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A me la serie sul Gattopardo è piaciuta, ma niente paura, non volevo parlarvi di questo.

È che a un certo punto Tancredi, che è infelice con Angelica ma almeno ha una moglie bella e ricca, dice a Concetta che “È andato tutto come doveva andare”.

A me ‘sta storia ha sempre fatto imbestialire.

Vi cito un’altra pietra miliare: Dirty Dancing. Non fate quella faccia, Baby fa al padre un discorso esemplare, una roba tipo: “Volevi che cambiassi il mondo, ma ciò che intendevi era che io sposassi uno di Harvard e fossi come te”.

Oppure in Dogma, la tizia che si sente dire “Dio ha un piano” grida: “Che c’era di sbagliato nel mio, di piano?”.

Amen, sorella.

Perchè quando io ho voluto essere ragionevole e cercarmi un lavoro, invece di scrivere, la crisi economica ha spazzato sia il lavoro che gli anni sottratti alla scrittura.

Da quando sono folle e faccio scelte che nessuno capisce, scrivo una bellezza e sono contenta.

E poi c’era il tipo catalano multiculturale, e simpatico, gentile frontman di un’associazione che promuoveva scambi culturali e commerciali (più commerciali, sospetto) tra Spagna e Asia. Quando conobbe il mio ex del Raval, e il riferimento da solo dovrebbe farvi capire che si trattava di un pakistano, mi manifestò il suo sgomento, senza spiegarmene il perché. Non riusciva neanche a credere che non capissi, ripeteva: ma tu fai studi di genere! 15 anni dopo, provo a tradurre: tu sei un’emancipata donna europea, che ci fai con un pitocco ignorante che probabilmente ti vuole in casa a figliare? (Ehm, no, era fiero del mio dottorato). Ed era stato questo tipo ad avvicinarci, in cerca di coppie miste. Le voleva, suppongo, miste ma non troppo. Con lui che di pakistano avesse solo la pelle, capi’? Uno che intanto si era “sgrossato”.

Non voglio essere assurda, negare che sia stata meglio con uomini più affini a me per gusti e aspirazioni (le origini c’entrano poco). Ma con loro è finita uguale, e senza i figli che quel tipo così diverso da me, invece, voleva.

Lo so, il mondo va così. Diciamo tanto che gli opposti si attraggono, ma gli studi ci dicono che finiamo per fare ciò che ci si aspetta da noi, con la gente a noi più vicina. E bene così.

Ma davvero le cose funzionano di più, se vanno “come dovevano andare”?

Non nego che abbiano più senso. Solo che forse non è tutto il senso che crediamo.

Forse non è abbastanza da giocarci la felicità.

Isabel Allende mi parla in inglese.

Lo fa da una piattaforma di corsi a cui mi sono abbonata l’anno scorso, perché avevano uno sconto notevole, ma poi non ho cancellato l’iscrizione perché sono un genio. E comunque volevo seguire le ultime lezioni di Allende.

Ci sono corsi di economia, bricolage, cucina. Tutti in inglese. La cucina non m’interessa perché non è quasi mai vegana, ma vabbè. Perché ti dico tutto questo?

Perché quando vivevo in Italia mi sfottevano. Per mille motivi: aspettavo l’autobus in piedi sul marciapiede, col libro in mano, mangiavo cinese con le bacchette “per farmi notare”, diceva uno, ma come fate a mangiare le zuppe con la forchetta? E mi vestivo sempre male, non importava come. Calzerotti? “Certe ragazze vengono all’università solo a fare la passerella” disse ad alta voce una tizia che mi passava accanto, credendosi chissà che moralizzatrice. Ero lì pure per prendermi la seconda laurea, ma vabbè.

Elegante? La volta che mi acchittavo, gli spostamenti diventavano proibitivi perché a sentire i miei (che non escono mai) mi avrebbero rapinata a destra e a manca. Ma perché, prima non correvo pericolo? “Prima ti vestivi come una zingara!”. Che come commento è razzista di brutto, ma anche le zingare in strada mi chiamavano zingara, per sfottere le mie gonnellone psichedeliche.

Ah, e quando lessi un libro di testo in lingua originale, la più simpatica del corso di dottorato (che sarà scaduta da un po’, ormai) fece un gesto come a dire: “Sei fuori?”. Dopo la discussione della tesi mi fecero i complimenti per lo spagnolo e lei sbottò: “Sì, ma ha dimenticato l’italiano”. “Io almeno lo conoscevo” suggerì mia zia dalle retrovie. Ma era troppo tardi.

Qui a Barcellona mi sfottono per i motivi opposti, eh: per gli standard locali vesto tipo Soraya di Persia! E all’inizio non guardavo serie, solo perché non sapevo neanche cosa fossero, e mi venne detto: “Sono cose troppo terra terra, per te?”.

Paese che vai, sfottò che trovi. Ma io sono come te. Anche tu avrai chissà quante stranezze, almeno agli occhi altrui, e avrai desiderato come me di nasconderle.

Sai che ti dico? Evviva chi non lo fa perché smette di illudersi: ci sfotterebbero uguale. E che culo se trovi un posto in cui, magari per i motivi sbagliati, perché la gente ha altri caxxi o ha visto di tutto, o entrambe le cose, ma puoi uscire così colorata da polverizzare gli occhiali da sole, o vestita solo di un cerotto sul pube, senza che ti cachino (sì, italiane, ci hanno ingannate, esistiamo pure se non ci trattano come pornazzi in 3D).

Io quel posto l’ho trovato e ho avuto il privilegio di restarci pure. Per chi non gode della mia fortuna schifosa, si tratta di fare la solita operazione che sappiamo, e che non facciamo mai: trovarcelo in testa, quel posto.

In testa. Vedrete che è più spazioso di un marciapiede di provincia su cui aspettate l’autobus, e intanto, che orrore!, vi viene lo sfizio di aprire un libro.

Lo so perché lo facevo anch’io.

Trovavo banale chiunque mi accogliesse nella sua vita, o nella sua giornata, con un sorriso più o meno tranquillo e un po’ di fiducia. Per la gente così non ero una minaccia, e se lo ero, ero scongiurabile.

Io non sapevo scongiurare le minacce, specie se avevano sembianze umane: credevo che me le attirassi.

Non è vero. Le persone come quella che ero, come quella che un po’ sarò sempre (ma ho imparato a mantenerla tranquilla), vanno in giro per il mondo senza capire che il mondo non deve girare come dicono loro. Che se scrocchi di tutto, dai passaggi alle energie altrui, qualcuno potrebbe prendersela senza per forza essere egoista.

È un concetto che magari afferri al volo, quando è a te che si accollano. Ma il tuo caso è diverso, tu non puoi dare una mano! La vita ti ha trattato male, e spesso è vero, e allora credi che tutto ti sia dovuto, e questo è falso. Te ne accorgi presto, e te lo nascondi all’istante.

Sono le altre persone a essere banali, con la loro pretesa di fidarsi di te: magari si aspettano che se oggi le tratti bene lo farai anche domani, altrimenti chiederai almeno scusa.

E se hai il privilegio, la fortuna di diventare una di loro, una che ti apre la porta e poi decide se puoi restare, con reciproca soddisfazione, se questo succede allora sì che ti troveranno banale. Caxxo ridi, la mamma ha fatto gli gnocchi? Caxxo respiri, scherzi, vivi?

La vita è sofferenza, e chi si permette di dissentire può pure andare fuori!

Ok, tesoro. Ti assicuro che uscendo chiuderò la porta.

Ma dove trovate un altro manoscritto che viene letto oralmente aggratisss ogni giorno, e che *non* piace a un noto social?

Anzi, Fb lo trova “ampiamente sgradito”, censurando perfino l’immagine della tizia stramba che appare nel video… Sarà il livello di zerbinaggine narrato a raggiungere livelli di guardia!

Fossi in voi mi fionderei a riascoltare tutto dall’inizio

Ci ascoltiamo in giro! 😉

(Sempre ad alto sgradimento…)

In questo video provo un effetto un po’ cafone di TikTok: non so se è per accentuare la difficoltà del momento o per sdrammatizzarla. Una risata è sempre stata la mia arma di difesa più potente.

Basta smettere di credere che dobbiamo difenderci da tutto.

Dal dolore, per esempio, non sempre bisogna farlo. Spero che il video renda bene l’idea.

Intanto giro i prossimi, senza smettere di squagliarmi per il sudore!

Ho le prove.

Il video di oggi parla della volta in cui ho scoperto un segreto sul dolore.

Un segreto di Pulcinella, magari, ma io non c’ero ancora arrivata! Infatti me l’ha dovuto rivelare una vocina interiore che neanche sapevo di avere…

https://vm.tiktok.com/ZGeTMDTj3/

Featuring: una spettatrice curiosa che si è affacciata sul set.

Pensavo di essere quella messa peggio, dopo la registrazione di Fame
… Ma lui mi batte su tutta la linea!

Ecco il nuovo capitolo. Se doveste ascoltarne solo uno, vi prego, scegliete questo.

https://vm.tiktok.com/ZGeTeXWDv/

Ho passato l’estate scorsa a scrivere Fame. Mi riprendevo dalle presentazioni di Sam è tornato nei boschi: le difficoltà logistiche avevano contribuito a regalarmi la mia prima colica biliare, e a farmi riflettere sul desolato mondo dell’editoria italiana.

È stato anche per questo che mi sono sentita libera di scrivere il testo più autobiografico della mia vita, senza preoccuparmi troppo: se non me lo pubblicava nessuno, lo avrei fatto io. Questa era una storia che volevo raccontare, l’avevo promesso.

Che fosse interessante o meno, vi ringrazio per la pazienza.

Trovate il testo integrale qui, scorrendo dal basso, e lo sto inserendo tutto anche qui, nell’ordine giusto. È una versione riadattata per i social, forse il manoscritto intero non vedrà mai la luce, ma è meglio per voi, no? Così avete meno roba da leggere! Qui ve lo presento a voce, la prima volta: se seguite tutti i video arrivate pure a quello in cui vi ringrazio.

Giuro che il pomeriggio in cui ho finito la prima bozza ero a casa mia, nel centro storico di Barcellona, e da un DJ set lontano è partita la schitarrata iniziale di Mr. Brightside: la accoglieva un coro entusiasta di gente che conosceva il ritornello a memoria.

Ormai saprete che lo conosco anch’io, per i motivi sbagliati.

Quella volta però ho pensato alla storia che non era più mia, che riposava in un documento Word, salvata due volte in attesa che ve la raccontassi, e mi sono alzata in piedi.

Quella volta ho cantato anch’io.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Da healthshots.com

Prima del silenzio

“Uno fa degli errori, ma poi si può anche correggere”.

Lo dice con un mezzo sorriso, ma ha gli occhi bassi. Lo dice perché mentre tirava un predicozzo dei suoi contro l’amore mordi e fuggi, e i corpi usati come passatempo, ho piantato i miei stivali sulla sedia (indosso di nuovo i jeans) e ho mormorato: “Come sei nobile”.

È l’unico momento di imbarazzo tra me e Bruno, alla festa di arrivederci a Già: il mio ragazzo starà via diversi mesi, per le ricerche relative al dottorato che sta finendo. Dopo, però, verrà a vivere con me, o magari ci troveremo un posto meno gelido e più grande, senza lutti a impregnarne le pareti.

A Già ho mostrato i quadri, i divani in penombra e i gatti stesi sui davanzali dipinti a olio. Gli ho detto che adesso ho fame di quelli, della serenità che mi trasmettono. Gli ho detto anche di Bruno, e del fatto che non so se mi riprenderò. Ma ce la metterò tutta, nell’ultimo anno non ho fatto altro che provarci. Anche questo mi sembra un tradimento, il più strano di tutti: cedo a Bruno la dignità di amante abbandonato, la palma di martire truffato dalla vita.

“Uno fa degli errori, ma poi si può anche correggere” mormora Bruno senza alzare gli occhi.

Siamo diventati l’uno l’errore dell’altra.

Alla fine un po’ ci riesco, a cambiargli la vita. Lo faccio quando ho smesso di provarci, e convivo con Già in una bella casa che, rispetto all’attico gelido, era giusto dietro l’angolo, come tante cose che cercavo invano. Dopo tutti i miei sforzi inutili, per cambiare la vita di Bruno mi basta girargli un’offerta di lavoro, che avevo rifiutato perché ormai ero insegnante. Stavolta quello di segnalargli offerte era un favore che aveva chiesto lui, una cosa che voleva, e a me ritornano in mente le parole che avevo sibilato a mio padre prima di quella assurda risonanza elettromagnetica: possiamo aiutare solo chi lo desidera.

A me ci pensa Già, che mi adora. E comunque non ha bisogno di farlo, per trattarmi bene. Nei mesi trascorsi lontano da Barcellona ha ascoltato spesso una canzone dei 24 Grana, gli stessi che cantavano “Uccidimi”. Questa di Già però era una canzone buffa, quasi allegra: da che neanche mi piaceva, è diventata pure mia. 

A un certo punto mi giunge voce che per Bruno c’è stata un’altra ragazza, dopo la Biondissima. Ma è finita presto, e con gran sorpresa dell’amico dello “scoop” (sempre lo stesso!) completo io il racconto: Bruno trovava che le mancasse qualcosa, e in ogni caso non poteva vederla spesso perché “aveva da fare”.

Ormai ho imparato che è inutile prenderla sul personale, chi ci ferisce non lo fa solo con noi. Non siamo “speciali” neanche in quello, ed è meglio così.

Questa storia finisce quando ritorno a sorpresa allo Spazio. Ho rinunciato da tempo a quell’incarico di rappresentanza e temo di non conoscere più nessuno, così ho chiesto a Già di accompagnarmi al concerto programmato per la serata. Con lui mi sono assegnata un progetto speciale: creare un rapporto così bello che, anche se finisse in malo modo (come succederà), vorremmo continuare a esserci nelle rispettive vite (come succederà).  

Tenendoci la mano salutiamo Bruno, intrappolato in una conversazione con una sconosciuta che gli piace, ma che trova noiosa. Mi accorgo all’istante di entrambe le cose, e mi ritrovo a lanciargli un’occhiata ironica, di quelle che ti aspetteresti dalla fidanzata di un amico. Mo’ ti arrangi, testone.

Bruno si svincola solo quando inizia il concerto del suo amico cantautore, lo stesso che era in visita la prima volta che lui mi ha spiegato che non ero niente di che. Un giorno scoprirò che dopo il concerto il cantautore, ignaro del fatto che nessuno sapesse, aveva detto di me: “È l’unica con cui ho visto Bruno star bene. Solo che con lei non ci voleva stare”.

Intanto, però, l’artista chiama Bruno dall’angolo che fa da palco: loro due, annuncia al pubblico, hanno scritto qualcosa insieme.

L’interpellato rifiuta di accostarsi al microfono, ma dall’angolino in cui me ne resto con Già lo vedo incurvare la schiena e capisco, mentre la canzone comincia.

Prima che inizi il silenzio, ho una cosa da chiederti.

La canzone parla di Bruno, e anche di me. Parla del suo dolore per la Biondissima, e del mio per lui. Non può farci niente, in quella canzone ci sono anch’io. C’è la sequenza del lutto che abbiamo provato entrambi in stanze separate, ugualmente buie e lontane: abbandono, incredulità, e una solitudine che verso la terza strofa diventa la tentazione oscena di andare avanti.

Prima che inizi il silenzio, tu vattene via.

Ogni nota mi risuona nel ventre che si contrae un momento, poi si distende insieme a me che già canto.

È qui che finisce la storia. Finisce col dolore di Bruno che è anche il mio, e finisce con la speranza che, per una volta, pure ci unisce. Ormai so che la nostra canzone non esiste, ma non importa.

Finalmente ho trovato una canzone per noi.

Grazie per aver letto Fame!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

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