Archivio degli articoli con tag: perdita

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Precotta

Da recetasveganas.pro

“E adesso parlagli”.

Squadro la sedia vuota che l’amico mi ha sbattuto davanti. Cosa avrei da raccontare a una poltroncina di velluto rosso?

“Eccolo qua, Bruno!” insiste l’amico. “All’improvviso non hai niente da dirgli?”.

Sì. Tipo che, adesso che non gli serve più, il mio corpo si dissolve.

Della mia brutta casa senza fine occupo solo l’ultimo tratto: l’angolo tra cucina e bagno, e la cameretta in cui ho fatto gettare il tatami. La Petulante ha un bel dire che mi sono rinchiusa da sola in una tana, nella vastità della Casa degli spiriti. È che tutto quello spazio mi sembra ostile, mentre un angolo lo so controllare. E poi lì il dolore mi trova subito, e prima mi trova, prima mi lascia dormire.

Mi sto perdendo tutto il corsetto online, ma che importa? Sono al sicuro nella mia tana, in fondo alla casa che non finisce più. A pranzo mangio una tortilla precotta, che mi dura svariati giorni. A volte la accompagno a una fetta di pane. Accanto al comodino troppo alto per il tatami ho piazzato un panettone al cioccolato: tra poco è Natale. Ci ho conficcato dentro un coltello, che però non uso mai. È con le dita che pesco la cioccolata: lo faccio tra le quattro e le cinque del mattino, quando mi sveglio per piangere. Mi riaddormento dopo un’altra oretta, e a quel punto potrei risvegliarmi che è già pomeriggio. Spesso, in quei casi, mi accoglie il buio.

Dov’è finita la mia spavalderia al telefono con Bruno, mentre percorrevo la Rambla? “Non sono il secondo piatto di nessuno”. Col cazzo. Non mi importa più dell’altra, non mi importa di come mi ha trattata lui. Voglio solo che torni e metta fine a tutto questo.

E invece una parte di me resiste, non riesce a rimuovere l’istante di sollievo di quando ho saputo della Biondissima. Non saprei più fingere di abitare quel castello di carta, che ora non c’è più.

Tanto lui è sparito davvero nel nulla.

L’ho contattato solo quando mi è arrivata una notizia dal mio vecchio palazzo: hanno sfrattato l’uomo col mastino. In un messaggio vocale, la coppia che viveva con la gatta mi ha descritto la scena quasi all’unisono, compreso l’intervento della polizia. La statura modesta dell’uomo lo faceva sparire tra i ragazzoni in divisa scura, che lo portavano via. Alla fine è stato sloggiato perché non pagava da un pezzo il suo affitto calmierato. Forse quella cifra irrisoria era davvero l’unica cosa rimasta della sua infanzia.

Nessuno sa che fine abbia fatto il mastino, né la donna (la Iside bionda) che risaliva le scale con gli zatteroni ai piedi e le buste della spesa.

In chat, Bruno ha accolto la notizia con una solidarietà un po’ ironica: e io che avevo comprato casa per sfuggire a quello lì! Neanche il tempo di trasferirmi e sono andati a sfrattarlo. Non ha scritto altro, e io ho disattivato da un po’ le notifiche al suo profilo, ma di lì a qualche giorno, prima che potessi impedirlo, mi è balenato davanti il post di un suo amico. Era uno che un tempo sapeva “una mezza cosa” di me, e adesso linkava a Bruno con nonchalance un articolo sul paese della Biondissima. Mica una roba qualsiasi: una curiosità su come allevavano lì i bambini. Il primo commento, in perfetto italiano, era della Biondissima in persona. Anche Bruno ha replicato con fare da esperto, dando lezioni nella lingua di lei che stava imparando così bene. In quella stessa lingua stavo guardando a spezzoni un thriller sottotitolato, ma da quel momento in poi l’ho lasciato a metà. Da allora, e per quasi un anno, sarei riuscita a seguire solo distopie e saghe fantasy.

Adesso che l’amico agente immobiliare mi ha riaccompagnato a casa, dopo che mi ha visto lasciare la mia pizza a metà, ho osservato attraverso i suoi occhi il mio tatami, mezzo sfatto e puzzolente di candele alla ciliegia. Da bravo milanese, l’amico ha polverizzato con lo sguardo anche il panettone al cioccolato, che ormai pugnalo solo quando mi scoccio di scavare con le dita.

“Stai sparendo” ha constatato, esasperato dall’ostinazione con cui ignoravo la mia fortuna, la casa nuova che mi aveva spuntato a un prezzo ridicolo.

È stato a quel punto che mi ha trascinato in salotto e mi ha schiaffato su una poltrona rivestita di velluto, piazzandomi davanti questa sedia altrettanto brutta.

“Bruno è seduto qui” mi ripete un’ultima volta, poi ordina: “Digli tutto ciò che devi. Ora”.

Dev’essere qualcosa che sta studiando per diventare terapeuta, e io sono troppo debole per opporre resistenza, così finisco per dire un sacco di cose a quella sedia che non è Bruno.

Gli dico che un conto è non amarmi, e un altro è mettermi da parte appena non gli servo più.

Gli dico che siamo stati due scemi. Che quella canzone napoletana che ho scoperto a Natale scorso, “Uccidimi”, non andava certo presa alla lettera.

Soprattutto gli svelo la scoperta che ancora non mi perdono: la mia sopravvivenza è più importante di lui. Gli dico tutto questo.

Per tutto il tempo, però, non dimentico mai di star parlando a una sedia.

A venerdì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Sarò breve perché ieri il compagno di quarantena si è deciso a voler guardare Casa Howard dopo il telelavoro: ma lui finiva alle undici di sera, e il film durava due ore e venti.

Prima, però, avevo rovesciato il .

E meglio così! Con le mie pantofole di pelo rosa (eh, lo so) avevo assestato un calcio felpato alla tazza che, per forza di cose, avevo poggiato sul parquet davanti a quello che è diventato il mio studio privato: il mini-balconcino per stendere i panni, su cui getto un pareo da mare e due cuscini e mi metto a leggere Elizabeth Strout. Ero stata così assorta nella lettura di Olive, again che s’erano fatte le otto passate, e già mentre scorrevo le pagine sul Kobo avevo osservato il livello ancora inquietante di quel tè non Brit-approved, perché era con cannella e anice e soprattutto tanto zucchero (l’Impero colpisce ancora!). Sarei riuscita a dormire, io che vado in tilt con un Pocket Coffee? È che la giornata s’era svolta in ritardo, come ogni Pasqua che si rispetti, anche se nelle circostanze che sappiamo. In effetti, lo svolgimento faceva invidia a qualsiasi Filini tour:

  • 10.15: esercizio in guruvisione, con Zoom che s’era accaparrato il microfono anche dopo la videoconferenza;
  • 11.15 preparazione pranzo pasquale (spavette cu’ ‘e pellecchie) + manfrina WhatsApp “io-vi-sento-voi-mi-sentite” con genitori e fratello (ma il microfono, dicevamo, era ancora in ostaggio di Zoom);
  • 11.30 diretta Skype col gruppo di scrittura della libreria italiana, che non si arrende (e per poter parlare, con la sobrietà e il senso della misura che mi contraddistingue, ho disinstallato la chiavica di Zoom e riavviato il cellulare).

Quest’ultima attività è stata un trip esagerato, in senso letterale perché eravamo in tenuta da “vacanza alle Canarie“, votate come meta virtuale per l’ultima lezione: come se non bastasse, eravamo muniti di regali da condividere, nel mio caso un cestino da picnic con crema solare e dell’apprezzatissimo rum, lasciato in casa, credo, da mio padre. Abbiamo finito tardissimo, alle 15, quando il compagno di quarantena aveva già digerito del riso duro come una pietra che s’era preparato da solo, e dunque, mezz’ora dopo, osservava con diffidenza i miei spaghetti al pomodorino (ricetta che ai non italiani, di solito, sembra “troppo semplice” rispetto a quella ventina d’ingredienti che schiaffano loro nella pasta).

Insomma, ‘sta tazza di tè me l’ero riuscita a preparare verso le sette di sera!

Quando ho rovesciato la metà che pure ne rimaneva, dunque, non ho bestemmiato in mondovisione proprio la domenica di Pasqua: ho pensato sul serio “meno male”. E mi sono tornati in mente quei proverbi della nonna, che aveva passato la sua ultima Pasqua in diretta con me su Skype, facendomi pentire, poi, di non essere partita a salutarla. Adesso che per cause di forza maggiore m’ero risparmiata l’atrocità dell’agnello e il casino delle visite, mi dicevo al posto di nonna che “Non tutto il male viene per nuocere”, e “Se chiude ‘na porta, s’arape ‘nu purtone”.

A volte ce la raccontiamo per consolarci, che sia per una banale tazza di tè rovesciato o per cose serie come un lavoro perso, una storia finita: non ci rendiamo conto che, più spesso di quanto non crediamo, è davvero meglio così! Che quel lavoro l’avevamo accettato per inerzia, e per inerzia andava avanti la relazione, e comunque la voglia di tè alle sette di sera anche no, se come me non dormite bene dal 1986. E sì, avremmo dovuto trovare la forza o la lungimiranza di non metterci noi in quella situazione, o di sottrarcene prima possibile: ma oh, per una volta che ci viene la manna dal cielo sotto forma di inconveniente inaspettato, cavoli, ma ben venga!

La solita raccomandazione di ricavare il buono da tutte le situazioni è meno scontata quando c’è davvero qualcosa da ricavare.

Per esempio, vedete quanto è imprevedibile, questa nostra esistenza? Ho passato una delle Pasque più strane della mia vita (manco la più strana, che credete?) a fare considerazioni filosofiche su una tazza di tè.

E non l’avevo neanche corretto con il rum che avevo portato quel pomeriggio stesso, in spiaggia, alle Canarie.

(La colonna sonora del picnic in spiaggia.)

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