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Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Implacabile

Sul palco mi assale il silenzio.

L’unico faretto rosso è puntato sul mio abito corto, sulle calze traforate, e sul trucco che all’improvviso, più che gli Hunger Games, mi sembra richiamare Jem e le Holograms.

Allora mi passa davanti tutta la vita, o almeno l’ultima settimana.

Lunedì c’è stata la delusione della Strategica: come mi permettevo di essere ancora in quelle condizioni? Come se il suo metodo fosse fuffa…! Almeno, per l’evento di beneficenza che preparavo da mesi, dovevo presentarmi tutta fiera e ben vestita, come se dovessi andare sul “red carpet”. Invece, due ore prima di salire su questo palco ero ancora sul letto, in pigiama e calzini di spugna, col mio lauto pranzo (una tazza di tè con due fette biscottate) e una copia di The Hunger Games.

Martedì l’amico omeopata mi ha accostato le mani alla parte alta del petto, senza toccarmi, e tornando dal suo studio ho starnutito un muco denso e nero. L’amico, avvisato via messaggio, ha dichiarato di aver avvertito una sorta di vuoto all’altezza dei miei polmoni.

“Che fortunato!” ha sbraitato mio padre mercoledì, su Skype. “Io sono medico e, se non tocco un paziente con tutte e due le mani, non ‘avverto’ nessun linfonodo. E il paziente muore”.

Mi aspetta al varco, papà, col suo arsenale di gocce per dormire, vitamine e pastiglie assortite. Io non capisco: una pastiglia di ferro impedirebbe forse a Bruno di presentarsi qui allo Spazio con la Biondissima, adesso che mi tocca stare sul palco a fare gli onori di casa? A quanto pare, non ho i lineamenti abbastanza affilati da impedirlo.

Per non vomitare, ho letto tutto il giorno. Non Jung, ma romanzi di fantascienza, o fantasy. Non riesco più ad abitare la realtà, che mi pende di dosso come le tute che ormai uso per tutto. Il giorno prima, un giovedì, ho ceduto i miei vestiti più belli a una ragazza che è venuta a pulire la mia casa ingestibile, e che forse (ma non me l’ha confessato) metterà in vendita gli abiti di Guess, a parte uno che le sta benissimo.

Mi è rimasto un completo nero: una maglia con un taglietto centrale lì dove dovrei avere il seno, e una gonna asimmetrica che adesso avrebbe bisogno di una cintura. A quel pensiero ho disertato i preparativi per l’evento, mentre continuavo a leggere The Hunger Games come un’adolescente. Nel secondo volume la protagonista viene buttata di nuovo nell’arena, dove sfila su una biga infuocata. Prima, però, si è fatta applicare del trucco rosso fiamma. Vuole apparire subito ai suoi carnefici per com’è adesso: unforgiving. Implacabile.

Ripetevo la parola come un mantra due ore fa, mentre stavo per cadere nel sonno e non facevo niente per impedirlo: avevo proprio bisogno di una pennica pomeridiana… Ma all’improvviso le mie dita hanno serrato il libro che già scivolava di mano, e ho capito: era tornata.

Era la stessa Forza che quando ho saputo della Biondissima si è impossessata delle mie gambe, portandomi fino al mare, e che una notte mi ha insegnato a inabissarmi nelle acque più nere. Adesso si era assunta il compito improvviso, e all’apparenza semplice, di buttarmi sotto la doccia. Dopo, avvolta in una nuvola di vapore, mi sono scoperta a scegliere certi ombretti bordeaux e vinaccia che non avevo mai osato indossare: ammesso che li notasse, lui non avrebbe apprezzato.

Ma io sì.   

In strada le mie gambe, fasciate in calze color ruggine che sembrano fatte a uncinetto, hanno bruciato le poche centinaia di metri che mi separavano dallo Spazio. I Morti di Figo implicati nell’organizzazione sembravano accontentarsi del mio ruolo da bella statuina, finché…

“Come si dice ‘beneficenza’ in catalano?”.

Me lo ha chiesto mezz’ora fa l’anziano patron dello Spazio: un veterano della comunità italiana che sgancia offerte generose, dunque si è aggiudicato il compito di fare il discorsetto di chiusura dell’evento. Dio santo, perché voleva rivolgersi in catalano a un pubblico italiano?

“Non vorrai mica parlare spagnolo, tu!” si è scandalizzato il tipo quando gliel’ho fatto notare, e solo allora ho ricordato che era un indipendentista sardo.

Ho registrato anche il fatto che avrei parlato, che il Figo si era già messo d’accordo con l’addetto ai microfoni, e ho frenato a stento la tentazione di stanarlo, il Figo, di ricordargli chi comandava lì… Ma con che faccia lo avrei fatto? L’ho lasciato a organizzare tutto mentre ero in casa a leggere un romanzo per ragazzine. Vabbè, non posso neanche stare male, adesso?

Eccomi quindi su questo palco, coi riflettori puntati addosso e la voce che non si decide a tornarmi. Per fortuna Bruno sta battendo il record dei ritardi, così non dovrà allontanarsi in cerca di qualsiasi attività che non sia quella di starmi a sentire.

Il primo suono che emetto sembra il principio di un attacco d’asma. Poi schiarisco la voce in un saluto rauco. Che fine ha fatto la Forza che mi ha sbattuta dal letto alla doccia, e davanti allo specchio? Non finisco il pensiero che le mie labbra si schiudono di nuovo: quando comincio a parlare, riconosco nella mia voce incerta i suoni del catalano.  

Non dura neanche il minuto che auspicavo. Grazie per essere qui, sganciate i soldi per l’iniziativa benefica, visitate il nostro sito, buona serata. Ah, ricordatevi di mangiare qualcosa al buffet.

Finalmente posso tacere di nuovo, mentre assaporo con un principio di panico il silenzio che segue alle mie parole. Poi scoppia l’applauso.

Lo so che non è ammirazione, ma sollievo. Rispetto all’infaticabile oratore di prima sono stata a dir poco concisa! Sono così soddisfatta che potrei addirittura mangiare qualcosina anch’io…

Ma prima scendo a prendere un po’ d’aria, tra le ragazze che fumano fuori al portone e mi fanno festa: che belle calze, dicono, e mi scopro a sorridere mentre ricordo piano piano com’è che si chiacchiera… All’improvviso il capannello di fumatrici si apre in un movimento che mi ricorda la coreografia di un musical. Poi osservo il nuovo arrivato.

Per fortuna è venuto da solo.

A venerdì per il seguito!

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La ragazza sul balcone

Da rare-gallery.com

È stato l’urlo a svegliarmi.

Lo seguono passi veloci, interruttori che scattano.

Forse era successo altre volte, ma non me ne accorgevo, quando crollavo stesa da un’ora di pianto. Ormai ho provato a uscire dal mio angolino buio di corridoio, e sono fissa nella camera da letto a fiori azzurri, che ha un armadio vero e un balcone. Era accanto all’armadio che avevo trovato la bambola, tutta nuda e altera sulla sedia di velluto.

Quando l’urlo si smorza c’è uno scroscio prolungato, come di una vasca che si riempie. La mia scarsa cultura horror rievoca storie di reclusioni domestiche, e spaventosi bagni “ristoratori”.

La matta di casa. La matta dell’attico. Sopra il mio appartamento non c’è l’attico, ma ora so che c’è qualcuno che soffre.

Il giorno dopo chiedo lumi al vicino di sotto: un inquilino napoletano che affitta camere a gente di passaggio, attirandosi l’ostilità delle vecchie catalane che vivono nel palazzo. Il vicino mi coltiva come potenziale alleata alle riunioni condominiali, ma davanti alle mie domande nicchia un po’: al piano di sopra si rifugiano perlopiù dei migranti clandestini, che incontri una volta per le scale e non vedi mai più. Impossibile dire chi di loro avesse urlato l’altra notte. Dall’attico, invece… Ma a quel punto il vicino si interrompe. “Dall’attico…?” lo incoraggio.

Dall’attico è precipitata una ragazza.

È successo un anno prima che arrivassi io. Era una giovane americana, prosegue il vicino, venuta in Europa col marito per la luna di miele. L’avevano trovata su uno dei miei balconi: quello della stanza con la carta da parati a fiori azzurri. Mica è lì che dormo, vero? Ah! Ma chissà, forse è andata finire bene: nessuno conosce la sorte di quella ragazza. Certo, quando l’hanno trovata aveva le gambe spezzate, era stata chiamata un’ambulanza. Mentre ascolto, ho la sensazione che quell’uomo ancora giovane muoia dalla voglia di farsi un segno di croce, prima di concludere la sua storia.

Il marito della vittima, americano pure lui, aveva spiegato in uno spagnolo caricaturale che i due stavano litigando, che alzavano la voce. A un certo punto lei era rimasta in silenzio e si era buttata giù, senza una parola. Il marito sembrava disperato: la sua sposa aveva tentato il suicidio per uno stupido litigio… Ma il vicino, quando pronuncia la parola “suicidio”, mi fa un cenno d’intesa tutto partenopeo. Seh, seh.

Neanche del marito sa nulla. Pareva sparito insieme all’ambulanza, come se avesse la valigia pronta o non gli importasse di recuperare le sue cose.

Alla fine era un extracomunitario pure lui, riflette il vicino, e si era dileguato come i clandestini del piano sopra al mio. Però quelli erano colpevoli solo di esistere. L’americano, invece…

Quella notte chiudo bene la serranda sul balcone, e capisco: presto me ne andrò dalla Casa degli spiriti.

Il mio privilegio me l’ha gettata tra le mani, ma è come se la casa stessa mi dicesse che non va bene, che non mi vuole, che devo andar via.

O forse devo ricominciare a mangiare sul serio, per farla finita con ‘sti deliri.

A venerdì per il seguito!

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La ruota non gira più

E io che pensavo di aver fregato i tarocchi!

Invece mi esce di nuovo la Ruota della Fortuna, ed è la seconda volta. Un tempo pensavo pure che non mi sarei mai ritrovata su un tatami a consultare dei tarocchi, ma tant’è.

È stato Jung a spiegarmi tutto.

O così mi è parso un giorno che ero in biblioteca, alle prese con un manualetto di psicologia analitica e con un cappotto troppo stretto, che non si chiudeva bene sulla tuta che da un po’ usavo come pigiama.

Nel rincoglionimento da insonnia prolungata, l’allievo spurio di Freud sembrava dirmi cose tipo: ti sei barricata nella stanza del dolore, hai messo sottochiave una parte di te che non ti ha fatto niente. Era una parte creativa, spesso caotica, che aveva fame, ma forse non piaceva a chi all’inizio ti dava da mangiare. Ho ripensato agli gnocchi sfatti che mio nonno adorava, alle donne di casa che glieli preparavano apposta così.

Con Jung sono arrivati nuovi libri: presi in prestito, comprati, divorati in ogni angolo della mia Casa degli spiriti. Una terapeuta junghiana offriva un colloquio gratuito, e l’ho presa a bordo a patto di vederla di rado. A metà della prima seduta si è interrotta per fissare qualcosa alle mie spalle. Nella stanza del tatami è successo qualcosa di doloroso, mi ha spiegato, e gli spettri non si possono cacciare. Però vanno tenuti occupati! A quel punto mi ha prescritto un rito molto “casalingo”, che prevedeva acqua, candeggina e una preghiera a piacere. Era fondamentale svuotare il secchio in strada. 

Ormai mi era chiaro che in tutta questa roba dovevo cercare la metafora, la pulizia interna di cui avevo bisogno. E poi una lavatina al pavimento non guastava! Gli spettri andassero pure a giocare da un’altra parte.

Una notte che ero già a letto, accostando il libro al lume ho ritrovato un salmo che conoscevo solo grazie a un’atroce canzone da discoteca. Anche se dovessi camminare in una valle oscura non temerei alcun male, perché tu sei con me. il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.

A chi rivolgere questa preghiera?

Il giorno dopo, in biblioteca, Marie-Louise von Franz mi ha impartito da un volumetto quasi intonso una lezione sull’I-Ching: gli oracoli non servono a prevedere il futuro, spiegava l’allieva di Jung, ma a dialogare con l’inconscio. Solo questo, doveva dirmi! Di tutti i testi consultabili a riguardo, l’unico disponibile per il servizio di prestito era un’edizione tascabile di Jodorowsky, sui tarocchi. Anche Jodorowsky non si beveva la storia di predire il futuro: si trattava di interpretare simboli, per risvegliare risorse psichiche che già possedevamo.

Poco dopo, visitando la Fnac, mi sono ritrovata tarocchi e I-Ching sullo stesso scaffale: che coincidenza, per degli articoli con la stessa funzione!

Così eccomi qua a sperimentare i tarocchi, e l’intossicante sensazione di controllo che già mi danno. 

Ho cominciato con delle domande cretine. Cosa mangerò per cena? L’Appeso. Nel senso che mangerò del caciocavallo…? Poi ho tirato fuori gli argomenti che mi interessavano.

Bruno tornerà? La Ruota della Fortuna.

Dormirò stasera? L’eremita. Sì, di recente non ho tutta ‘sta vita sociale…

Bruno adesso sta con la Biondissima? La Ruota della Fortuna.

Riprovo con la croce a cinque carte (livello avanzato!), e quando chiedo di Bruno… Ecco di nuovo La Ruota della Fortuna: la sua posizione nella tirata indica il passato. Che minchia vuol dire? Sfoglio il libretto delle istruzioni come farei per un mobile IKEA: la Ruota della Fortuna indica un cambiamento che non dipende da noi, e che non controlliamo in nessun modo.

Il giorno dopo mi accorgo che la Casa degli spiriti sembra lo sfondo di un tarocco vittoriano, di quelli disegnati verso la fine dell’Ottocento. In un angolo del balcone in salotto, una pianta è cresciuta tanto da traboccare dal vaso: le sue radici puntano fameliche al balcone di sotto, e mi scopro a odiare la loro corsa oscena per la sopravvivenza.

Eppure mi faccio una promessa: se esco indenne da questa casa, da questi digiuni, aiuterò chiunque si senta come me adesso, e voglia starmi a sentire. Così tutto questo sarà servito a qualcosa.

Ma la frenesia arriva col libro di Jung e Pauli sulla sincronicità: inizio a trovare coincidenze dappertutto, e la mia ansia si placa un po’.

Una mattina entro in metro pensando a un frequentatore dello Spazio, tra i pochi a cui Bruno ha raccontato di noi due. Riparte per l’Italia tra qualche giorno, con la moglie e due figli piccoli. Dopo un paio di fermate mi accorgo che qualcuno sta gridando al telefono: è lui, l’amico in partenza! Beccato per caso nella metro di Barcellona, nell’ora di punta, sulla linea più trafficata… Ma niente accade per caso, cavolo. Presa da un ottimismo incosciente propongo:

“Volete fare una festa di addio questa domenica, a casa mia?”.

Ma sì, sono forte ormai: ogni tanto dormo perfino un’oretta in più, e le fette di pane e tortilla sono diventate due… Insomma, potrò ben sopportare la presenza di Bruno nel mio salone.

“Bruno viene accompagnato?” mi chiede al telefono una collega dello Spazio. Vuole portare un dolce e deve sapere quanti siamo. Trattengo il respiro.

“Non lo so. Bruno è sparito”.

“Bruno è innamorato” mi corregge lei. Indovino che sta sorridendo. Mancano dodici ore alla festa.

I conati arrivano alle quattro del mattino.

Che vomito a fare? Bruno non si azzarderà mai a portare la Biondissima a casa mia! Vero? Come se fosse necessario, poi: a farmi star male mi basterebbero i Morti di Figo che scherzano sulla sua nuova fiamma, intanto che io offro i salatini. Dopo mezz’ora passata ad attendere invano il vomito, scrivo in mailing list: festa rimandata, mi dispiace, mi sento male. Proprio non riesco.

Mi alzo dal letto che sono le cinque di una domenica pomeriggio, ed è già buio. La festa si è spostata dalla ragazza che si era offerta di portare il dolce. I festeggiati hanno provato a chiamarmi, per ringraziarmi comunque dell’iniziativa: in fondo è per merito mio che sono tutti lì, insieme.

Manco solo io.

A lunedì per il seguito!

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La vita fa sempre il bis

Da errenskitchen.com

Prima viene l’acqua.

Stringo le gambe al petto come per sottrarle alla corrente, e i muscoli dello stomaco si contraggono per la posizione innaturale, che è la più naturale di tutte. Sento i crampi, sento le ginocchia affondate in angoli dello sterno che sono diventati una filigrana per le ossa. Non piango più, e smetto presto anche di urlare. Mi graffiano la gola versi che non conosco, che non ho mai sentito, ma che forse (idea assurda) ha sentito mia madre, mentre galleggiavo nel suo grembo in attesa di vivere.

Apro gli occhi e ritrovo il buio della stanza. Li richiudo, e sono in alto.

Sono sull’acquascivolo, a quindici anni. Accanto a me c’è l’amica che mi ha trascinato lì sopra. Odio l’acqua in faccia, so già che affogherò. Non sono fatta per le sensazioni intense, rischio davvero di annegarci dentro, ma l’amichetta non lo sa: lei aspetta solo il segnale del bagnino, poi si butta con lo stesso sorriso che sfodererebbe davanti a un cono gelato. Io la imito solo perché non saprei tornare indietro. L’unica è buttarsi.

Così soffoco. Ho l’acqua in faccia, a un certo punto la respiro ma è acqua, mi fa tossire e non finisce mai, mentre io ho finito il tempo. Non arriverò mai alla fine di questo scivolo. Mentre mi rassegno alla mia morte a quindici anni, la schiena che scendeva in picchiata arresta la sua corsa obliqua, e il corpo si ferma. L’acqua scompare.

Sono arrivata alla fine dello scivolo. Sono a terra, sono viva. Ho la vita davanti.

Con la vita davanti mi sollevo dal tatami che puzza di resina e candele alla ciliegia. Ho vinto il dolore lasciandolo entrare. Il dolore non lo vinci, lo accogli. È solo allora che puoi fare tutto il resto.

Questa scoperta è la svolta vera: quando smetto di resistere al dolore lo accolgo nei suoi capricci, nelle esigenze che ha. È da lì che la mia vita peggiora sul serio, e corre anche il rischio di migliorare.

Una sera, smanettando al pc, mi sciroppo una versione hollywoodiana di Biancaneve: il cacciatore si allea con la protagonista, per sconfiggere la matrigna. Guardo abbastanza a lungo da affezionarmi all’atletico cacciatore, e all’interesse sfacciato che nutre per la sua alleata… Mi sto divertendo sul serio, finché non entra in scena il principe.

Ecco qua, la favola terminerà come al solito. Perché le storie devono finire sempre allo stesso modo? Cosa c’è di sbagliato nei finali che mi invento io? Accolgo la scena del bacio con un conato di vomito, ma Biancaneve non si sveglia. Apre gli occhi solo dopo che a baciarla è il cacciatore. In realtà il finale è aperto, posso addirittura sperare che questa Biancaneve qui si sia svegliata da sola. Basta che non sia la solita storia.

Sì, ho quasi trentatré anni e spacco il capello a una favola.

È che la razionalità mi ha rotto. Invece di contattare la Strategica per altre baracconate, invito a cena un amico che di mestiere fa letteralmente il guru, e forse per questo non naviga nell’oro. Così lo trascino nel mio melodramma al prezzo di una zuppa cinese. Ho intuito che seguire il mio corpo, qualsiasi cosa significhi, vuol dire anche circondarsi di gente che sappia ascoltare. Siamo nello stesso ristorante in cui ho celebrato il compleanno, e ho visto Bruno pendere dalle labbra dell’amica Occhiblù. L’amico guru capisce subito due cose: una è che gli toccherà finire anche il mio piatto (il che non gli dispiace), e l’altra è che il tipo “brillante e bizzarro” di cui gli sto parlando è Bruno. L’ha visto una volta sola, e gli è bastata a indovinare.

“Quello che mi sento di dirti” borbotta il guru a bocca piena, “è che il tempo è dalla tua parte”. E pesca un altro tagliolino dalla zuppa vegetariana. “Bruno adesso crede di aver trovato una che gli risolva i problemi, ma i problemi che ha con sé stesso non si risolvono così. Affioreranno, e avveleneranno la nuova storia”.

A quel punto glielo confesso: nei rari momenti di lucidità, alla Biondissima do al massimo tre mesi. “Solo io” potevo restare di più. Ne faccio ancora un merito, una capacità acquisita di cui non voglio liberarmi.

L’amico accetta questa mia debolezza insieme al riso che non riesco a finire. Prima di spazzolarlo, sentenzia:

“Se non impariamo una lezione, la vita ce la ripete”.

E sfodera un sorriso che vorrebbe essere illuminato.

A me, però, risulta solo un po’ sadico.

A mercoledì per il seguito!

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Questi fantasmi

Della casa mi piaceva che non finisse mai.

Ho un bel dire che l’ho presa per calcolo, e perché i miei la capivano più dei bilocali moderni venduti allo stesso prezzo. In realtà mi attrae anche l’illusione di aver percorso tutto il corridoio, con la schiera di balconcini che lo costeggia, per poi scoprire che a sinistra della sala da pranzo c’è un’altra ala, più piccola e buia. Pure all’ingresso, la pesante porta di legno occulta la vista del grande salone. C’è sempre un ultimo tratto da attraversare, e mi piace l’idea di perdermi, ammesso che sia per finta.

Durante il trasloco mi sono concentrata solo sui metri da percorrere per introdurre le mie cose in quello scenario neogotico, costellato da elementi kitsch: l’atroce orologio all’ingresso, le madonne in legno dipinto, e i quadretti bucolici dai colori accesi, raffiguranti pastori con le scocche rosse e dulcinee scollate. Adesso mi turba l’apparizione di una bambola bruna, accomodata su una seggiolina di velluto che scopro tra un armadio e una parete sbiadita. Il sussiego che mostra la bambola è annullato dal particolare che sia nuda. È solo l’inizio.

Dopo l’addio di Bruno, la Casa degli spiriti mi si chiude addosso, con le sue storie che non conoscerò mai.

Per qualche giorno non vado in panico. Con Bruno ci siamo separati più volte, per settimane intere: è sempre tornato. Nelle chattate che faccio al cellulare (ci metterò un mese a farmi installare il wifi), l’amico che ha inventato il concetto di Litofaga e quello di Corte dei Miracoli mi trova una definizione anche per questo:

“Liberati una volta per tutte da ‘sti pesaturi!”.

La mia risata echeggia tra tappeti polverosi e divani damascati. Un pesaturo è una persona che ti opprime con la sola presenza: Bruno è sempre così facile da definire, agli occhi degli altri, e l’idea di liberarmi di un peso è così allettante… E così veloce a franare.

Comincio a star male quando capisco che l’assenza c’è, che è lì per rimanere. Finisce che devo mandargli un messaggio io, per una questione riguardante lo Spazio. Poche parole spigliate, scritte mentre aspetto una coppia di amici a cui regalerò qualche mobile. Alla fine riesco pure a chiedergli: “Come stai?”.

Stavolta la sua risposta arriva subito: è contento. Bruno. Quello che si accostava a chiunque fosse disposto ad ascoltarlo e sciorinava un rosario di problemi. Adesso è contento.

Gli amici hanno bussato. Sono di Napoli, appena vedono la casa citano ridendo Questi fantasmi: “Un’ora la mattina, e un’ora la sera, dovete affacciarvi a tutti i balconi”. Scherzano, ma si guardano intorno con diffidenza. Non sono gli unici.

Uno della mia antica comitiva degli ascensori afferma di aver intravisto delle ombre in salone, mentre mi chiedeva di mediare tra lui e la sua ex. Quando è stata l’ex a visitarmi, l’ho vista stringersi allo stipite come una bambina: per un momento, su una delle due sedie a dondolo le era apparsa davanti una vecchietta. Era stato uno scherzo del lampadario a goccia, ripeteva con una risata incerta.

Quando la coppia corre via trascinandosi i mobili, senza più voltarsi, io resto sola coi fantasmi. Devo orchestrare una risposta a Bruno: “Mi fa piacere che tu sia contento”, gli scrivo, e vorrei che fosse vero ma non è così, e mi sento proprio meschina, ma mi fa male constatare che in un anno non sono riuscita a suscitargli ciò che la Biondissima gli ha regalato in un mese.

Nessuno è responsabile della felicità di nessuno, mi ricordo. E del dolore? Un anno della mia vita è diventato polvere, sono stata messa da parte nello spazio di un messaggino e due pettegolezzi. E tutto perché, a quanto pare, non avevo la struttura ossea adeguata. No, non è possibile: stavamo costruendo qualcosa anche se era complicato, non può aver mandato tutto all’aria perché aveva conosciuto da cinque minuti una che trovasse più bella… O forse sì.

Mi decido a chiamare un amico omeopata, balbettando per l’incapacità di chiedere aiuto, ma quello mi dà buca all’ultimo momento: gli dispiace, devo “affrontare gli spiriti”. Solo così posso guarire.  

Ma come si fa?

Mi rifugio sul tatami che ho comprato per rimpiazzare un antico letto, che il nipote del vecchio proprietario si sarà portato via insieme al materasso. L’odore di resina mi sta dando la nausea, insieme a quello delle candele alla ciliegia che ho comprato d’occasione. Sono incapace di stendermi o rialzarmi, e gli spifferi che infestano la casa diventano fiato gelido: la minaccia di una notte infinita. Quella è proprio la Casa degli spiriti, e io sono un’anima tra tante, spenta come le altre. Come faccio a vincere il dolore?

Devi perdere.

Non è proprio una voce, quella che mi attraversa la mente. Quando sarò più lucida la definirò come una forza, un’energia improvvisa: la stessa che mi aveva fatto correre verso il mare mentre farfugliavo banalità al telefono con Bruno. In mancanza d’altro interrogo questa sorta di voce: contro chi o cosa dovrei perdere?

Contro il dolore. Tanto vince lui.

L’unica via d’uscita è attraversarlo, conclude la voce, come attraverso ogni giorno il corridoio di questa casa: sembra infinito, e non lo è.

E allora, supina sul tatami, mi porto le ginocchia al mento e mi accartoccio come un feto, o una larva nel bozzolo. È a quel punto che smetto di resistere, che dico al dolore: su, vieni. Fammi vedere cosa sai fare.

Poi apro le braccia.

A lunedì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Quelle che servono

 

Da plumens.com

Non è lui. Lui è un sintomo.

Avevo fame e ho trovato lui, e invece dovevo saziarmi di me.

Dopo l’ultima frase a effetto, la Petulante poggia la penna sul taccuino. Resta sempre un po’ stronza, ma ha ragione. Un giorno darò della stronza a me stessa, per quell’ostilità cocciuta verso la mia terapeuta. A conti fatti ha sbagliato solo due cose, una più grave e una meno.

La meno grave è stata farmi sentire come una crostatina del Mulino Bianco, col suo discorso su come non fossi proprio “da dieci”. Ma ora so cosa voleva dire: a Bruno le donne piacevano fatte in un certo modo (“affilate”, a quanto pareva), mentre io ero fatta in un altro. Quel dettaglio non mi aggiungeva e non mi toglieva niente.

La cosa più grave è stata il suo martellare perché lo lasciassi perdere. Un giorno sentirò delle esperte in rapporti di coppia (e violenza di genere) affermare che l’ultima cosa da dire in certi casi è: “Devi lasciarlo”. Come se la tizia in questione non lo sapesse già.

Per il resto, la Petulante aveva ragione: il mio corpo è stato l’unica guida mentre la testa svariava. Il ventre contratto mi ha fatto da bussola in quei giorni di finta estate, di strategie surreali e di ciclo bloccato, che in un anticlimax mi va tornando man mano che smetto di cercarmi le cose in valigia e “prendo possesso” della casa, o almeno ci provo.

Questo linguaggio del corpo segue un percorso a me ignoto, diverso dai miei soliti schemi mentali.

“I segnali che ti mandava il corpo ci sono sempre stati” sorride la Petulante. “La differenza è che adesso impari anche a notarli”.

Magnifico: io non vedevo i segnali, e Bruno non vedeva me. Nei suoi occhi ho trovato solo le mie paure.

“Avevi perso i punti fermi” chiosa la Petulante. “Risentivi della condizione di straniera, del licenziamento, dell’università che non ti pagava neanche l’assegno di ricerca promesso…”.

Insomma, a un certo punto pensavo di non valere niente, e mi sono trovata qualcuno che fosse d’accordo con me. E siccome ritenevo impossibile cambiare la mia vita, ho provato a cambiare lui.

Dio santo. Quello che mi spiazza di più è che pensavo di avere le cose sotto controllo, e invece ero del tutto fuori strada. Mi perdonerò mai per questo? La Petulante infierisce.

“Vedi cosa succede a non essere in contatto con le proprie necessità? Credevi di aver comprato la casa ideale, anche se piaceva solo ai tuoi. Credevi di aver trovato il corso che ti avrebbe riportato all’università, anche se il titolo che rilasciava era carta straccia…”.

Annuisco. Soprattutto, conclude lei, pensavo che un tipo con difficoltà evidenti a innamorarsi (o almeno, a innamorarsi di me) fosse ormai “tornato sul serio”, solo perché in quel momento gli serviva una spalla su cui piangere.

Mica solo una spalla, faccio per dire, ma sono troppo annichilita per scherzare, e la Petulante preme perché ammetta una cosa: l’intuizione, o almeno la capacità di capire cosa voglio, è importante almeno quanto la logica. E sì, passa per le sensazioni del corpo.

“Pensa a quante strategie hai elaborato per tenerti Bruno: com’è andata? Al primo soffio è crollato tutto il castello di carte”.

Castello di carte? No. Di carta, semmai. È bastato un imprevisto idiota, uno scambio linguistico con la bionda sbagliata (o quella giusta, magari…), e l’illusione che tutto volgesse al meglio è andata distrutta. Anche gli “esercizi” della Strategica erano trucchetti da baraccone, ma almeno mi hanno fatto capire una cosa: è ora di cambiare strategia. Sul serio.

Voglio trovare la forza di tradire Bruno con me. Anche se in questo momento sono l’ultimo dei suoi pensieri, ho ancora questa sensazione: progettare una vita senza di lui è un tradimento. Ed è anche l’unica scelta che ho.

Se per qualche tempo devo affondare in un pozzo nero, voglio che almeno mi serva a cambiare, una volta per tutte. Questo qui è un “almeno” che potrei amare. La Petulante solleva la testa dal taccuino:

“Sarà un po’ come imparare di nuovo a camminare”.

Sgrano gli occhi:

“Quante cazzo di volte bisogna imparare a camminare?”.

La Petulante mi sorride:

“Tutte quelle che servono”. 

A venerdì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Mudanza

Cazzo, l’acqua.

Il rubinetto è aperto al massimo, ma non esce neanche una goccia. L’uomo col mastino ha scelto il momento migliore: a quest’ora del mattino non ci sarà nessuno per le scale, e se voglio iniziare il mio ultimo giorno in questa casa mi tocca scendere sei piani, per riazionare il contatore. Sfioro i gradini in punta di piedi, pronta a risalire al minimo rumore… Invece il silenzio non nasconde sorprese. Cosa è successo, allora? Quando arrivo ad aprire la porticina dei contatori, scopro che tra le file ordinate c’è un vuoto, e “quel vuoto sono io”, penso con enfasi. Mi hanno tagliato l’acqua, mi cacciano già dalla casa che avrei dovuto abbandonare l’indomani. Adesso mi tocca traslocare subito dopo la visita dal notaio…

Rammaricandosi in chat per l’incidente, Bruno mi fa capire che stasera, dopo un reading di racconti a cui partecipa anche lui, potrebbe fare una capatina a casa nuova. Ma verrebbe “sul tardi”.

Negli ultimi messaggi ha usato di nuovo il termine “frequentazione”, che aveva abbandonato da un po’. Dopo settimane di tenerezza e dolore condiviso, mi sembra ansioso di ribadirsi che tra noi non c’era niente di che.

Dal notaio mi presento con uno zaino sportivo, contenente pigiama e spazzolino. Il mio avvocato scoppia a ridere e mi scatta delle foto, dichiarando che non ha mai visto nessuno presentarsi così da un notaio, mentre l’agente immobiliare scopre che, invece di dover calmare un’acquirente nervosa, deve sorbirsi i miei “problemi di cuore”.

Tra gli eredi del proprietario, un cinquantenne coi capelli brillantinati e l’accento di Siviglia mi presenta sua moglie, che col linguaggio fiorito delle sue parti chiama “mi esposa”: quell’espressione dolce e concreta mi ricorda le nozze a cui ho assistito in Italia, tra le montagne indifferenti e lo scoglio su cui ho fatto da Partenope spiaggiata.

“Sei proprietaria?” grida al telefono mio padre a cose fatte.

Ah, già: stringo in mano delle chiavi che sono solo mie, e neanche riesco a gioirne.

L’amico agente vorrebbe strangolarmi. Sta ricevendo pressioni per diventare un finto autonomo, dalla trattativa con cui mi ha spuntato un prezzo miracoloso ha ricavato meno di trecento euro. Passa il giorno a vendere case che non può permettersi, e lo fa per pagarsi gli studi di psicoterapeuta. Non a caso, nel taxi che condividiamo per tornarcene nel Raval assume lo stesso tono della Petulante.

“Questo Bruno ha mai ammesso che stavate insieme? Lo sapevano anche i vostri amici?”.

Questo no, spiego, ma almeno nell’ultimo mese non fingeva più di ignorarmi. L’amico agente scuote la testa.

“E tu ti accontenti degli almeno?”.

Già. Una volta li detestavo.

Improvviso il trasloco con la collaborazione di un vicino stanco, che si carica gli scatoloni più urgenti su un carrello della spesa.

In spagnolo, il trasloco si chiama mudanza: la parola mi dà l’idea di un cambiamento improvviso, ma felice. Invece adesso aiuto quell’uomo già assonnato a non far sbandare il carrello sui marciapiedi, che si restringono inesorabili con l’avvicinarsi della Rambla. A casa nuova potrei avere già un intruso, un nipote del vecchio proprietario che è andato “a prendersi i materassi”: così mi ha annunciato quel vecchietto pieno di eredi nel consegnarmi le chiavi. Il notaio si è limitato a sorridere, mentre io programmavo anche quest’ultima corsa in agenzia, per recuperare la chiave mancante. Tre stanze da letto, e mi tocca dormire sul divano. O forse no: forse userò il lettino da campo, ancora disseminato dei peli della gatta.

Le stanze sono vecchie e arcigne come le ricordavo, ma è facile scegliere la meno brutta in cui accamparsi: ha il parato stinto, ma a fiorellini azzurri, e un balconcino che affaccia su uno di quei vicoli troppo vicini alla Rambla, che si riempiono di piscio il fine settimana. Ricordo che è venerdì.

Sono le undici quando immergo le bacchette nei vermicelli da asporto, presi nella catena di wok cinese che ho appena scoperto sul vicino carrer de Sant Pau. Il televisore lasciato come un relitto in salone è un modello antico, sull’unico canale visibile una bella donna sulla cinquantina descrive con voce suadente il significato di una carta, La Temperanza. È quella che vorremmo tutti, ammicca la maga guardando in camera.

Il cellulare mi si illumina proprio mentre lo sto spegnendo, rannicchiata nel lettino da campo. Il messaggio di Bruno è così breve che, per leggerlo tutto, non devo neanche aprire WhatsApp. Sei sveglia?

Sono quasi le due.

Mi scopro a spegnere il cellulare, senza rispondere.

A mercoledì per il seguito!

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Qualcosa che non ho visto

Adesso mi tiene addirittura per mano.

Lo fa quando siamo in strada, non sempre però. La “relazione”, come ora la chiama anche lui, torna a essere un chiaroscuro definito dalle assenze: condividiamo la passione, non i problemi. Al massimo sono io ad accollarmi i suoi, le ansie per quei soldi persi che gli guastano le ore. Lui però mi offre riparo a casa sua, quando l’uomo col mastino mi manomette il contatore dell’acqua e devo scendere sei piani a ripristinarlo. Il mio terrazzo resta chiuso: non c’è più la gatta ad acciambellarsi sotto l’amaca, e passata l’estate comincia pure a far freddo.

A un certo punto devo ammettere che l’euforia da fine estate è finita. Le scartoffie per comprare casa nuova non finiscono più, e il ciclo non torna. La Petulante mi sciorina ancora la storia del corpo che capisce le cose prima della mente: c’è qualcosa che mi mantiene bloccata proprio ora che tutto si muove, qualcosa che non ho visto e non voglio vedere. Io sulle prime penso che farei bene a non vedere più la Petulante! Per smentirla mando a Bruno un messaggio molto schietto, insolito per la mia nuova tappa “strategica”: può farmi il favore di venire con me a visitare casa nuova? Vorrei un suo consiglio su certi cambiamenti da realizzare…

La replica è quasi telegrafica: è tornato a non avere tempo.  

Finisco io a casa sua una sera che siamo entrambi a un concertino in zona. Mi piace che Bruno dia per scontato che dormirò da lui, ma sembra quasi che succeda solo perché “si è fatto tardi”. Mi rimprovero subito per quei pensieri tetri, ma il giorno dopo sto già recuperando il mio spazzolino dalla tazza sbreccata in bagno. Non so neanche io perché lo faccio: ho ancora qualche asso nella manica, cazzo!

Nottetempo gli scrivo una lunga fantasia scaturita da un libro di filosofie orientaliste: una roba che, più che erotica, finisce per risultare mistica o allucinata.  

Il suo silenzio dura così tanto che risulta umiliante, dopo un messaggio del genere. Siamo tornati davvero a quel punto lì? Come se i mesi passati, i chili che ho perso, le tiritere della Petulante e i trucchetti della Strategica fossero solo un sogno. L’unica cosa a segnare il passo del tempo resta quella finta estate, che ormai scivola via nell’autunno profondo. Mi sento di nuovo al punto di partenza, e non è vero: quest’anno passato dietro a Bruno non tornerà più, come le energie e l’amore che gli ho sacrificato. Come l’amore che ho perso per me.

La risposta arriva di notte, ed è di quelle lunghe che accompagnano i suoi no.  

“Disconnesso”: così si definisce. Lo è per “circostanze” che non mi sta a spiegare (e io penso subito a un brutto scontro con l’amico del prestito). In ogni caso, in quel momento non gli sembra giusto “valicare i confini dell’amicizia”.

L’amicizia.

Ancora una volta, il corpo è il primo a reagire: sopraffatta dagli ormoni del ciclo bloccato, scoppio a piangere senza neanche accorgermene. Subito dopo, però, la logica ha il sopravvento. A scombussolare Bruno sarà stato senz’altro l’autunno, col suo “ritorno alla normalità”! Ci siamo rivisti in condizioni inconsuete per entrambi, a fine estate, ed entrambi siamo stati risucchiati dalla ricerca di un lavoro o di una casa. L’incertezza di ogni giorno ha preso il sopravvento.

Sì, non è il caso di preoccuparsi. Bruno a volte ci mette un po’, ma torna sempre.

A lunedì per il seguito!

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Luce

Adesso gli è tutto più facile.

Me lo spiega tranquillo, mentre chiacchieriamo tra le lenzuola sfatte. Una volta si rallegrava perché con me era riuscito ad abbassare gli standard. Adesso che quasi diventavo pelle e ossa, deve riconoscere che è più semplice andare con una ragazza che “gli piace pure”.

Mi si mozza il respiro, come ai vecchi tempi. Non commentare, mi ripeto. Lui dice tante boiate, ma poi finisce per fare la cosa giusta.

Me lo ripeto anche allo Spazio, mentre pianifichiamo la serata di beneficenza che sarà l’evento principale dell’autunno. A un certo punto, a Bruno viene chiesto in tono un po’ irridente se “in questo momento” lui stia con qualcuna, e lo sento esitare un istante solo prima di rispondere a bassa voce: “No”.

Sciocchezze, per una volta la situazione è sotto controllo! Sto meglio, sto comprando casa, è tornato Bruno. La Petulante non mi incanterà con le sue storie sull’ascolto del corpo, anche se ho questo formicolio alla pancia e il mio ciclo è bloccato. Finisce che ho un ritardo di due settimane, e so di non essere incinta: Bruno è ancora più maniacale di me nell’evitare rischi. Di certo sono i nervi per la casa, e per le scartoffie di un titoletto universitario che, nei miei piani, mi farà rientrare in sordina nel mondo accademico. Ho ingaggiato a mia insaputa un falso traduttore giurato, e quando ho scoperto l’inghippo ho dovuto far ricorso a un’agenzia online. È ufficiale, l’Europa unita è una baracconata anche per chi ha il passaporto giusto: omologare un titolo di studio è un’esperienza massacrante, e pure costosa.

Ma chi se ne frega di queste minuzie! Dopo la nuova frenesia che ci ha presi, Bruno “passa” meno spesso, ma a intervalli costanti. È una cosa buona, vero? Darsi una calmata, crearsi una routine. È quello che fanno le coppie normali, come… come noi. All’improvviso non sono più un’ospite occasionale a casa sua, e una mattina, in bagno, sto per recuperare lo spazzolino dalla tazza sbreccata che ne contiene vari, poi la mia mano si ferma. Se lo lascio lì è più comodo, no? Mi chiedo pure se dirglielo o no, poi mi rispondo che certe cose è meglio farle e basta, che a ragionarci su si fa peggio.

Anche il suo modo di parlarmi delle ragazze è cambiato: non si dilunga troppo negli apprezzamenti, oppure evita proprio. Ridiamo insieme del fatto che la passione ritrovata abbia, come risultato inedito, quello di farci aguzzare la vista: anche io noto di più i bei ragazzi in strada! Un pomeriggio lui mi spiega che in un bar vicino casa sua, che organizza spesso eventi e scambi linguistici, ha conosciuto una ragazza pallida e biondissima che vuole imparare l’italiano. Bruno mastica qualche parola nella lingua della ragazza, ma vorrebbe approfondire, così loro due si sono dati appuntamento nel bar al prossimo evento. La mia testa sul suo petto si irrigidisce, ma lui non se ne accorge. È soddisfatto dell’opportunità, e non ha fatto apprezzamenti sull’aspetto fisico della ragazza biondissima: quando mai me ne ha risparmiati, su una che gli piaceva? E poi, non ho più niente di cui preoccuparmi.

È domenica e il sole inonda il letto stropicciato. In quella luce perfetta lo scopro a osservarmi: le sue iridi hanno una sfumatura dolce che non gli ho mai visto.

“È un piacere guardarti” confessa.

E allora mi godo la luce sulla pelle umida, e gli occhi di Bruno. Mi nutrirei solo di quelli, di lui.

A venerdì per il seguito!

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Qualcosa è cambiato

Da pupa.it

I risultati arrivano troppo presto.

Sul momento me li godo e basta, senza pensarci troppo: la Terapia Breve Strategica funziona! Il primo giorno passo in rassegna le cose più frivole che farei “se Bruno non esistesse”, come la metto tra me e me, e finisco per ripescare un vecchio lucidalabbra dall’armadietto in bagno. L’odore fruttato mi mette subito allegria, e decido di abbinare il colore a un vestito carino.  

Un giorno mi dirò che quella terapia così bizzarra dà risultati immediati, ma non duraturi. Lo ammettono anche i fondatori nei libri che ho divorato: bisogna lavorarci sempre, nonostante la sensazione immediata di star meglio. Così ogni mattina, davanti allo specchio, scelgo l’azione più piccola che farei come single. Ogni mattina mi scopro a uscire di casa canticchiando.

Stavolta invito Bruno da me perché non ho altra scelta. Ho mandato un messaggio collettivo nelle varie mailing list: è il mio onomastico, e ora che compro casa cerco anche qualcuno che occupi quell’attico al posto mio, per accelerare la restituzione della caparra…

Ma chi voglio prendere in giro? Desidero solo festeggiare il mio ritorno alla vita, al cibo. Tanto Bruno si dichiara subito in forse perché “ha da fare”, e per una volta penso che sia meglio così. La possibilità di vederlo placa sempre la mia ansia, ma se non viene continuerò con gli esercizi della Strategica, senza il rischio di interferenze.

Infatti alla festicciola mi diverto. Anche l’uomo col mastino si mantiene lontano dal mio muricciolo, come se quello fosse il suo regalo per me. Con certi amici cerchiamo su Google i titoli dei porno che parodizzano film famosi: Natural Porn Killers, Apocalypse Climax… Mi si scioglie il trucco dalle risate, e non me ne frega niente: i miei lividi sono ormai invisibili, ed è bello sfottere un genere che, nelle versioni più apprezzate allo Spazio, sembra fregarsene del piacere femminile. Riderci su in quel modo è un toccasana, e i melodrammi del passato non mi sembrano neanche più tristi o sciocchi. Sono solo inutili.

Bruno mi telefona verso l’una di notte: era a un incontro letterario a leggere racconti suoi, si è liberato solo adesso. Si trova dalle parti di casa mia, può ancora “passare”?

La festicciola è finita. Il mio vestitino di raso nero è tornato nell’armadio, mi sto struccando. Perché rischiare? D’altronde non ho più nulla da temere, sono immune al nostro psicodramma! Vero? Ci metto un po’ a replicare.

“Passa pure, ma sappi che mi troverai in pigiama”.

Tie’! Neanche lo accolgo all’ingresso: gli faccio trovare la porta socchiusa, mentre arrangio in cucina un piatto di avanzi. Dopo che avrà mangiato ci farò due chiacchiere e lo spedirò a casa.

A sorprendermi è il silenzio. Quando lo sento buttarsi sul divano, nell’eco dei suoi movimenti avverto una lentezza nuova. Allora esco dalla cucina col mio piatto di avanzi.

Mi basta un’occhiata per capire che qualcosa è cambiato. 

A lunedì per il seguito!

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