catalano con “voglio bagnarmi”. A Bruno lo scrivo in catalano, per non dare adito a equivoci imbarazzanti: sto per occupare uno Spazio che lui considera più suo che mio, memore com’è di una presunta epoca d’oro che io mi sarei persa.

Comunque sia, lì dentro c’è posto per entrambi.

Lui torna a “passare” da me proprio il giorno della mia prima riunione, “così ci andiamo insieme”. Dice che si ripromette sempre di non tornare, ma poi lo fa, e io non riesco più a mandarlo via.

La riunione è partecipata, c’è addirittura qualche donna. Progettiamo esposizioni, feste per raccogliere fondi, e una serata di beneficenza che si terrà a novembre: con l’entusiasmo della neofita avanzo proposte anche a verbale concluso. Quando restiamo in quattro gatti, e pure Bruno si è eclissato, uno dei Morti di Figo propone di reclutare una bella frequentatrice dello Spazio come cassiera alla prossima festa, a patto che sfoggi una scollatura da antologia. La trovata crea imbarazzo perfino tra gli uomini presenti. Lo racconto poi a Bruno mentre restiamo a chiacchierare sul letto: mi diventa femminista.

“Facciamo tanto i compagni, e poi come strategia di marketing mettiamo alla cassa la più bella!”.

Ancora classifiche. Ancora il promemoria che la più bella è un’altra, è sempre un’altra. Quando è arrabbiato con qualche Morto di Figo, Bruno ne critica prima i difetti, poi i successi, come se fossero stati usurpati a lui. La fidanzata “gnocca” rimane in fondo all’elenco, una postilla alle attestazioni di status, ma intanto sta con uno stronzo, mentre lui prova a fare sempre la cosa giusta… e si deve accontentare di me. Quest’ultima parte non ha bisogno di dirla. Quando glielo farò presente mi risponderà che “ci siamo accontentati a vicenda”, senza rendersi conto che intendiamo cose diverse: io mi sono accontentata delle sue attenzioni a metà, e lui di me, di me e basta.

A volte lo guardo con una pena che non so più provare per me stessa, e per la mia ostinazione a resistere, aspettare. Cosa direbbero allo Spazio, se sapessero di noi due? Chi di noi due si starebbe “accontentando”?

“So che hai un buon successo di pubblico” commenta lui quando, come una bambina, gli riferisco i complimenti di qualcun altro. È lui a consegnare il premio della critica, e io non sono neanche nella rosa finale, altrimenti mi tratterebbe meglio, questo mi è chiaro. Allora continuo a sforzarmi per vincere questo cazzo di premio.

Ma nessuno allo Spazio si fa domande: da me vogliono altro.

Alla fine di un pranzo collettivo in cui ho cucinato per quaranta persone (scuocendo la pasta perché Bruno non si decideva ad assaggiarla), mi chiamano da parte in due o tre. Voglio essere la coordinatrice dello Spazio? Solo per qualche mese. È vero che sono iscritta da poco, ma lavoro sodo, e poi mi aiuteranno. Ci penso solo un momento.

A quanto pare non bisogna essere la più bella, per diventare quella che si sbatte di più.

A venerdì per il seguito!

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Ogni altra burrasca

Per quel tuo cuore che io largamente preferisco ad ogni altra burrasca (Amelia Rosselli).

Al risveglio percepisco la sua assenza.

Prima ancora di aprire gli occhi avverto il lenzuolo senza pieghe, e il piumone che scende piatto accanto a me. Il freddo mi invade da qualsiasi lato mi giri. Dal terrazzo condominiale non sento fruscii, né latrati soppressi, ma oggi la cosa non mi conforta. Tendo l’orecchio in cerca di passettini: d’estate la gatta dei vicini mi entra addirittura in casa, e me la ritrovo all’improvviso sotto al letto. Adesso, anche se facesse caldo, avrei paura a lasciare le imposte aperte. Non so perché la gatta mi abbia adottata, perché venga anche quando non ho cibo per lei.

Il buco che avverto allo stomaco non verrà colmato dal poco latte rimasto, anche se è tutto per me, e nessuno mi divorerà il pane cafone portato in valigia, che tanto si è fatto già gommoso.

Non ho tempo per le traduzioni in nero: ho un appuntamento tra un’oretta, con un gruppo di compaesani in vacanza. Mentre mi insapono davanti allo specchio mi chiedo: perché sono tornata a frequentare italiani? Troppi di loro pretendono ancora la trafila di farsi desiderare, cedere al momento giusto, adattarsi al ruolo dell’animale braccato che, però, si lascia catturare “solo quando vuole”… Questo balletto non mi interessa, non lo inizierò ora. Ma all’improvviso so perché, per qualcuna, è un’arma di difesa.

A pranzo coi compaesani mi scopro a scimmiottare gesti che un tempo mi sorgevano spontanei. L’arte di sfottersi a vicenda, così tipica delle mie parti, è diventata per me un gioco noioso. Che bisogno abbiamo di saltarci sempre alla gola?

Gli altri perseverano: in un dialetto che non so imitare fanno la gara a “chi è più fallito”, ma poi serrano i ranghi, con la familiarità degli amici cresciuti nello stesso palazzo. Io sono cresciuta in un villone anni ’70, con la proibizione di giocare in strada coi figli dei vicini: passavano le macchine. E il dialetto di quei bambini era il codice di una tribù a cui non dovevo appartenere.

Quando mi arriva davanti il dolce, che non voglio nemmeno assaggiare, penso che non appartengo più a nessuna terra, a nessuna lingua. Appartengo solo alla pelle di Bruno. E a modo mio la possiedo.

Al ritorno, sulle scale c’è troppo silenzio. L’odore si fa insostenibile man mano che salgo: i bisogni di un cane. Sulla parete dell’ammezzato, una scritta dal colore sospetto avverte che qui dentro ci sono topi. Accanto alla scritta c’è la porta dei filippini, colpevoli di aver invaso di antenne il terrazzo condominiale. Il figlio più giovane non può più giocare in terrazzo, così lo fa in strada, col piccolo tunisino del quarto piano. Se mi vede passare mi saluta in italino perfetto. Sua madre è quella che ha “risposto male” all’uomo col mastino, che l’ha punita tagliando i fili delle antenne. È stata questa madre filippina a chiamare per prima l’agenzia immobiliare, perché ripristinasse la serratura del terrazzo. Ma l’uomo col mastino l’ha cambiata ancora una volta, poi due. Tanto quella è casa sua.

La polizia dice che per intervenire le servono prove.

Turandomi il naso raggiungo il mio piano e mando un messaggio a Bruno. Gli dico: va bene, si fa come vuoi tu.

È l’ultima volta che sono io a tornare.

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Se resto

Alla fine un’ora è poco.

È un’altra gag di Bruno arrivare tardi, ammesso che arrivi: un’ora è il minimo, scherzano a volte i suoi amici dello Spazio.

Il mio, di Amico, mi chiede in collegamento da Napoli chi me lo fa fare. E dire che da un po’ rigavo dritto! Avevo preso casa da sola, e mollato il mondo accademico appena avevano smesso di pagarmi. Avevo lavorato il tempo sufficiente a beccarmi un sussidio. Se li invitassi a pranzo, quei due o tre matti che mi vengono dietro non si presenterebbero certo con un’ora di ritardo! Cos’altro voglio?

Sentire, rispondo. “Rigando dritto” ho rimediato un licenziamento improvviso, un vicino che distrugge le antenne, e amici che desiderano, sopra ogni cosa, installarsi un ascensore. Con Bruno è assurdo che ci capiamo in tutto, ma è così. Vorrei non sentire ciò che sento, ma ciò che sento è lì. E sono stanca di avere paura. Di cosa, chiede l’Amico. Rispondo: di scoprire ciò che voglio.

L’Amico mi informa che sembro la sorella scema di Laura Pausini. Poi si arrende, tanto Bruno ha appena suonato al citofono.

Una volta che ha divorato il pranzo, il mio ospite difende con ferocia il suo diritto a pensarla a modo suo, ad “avere dei gusti”, a fare ciò che gli pare. E allora lo dicesse, mi ostino: dicesse che c’è qualcosa che va al di là delle sue hit parade, dei suoi schemini così ordinati! Quando l’ho messo proprio alle strette, lo sento sbottare:

“Vuoi sentirmi dire che ti stenderei? Come se avessi problemi ad ammetterlo!”.

Lo urla come se litigasse con sé stesso, poi se la prende con me: sono contenta, adesso? Forse è solo imbarazzato, forse non sapeva dirlo in altro modo. Nel mio salotto cala un silenzio che non so riempire, perché non so cosa voglio. Così è lui a rompere gli indugi.

Accostando la sedia mi abbraccia come se stesse affondando, e volesse aggrapparsi alla mia schiena. Sembriamo controfigure in Titanic: due passeggeri che non hanno raggiunto in tempo la scialuppa. A un certo punto mi aspetto davvero che una voce fuori campo gridi: “Stop! E ora, rifatela meglio”.

Almeno le sue labbra sono piacevoli da mordere. Dio, quanto detesto gli almeno.

Dopo mi chiede se può restare a dormire. Mi giro verso il libro che tenevo già pronto sul comodino: un’edizione economica, con immagini tratte dal film. È la storia famosissima di una coppia che si forma solo quando tutti e due sono disposti a cambiare.

“Ti spiace se resto, allora?”.

Dalla copertina, Keira Knightley mi sorride con gli occhi altrove.

A venerdì per il seguito!

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Ti avevo avvertito

La mia è una rabbia ipocrita.

Di ciò che vomito a Bruno in chat penso ogni parola: gli sembra normale catapultarmi in quella sua classifica campata in aria? Scommetto che alle donne dà anche i voti da uno a dieci!

Ma ciò che mi ferisce di più è che, per lui, non sono neanche un sette.

Bruno mi oppone una logica stringente: eppure me l’aveva premesso! Lui non sa mai cosa dire e cosa no, cos’è che il mondo è disposto a sentire. Sembra convinto che mettere le mani avanti lo assolva da tutto. Io ti avevo avvertito.

Anche l’uomo col mastino mi aveva avvertito. Eravamo quasi amici: l’italiana dell’attico e il tipo che era cresciuto nel palazzo, restandoci grazie a un antico calmiere sugli affitti. Si censurava quando voleva prendersela coi guiris, stranieri bianchi come me: ci chiamava turistas. Aveva incassato impassibile il mio “No, grazie” quando, dopo una birretta dietro l’angolo, mi aveva invitato a prendere un bicchiere da lui. Prima mi aveva mostrato scherzando gli addominali scolpiti, e mi aveva pure spiegato che, da bambino, giocava a calcio dove adesso c’era il mio terrazzo. Quella era casa sua, mi aveva avvertito. Eppure non poteva più abitarla a suo piacimento: il mio terrazzo era chiuso da un muricciolo, e quello attiguo, accessibile all’intero condominio, era invaso “dalle antenne dei filippini”. Adesso come faceva lui, a prendere il sole nudo?

Aveva tagliato i cavi delle antenne senza sapere che tra quelle c’era anche la mia. Pensava che gli dessi ragione lo stesso: tanto ce l’aveva coi filippini, io a casa sua potevo restare! Poi aveva scoperto cheç, in fin dei conti, non gli ero tanto solidale. Era stato poco prima che si procurasse il mastino.

Anche adesso sento rumori, ma è troppo presto. Da quando ha cambiato il lucchetto del terrazzo condominiale, l’uomo col mastino sale soltanto di notte. Ma il piccolo tonfo sul mio terrazzo mi spaventa un istante solo: è la gatta dei vicini. La vita non fa poi così paura.

Bruno in chat continua a fare quello ragionevole: vatti a fidare di una che fa l’amicona, quella con cui si può parlare di tutto!

La gatta tigrata mi fissa, in attesa delle crocchette. La osservo e digito:

“Ti va di parlarne dal vivo? Vieni a pranzo da me sabato prossimo”.

A mercoledì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qua (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Dove l’hai pescato

Mi alzo sulle punte per baciarlo.

Per un istante il movimento gli deve apparire brusco, come se io non sapessi dove andare a parare. Quando sono vicina al suo volto, ricordo: una volta l’avevo visto cadere dalla sedia.

“E questo dove l’hai pescato?” aveva riso un’amica.

Era per lei che Bruno era caduto dalla sedia: per i suoi occhi blu e i lineamenti affilati. Il tempo di vederla seduta nel bar e aveva iniziato a esagerare i gesti, fino a rovinare a terra.

L’amica Occhiblù faceva parte di un gruppo italo-spagnolo che avevo provato a unire io, con grande entusiasmo dei ragazzi. Le ragazze si erano conosciute a “danza Bollywood”, si annoiavano quando l’insegnante spiegava la storia dei passi. Uno dei ragazzi mi aveva tenuto una sera intera a spiegarmi l’aspirazione del momento: convincere i vicini del palazzo a installare l’ascensore! Anche io volevo diventare così: quella che sognava l’ascensore. Non una che passava la notte a parlare fitto con Bruno.

Alla fine gli scocco un bacio per guancia e corro via. Sulle scale, tutto è silenzio.

Il sabato successivo, a una festa allo Spazio, una ragazza un po’ alticcia si rifugia tra le braccia di Bruno. La tampinavano due della claque del Figo, che io ho ribattezzato “i Morti di Figo”. Bruno di solito incassa con benevolenza i loro sfottò, ma stavolta insorge. Con dolcezza dissuade i Morti e tranquillizza la ragazza, e all’improvviso me lo immagino a salvarmi dall’uomo col mastino. Alla faccia dell’indipendenza, del sapermela cavare da sola.

Quella notte stessa, il mio eroe si lamenta in chat perché non batte chiodo.

Sulle app d’incontri non si spiega l’insuccesso di messaggi suoi tipo: io sono un disagiato, e tu mi deluderai. Gli confesso che a volte mi sembra quasi compiaciuto di non combinare nulla, e lui protesta: certe sere, quando parla con una, spera davvero che ci scappi un bacio. Ma la tizia di turno non la pensa uguale.

Allora trattengo il fiato e digito:

“Io ti avrei baciato, l’altra notte”.

Per un po’ devo spiare lo schermo vuoto, poi lo vedo scrivere.

In effetti, ammette, quella notte si era creata un’atmosfera strana.

A venerdì per il seguito!

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