Archivio degli articoli con tag: amore non corrisposto

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Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Paesaggi

Adesso abbiamo un nome.

“Fidanzati” non lo dice mai, ma dice tutto il resto. Tutt’a un tratto aumenta il tempo che passiamo a parlare in terrazzo, godendoci la primavera tra le antenne del Raval. L’uomo col mastino spiasse pure: sono contenta lo stesso, avevo ragione ad aspettare. Bruno ce la sta mettendo tutta, prima aveva solo un po’ di paura.

Continua a farne una questione “etica”: ho ragione io, non va bene che si passi la notte insieme e al mattino ci si tratti da sconosciuti. È uno che prova sempre a fare la cosa giusta, non vuole sbagliare proprio con me.

Ora che l’amore sembra filare, mi apro al resto. Mi lascio invitare al bar dalla mia ex insegnante di scrittura creativa: forse c’è un lavoretto per me, in una casa editrice appena nata. Pagano una miseria, ma si tratta di leggere un libro in inglese e compilarci una scheda. Accetto senza pensarci, mentre il barista fa una battuta discreta sul colore dei miei occhi. La vita è bella.

Bruno mi incoraggia, anche lui è tornato a cercare lavoro. Ancora non usciamo “insieme”, intuisco che davanti agli altri gli ci vuole tempo, anche se insisto perché lui smetta di evitarmi, o trattarmi come un’amica quando va bene. E allora si impegna: quando partecipiamo a un evento in rappresentanza dello Spazio mi abbraccia una volta o due, mi resta vicino. È un inizio, mi dico. La prova del nove sarà allo Spazio, nel territorio che io gli avrei usurpato.

Presto inaugureremo una mostra di paesaggi.

La coppia che espone è di Napoli: con loro sono io a prendere accordi, mentre Bruno si incarica di appendere i dipinti alle pareti dello Spazio. Ho evitato di andare di persona a sovrintendere, a lui non piacerebbe. La profezia sulla mia inesperienza col “progetto” non si sta realizzando: il calo di entusiasmo si è verificato prima che subentrassi io, e a detta di tutti (escluso Bruno, che non si pronuncia), mi sto rivelando un buon acquisto.

Incontro la coppia di Napoli dopo la seduta dalla Petulante. Ho un tubino bordeaux con foulard abbinato, e una linea scura sugli occhi. Quando mi ha vista così in tiro, la Petulante mi ha assecondata con un sorriso di circostanza: aspetta, sembrava dirmi, e vedrai se conciarti così serve a qualcosa. La Petulante è una stronza.

Sotto al portone dello Spazio sono trattenuta da una telefonata, e segnalo alla coppia di salire: ad accoglierli ci penserà “il nostro incaricato”.

Quando Bruno apre la porta anche a me, l’istante di gioia che gli leggo negli occhi cede il posto a una specie di sorpresa. È come se non mi associasse a quel luogo, e al tempo che ha appena trascorso a lavorare lì dentro. Ancora una volta non sono che un’estranea, una che ha invaso il suo Spazio.

La coppia ha qualcosa da ridire sulla posizione delle luci, e lui assecondando le richieste diventa quasi professionale: è il padrone di casa, io sono un’intrusa. Mentre riposiziona i quadri devo osservarlo in disparte, come una potenziale acquirente che è arrivata troppo presto.

In fondo è un’opera d’arte anche il suo talento nell’ignorarmi.

Stavolta rimando le spiegazioni a un momento più tranquillo. Gli accenno soltanto, via messaggio, che dopo la mostra vorrei un chiarimento importante. Ma in fondo non sono preoccupata: è questione di tempo, benedetto tempo. Il mattino dopo, con la coppia di Napoli montiamo un video divertente sulla Rambla per promuovere l’esposizione, e finisco per cantare ‘Na sera ‘e maggio con un gruppo di argentini. Quando mi lascio trasportare, ricordo che c’è vita al di là di Bruno.

Solo a casa mi rendo conto del messaggio, ricevuto ore prima: non viene alla mostra. Gli dispiace informarmi adesso, ma non gli è riuscito di mandarlo più presto. Non accenna nemmeno al fatto che gli voglia parlare, che gli abbia detto che è urgente. Ha delle cose da fare, e gli sembra di essersi sbattuto fin troppo negli ultimi tempi.

Forse, se lo chiamassi un momento, sentirei in sottofondo il rumore della lavatrice.

A lunedì per il seguito!

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Prigioniera

Cosa diavolo ho visto?

Sono a cento metri da casa di Bruno, dalla cena che a quanto pare ci consacrerà come coppia. Ma devo tornare sui miei passi: dietro a un portone con le inferriate moderniste, una donnina molto anziana, in camicia da notte, sta spingendo i vetri con tutte le sue forze. L’hanno chiusa dentro, mi grida, una donna malvagia l’ha ingannata. Che sia la vittima di un furto, ancora sotto shock? Provo a bussare ai citofoni, ma non risponde nessuno. Bruno accorre alla mia chiamata con una velocità che non mi aspettavo: mi avverte che quella è una casa di riposo.

Alle spalle dell’anziana si materializzano un uomo e una donna in camice verdolino. Questa fa sempre così, assicura l’uomo, è pazza. Non è vero, grida la diretta interessata, e pure io accenno a protestare, ma l’uomo non mi ascolta: sta per portarsi via quella donnina in camicia da notte, e l’unica cosa che posso fare è prometterle che verrò a visitarla. Il pensiero sembra tirarla un po’ su.

Arrivo a casa di Bruno che sono ancora senza parole. Lui inizia a raccontarmi di una nonna lontana che conosce solo il dialetto, e in nessun momento accenna a noi due, alla storia che inizia una volta per tutte. Col mio strano ultimatum gli ho dato un’occasione d’oro: riconoscere che stiamo insieme senza mai ammetterlo ad alta voce. Bastava l’invito a cena. In fondo lui ama cucinare.

Non mi arrendo: sul suo letto a una piazza provo a scucirgli le parole, come se fossero una formula magica che spazzi via l’ansia. Allora, stiamo insieme o no? Lo vedo soppesare la domanda.

“Se no, non ti invitavo” risponde.

È comunque una festa.

Il mio corpo esulta di una gioia perfetta, e mi risveglio pure con meno lividi del solito. Rivestendomi ricordo il testo di una canzonetta Brit pop, dei tempi del mio Erasmus: questa potrebbe essere la fine di tutto, quindi perché non ce ne andiamo in un posto che conosciamo solo noi?

Che sciocchezza, questo per noi è l’inizio! E poi Bruno troverebbe quel pezzo troppo commerciale.

Tornando a casa passo davanti alla mia chiesa preferita, Sant Pau del Camp: ho una voglia improvvisa di dire grazie a qualcuno. Ma vengo fermata all’ingresso: una donna seduta a un tavolo disseminato di santini mi fa capire che, se non sgancio un obolo, la mia presenza lì non è gradita.

Allora saluto senza rimpianti la navata avvolta in penombra. Dietro la chiesa ci sono due file troppo ordinate di alberi immersi nel sole, piantati apposta per fare ombra a qualche auto, ma all’improvviso quel boschetto improvvisato mi sembra più sacro della navata buia, dei santini in vendita.

Osservando il sole tra le foglie penso: se ci sei, grazie. Fa’ che stavolta vada bene.

Ma l’immagine della donnina che scuote il portone non mi abbandona più.

A venerdì per il seguito!

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Ultimatum

Non conosco più le regole.

Lui “passa” da me, si emoziona, mi emoziona. Ci sono le risate e il cibo condiviso, la passione e il sonno. Poi capisco dal suo silenzio che sta per andare. Prima di uscire si infila gli auricolari, e io divento rumore di fondo. Lo dice anche lui: finché sta con me, sta bene. Poi scivolo via dalla sua giornata, e non sa come impedirlo.

Una sola volta non mi ha resistito: eravamo allo Spazio, io esibivo un taglio nuovo e indossavo un vestito di marca, appena comprato in offerta. Lui aveva avuto una brutta giornata, di quelle che ti fanno credere di essere fuori dal mondo. Voleva sentirsi normale. Continuava a dirmi che ero proprio carina, quella sera. Mi ha abbracciata tra i sacchi della spazzatura che ci eravamo offerti entrambi di buttare, andando via insieme. Non l’avevo mai visto così, non in strada, davanti ai passanti. Mentre mi rannicchiavo tra le lenzuola e la sua pelle odorosa di cibo, l’ho scoperto a fissarmi con un sorriso benevolo: ero così “brava”, mi ha detto, che avrebbe voluto che tutti gli altri mi provassero. Anche stavolta non si è spiegato le mie lacrime improvvise, e si è affrettato ad abbracciarmi: il suo voleva essere un complimento, autentico. Gli dispiaceva che l’avessi presa così, quando ero con lui dovevo sentirmi sempre a mio agio.

C’è un rituale che ormai accompagna le nostre rotture: prima di infilarsi gli auricolari mi dà tre baci, i primi due sulle guance e l’ultimo, più lento, sulla fronte. Lui si sente molto nobile nell’addio: sta facendo la cosa giusta, si ripete, a costo di non battere chiodo per chissà quanto. Poi torna a “passare”, e io non lo mando via. Non lo so fare più.

Gli sembra normale questa roba?

Questo gli scrivo, dopo che mi ha piantato di notte sulla Rambla per preparare una salsa piccante. Quello che non gli scrivo è che ho cominciato anch’io a paragonarmi alle altre. Per strada, nei negozi, le osservo una a una e mi dico: “Questa gli piacerebbe più di me, questa no”. È un vizio che non mi abbandonerà mai per davvero, che tornerà nei periodi più agitati. Per sentirmi più sicura mi “faccio bella” con due soldi, vado spesso da Kiko e nelle catene di parrucchieri a buon mercato (una volta gli è piaciuto il mio ritorno al biondo scuro, quasi castano). Cerco vestiti di seconda mano che mi evidenzino i “punti forti”, e facciano sparire il resto. Mi ripeto che lo faccio per me.

I complimenti altrui non mi saziano. L’unica a rimanere perplessa dal mio cambiamento è la Divina: quella troppo bella perché Bruno la aggiungesse a Facebook in contemporanea con me. A una serata di danze brasiliane mi squadra i capelli dalla tinta giallastra, sbagliata da una parrucchiera inesperta. Non mi dice niente, ma mi arrabbio lo stesso: non siamo mica tutte bellissime al naturale, come lei! Sulla Rambla i turisti ubriachi mi chiamano Shakira o Lady Gaga, a seconda di come mi sia pettinata, e quasi mi diverte l’idea di rievocare donne così diverse.

Ma di questo a Bruno non scrivo nulla.

La sua riposta al mio sfogo arriva la sera successiva: non riesce a vederci come coppia, sta provando a capire perché. C’è ancora la nobiltà di quando parla di chiudere, privandosi dell’unica “occasione” sicura, ma la chiosa è ambigua, come se lasciasse a me l’onere dell’ultima parola.

Lo contatto all’istante: e quindi? Non ho capito, che vuole fare? Va fuori dai gangheri. Sapeva che gli avrei scritto proprio in quel momento! Sta per uscire ed è già in ritardo, lui che mi fa aspettare anche due ore quando l’appuntamento ce l’ha con me. E poi non può spiegarsi meglio, va bene? Non sa come farlo. Capisco che si sente molto generoso, a parlarmi ora che dovrebbe solo scappare. È tutto preso da quell’impegno più urgente di me.

Ripenso alla storiella della rana nella pentola: se questo schifo fosse successo solo un mese prima, gli avrei riso in faccia e l’avrei cancellato dalla mia vita. Ora non ci riesco. Con Bruno non è mai tutto orribile, né tutto fantastico: c’è sempre la giusta miscela che lo fa tornare, che mi fa aprire la porta da cui lui uscirà con gli auricolari a palla, riducendomi a un rumore di fondo.

Chissà se mi fa una colpa anche di questo, della mia incapacità di bastargli.

Io invece sono nelle sabbie mobili. Non voglio credere di aver perso tutto questo tempo, e allora aspetto, e ne perdo ancora di più.

Ma ora so cosa succederà. Bruno tornerà presto a “passare”, e una sera saremo allo Spazio, e i Morti di Figo lo stuzzicheranno con domandine su questa o quella ragazza. Lui darà il suo “parere tecnico” proprio davanti a me, a quella che avrà finto di incontrare giusto sotto il portone, un’ora dopo averle lasciato dei lividi addosso.

Allora qualcosa in me si incepperà.

Quando succede tutto questo, è l’ultima volta che fuggo. Per arrivare a casa imbocco scorciatoie, evito i passanti sulla Rambla senza esimermi dal dare giudizi: questa gli piacerebbe, quella no. 

Una volta a casa, il messaggio che mando a Bruno è un ultimatum.

Lo rivedrò solo se stiamo insieme, davvero. Se accetta mi invitasse a cena da lui, per una volta. Altrimenti gli basta non rispondere, e sparirò dalla circolazione. 

Quando mi arriva il suo messaggio è tardi, e io vorrei solo dormire. Mi devo calmare un bel po’, prima di leggere.

A mercoledì per il seguito!

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Ricordati di preparare la salsa

Da buonissimo.it

Dico di sì, e vado a stanare Bruno.

È collassato sul divano all’ingresso dello Spazio, per la mangiata che si è fatto mentre io ancora cucinavo.

“Comportati bene” scherzo, “da oggi in poi coordino io gli eventi qua dentro, e ti comanderò a bacchetta!”.

Non fa nulla per nascondere la sorpresa: sarò anche brava, dice, ma è troppo presto. Sono coinvolta da poco in quel progetto che lui ha visto crescere, mi mancano ancora gli strumenti per capirlo fino in fondo. È molto pacato mentre mi spiega tutto questo, tanto che a un certo punto gli credo: non sono capace. Poi mi dico che non mi ci vorrà certo un altro dottorato, per organizzare qualche evento! Ma lui ha l’arte di ridimensionare con gentilezza ciò che dico, che faccio. Leggo libri “pesi”, vivo nell’odiato centro storico, e ascolto cantautori noiosi, che in realtà non ascolto affatto. Quello che scrivo sul blog è simpatico, ne capisce il successo, ma “non lo attira particolarmente”. A quanto pare a non convincerlo è il tono spensierato, la voglia di ridere che sembro avere sempre. Sarà per questo, sospetto a volte, che lui si impegna a fondo per farmela passare.

È come se nella sua testa venissi con+ un pacchetto di caratteristiche fisse, definitive, che spesso non hanno niente a che vedere con me.

Dopo la mia “elezione”, ogni volta che mi toccherà fare un discorsetto nello Spazio, perfino i Morti di Figo si schiereranno in prima fila a farmi da claque, e un istante prima di cominciare, dal palco o dall’angolo in cui avranno piazzato il mio microfono, vedrò con la coda dell’occhio Bruno che si dilegua, magari a caccia di qualcosa da mangiare. Oppure diserterà l’evento, perché tanto non si sarebbe perso niente. Mi lascia volentieri il “successo di pubblico”, come se fossi un cinepanettone.

Con quelle che vincono il suo premio alla critica, la fascinazione va al di là del desiderio: mentre si riveste in camera mia, mi spiega tranquillo che con questa o quest’altra ci prenderebbe un caffè, ci farebbe una passeggiata… È tutto quello che vuole, e tutto quello che non fa con me. Se io sapessi quanto si sentono insicure, proprio le più belle! A modo suo è sensibile, trovo il coraggio di pensare. Ha un’idea tutta sua dell’amore e delle priorità, ma si aggiusterà anche questo, se ho pazienza! Ne sono proprio convinta, fino a un mercoledì sera.

La festa allo Spazio è stata affollata, tra discussioni politiche e bicchieri di vino. A un certo punto Barcellona si è fatta sonnacchiosa, come accade a volte nei giorni feriali: ci è venuto a noia discutere o brindare, ma neanche accenniamo ad andarcene. Bruno e io restiamo un po’ isolati, e sono io ad aprire le danze: si è fatto tardi, perché non resta da me? Così evita di farsi una corsa per prendere l’ultima metropolitana. Lui nicchia, come sempre: con tutto quello che ha da fare in casa… Mi accorgo che non sono le solite schermaglie, stavolta sembra deciso. Forse lo aspetta il bucato, o una traduzione in nero. Come una scema inizio a prevenire le esigenze che potrebbero sorgergli a casa mia: ho uno spazzolino in più, può lavorare dal mio pc, c’è abbastanza latte per la colazione… Se qualcuno tendesse l’orecchio, forse gli farei pena.

Con gli occhi socchiusi, Bruno sembra passare in rassegna tutte le cose che in quel momento sono più importanti di me. Siamo ormai sulla Rambla, quando pronuncia il verdetto: il suo coinquilino gli ha passato la ricetta di un sugo piccante, specialità della madre, e a Bruno è venuta una voglia improvvisa di cimentarsi in una versione sua. Sì, a quest’ora di notte. E no, per questi esperimenti preferisce la cucina sua.

Ci metto un po’ a processare l’informazione: per Bruno la salsa piccante è una priorità, io no. Io sono buona solo a tamponare l’appetito.

La sua fame, quella vera, non passa mai per me.

A lunedì per il seguito!

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Alla più bella

Arriviamo insieme.

Arriviamo trafelati e in disordine, ma davanti agli altri dello Spazio lui si comporta come se ci fossimo appena incontrati sul portone.

Decido di ignorarlo. Vivo a Barcellona, ci sono cause migliori da perdere! E lo Spazio ha il problema di tutti gli spazi: prima era meglio. A sentire gli habitué se n’è andata troppa gente, lasciando le redini al Figo e alla sua claque di Morti. È una situazione che all’improvviso voglio cambiare, che so cambiare. Voglio implicarmi in qualcosa, e questo desiderio si traduce sia in spagnolo che in catalano con “voglio bagnarmi”. A Bruno lo scrivo in catalano, per non dare adito a equivoci imbarazzanti: sto per occupare uno Spazio che lui considera più suo che mio, memore com’è di una presunta epoca d’oro che io mi sarei persa.

Comunque sia, lì dentro c’è posto per entrambi.

Lui torna a “passare” da me proprio il giorno della mia prima riunione, “così ci andiamo insieme”. Dice che si ripromette sempre di non tornare, ma poi lo fa, e io non riesco più a mandarlo via.

La riunione è partecipata, c’è addirittura qualche donna. Progettiamo esposizioni, feste per raccogliere fondi, e una serata di beneficenza che si terrà a novembre: con l’entusiasmo della neofita avanzo proposte anche a verbale concluso. Quando restiamo in quattro gatti, e pure Bruno si è eclissato, uno dei Morti di Figo propone di reclutare una bella frequentatrice dello Spazio come cassiera alla prossima festa, a patto che sfoggi una scollatura da antologia. La trovata crea imbarazzo perfino tra gli uomini presenti. Lo racconto poi a Bruno mentre restiamo a chiacchierare sul letto: mi diventa femminista.

“Facciamo tanto i compagni, e poi come strategia di marketing mettiamo alla cassa la più bella!”.

Ancora classifiche. Ancora il promemoria che la più bella è un’altra, è sempre un’altra. Quando è arrabbiato con qualche Morto di Figo, Bruno ne critica prima i difetti, poi i successi, come se fossero stati usurpati a lui. La fidanzata “gnocca” rimane in fondo all’elenco, una postilla alle attestazioni di status, ma intanto sta con uno stronzo, mentre lui prova a fare sempre la cosa giusta… e si deve accontentare di me. Quest’ultima parte non ha bisogno di dirla. Quando glielo farò presente mi risponderà che “ci siamo accontentati a vicenda”, senza rendersi conto che intendiamo cose diverse: io mi sono accontentata delle sue attenzioni a metà, e lui di me, di me e basta.

A volte lo guardo con una pena che non so più provare per me stessa, e per la mia ostinazione a resistere, aspettare. Cosa direbbero allo Spazio, se sapessero di noi due? Chi di noi due si starebbe “accontentando”?

“So che hai un buon successo di pubblico” commenta lui quando, come una bambina, gli riferisco i complimenti di qualcun altro. È lui a consegnare il premio della critica, e io non sono neanche nella rosa finale, altrimenti mi tratterebbe meglio, questo mi è chiaro. Allora continuo a sforzarmi per vincere questo cazzo di premio.

Ma nessuno allo Spazio si fa domande: da me vogliono altro.

Alla fine di un pranzo collettivo in cui ho cucinato per quaranta persone (scuocendo la pasta perché Bruno non si decideva ad assaggiarla), mi chiamano da parte in due o tre. Voglio essere la coordinatrice dello Spazio? Solo per qualche mese. È vero che sono iscritta da poco, ma lavoro sodo, e poi mi aiuteranno. Ci penso solo un momento.

A quanto pare non bisogna essere la più bella, per diventare quella che si sbatte di più.

A venerdì per il seguito!

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Nessuno è fesso

Ci separiamo per un po’.

Non voglio essere “il premio di consolazione” di qualcun altro. Anche a Bruno sembra ingiusto, ma non sa come evitarlo, dice. Ci sono perfino lacrime, non solo mie. Al mio compleanno lui mi porta il pranzo, preparato con le sue mani, poi spera che con questo gesto gli sia risparmiata la cena con gli altri al ristorante. Non lo forzo, ma neanche gli nascondo il mio disappunto. Ho pure tentato di dissuadere l’amica Occhiblù dal raggiungerci con le stampelle: ha avuto un incidente e viene apposta a festeggiare me, e io mi sento un verme, ma non voglio che Bruno faccia il cascamorto con un’altra davanti ai miei occhi. Cosa sto diventando? Alla fine lui arriva a cena quasi finita, mentre Occhiblù sta spiegando che il suo soccorritore, dopo l’incidente, ha finito per chiederle il numero di telefono. Il nuovo venuto approfitta per commentare: “Chiamalo fesso”.

Ma qua nessuno è fesso. A un evento dello Spazio conosco un bel ragazzo moro.

Anche stavolta ho disertato la riunione organizzativa, ma mi è sembrato giusto contribuire ai preparativi, portandomi dietro i vestiti da indossare dopo: tubino nero, calze traforate, e un fiore di stoffa riciclata, per adornare un collarino anni ’90. La regressione all’adolescenza è completa. Quando mi cade il fiore dal collo, lo infilo ridendo nella scollatura, e colgo un momento di imbarazzo nei due invitati a cui verso il vino: davvero a qualcuno viene l’idea balzana di guardarmi? Beh, c’è questo bel ragazzo moro che mi fissa da quando è entrato.

È un architetto, immerso in giri più fricchettoni dei miei. Mentre gli riempio il bicchiere mi parla di una Barcellona notturna e clandestina, popolata da artisti vagabondi e cani che gridano alla luna. Mi racconta di gente che non può permettersi neanche una stanzetta come la mia, rubata a un terrazzo condominiale: le città che progetta lui comprendono anche quella gente lì, non riservano tutto lo spazio al miglior offerente. Vorrei che mi portasse con lui nel suo mondo notturno, ma mentre glielo dico fa il suo ingresso Bruno, tra applausi ironici: finalmente ha trovato la strada del bar! Lui non ha voglia di scherzare: annuncia che andrà via presto perché “ha da fare”, poi si accascia contro una parete e io provo a resistere, ma niente. Abbandono la lezione di architettura per accovacciarmi davanti a Bruno. Tutto bene?

Per un momento il suo sguardo è simile a quello del ragazzo moro. Poi lo vedo sorridere, come se mi avesse colta in flagrante:

“Hai le calze sfilate”.

Mi osservo le gambe: un foro nella trama di filo è più grande degli altri, si nota appena. Lui l’ha notato. La scoperta sembra risollevarlo.

Alla fine aggiungo a Facebook il bel ragazzo moro, ma il primo allarme mi scatta a un evento che mi ha consigliato, in un centro sociale a rischio sgombero. Non è un vero appuntamento, mi sono perfino portata dietro un’amica, ma lui si presenta a spettacolo finito e inizia a conversare con mezzo mondo come se io fossi lì per caso. Posso aspettare “un po’”, mi chiede infine, per bere qualcosa insieme? Lo guardo fisso, gli sorrido e vado a cenare con la mia amica. Qua nessuno è fesso. Al secondo incidente di questo tipo (un appuntamento rimandato a pochi minuti dall’incontro), la breve fitta che avverto allo stomaco mi annuncia che ho visto abbastanza, e che nella mia vita non mi serve altro caos.

La Petulante si complimenta: finalmente ascolto il corpo! Però l’istinto di fuggire dai guai si manifesta con un ragazzo che mi attrae da subito, e sembra desideroso di vedermi. Con Bruno, invece, non avverto nessun mal di pancia premonitore. Ho qualche conclusione in merito? Sì, una: la Petulante è stronza forte. Ma non glielo dico.

Il ragazzo moro non sarà l’unico a distrarmi dalla mia ossessione, ma sarà quello che più mi farà dire: chissà. Una sera mi scrive mentre sono seduta sul letto, con la finestra aperta a sfidare l’uomo col mastino, che fa rumore sulle scale. Sono stanca di temere il suo rancore, e stanca di Bruno, che mi ha appena contattata in chat per sfogarsi sulla sua vita. Così, solo quella sera, mi godo i complimenti del bel ragazzo moro, mentre la playlist passa Pino Daniele. Sensazione unica, perché la musica ti prende anche l’anima

Le mie mani si muovono nell’aria che si fa tiepida, promettendomi una primavera precoce.

Se il letto si muove, stavolta, è solo per seguire ritmi miei.

A mercoledì per il seguito!

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Gol!

Mi spiega che io sono un traguardo.

Sono la prima ragazza normale con cui riesce a stare! Un tempo le voleva troppo fighe, anche i suoi amici gli dicevano che doveva abbassare gli standard. Lo dice tranquillo mentre quasi sonnecchia, perché a me può dire tutto.

Non mi nasconde di mandare foto mie ai suoi amici, come mandava a me quelle della Bella Stronza (non che ci sia paragone, ma questo è implicito…). I commenti che mi riporta sono l’ovvia risposta alla domanda “che ne pensi?”. Di solito dicono che posso andare. Uno aveva fatto un’osservazione non proprio gentile sulle mie origini napoletane. Solo una ragazza latina era entusiasta, ma aveva sbagliato a scrivere il mio nome in chat, e adesso lei e Bruno mi chiamano tra loro con quel nome storpiato. Sono stata ribattezzata a mia insaputa.

Ormai ho imparato a contare fino a dieci, quando mi dice queste cose. Cerco sempre una risposta che sia ragionevole e non polemica. Se lo critico per questioni del genere, si scalda molto: è solo uno sincero, lui.

Il bello è che anche Bruno ha segnato un cambiamento, per me: da quando ero a Barcellona badavo di più all’attrazione fisica, anche perché se mi attraeva qualcuno mi scoprivo più spesso ricambiata, rispetto all’Italia. Con Bruno hanno prevalso altri fattori, però di lui non pensavo che fosse bello o brutto: non pensavo niente. Adesso so che sotto i vestiti che lo infagottano ha un bel corpo, e che non ci crederà mai.

Lui, invece, è felice di farcela “anche” con me. Mi fa strano sentirmi spiegare questo nella mia lingua, subito dopo una siesta. Nella penombra delle imposte chiuse ho come un’allucinazione: attraverso Bruno mi sta parlando l’Italia intera. Te l’ho detto che non valevi granché. Era necessario partire, per averne la conferma?

Da quando ho richiamato Bruno, i giorni sono stati così: felici o tristi, senza vie di mezzo.

Quando va bene ridiamo, c’è il sole in terrazzo. A volte parliamo pure.

Quando va male non succede all’improvviso. Un giorno ti dici che di ritardi ne ha sempre fatti, che se non ti scrive da due giorni sarà impegnato, che se ti parla delle altre è normale, no? Anche tu puoi parlargli degli altri.

Una volta che ha superato le due ore di ritardo, l’ho lasciato davanti alla tavola apparecchiata e sono andata a dormire. Gli sembrava strano, più del ritardo con cui si era presentato. Io invece ero fiera di me. Poi mi sono pentita e sono andata a fargli compagnia.

Una notte, pur di addormentarsi nel suo letto lascia casa mia alle quattro. Mi richiama mezz’ora dopo: gli hanno scassinato casa. I coinquilini erano ancora immersi nel sonno, se lui non fosse tornato a quell’ora avrebbero scoperto il furto col sole già alto. Mi ha chiamato per sfogarsi, e anche per rassicurarmi: non dirà a nessuno dov’è stato, prima di rincasare. Si sente molto nobile per questo, il proverbiale gentiluomo che gode e tace. Io non mi sento così lusingata: cosa staremmo facendo di male? A meno che lui non si vergogni di me. La sua omertà è la soluzione a un problema che si è creato da solo. 

No, non succede all’improvviso. È come la storia della rana nell’acqua fredda, che non è neanche vera. Ma le frasi di Bruno lo sono, e io sono un traguardo, dunque, un “goal” che ha infilato alla vita. Abbiamo litigato pure su come si scriva goal: per lui esiste la versione italianizzata e si deve usare quella, mentre io sono stanca di dover italianizzare tutto.

Ciò che non mi stanca ancora è sentirmi dire che non valgo niente.

A lunedì per il seguito!

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Ogni altra burrasca

Per quel tuo cuore che io largamente preferisco ad ogni altra burrasca (Amelia Rosselli).

Al risveglio percepisco la sua assenza.

Prima ancora di aprire gli occhi avverto il lenzuolo senza pieghe, e il piumone che scende piatto accanto a me. Il freddo mi invade da qualsiasi lato mi giri. Dal terrazzo condominiale non sento fruscii, né latrati soppressi, ma oggi la cosa non mi conforta. Tendo l’orecchio in cerca di passettini: d’estate la gatta dei vicini mi entra addirittura in casa, e me la ritrovo all’improvviso sotto al letto. Adesso, anche se facesse caldo, avrei paura a lasciare le imposte aperte. Non so perché la gatta mi abbia adottata, perché venga anche quando non ho cibo per lei.

Il buco che avverto allo stomaco non verrà colmato dal poco latte rimasto, anche se è tutto per me, e nessuno mi divorerà il pane cafone portato in valigia, che tanto si è fatto già gommoso.

Non ho tempo per le traduzioni in nero: ho un appuntamento tra un’oretta, con un gruppo di compaesani in vacanza. Mentre mi insapono davanti allo specchio mi chiedo: perché sono tornata a frequentare italiani? Troppi di loro pretendono ancora la trafila di farsi desiderare, cedere al momento giusto, adattarsi al ruolo dell’animale braccato che, però, si lascia catturare “solo quando vuole”… Questo balletto non mi interessa, non lo inizierò ora. Ma all’improvviso so perché, per qualcuna, è un’arma di difesa.

A pranzo coi compaesani mi scopro a scimmiottare gesti che un tempo mi sorgevano spontanei. L’arte di sfottersi a vicenda, così tipica delle mie parti, è diventata per me un gioco noioso. Che bisogno abbiamo di saltarci sempre alla gola?

Gli altri perseverano: in un dialetto che non so imitare fanno la gara a “chi è più fallito”, ma poi serrano i ranghi, con la familiarità degli amici cresciuti nello stesso palazzo. Io sono cresciuta in un villone anni ’70, con la proibizione di giocare in strada coi figli dei vicini: passavano le macchine. E il dialetto di quei bambini era il codice di una tribù a cui non dovevo appartenere.

Quando mi arriva davanti il dolce, che non voglio nemmeno assaggiare, penso che non appartengo più a nessuna terra, a nessuna lingua. Appartengo solo alla pelle di Bruno. E a modo mio la possiedo.

Al ritorno, sulle scale c’è troppo silenzio. L’odore si fa insostenibile man mano che salgo: i bisogni di un cane. Sulla parete dell’ammezzato, una scritta dal colore sospetto avverte che qui dentro ci sono topi. Accanto alla scritta c’è la porta dei filippini, colpevoli di aver invaso di antenne il terrazzo condominiale. Il figlio più giovane non può più giocare in terrazzo, così lo fa in strada, col piccolo tunisino del quarto piano. Se mi vede passare mi saluta in italino perfetto. Sua madre è quella che ha “risposto male” all’uomo col mastino, che l’ha punita tagliando i fili delle antenne. È stata questa madre filippina a chiamare per prima l’agenzia immobiliare, perché ripristinasse la serratura del terrazzo. Ma l’uomo col mastino l’ha cambiata ancora una volta, poi due. Tanto quella è casa sua.

La polizia dice che per intervenire le servono prove.

Turandomi il naso raggiungo il mio piano e mando un messaggio a Bruno. Gli dico: va bene, si fa come vuoi tu.

È l’ultima volta che sono io a tornare.

A venerdì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Il linguaggio del corpo e della fame

da granconsigliodellaforchetta.it

Torno a Barcellona con una valigia piena di cose da mangiare.

Mentre gli scrivo mi accorgo che la mia camera è gelida: sarà un problema. L’unico linguaggio che condividiamo al momento è quello del corpo, e della fame.

Ci mette un po’ a rispondere: è tornato da poco anche lui, ha delle cose da fare. La pulizia della casa, il bucato… Non mi aspettavo certo si precipitasse! Magari il giorno dopo, o l’altro ancora…

No. Per vedermi gli servono quattro giorni. Aspetterò?

Chiudo gli occhi. Non ci vediamo da quindici giorni. Insieme ne abbiamo trascorsi solo due. Anche così, la sua lavatrice viene prima di me. Visto che avevo ragione? Era meglio chiuderla prima di Natale.

L’ho spiazzato ancora una volta: che problema c’è? Lui funziona così. Deve togliersi le preoccupazioni dalla testa, per potersi godere qualcosa.

Io non sono “qualcosa”, ricordo a me stessa chiudendo la conversazione. Non tornerò a ricordarmelo per un bel po’.

Il giorno dopo, la Petulante mi annuncia che Bruno e io abbiamo lo stesso disturbo. È un colpo basso: lei è la mia psicologa, e Bruno non l’ha mai visto. Le diagnosi non si fanno così. Ma ne è sicura, ci siamo trovati. Io da piccola ero di una religiosità ossessiva, dovevo recitare ogni Ave Maria senza distrarmi un attimo, o c’era da ricominciare. A volte guardavo sfinita giù dal balcone e pensavo: è solo un salto, tanto i bambini vanno in paradiso lo stesso. Secondo la Petulante, queste cose non passano mai per davvero. Bruno non mi ha mai parlato di epoche così, ma i suoi impegni quotidiani sembrano una tela di Penelope da disfare ogni minuto, e io sono già diventata un difetto nella trama.

“Sei a casa?”.

Il messaggio mi arriva alla fine di una giornata piena d’ansia.

Bruno scrive come se non fosse successo niente. Sta uscendo ora dallo Spazio, se voglio può “passare”. Questo uso del verbo mi colpisce sempre: per me vuol dire al massimo “fare una capatina”, per lui significa restare a cena, o anche a dormire.

Anticipo l’irritazione per il tempo che ci metterà a salutare tutti, e percorrere settecento metri. Impiega mezz’ora, stavolta: sta ancora imprecando contro la folla in strada mentre si getta sul divano. Ha un atteggiamento remissivo, e un po’ compiaciuto: è passato perché gli dispiaceva che “me la fossi presa”, ma lui è fatto così, mi assicura, prima il dovere e poi il piacere. E, a proposito di piacere…

Ritiro la mano che mi ha appena afferrato e scatto in piedi. È l’unica cosa che è venuto a fare? Allora è solo per questo che ha sottratto tempo alle pulizie generali! O magari vuole un premio per la sola generosità di “passare”…

L’ho spiazzato un’altra volta.

“Forse avevi ragione” borbotta. “Dovremmo chiuderla qui”.

Solo perché avrei voluto spiccicarci due parole, prima di ritrovarmi con la mano su una zip?

“Purtroppo so quello che voglio” dichiaro. “E so che tu non me lo puoi dare”.

Mentre lo vedo andarsene, ci credo pure.

A mercoledì per il seguito!

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Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Quella dopo

Davvero mi ha nominato la sua ex?

Perché al mattino mi sembra tutto confuso, mentre ci arrangiamo col pane del giorno prima e nessuno di noi due vuole farsi sei piani per portarne di fresco. La colazione insieme non era prevista, così come non era previsto che lui, ore prima, mi informasse ridendo che avevo i pori del viso dilatati. Ho abbozzato: grazie per l’informazione! Da qualche parte, David Cameron era davvero sul punto di gridare che bastava così, che potevamo iniziare a sfracellarci contro l’iceberg.

L’iceberg è stato la Bella Stronza. Bruno l’ha rievocata durante certi equilibrismi che con lei erano più facili, visto che era alta. In tempi non sospetti mi aveva mandato delle foto, e io avevo pensato che forse non era fotogenica. In fondo l’ho capito subito, che ero “quella dopo”: una di passaggio che serviva a farlo tornare in carreggiata. L’ho capito e ci ho riso su, eppure… Quando ho sentito nominare la Bella Stronza mi sono accasciata su un lato. Davvero stavo piangendo? Mentre ci decidiamo a uscire di casa, ripenso alle parole della psicologa, la Petulante: il tuo corpo sa le cose prima di te. Maledetta.

Ci salutiamo sulla Rambla. Abbiamo entrambi cose da fare, posti in cui stare. La nostra vita continua. Mi avvicino al suo giubbino troppo leggero per sussurrare:

“È stato bellissimo”.

“Anch’io” risponde.

Quella sera, in chat, mi chiede cosa succede adesso. Può andare anche con altre, vero? Ormai ha “rotto il ghiaccio” dopo la Bella Stronza, e avrebbe un altro paio di occasioni… Me l’aspettavo, ma non così. Come un automa rispondo che non c’è obbligo, ma se ci fosse un’altra vorrei saperlo. In quel caso mi ritirerei in buon ordine, ma non glielo dico. Almeno comincio a capire cos’è che non voglio. Detesto gli almeno.

“A Natale la chiudiamo, okay?”.

Glielo propongo nel buio, la volta dopo. Resta zitto mentre spiego che non so gestire queste cose, che poi finisco per inn… innam… quella cosa lì.

Forse a unirci è stato il momento. È stata la mia disoccupazione e anche la sua, di cui parla poco perché c’è poco da dire: dopo anni non gli hanno rinnovato il contratto, punto. E poi c’è stata la volta che mi volevano assumere part-time a 500 al mese, spuntati dopo una trattativa feroce, ma solo se potevano spacciarlo per un praticantato. Non potevano. Forse a unirci davvero, in questa stanzetta rubata a un terrazzo condominiale, è l’incertezza perfetta di ciò che avverrà.

Ed è troppo poco per unirci.

Bruno rompe il silenzio: in casi come il nostro, anche lui finisce per inn… innam… Quella cosa là. Decido che non è un esempio generico, che parla di me, e sono più contenta di quanto vorrei.

Con quel pensiero in testa, il Natale non mi sazia. In paese non riconosco più le strade, né le rare persone che mi salutano. In compenso riscopro una bella canzone in napoletano: il titolo significa “Uccidimi”. Bruno è incuriosito dal napoletano, ma in quei giorni non si fa sentire. Che fine hanno fatto le nostre conversazioni virtuali? Sono sparite, ma lui no. Lui riappare quando inizia proprio a mancarmi.

E quando ci sentiamo per gli auguri di buon anno, capiamo entrambi che torneremo a vederci.

A lunedì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

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