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di Sarah Gignac

Brain in a cage, di Sarah Gignac

Lo so, come ci si sente. Abbiamo aspettato per secoli una soluzione, ed è arrivata. Pure efficace. Solo, non era quella che ci aspettavamo.

Volevamo un ritorno dell’ex che aveva sbattuto la porta, e che in quel messaggino che si degnava di mandarci ogni tanto cominciava perfino a chiederci “come stai”, invece che parlare solo dei suoi problemi… Roba che di qui a 10 anni ci offriva perfino un caffè. Quand’ecco che improvvisamente ci ritroviamo catapultati in una nuova storia, che in più alle difficoltà di tutti gli inizi deve convivere con questo macigno del ricordo, dell’averla cominciata dicendo “Non sono ancora pronto”. Anche se i fatti ci contraddicono abbondantemente su quest’ultimo punto.

Oppure stavamo lì a sperare nel trasferimento del collega odioso all’estero, così avremmo avuto i suoi incarichi, e scopriamo che ha trovato il modo di tenersi la borsa o lo stipendio qua e pure in Papuasia citeriore. Però c’è questo scambio accademico, senza borsa, con un’università che ci fa capire che un po’ di soldini, a lungo andare, potrebbero uscire. Ed eccoci a fare la valigia, decidendo di crederci.

Oppure… Fate voi. Ognuno ha i suoi esempi di soluzione che non era quella che ci aspettavamo, e che come prima reazione abbiamo respinto.

Sapete qual è il problema? Secondo me, almeno. Che non sappiamo vivere fuori dalla nostra testa. Che siamo così intrappolati nei nostri schemi, nella nostra idea di come potrebbe andare, che non sappiamo visualizzare nient’altro, pensare a nient’altro, concepire nient’altro che la soluzione che avevamo deciso per noi. Con lo stesso spaesamento che proviamo quando dobbiamo arrivare da qualche parte e, invece di ritrovare il percorso arzigogolato che era l’unico che sapessimo fare (ripetendo perfino i punti in cui ci eravamo sbagliati ed eravamo stati costretti a tornare indietro), troviamo proprio la scorciatoia, e allora ci sembra che qualcosa non vada.

Ma, mentre la nostra mente è impegnata a dirci che o si fa come dice lei o niente, il nostro corpo già sta andando.

Diamogliela, una possibilità, al corpo. A quello vero, che vive in un mondo vero, che ci ama nella vita reale. Insomma, capitemi, per “corpo” e “mente” intendo un’antinomia inesistente che si riferisce a diverse parti di noi, senza alcuna pretesa scientifica (per fortuna). Quello che voglio dire è, ebbene sì, il solito “usciamo fuori dagli schemi”, con una postilla: attenzione, perché sono gabbie che ci creiamo da soli, e proprio, va da sé, per ingabbiarci.

Se ci alleniamo a vedere la realtà fuori da quelle, scopriamo che non solo è l’unica possibile, ma che a prenderla per il verso giusto, spesso e volentieri, non è affatto male.

wrongwayRiassumendo: abbiamo davanti la possibilità d’iniziare una nuova vita. Un nuovo lavoro, una nuova relazione, una nuova terra in cui mettere radici.

Non lo facciamo perché siamo ancorati alla vita di prima (di prima di separarci, prima di essere licenziati, ecc.).

Io la butto lì: e se questa vita di prima non fosse la migliore, per noi? Pensiamoci: non ha retto, non ha funzionato. Se è così, nel nostro ancorarci a un passato ormai scomparso, ci stiamo facendo condizionare da un’imposizione sbagliata, che ci siamo creati noi stessi, in un altro momento della nostra vita, e che ora ci impedisce di attraversare il presente.

Lo sto sperimentando con diversi amici catalani che dubitano di riuscire a finire la tesi di dottorato (che specialmente qua è un’impresa babelica e astrusamente alienante). Ce ne sono di vari tipi:

– quelli che intanto che si addottorano hanno un altro lavoro e non sanno come conciliare le due attività;

– quelli che hanno iniziato in un momento in cui la tesi ti garantiva almeno un posticino precario di ricercatore, e ora si chiedono se valga la pena finire;

– quelli che hanno deciso che a non finire la tesi sarebbero dei falliti, dei poveracci, dei perdenti, ma intanto sono diventati una persona molto diversa dal ventenne che l’aveva iniziata.

Come vedete, gli appartenenti alle ultime due categorie, specie l’ultimissima, partono da una norma che si sono costruiti da soli: io sono la mia tesi, se non la finisco non sono più io. Quindi, se la vita li porta a fare tutt’altro, visto che il posto all’università è praticamente sfumato, non si sentono in grado di accettarlo.

Con le relazioni viene ancora più facile, capire quando stiamo corteggiando un vecchio sogno: l’idea era stare insieme per sempre, vero? Specie con quei fidanzamenti “dal basso” dalle mie parti, che mi si dice stiano scomparendo. Abbiamo costruito un progetto intorno alle persone che eravamo in un momento diverso della nostra vita e questo sogno non ha retto al tempo, a tutte le sorprese imprevedibili che riserva: partenze, lavori improvvisi, momenti di dura prova, nuovi incontri…

Ma questa telenovela di tira e molla non vogliamo lasciarla andare, neanche quando incontriamo qualcuno che ci dà la serenità e la devozione che era in fondo il vero obiettivo, il vero punto di tutta la storia, il motivo per cui avevamo cominciato a conoscere quella persona prima ancora d’innamorarcene.

Allora, pensate a quanto sia ingiusto che qualcosa che abbiamo deciso per noi in un altro momento condizioni ciò che stiamo facendo qui e ora.

E quando, oltre a pensarlo, lo sentirete bello forte nelle viscere (e da qualche parte, credetemi, non aspettate altro), allora verrà da sé. Ci sarà del lavoro da fare, l’accettazione, la separazione graduale da quello che eravamo, e volevamo essere. Ma è tutta in discesa, se lasciamo spazio a quella parte di noi che sa che l’unica cosa che conta è la nostra vita in questo benedetto momento.

Il problema è quando esigiamo da noi stessi una vita che non esiste più, perdendoci quella che potremmo avere adesso, e che un giorno non lontano potrebbe stancarsi di aspettare.

https://www.youtube.com/watch?v=9Q7Vr3yQYWQ

miróIl problema di stare sempre con musicisti: vado a un concertino col mio ragazzo, che stiamo insieme da poco, a un festivalino hipster di provincia, e cosa c’è? Il gruppo del mio ex, che suona la chitarra. Non che non ce lo aspettassimo, o che fra il mio nuovo ragazzo e il mio ex non corra buon sangue. Anzi, sono amici. La differenza è che uno mi ama e l’altro non mi ha mai amata, ed è troppo poco per separare due uomini, e va bene così.

Allora ci mettiamo tra il pubblico, applaudiamo alle prime canzoni, ci baciamo un po’ tra una pausa e l’altra, finché non succede. Finché il cantante non prende il microfono e dice:

– Questa canzone l’ha scritta il nostro chitarrista, speriamo vi piaccia.

E fin dai primi accordi capisco per chi è. Per quella che mi ha preferito, per quella che ha amato e a me mai, a me niente, per quella che ha inseguito lasciando me nella merda e che a sua volta ha lasciato nella merda lui.

E allora che faccio? Sorrido, mi giro verso il mio ragazzo, gli cingo le spalle con le mani mai abbastanza lunghe per afferrare i suoi pensieri, e la balliamo. Lentamente. Sul suo petto sento il sole che la canzone caccia via da sé, una canzone di amore frustrato che sembra la mia, fino a poco tempo prima. Capisco che io ne sono uscita, lui che ora suona mestamente la chitarra, sgarrando anche qualche accordo, no.

E allora sento la cosa più strana del mondo: compassione. Sento che il mio amore e quello che mi corrisponde e quello dell’altro sul palco e quello dell’altra che l’ha mollato, che gli amori mai dati e quelli solo ricevuti, siano un’unica palla gigante che non sappiamo come afferrare. Ma ci proviamo, con tutte le nostre forze, meglio che possiamo. E in quel momento la palla gira con me, a ritmo lento di note un po’ stonate, oblique come il bacio che adesso mi concedo, viva, felice.

Resta la ferita, restano le crepe. Ma oggi ho letto questa frase, dice che è di Leonard Cohen:

C’è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce.

E dopo questo, che altro vuoi dire?

https://www.youtube.com/watch?v=nkoaP6ce4z8

paracaduteQuesta la scrivo così come me l’hanno spiegata, e mi scuso con chi capisce di aerei se non è accurata. La metafora mi serve proprio come me l’hanno detta.

Dice che quando un aereo precipita, c’è la fase di stallo. L’aereo ha due possibilità: buttarsi giù in picchiata nella speranza di riprendere quota; buttarsi giù in picchiata e schiantarsi.

Comunque vada, l’aereo deve precipitare, sperando non sia per sempre.

Credo che questo ci succeda spesso, quando affrontiamo una crisi. Ci dicono “fatti coraggio” e fanno peggio, con le migliori intenzioni. Se neghiamo la crisi, quella ci sarà lo stesso. Se fingeremo di star bene, idem. Se riusciamo davvero a reagire bene fin dall’inizio (e attenzione all’iperattivismo, a volte è solo un modo per fingere che vada tutto bene), meno male, ma forse per un po’ dobbiamo assecondare la tendenza a precipitare, senza fare molto altro.

Temiamo che così non prenderemo mai più quota? Dobbiamo provarci. A volte non abbiamo altra scelta.

A volte, a cercare di lottare con le correnti avverse fingendo che non stiamo precipitando, precipitiamo prima e peggio, senza atterraggio di fortuna.

Allora, pensiamo a noi. Pensiamo a star bene.

Precipitiamo per un po’. Prima lo facciamo, prima torneremo su.

wakeupNo, non voglio fare come le vostre amiche, e dirvi di trovarvene un altro. Non voglio fare come chi ogni tanto vi butti lì il celebre “Chiodo scaccia chiodo…”.

So che dovete arrivare alla vostra soluzione, coi vostri tempi.

So che, in barba a qulasiasi manuale sulle relazioni sane (?) e qualsiasi dichiarazione d’intenti contro la dipendenza sentimentale, mi sarei tenuta la mia infelicità a vita, e sarebbe stata una decisione solo mia.

Volevo solo confermarvi quello che già sapete e che forse vi fa paura, e che magari legittimamente non volete, perché si può legittimamente non voler essere felici.

Ebbene sì, se sapeste com’è nell’altro modo, la versione lieto fine (non quello che vi aspettavate voi, che forse neanche lo è), non sareste più ancorati a quello che avete ora. E non vorreste più tornare indietro.

Ma non riuscite neanche a immaginarvelo, forse, un amore in cui tutto il lavoro di conquistare, sedurre, convincere l’altro che valete qualcosa nonostante voi stessi pensiate di non valere niente, diventa inutile, perché l’altro lo sa a priori, quanto valete. E, quel che è peggio, vi dimostra di saperlo, ogni giorno. Dalle piccole premure alle grandi prove d’affetto.

La lotta, allora, diventa ancora più inquietante: non si tratta più di convincere, ma di mantenersi, in questa convinzione, di non dare per scontato che sia sempre così bello e ringraziare ogni giorno per la fortuna che avete avuto.

E, vi assicuro, è molto più complicato delle manfrine da inizio storia, dal “te la faccio odorare ma intanto faccio la preziosa”, al “ti corteggio ma intanto faccio il bel tenebroso”. Dei ruoli che per qualche sciocco motivo ci hanno insegnato far parte dell’amore, e ci portano a storie ipocrite in cui impariamo, prima di tutto, a nascondere i nostri bisogni.

Tutto questo diventa fuffa quando trovate l’originale, la gioia vera che si costruisce giorno per giorno.

E sparisce pure quella barzelletta in cui vivevate prima, e magari vivete ancora, quel continuo osservare il cellulare per vedere se “quello lì” e “quella là”, questi fantasmi tutti uguali in cui si trasformano i nostri amori frustrati, vi ha mandato un messaggio, come se la vostra vita dipendesse da quello.

Se lo sapeste, se lo sperimentaste coi vostri occhi e la vostra pelle, questo piano B che si chiama amore felice, ora non stareste lì a dirvi che potete benissimo portare avanti una relazione solo sessuale con una persona che amate, o che prima o poi si accorgerà di voi (e magari lo farà, eh, ma vale la pena aspettare?).

Ma il paradosso è questo: per saperlo, dovete permettervi di scoprirlo.

Dovete decidere voi di essere abbastanza curiosi da voler vedere com’è quest’altro tipo di amore, consapevoli che potreste non riconoscerlo subito, ma che poi la vostra pelle stessa vi saprà dire sì, era questo, era questo di cui ti parlavo mentre eri troppo occupata ad ascoltare la tua mente, la tua ossessione, per darmi fiducia.

Allora, fate il vostro processo, fino ad ammettere che la voglia di amare ed essere amati supera quella di amare quella persona che non può, non vuole corrispondervi.

Quando l’avrete fatto, verrà il resto.

E allora saprete.

Truce.E poi non ci arrendiamo. Non ci consegniamo in pace e senza condizioni a questa nuova vita, o a questo nuovo aspetto che ci cambia tutto il quadro.

Perché? Perché al dolore un po’ ci si affeziona. O a ciò che lo provocava, nonostante tutto. E poi, ormai avevamo imparato a percorrere quella strada, al mattino, tra casa nostra e il vecchio lavoro, tra i nostri pensieri e le cose che non potevamo desiderare.

E allora facciamo resistenza. La nuova storia fa fatica a decollare, la persona che è entrata nella nostra vita aspetta benevola che le lasciamo più spazio. Un nuovo datore di lavoro può non avere la stessa pazienza, e infatti vedo più gente perdere un posto nuovo, dopo averlo finalmente trovato, che uccelli in cielo.

Ma qui viene il paradosso, qui ci sono le sabbie mobili: prima ci arrendiamo alla nostra nuova vita, prima questa comincia e acquista significato.

Prima lasciamo andare il passato che volevamo risolvere in un altro modo e in altri tempi, prima ci arrendiamo all’evidenza che il nostro presente ha un altro nome, e altri colori, diversi da quelli che avevamo immaginato, infinitamente più funzionali. E anche dolci, se gliene diamo l’occasione.

“Ma allora devo rinunciare a quello che volevo!”. No, il segreto non è quello. Non è decidere che l’azienda che ormai era come una piccola famiglia non ci chiamerà più, che quella borsa all’università è andata via per sempre e non ci saranno altri modi per reinserirci, anche con stipendio ridotto. Non è concludere che quella persona che abbiamo inseguito per un anno non ci guarderà mai, e ci “tocca” la bella storia nuova che sta iniziando ora.

È una questione di attenzione: cosa mi sta succedendo, ora? Ora ho trovato lavoro alla cassa sotto casa, proposta buttata lì mentre facevo la spesa, così posso permettermi di mandare avanti quel progetto all’università; ora ho conosciuto questa ragazza a questa festa e ci stiamo scambiando dei messaggi.

Domani chissà.

Il nostro problema è che ci anticipiamo agli eventi, o ripercorriamo quelli passati sperando che questa volta il finale sia diverso, come se non avessimo visto quel film mille volte.

Non ci rendiamo conto che solo una parte della trama, circa un terzo, dipende da noi, Il resto è vedere cosa ne pensano gli altri e come si mette la situazione.

E allora, spostiamo la nostra attenzione su ciò che ci sta succedendo ora, invece che su quello che dovrebbe succedere, o quello che non è successo.

Forse, facendolo, potremmo perfino aprire la strada a un finale diverso, un finale che paradossalmente si avvicini a quello che volevamo noi.

Il segreto, come in tante cose, è rinunciare a pretenderlo.

sunshine-through-blindsMi ritorna in mente una frase di Calvino, in Marcovaldo: “Quel mattino lo svegliò il silenzio”.

È quello che ci succede quando abbiamo risolto un problema, o lo stiamo risolvendo. Un problema annoso, dico, di quelli che ci tormentavano da un bel po’. Ci eravamo quasi assuefatti a questi risvegli pieni di vuoto, angoscia. Risvegli in cui ciò che ci mancava ci attraversava la mente prima di ciò che avessimo.

Ci eravamo così abituati che ora che ci sta succedendo, finalmente, di risolvere, di tornare un po’ all’anelata pace, ci scopriamo più spiazzati di prima. In spagnolo c’è questa espressione, no me ubico, che mi sembra perfetta. Sarebbe “non mi riesco a orientare”, ma ubicarse è proprio capire dove sei, nello spazio, quale sarebbe il “voi siete qui” in una mappa che ci immortalasse proprio in questo momento.

E in effetti è più rassicurante, paradossalmente, svegliarsi con lo stesso vuoto del giorno prima, e di quello prima ancora, che ritrovarsi con una spiazzante sensazione di tranquillità, o di cambiamento.

Mi piace avere l’opportunità di condividere con voi questa nuova svolta, nella mia vita. Mi sembra un completamento dei post di quando ero irrimediabilmente persa e depressa, e forse a qualcuno sembrerà che l’abbia tradito, un po’, ora che io sto bene o sempre meglio. Ma magari può tornare utile a qualcuno, che ancora non sa in che direzione lo potrebbe portare tutto questo lavoro per star meglio.

Vorrei mettervi a parte dei cambiamenti di quando da una crisi ci si esce, e non solo perché si è imparato ad andare sulle proprie gambe, ma anche perché abbiamo scoperto la chiave di tutto: applicare questo nuovo apprendimento alla vita, invece di cercare di metterle una museruola e fingere di poterla portare sempre nella direzione che vogliamo noi.

Ma chi ci ha seguito docilmente, nella vita, l’ha fatto per violenza o per la nostra forza di persuasione?

Ecco, per quella ci vuole pazienza. E tanti risvegli in questa calma ovattata che è il cambiamento.

https://www.youtube.com/watch?v=74BA7CUrGYw

piumaAllora, vi dico come ho fatto io. Non so se vale per tutti, quindi cercate di adattarlo alla vostra situazione.

Ma se mi guardo indietro, se osservo questi giorni in cui, comunque vada a finire, ho messo le basi per uscire dalla mia crisi, mi rendo conto di aver fatto una sola cosa, fondamentale.

Di essermi aperta al mondo, alla vita. Quello che mi arrivava prima, lo respingevo. Prima è quando mi ostinavo a far rivivere un passato che non esisteva più, che forse non era mai esistito.

Ma io ero li a custodirlo perché si possono amare anche le cose che non esistono, lo sappiamo bene, forse sono quelle che si amano di più, perché non bisogna prendersi il fastidio di accettarle così come sono.

E allora eccomi qui, improvvisamente, ad aprirmi alle cose come sono davvero. No, improvvisamente no, non posso ingannarvi. C’è voluto lavoro, tanto.

Amore, tanto, per me, finalmente. Per chi non mi ha mai abbandonata e ha continuato a crederci, in me, anche quando io avevo smesso da tempo.

E poi, quel pizzico d’imprevedibilità, quella legge della vita per cui a lasciar fare agli eventi, invece di forzarli sempre come ci fa più comodo (a costo di forzarli in modo che ci faccia male sul serio), le cose succedono.

Non tutte quelle che vogliamo noi, né esattamente come le vogliamo, non importa cosa facciamo al riguardo. Ma, una volta accettato questo per i miracoli che avremmo voluto, possiamo aprirci a miracoli che neanche sapevamo di volere.

Bisogna trovare il coraggio di fare tutto questo, e un po’ è preparazione e un po’ è lasciare che sia.

Cominciate con la prima parte. La seconda, ora ve lo posso quasi promettere, verrà da sé.

Maryland Renaissance FestivalIl momento dopo aver fatto una cazzata è in fondo simile a quello dopo una bella notizia, o dopo che il cameriere ha portato il tuo piatto dopo mezz’ora d’attesa.

In effetti è un momento di vuoto perfetto, il vuoto prima di realizzare che ti aspetta un pranzo luculliano, o una notte insonne, per un buon motivo o per uno molto cattivo.

Attenzione, perché è anche un momento rivelatore. Quando ho avuto la certezza di aver perso l’amore, un amore che forse non avevo mai avuto, la prima cosa che ho avvertito nelle viscere man mano che perdevo il respiro è stata sollievo. Ok, allora era questo. Ok, adesso si risolve, in un modo o nell’altro si risolve. Poi ci sarebbe stato il dolore, la discesa agli inferi da cui sei torni hai quasi il dovere di salvare chi parte. Ma meglio quello, mi dissi in quel primo, lungo istante di rivelazione, che un lungo limbo senza neanche incamminarsi per vedere la luce.

Ci sono momenti più sfumati: quello dopo un bacio non dato, che ti resta in punta di labbra a dirti che volevi scoccarlo, lanciarlo come una sfida nel tuo nuovo mondo, ma non ne volevi le conseguenze, non ora, non subito. E allora resta lì, acquattato, sicuro che prima o poi verrà il suo momento.

Che porterà con sé il suo momento dopo.

Se ci riuscite, ascoltateli, sul serio, questi istanti.

Non c’è nulla di più sincero, in quel vuoto perfetto tra pensiero e azione, tra quello che avremmo voluto, e quello che d’ora in poi, chissà per quanto tempo, avremo.

puppy-eating-shoelaceHo imparato tardissimo ad allacciarmi le scarpe.

Ed è stata tutta colpa del fiocco sul grembiule, a scuola.

Quando mi si scioglieva, me lo rifaceva qualche compagna di quelle che facevano le O e le aste con grazia infinita, disegnavano bambine coi capelli biondi perfetti e bocca a cuoricino, e quando avrebbero imparato a scrivere l’avrebbero fatto con quelle grafie rotonde e nitide, con puntini sulle I che a un certo punto, molti anni dopo, si sarebbero trasformati a loro volta in cuoricini, su qualche “Smemo”.

Ma no, ai tempi del fiocco vivevano per complessare me: prendevano i due lati del nastro che pendeva inutile, li piegavano in due graziosi circoletti con altrettante codine equidistanti, annodavano i circoletti, ed ecco il fiocco perfetto. Esattamente quello che non sapevo fare. E una cosa è non sapertelo fare al grembiule, che maestre arpie a parte non ti arreca troppi danni, e una cosa è non fartelo alle scarpe.

Quando mi si slacciavano le scarpe potevo mai chiedere a qualcuno di abbassarsi? Specie quando già ero grandicella, a 6, 7 anni (e ne dimostravo una decina, tra l’altro)… Che fare?

Finché una coppia di zii, quella figa che dici “sono i miei zii preferiti” (si erano conosciuti in una radio indipendente, negli anni ’70!), decise di aiutarmi: oltre alle varie prodezze di sposarsi in Comune al mio paese in pieni anni ’80 (le anziane della famiglia sarebbero morte credendoli sacrileghi), di viaggiare in Turchia e comprarci gioielli da vendere e svilupparsi le foto da soli (ovvio che mi regalarono la prima e unica Polaroid), mi insegnarono ad allacciarmi le scarpe.

E, sorpresa: non dovevo per forza fare la cosa del fiocco! Non dovevo raccogliere le stringhe in due cerchietti con codina equidistante ecc. Mi riusciva più facile fare un cerchietto alla volta? Perfetto, il nodo si faceva uguale. Magari non così artistico, ma chi minchia ti guarda il “fiocco” alle scarpe? Poi, la questione nodo, doppio nodo… Insomma, svoltona.

Ci ho ripensato ieri, riflettendo ancora una volta su ciò che vogliamo e ciò che ci serve davvero. E non è colpa mia, è una cosa che trovi in un sacco di canzoni in inglese! È proprio un luogo comune, “you get what you want but you don’t get what you need”, con una sfumatura che, detto tra noi, in italiano ci sfugge pure, non è così ovvia.

Ma c’è, e ora la percepisco. Ora capisco che ho fatto spesso come coi lacci delle scarpe, ho rinunciato a farmeli rischiando di cadere, perché credevo che ci fosse un solo modo, perfetto, di farlo. Quello degli altri. Mentre alla stessa cosa ci arrivi per vie diverse, col fiocchetto simmetrico e il nodino improvvisato, con un cerchietto solo, col doppio nodo o meno. Il problema è pensare che ce la fai solo nel modo che credi tu, solo per quella strada. Perdendo tempo che potrebbe servirti a correre con le scarpe belle che allacciate.

Insomma, basta pensare che ci sia un solo modo di arrivare alle cose: ci creiamo un falso problema. Come quando crediamo davvero che comprandoci quella crema idratante in mousse saremo felici, e senza il nuovo tablet nostro cognato ci sputtanerà al cenone di Natale. Come quando crediamo che avere il fisico palestrato ci porti alla stima altrui, mentre ci porta al massimo a un’ammirazione che per me non vale tempo e sudore. Come quando crediamo che solo quella persona ci possa fare felici al mondo e ora che non c’è possiamo anche morire, o solo quel lavoro può darci un senso, e ora che ci hanno licenziato non possiamo fare nient’altro.

No, ci sono molti modi per allacciarsi le scarpe. E l’obiettivo ultimo non è farsi il nodo perfetto. È correre.

Comunque io, ormai, metto solo stivali.

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