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Risultati immagini per separazione casa  Nell’elenco dei pomeriggi strani della mia vita posso includere anche quello di ieri: nel giro di mezz’ora ho incontrato due ragazzi che si erano appena lasciati, dopo aver tentato di vivere insieme per un po’.

Con uno ho un rapporto di lavoro, quindi abbiamo parlato poco. Con l’altro abbiamo preso un caffè con sfogo annesso.

Il primo era mezzo accampato in un appartamento di quelli di transito, eleganti perché non ospitano gente per più di un mese e devono valere il loro prezzo. Era dimagrito, timido come sempre, e non mi ha detto niente, si è messo al lavoro.

L’altro pure era magro, forse per questo aveva gli occhi che sembravano più grandi, più umidi, fissi. Mi ha spiegato tante cose, che se non fossi appena tornata dall’altra tristezza avrei accettato più di buon grado.

Non occorre dire che quando ti lasci con qualcuno, e non proprio in termini amichevoli, non dai esattamente il meglio di te. O non sempre. Potresti diventare una persona ultrasensibile, consapevole delle proprie responsabilità, indulgente su quelle altrui, ma la tentazione di dire “quello stronzo” c’è sempre, com’è umano che sia.

Però è difficile credersi le teorie autoassolutorie ed eterocolpevolizzanti (antonimo appena inventato) se hai avuto modo di ascoltare le due campane, o nel mio caso di osservare quello che parla più delle parole: un volto improvvisamente invecchiato, un corpo che chiede cibo e riposo. Gli saranno accordati, e presto, ma intanto c’è un dolore simile, declinato solo in modi diversi.

Lo “sfrattato” è uno tranquillo, pratico, più dedito all’azione che al pensiero: tra noi non funziona, me ne vado io, passerà.

L’altro è intenso, riflette molto. Si lascia invadere dalle emozioni e ci si trova a suo agio: e allora scandaglia ogni momento, ogni parola. Ma comincia a capire che tanti pensieri non gli restituiranno quel tempo che già non crede di aver perso, perché ha imparato tante cose.

Mi ha colpito il fatto che scambi il diverso modo di soffrire dell’altro per mancanza di profondità. Non glielo dite, ma sospetto non sia vero.

E due persone che soffrano in forme così differenti hanno due possibilità: o si completano, in un modo che conservi la loro integrità e la trasformi in una pace condivisa, o stanno lì come distribuiti a casaccio in un posto che non è il loro. In attesa che qualsiasi cosa li abbia uniti lasci spazio alla scoperta di essere troppo diversi per volersi a lungo, troppo uguali nella sincerità per continuare a ingannarsi.

Sono esperienze che fanno tutti, sono solo le prove ed errori di cui è fatto l’apprendimento umano.

Spero che entrambi soffrano presto tutto quello che devono, non un grammo di più ma neanche un grammo di meno, che in queste cose gli sconti sono pericolosi.

Così decideranno prima di cosa vorranno gioire ancora.

balcone La questione è che mi dovevo buttare di sotto.

Cioè, non che dovessi, ma per una lunga frazione di secondo non ho capito bene cosa ci facessi, appena piombata sul balcone, coi lucciconi agli occhi e la voglia di vivere di Leopardi con l’influenza.

Non credo fossi corsa a controllare la crescita del ficus accanto a me. Che poi l’inquilino che mi è subentrato mi ha informato che non è manco un ficus.

Più che la volontà di testare la mia abilità coi tuffi, insomma, avevo la sensazione di non essere del tutto padrona delle mie azioni.

Per fortuna queste cose durano, in genere, una frazione di secondo. Il tempo di cedere alla parte di noi che è ostinata a sopravvivere a qualsiasi circostanza. Specie a quelle che non abbiano a che vedere con disastri naturali, bombardamenti e compagnia bella.

Da allora sono passati tre anni e ho preso nuove cantonate, fatto altre figure di merda, vinto quacche cosa. Ho quasi sempre notato che le persone intorno a me reagivano con più trasporto di quanto facessi io, nel bene e nel male.

Io invece, dal giorno del balcone (il #balconyday), sono stata soprattutto curiosa. Voglio vedere come andrà a finire. Anche se la vita, come nei film porno, non riserva troppe sorprese sul finale. Ma è come i remake di film famosi, l’importante è la trama.

Allora mi scopro spesso a fare da protagonista e insieme da spettatrice, in genere divertita, in ogni esperienza. Anche a una giornata di fiera senza troppi clienti, ma con concerto di tango e claque di vecchietti annessa. O alla mia proclamazione, col voto altino che mi sarebbe andato benissimo se tutti non mi avessero detto “peccato, avresti preso il massimo se solo…”. Non significa che non mi farò i miei conti, che non deciderò se riprovarci o meno. Vuol dire che, già che sono ancora qui, voglio tutto il pacchetto, i fallimenti e le vittorie che poi, in un certo senso, si equivalgono.

Insomma, la mia vita doveva finire quel giorno sotto un balcone, magari sui calzini bianchi di un turista di passaggio.

Tutto il resto è tanto di guadagnato, che faccia schifo o meno. È un extra, come le salsine sulle patate fritte.

Se sono abbastanza croccanti, va bene pure la mostarda del discount.

https://www.youtube.com/watch?v=a-xWhG4UU_Y

 Ho trovato questo metodo infallibile per mettere ordine in casa.

Togliere le cose che non mi servono.

“Originale!”, direte voi.

Solo che lo faccio davvero. Non rimane lettera morta nell’inserto femminile di un quotidiano.

Non uso il verbo buttare perché ho a disposizione la stanza di un amico che dice sempre “presto vengo a vivere a Barcellona”. Siccome lo dice da anni, camera sua è diventata il ripostiglio ufficiale.

E vi giuro, è incredibile quanto ci si guadagni a sbarazzarsi semplicemente, e senza rimpianti, di oggetti che non rimuovevamo… Perché?

Analizziamo le scuse più gettonate e le loro evidenti contraddizioni.

  1. È troppo ingombrante, come lo sposto. Tipico caso in cui la scusa per non agire è in realtà la miglior ragione per farlo. Pensiamoci: preferiamo tenerci quel catafalco lì per anni, invece di dedicare mezz’ora a rimuoverlo?
  2. Ci sono affezionata/o. Infatti ce ne vogliamo liberare. Qui scatta l’odi et amo dell’interrogazione di Latino. Però non si tratta per forza di buttarlo, si diceva. Se non abbiamo un ripostiglio, perfino spostarlo in una zona meno scomoda della casa può fare molto. E poi il classico vaso Ming della zia ci farà pensare più intensamente a lei se, invece di tenerlo costantemente sotto gli occhi, lo riscopriamo ogni anno accanto al piumone, quando comincia l’inverno.
  3. Prima o poi può essere utile. Intanto sacrifichiamo anni di difficile pulizia a quegli improbabili cinque minuti di utilità, che sottraggono spazio a roba che ci gioverebbe davvero usare più spesso.

Insomma, la sottrazione è la più antipatica delle operazioni, ci evoca privazione e bisogno, eppure spesso è incredibilmente risolutiva, ed economica.

Infatti la sto applicando a tutti gli ambiti.

Ad esempio, sottraggo tempo prezioso a faccende già di per sé scoccianti. Scopro le meraviglie della Posta Elettronica Certificata (i 5 euro che vi salveranno la vita) per combattere con le pratiche del Consolato.

Quando giro per case, attività frequente a Barcellona, rimando alle Calende greche le visite precedute da un: “Non ho una piantina della casa, devi proprio passare a vederla”. Solo in casi come questo, quando sospettiamo che vogliano sottrarci tempo, procediamo per addizione: tempi di spostamento ad agosto + ressa dei turisti + attesa (ad agosto a Barcellona sembra quasi esista un solo agente, armato di cartellina gigante). Risultato: la scoperta alla prima occhiata che le stanze sono tutte senza luce e c’è un bagno solo. Ci voleva la piantina, per questo?

Con le persone, lo so, è più difficile andare per sottrazione. E  a farlo passiamo pure per spietati. È una brava ragazza, mi sento dire, solo che è appena arrivata, si deve ambientare, dalle tempo. Caro, ci ho passato una sola serata ed è riuscita a intavolare un litigio sul nulla, perdersi due volte mentre la cercavamo tutti, lasciare oggetti sparsi in ogni locale dove mi trascinavate mentre premevo per andare a casa. Le auguro tutto il bene, semplicemente non ho tempo da perdere con gente che non ha ancora trovato se stessa, anzi, ancora non ha capito che si è perduta. E non accetterà aiuti non richiesti.

Lo so, con le persone care è più complicato. Non sono televisori dell’anteguerra o facce viste e dimenticate a una festa. A volte si eliminano da sole, per quanto doloroso possa essere. Lo sa bene chi vive all’estero.

Altre volte non è così facile. Cambiamo gusti, cambiamo vita, scopriamo di non avere niente da dirci, tranne ti voglio bene. Che, mi spiace smentire un luogo comune, ma non sempre basta a giustificare l’ingombro reciproco che ancora costituiamo nelle nostre vite. E allora si fa come al punto 2: non li eliminiamo, riserviamo loro un angolino speciale, da qualche parte nei giorni, abbastanza grande da non perderli, abbastanza piccolo perché non siano molesti. Un po’ di manutenzione non si nega a nessuno, come un messaggio tipo “Tutto bene?”. Sperando che la risposta non sia la cantilena egocentrica di lamentele che una volta ci divertiva e adesso ci fa sbadigliare.

Prima o poi ci ricorderemo a vicenda che l’utilità, applicata alle persone, si declina anche in un bicchiere di vino o in una serata di ricordi.

E allora cessa di essere utilità e diventa l’unica cosa che conta: farsi compagnia senza avere la sensazione di star sottraendo qualcosa alla nostra vita, invece che aggiungerla.

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Ho fatto lezione contenta, col cuore leggero, nel giorno ideale per farlo: solo due ore al mattino, poi il pomeriggio libero per inventarmi impegni inutili.

In classe abbiamo parlato di cucina “fusion”, ci siamo indignati per certi accostamenti di sapore e poi ci siamo accorti, o ricordati, dell’inevitabile: cucini con quello che hai. Nella carbonara ci vuole il pecorino perché là dov’è nata si allevavano pecore, mica mucche. Il mais è arrivato prima al Nord e allora polenta e osei.

Insomma, ci scanniamo su roba che è nata spesso dalla necessità. Cucini con quello che hai.

Tornando in metro riuscivo a sorridere perfino alle signore locali che mi scostavano a culate o mi facevano il limbo sotto l’ascella per sedersi, e mi sono resa conto che sono otto anni che ci sopportiamo a vicenda. Allora mi sono ricordata di chi otto anni fa, con me in procinto di partire, mi scrisse: “Devi prendere un aereo, quindi non dirò niente. Ci vediamo al ritorno”. Il ritorno che non ci sarebbe mai stato.

Allora ho fatto un po’ di fantastoria e mi sono chiesta: “Se avessi avuto allora la serenità di oggi? La sicurezza, l’allegria? Come sarebbe stato chiudere il cerchio della mia storia-non-storia, la più romantica, quella dei vent’anni? Sopravvivere alla consegna insostenibile di realizzare quei sogni fatti proprio per non avverarsi mai?”.

Sì, questo pensavo, tra gente che sgomitava con le valigie per scendere a Plaça Catalunya, lontana nello spazio e nel tempo dall’aeroporto dell’ultimo saluto.

Mi sono data una risposta che ormai è un’abitudine, ma che, ora lo so, non è una consolazione: i sogni così sono cerchi che si chiudono su se stessi, è come se la tua vita finisse a vent’anni, come in una favola. Due si vogliono, ci sono gli ostacoli, si ottengono e vissero felici e contenti. Che succede, dopo? Boh. Il cerchio si è chiuso e il dopo non è affar dei sogni. Ergo, può anche essere un incubo, non è dato saperlo. Invece che succede se al posto di chiuderci su noi stessi ci apriamo, smettiamo di piegare la vita ai nostri sogni postdatati e seguiamo i suoi giri strani? Che succede se prendiamo i suoi voli, ci lasciamo sbattere un po’ dalla marea provando senza troppa convinzione a girare il timone dove vogliamo?

Tutto questo, pensavo, anche scendendo alla mia fermata, in pasto al pomeriggio di sole.

Soprattutto ricordavo la lezione: si cucina con quello che si ha.

Otto anni fa avevo dei sogni. Ora ne ho altri. Non puoi unire soja e pecorino in un paese in cui non bevono neanche il latte. Non puoi produrre vino dove fa freddo tutto l’anno.

Non puoi avere la serenità accumulata in sette anni e gli stessi sogni di quando non l’avevi.

Il pomeriggio fuori mi ha accolta bene, con un sole nuovo.

https://www.youtube.com/watch?v=fgs_81v9f6o

Orgoglio   Quando ho costretto qualcuno a prendere un caffè con me e confrontarsi col passato, il nostro passato insieme, non è stata la fine, è stato l’inizio. L’inizio di nuove domande, nuove richieste di confronto. Che non toglievano il problema di fondo: il fatto che lui non volesse a) vedermi, b) darmi spiegazioni, c) tornare con me.

D’altronde, se stavo combinando tutto quel casino, non era per far pace. Era perché una parte di me ancora non aveva chiuso quel capitolo e sperava lo facesse lui.

Detto questo, salve.

Per concludere questo sproloquio sull’ “assenza che ci appartiene” (parafrasando una canzone di Giorgia che forse ricordo solo io), volevo proprio chiedermi: perché abbiamo tanto bisogno di rivedere qualcuno che ci evita? Perché pretendiamo che sia l’altro a chiudere un capitolo della nostra vita?

Capisco all’inizio, quando chi volevamo incontrare era ancora lui, perché era passato poco dalla rottura e ci mancava. Ma col tempo, i lavori, i viaggi, gli altri amori, per me quello che vogliamo rivedere è il nostro passato, con cui abbiamo un conto in sospeso. I nostri vent’anni, che ora ci sembrano spesi male. I maldestri tentativi di farlo innamorare, evaporati al primo incrocio di sguardi con un’altra. L’incapacità di accettare che quello che faccia male a noi sia così indifferente all’altro.

Ecco, la chiave, almeno nel mio caso, è stata la più semplice e la più difficile: accettarlo. Ma proprio prenderne atto. Ingoiare il boccone e andare avanti. Senza cercare altre spiegazioni, i sentimenti non ne hanno bisogno. E l’indifferenza, personalmente, la considero un sentimento di tutto rispetto. Anche quando si accompagna ad altri fattori (come i sensi di colpa), tende a neutralizzarli con la sua evidenza.

Una volta accettato questo, ho avuto il tempo e la voglia di fare altro. Per esempio di accorgermi di quelli che, a invitarli a prendere un caffè, non ci avrebbero pensato due volte.

E poi, devo confessarlo. È stato quando ho accolto l’assenza, che l’assente ha voluto vedermi.

Sapete quando l’ho preso, un caffè col fuggitivo?

Quando ho risolto il problema mio, con me. Quando ho smesso di cercare i miei vent’anni negli errori altrui e ho cominciato a trovarli nei miei.

Oppure quando l’ho piantata di cercare solo errori, spiegazioni razionali, e ho riconosciuto quanto delle nostre vicende sia dovuto al caso. Alla telefonata che l’ha restituito al lavoro, un settembre in cui per noia o solitudine si stava riavvicinando. Alla permanenza all’estero che improvvisamente gli ha risolto ogni dubbio sul cominciare o no la relazione.

Stiamo certi che, se alla base ci fosse stato un interesse vero, sarebbe stato almeno più difficile che queste circostanze avessero rovinato la storia.

Accogliamo l’assenza, dunque, ma come una possibilità concreta. Non come un’ospite scomoda. Che l’accogliamo o meno, quella si siede di traverso sui nostri rimpianti, manco fossero un divano.

Tanto vale accettarla e chiederle quanto conta di restare. Ci risponderà che, in gran parte, dipende da noi. È di quelle ospiti che per andarsene devono assicurarsi di essere ben accette. Quando hai preso atto della sua presenza, quando quasi ti ci sei affezionata, ecco che prende il cappotto ed esce dalla porta giusta.

Quella che nessun altro chiuderà per noi.

image2-293x300  Eccolo, è ancora lui. Ormai non deve neanche più chiamarci, basta il WhatsApp. Evitiamo accuratamente che si accenda la spunta blu mentre scorgiamo le prime parole sullo schermo e immaginiamo il resto:

Mi ha messo ‘mi piace’ a…

No. No. No.

Il messaggio si concluderà certo con qualche emoticon di coriandoli, festoni giapponesi, bottiglia di spumante stappata… Ah, non esiste, l’emoticon dello spumante?

Be’, stapperemmo noi quello vero, se il nostro amico stalker capisse che la sua “amata” non ne vuole sapere. Si toglierebbe il pensiero. Ma lei non avrebbe nessun motivo per puntualizzarlo: si sono visti una volta a una festa e chiacchierando cinque minuti hanno scoperto di amare lo stesso film. Fine dell’idillio. Lei è sparita a prendere da bere e si è intrattenuta col barman, un bel po’ in effetti.

Ma il nostro amico, quella notte stessa, l’ha aggiunta su facebook. Giusto in tempo perché lei si ricordasse vagamente della conversazione e del film.

Il resto è invenzione. Quella che ci creiamo da soli in queste situazioni in fondo innocue e quella, ben più pericolosa, che viviamo quando entrano in scena i rimpianti.

Quando scriviamo al nostro ex per riavere il lume da comodino che abbiamo dimenticato andandocene da casa sua: una scusa davvero brillante per incontrarci! Magari alle 20, davanti a un bar famoso per gli aperitivi e vicino al suo ristorante preferito. Strano che lui non cada in questa astuta trappola.

Spiegazione di lui: sono bloccato in casa da tre giorni con una terribile perdita d’acqua che ha generato delle macchie di umido, che stanno marcendo trasformandosi in Gremlins (sempre meglio che un sibillino “No llego”, non faccio in tempo, propinato una volta a me).

Spiegazione nostra: 1) ha i sensi di colpa per come sia finita tra noi (è stata colpa sua); 2) teme che l’irresistibile attrazione che ancora prova comprometta l’effimero rapporto con la tipa insulsa con cui gira ultimamente.

Anzi, magari è quella lì che gli proibisce ogni contatto (perché lui, ovviamente, gliel’ha detto, che rivogliamo il lume).

Forse la verità, in questi casi, è racchiusa in due parole, le più difficili da accettare: non vuole.

La tipa della festa non vuole incontrarti, amico stalker. Può metterti tutti i like del mondo alle foto che posti su fb (certo che pure tu, cominciare a linkare immagini di Johnny Depp che dica frasi profonde per farti mettere mi piace…).

E sì, neanche il tuo ex vuole, amica che non si rassegna. Per i motivi che pensi tu? Immaturità, paura, la gelosia altrui, potrebbero giocare un ruolo importante, ma in definitiva è questo: non vuole vederti. Pace.

Siete ancora vivi? Ne ero sicura. Perché una cosa va puntualizzata.

È vero che a volte i conti non tornino. Che “non vuole”, da sola, sia una spiegazione un po’ povera.

Ma siamo sicuri che qualsiasi altra disquisizione psicologica sull’altra persona neutralizzi questa grande verità?

Ne riparleremo.

 

Lla-vignetta- Niente da fare: io parlo di politica, diritti civili, differenze tra la società italiana e spagnola, e quali articoli leggete più numerosi?

Quelli sugli ex.

Ok, intanto, la faccia mia sotto i vostri piedi, perché vi prendete pure la briga di scorrerli.

Poi, una che si è svegliata cantando Messaggino vagabondo della figlia di Gigione non dovrebbe lamentarsi di nulla, nella vita.

Neanche degli ex per cui non siamo mai stati niente: per arrivare a un simile paradosso dobbiamo ammettere che qualcosa è andato storto più o meno dall’inizio. Magari c’è stata quella che, ormai lo saprete, per me è una calamità peggio delle piaghe d’Egitto: l’ambiguità. È il fenomeno per cui in una storia “investo” ma non troppo, mi espongo ma non troppo, per non soffrire. E finisco per soffrire il doppio.

In ogni caso, tempo dopo sarebbe forte la tentazione di fare una telefonatina alla Adele, ma in chiave cazzimmosa, stile gnegnè, io intanto mi sono rifatta una vita e tu continui a distruggere la tua con nuove storie intercambiabili.

Fermi lì! A parte la figuraccia, stiamo buttando alle ortiche quello che possiamo imparare dallo schifo che abbiamo vissuto.

Io, per esempio, se c’è una cosa che ho capito è che, quando pretendo di organizzarmi la vita, non posso fare i conti senza la vita stessa.

Che vor di’? Be’, che qualche anno fa avevo proprio un bel programmino, un delizioso castello di carte che stava insieme per miracolo, su un tavolino IKEA mal costruito: un trasloco impegnativo, una storia difficile da portare avanti, un nuovo impegno accademico che m’illudevo sfociasse in qualcosa di buono.

I castelli di carte rovinano tutti in una volta e in qualche caso, mesi dopo, ti ritrovi ancora un jolly sotto il divano (o un due di picche). E anche questo, quando è crollato, l’ha fatto proprio in grande.

Di chi è stata la colpa? Un po’ mia, va detto. Ma non sono sola, vero?

Abbiamo spesso la pretesa decidere al posto della vita come questa ci debba andare, prevedendo non solo quello che è nelle nostre mani (un terzo della questione), ma anche il resto, cioè le mosse degli altri e i giri della sorte. Io, tornando al nostro castello di carte, avevo deciso che quell’enorme bugia che edificavo proprio al centro della mia esistenza dovesse star su da sola.

Ora so che non è così. Che non posso decidere cosa provino gli altri per me e che, se in Spagna esiste una cosa ibrida come i master propios, 9 su 10 non sono un grande investimento. Ah, l’ambiguità.

Ora l’errore sarebbe scaricare sugli altri responsabilità nostre, invece di vedere dove finiscono quelle e possiamo legittimamente lamentarci del padrone di casa che ci ha imbrogliati, dell’ex che è sparito senza dare spiegazioni, della prof. improvvisata che si sente attaccata sul personale se le contesti la sua poetessa digitale preferita.

Per fortuna i nostri errori sono ostacoli da poco. È ridicolo pretendere di cancellarli, di fingere che questa zavorra non ci affatichi un po’ la schiena. Siamo anche le scelte che abbiamo fatto, che siano state sbagliate non significa che lo siamo di meno.

Però ammettiamolo: una nuova possibilità ci viene data quasi sempre. Di fare le cose per bene, di ricominciare.

E se c’è qualcosa che ho imparato fin da quando la casa era dei miei, gli impegni di studio si restringevano alle tabelline e come ex avevo al massimo l’amichetto del mare, è non sprecare quello che improvvisamente, per motivi imprevedibili, potrei non avere più.

A maggior ragione, bisogna considerarlo una bella botta di culo e trattarlo bene.

https://www.youtube.com/watch?v=74BA7CUrGYw

chai Sono contenta di aver trovato una persona gentile, che pensi davvero a me.

A chi non l’ha fatto non guardo rancore (o non sempre!), so anche che, in un certo senso, me li sono scelti apposta.

Ma che bello, davvero. Quando è così, che si è sinceri l’uno con l’altra, ci si preoccupa per l’altra persona senza annullarsi per lei, anche quando noi o lei abbiamo da fare, non ci si stancherebbe mai di ripetere: quello che cambia siamo noi. La botta di culo viene, ma dobbiamo aprirci ad accoglierla. A vederla, anche.

“Ma tu sei giovane e bella”, mi è stato detto (incredibile ma vero!) da quasi-coetanei peraltro attraenti, “ovvio che a te capita più facile che a me”.

Non so, davvero. Quello che noto, quando per motivi vari devo rivedere certi ex o certi circoli di amici, è che quello che è sparito in me è l’autoreferenzialità. Io avevo la peggiore, quella vestita da altruismo. Quella che mi portava a fare la salvatrice del mondo per non guardare i miei problemi e per sentirmi buona a qualcosa.

Quindi, se non c’era nessuno da salvare, per me non c’era neanche amore.

Se nessuno m’interessava doveva almeno interessarsi qualcuno a me, per quanto fossi brava a capirlo, amarlo, venire incontro alle sue esigenze. Il fatto che non ricambiasse era solo una sfida.

Questo è cambiato. E ve l’ho già spiegato. Quello che vorrei ribadire qua è che, man mano che vi sentite a più a vostro agio con voi stessi, vi verrà spontaneo cambiare i meccanismi con cui interagite con gli altri.

Gli amici che si affidano totalmente a voi come dei bambini che non cresceranno mai vi comunicheranno sempre più fatica e meno appagamento nell’operazione di soccorrerli, e forse così il rapporto diventerà qualcosa di autentico, invece che un mutuo soccorso. Una cosa tipo, ti stimo e ti apprezzo anche se non mi “servi” a star meglio. Da entrambi i lati.

Le cose vanno così: man mano che ci curiamo noi, nel nostro piccolo curiamo un po’ anche gli altri.

E per una volta più con l’esempio che a parole.

Come ci si cura? Con l’attenzione.

Ne riparliamo presto.

chiodo Poi ognuno ha i suoi metodi, diciamo, per uscire dalle crisi. Ma volevo dire questa cosa, sul chiodo scaccia chiodo.

A me ha funzionato in modo strano: mi cacciava da un problema a un altro. Cadevo in nuove braccia sbagliate, che mi avrebbero fatto soffrire come quelle di prima senza mai risolvere il problema di fondo: la mia cecità nello scegliere.

Quindi non posso dire che il ripiego (brutta parola) non risolvesse il problema, che non mettesse fine all’angoscia, al senso di perdita: ma alla lunga lo rimpiazzava con altra angoscia e altre perdite, toglieva i sintomi del male senza curarlo fino in fondo.

Poi so che a volte, a botta di culo, a un mese da un addio pesante troviamo la persona della nostra vita (ammesso che esista), a qualcuno capita.

Dico solo quello che succedeva a me: cambiare di braccia, senza cambiare di testa.

Per questo, per un anno, quasi facevo capa e muro all’amica catalanoandalusa che si era presa una laurea in psicologia e una specializzazione in analisi junghiana solo per snocciolarmi la seguente, profonda ricetta: “Un clavo saca otro clavo!”.

Ora quell’amica potrebbe venire da me e dirmi: visto, che ti dicevo?

Eh, no, tesoro. Facile chiamare chiodo scaccia chiodo una storia che comincia a lutto ormai elaborato, dopo un anno a buttare il sangue, magari. Una storia in cui l’altra persona è davvero la benvenuta e non ci serve a niente, non ci fa da tappabuchi, non ci colma il vuoto lasciato da altri, già pronti ad aleggiare tra noi come fantasmi chissà per quanto tempo.

Perché una cosa è buttarsi tra le braccia di qualcuno mentre siamo nel pieno del dolore da perdita, proprio perché non ce la facciamo più, e un’altra è prendere quel dolore, ascoltare quello che ha da dirci (che, si diceva, il dolore è un ambasciatore che non porta pena), e cominciare un’esistenza in cui i suoi insegnamenti siano un pilastro, magari, ma mai l’unica ragione. Una vita fondata su un lutto vi piacerebbe?

E allora, piuttosto che pulirsi le ferite sulla pelle di qualcun altro, scopriamo quanto sia bello, dopo il tempo che ci vuole, essere capaci di aprirci a un nuovo amore senza nessuna fretta o nessun vuoto da colmare, solo col piacere di esplorare, conoscere questa nuova persona che si affaccia nella nostra vita, e che magari, finalmente, ha la buona creanza di bussare senza sfondare la porta.

Magari per allora avremo imparato che nelle vite altrui si bussa e piano, non si dettano leggi, per poi abbandonare il campo.

Solo quando avremo imparato tutto questo, mi sa, potremo finalmente dire avanti.

In tutti i sensi.

mirrorVeramente avrei dovuto intitolarlo “Come ci vediamo”, questo pippone mentale che inizia con una domanda: cosa vediamo, davanti allo specchio, in una giornata proprio no?

A parte le considerazioni sul nuovo brufolo vicino alla bocca.

Come ci vediamo, sul serio?

Se la giornata è proprio nera, ci ricorderemo di essere “quello che non è riuscito a vincere il concorso”. Se è nerissima, ci sentiremo “quella che non riesce a farsi aumentare lo stipendio da due anni”. Se proprio è il caso di chiudere bottega e tornare a letto, saremo “quelli che hanno fallito in tutto”.

Be’, a prescindere da se lo siamo o no, pensiamo un momento a come ci vedono gli altri, invece, una volta usciti di casa.

Ci vedono assonnati, datemi retta. O malvestiti se sono snob, o un po’ sfigati se stiamo palesemente rimuginando sui rimpianti di cui sopra. Qualcuno che ha qualche problema con se stesso ci odierà senza motivo apparente. Qualcuno che ci guarda con insistenza sarà per noi un potenziale provolone o un critico efferato, e magari ci ha scambiato solo per l’insegnante di suo figlio.

Ma ok, qualsiasi cosa pensino di noi, che poi saranno fatti loro che a noi importano poco, qualsiasi cosa pensino difficilmente coinciderà con la definizione che ci siamo appena regalati allo specchio, in un momento di scoraggiamento.

Quello che voglio dire è: i nostri fallimenti ci definiscono perché lo decidiamo noi. Non sta a noi decidere quanto soffrirne e fino a quando. Ma pensare che la nostra vita sia determinata da quelli e noi siamo “quelli che non ce l’hanno fatta”, è un problema nostro.

Funziona così: ci incorniamo di riuscire a fare una cosa, senza contare i fattori che non dipendono da noi (i soliti: il caso e le decisioni altrui). Decidiamo inopinatamente che di tutto quello che siamo ci definisca proprio questo, il nostro progetto. Che succede, se non funziona? Che questa definizione arbitraria e riduttiva che ci siamo applicati diventa la nostra pietra tombale, la lapide che ci sentiamo quasi in dovere di portarci sempre dietro.

Eccoci quindi ad attraversare la strada pensandoci come “quelli eternamente innamorati” di qualcuno che, vi giuro, in quel momento starà pensando alle blatte di Lucrezia Borgia piuttosto che a noi (un saluto a Lucrezia, era per fare un esempio scemo). Ma no, noi ci dobbiamo definire a partire da quello. Qualche perversa legge interna creata da noi stessi lo sancisce.

Magari, girato l’angolo, arriviamo a un caffè in cui un tipo seduto a un tavolino non riesce a leggere l’inchiostro simpatico di “cuore infranto” e vede solo una persona che potrebbe interessargli. Oppure arriviamo al lavoro e la nuova responsabile venuta da fuori, senza i pregiudizi positivi o negativi di chi l’ha preceduta, vede in noi solo una tabula rasa da valutare.

A questo punto, entriamo in gioco noi. Che dobbiamo capire quando smettere di rifugiarci nella comoda etichetta di falliti e correre il rischio di essere qualcun altro.

Qualcuno che potrebbe non “fallire” (se di fallimento si tratta) la prossima volta. O fallire di nuovo, chi lo sa, ma imbarcarsi in qualcosa di più stimolante del dolore lento di chi non riesce a essere nient’altro che quello che non è stato.

Proviamo a toglierci sto tag da sfiga nera, allora, che se qualcosa dei nostri fallimenti trapela a prima vista è perché ci stanno affliggendo anche all’esterno. Ma il nostro corpo, vedi le persone in riabilitazione, è più svelto di noi a ricominciare, appena lo mettiamo nelle condizioni giuste.

Prendiamo esempio.

https://www.youtube.com/watch?v=233gIsIUYN0

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