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Passo la scheda sulla lucetta rossa. Sul monitor alle mie spalle compare una mia foto (particolarmente azzeccata) e sul pc della reception escono i miei dati.

Ma la sbarra non gira. In compenso, il display mi ringrazia: t’ho agraïm. Cosa, il tentativo di uscire dalla mia palestra?
Allora una receptionista sconosciuta grida:
Hola, Maria!

La sbarra cede manco avesse detto apriti sesamo. Mi avvicno preoccupata al bancone. Lo sapevo, ho il conto in rosso. O la carta smagnetizzata. O magari mi dice che a uscire con questa tutina improvvisata, che mi doccio a casa col caldobagno, nun me se po’ vede. E invece mi chiede a bruciapelo:
– Rosso o blu?

Istintivamente rispondo blu, sperando non si parli di politica. Allora quella si avvicina a un armadietto, estrae una borraccia di plastica blu e me la porge dicendo:
– Sei una cliente di vecchia data. Grazie per la fedeltà!

Adoro la mia palestra.

Innanzitutto il tragitto per arrivarci: Rambla Raval percorsa a orari tranquilli, coi paki a godersi la Rambla scacciapensieri, come la chiamano, e visioni mistiche tipo: ex compagna di catalano che cammina dietro a un omone, entrambi col braccio destro fasciato; bambina tutta in rosa, pattini compresi, che tira la madre araba per il velo e strilla Quiero ir! Quiero ir! Quiero ir! .

Quasi sempre entro sorridendo. Prima tappa: lo spogliatoio, con la vecchietta che canta coplas. È un po’ che non la vedo, che scorrazza nuda tra le magrissime nuotatrici catalane grondanti acqua.

Ma alla piscina ho rinunciato da tempo, all’inizio ero uno spettacolo perché non mettevo la testa sott’acqua. Ahò, mi sentivo soffocare. Poi mi sono abituata, ma mi scocciavo di dividere la corsia. Anche se mi dicono che a Napoli l’avrei divisa con 10 persone. Già una mi rende nervosa, specie se si fa mille vasche al minuto.

Così vado nella sala attrezzi. 40 minuti cardio, poi petto o coscia, come al girarrosto, e 80 addominali.

Intanto, medito. Veramente. Del mio periodo zen mi è rimasta quest’ora, che qualcuno considera persa appresso a schermi ultrapiatti che trasmettono cattivo pop. Quando va bene, perché diciamocelo, mettere Radio Ga Ga mentre sto ai manubri è una mossa infame, All we hear is… clap clap… Radio Ga Ga. Ma meditare mentre butti il sangue sullo step è un’esperienza che consiglierei a qualsiasi bonzo: vatti a concentrare sulla respirazione quando sei sull’orlo di un attacco d’asma, soprattutto se sai che puoi anche lasciarci le penne, ma sullo step centrale farai sempre 99 scalini. Pure con l’accelerata finale. Il numero 100 l’ho visto solo due volte, e ancora non ricordo come ho fatto.

Poi c’è lui: il vogatore. Ce ne sono due, anzi, ma ho i vizi, mi trovo bene solo con quello a sinistra. Occupato 9 volte su 10 dai seguenti casi umani:

a) neoiscritto col fisico della tracchiulella che mi soffia il posto per 5 secondi, ma tanto ci resterà 5 minuti sbuffanti e sudati, mentre ormai sono passata al tapis roulant;

b) signora volenterosa che ci rimane 30 minuti, ma rema così piano che, se Maiorca dipendesse dalla sua barca per gli approvvigionamenti, morirebbero di fame prima che lei lasciasse Barceloneta.

c) signore anziano in mutandone ascellare che mi lascia il display in mode regata, che non so più come toglierlo e non capisco mai se ho vinto io o la barchetta sfidante, graficamente risalente ai tempi di Tetris.

Meno male che tra tanti bei ragazzi posso almeno rifarmi gli occhi. Non troppo, però: da una parte siamo la succursale del Gaixample, là le palestre costano care e distiamo 15 minuti come la Sanità dal Vomero; dall’altra, in caso di aitanti immigrati va considerato che la loro cultura è aperta e disinibita quanto la mia, non vedono una femmina in 3D dal Capodanno in Plaça Catalunya.

Furono loro a mandar via il mio vicino, Ángel, un razzista di quelli che “non lo sono, però…”. Adoro punzecchiarlo quando mi dice cose tipo:
– Sono durato tre giorni, in quella palestra… Sai, poi ho visto che aria tirava…
– Che aria tirava, Ángel?
– No, dico, che gente la frequentava…
– Che gente? Non capisco dove tu voglia arrivare.

Non me l’ha mai spiegato. Mi ha raccontato invece che per farsi ridare la quota d’iscrizione è andato lì alle 7, al momento dell’apertura, ed è salito sul bancone, restandoci finché non hanno chiamato la polizia. Allora ha spiegato le sue ragioni e i poliziotti hanno alzato le mani.

In fondo, che un razzista abbia ereditato una casa proprio nel Raval è già un esempio di giustizia divina.

(se mi rilasso collasso)

– Oggi ha vinto Obama, che è nero… È normale che un nero adesso vinca il Barça!

Queste parole, di colore oscuro (mo’ ce vo’), scambiate in spagnolo tra due asiatici, mi hanno regalato un sorriso a pochi minuti dalla sconfitta del Barça, stasera che gironzolavo senza meta per il Raval e, passando fuori al mio bar preferito, mi sono accorta che c’era la partita. Allora ho chiesto contro chi giocassimo, ma intanto riconoscevo già le maglie, e ridevo tra me mentre sorpresa e un po’ turbata ordinavo un hamburger. Come temevo il cameriere bengalese mi aveva portato un piatto con due hamburger, senza panino, ma intanto ero a metà birra e in uno slancio di romanticismo postumo mi chiedevo già se guardare la stessa partita fosse un po’ come guardare la stessa stella. E se i miei occhi, per quanto verdognoli, cangianti e apprezzati, avrebbero mai retto il confronto con quelli che immaginavo accesi dalla vittoria e da qualche birra in più, a svariate miglia da me…

Cominciavo pure a contare quante, mentre Messi, sotto di 2, segnava almeno il goal della staffa, quando dal tavolo a fianco ho sentito la battuta di cui sopra e il mio pensiero, come quello di tanti oggi, è andato a OBAMA.

Lo scrivo in maiuscolo perché ricordo ancora il suo nome su Internet a caratteri cubitali, il giorno dopo le elezioni di 4 anni fa. Io stavo a Barcellona da meno di due mesi. Lui aveva vinto, a dispetto di quelli che dicevano che “la gente non era pronta per votare un nero”. Quel giorno, per l’occasione, comprai El País, che ancora conservo in una grande busta accanto a un baby-doll appeso per scherzo, sopra dei boxer olandesi, nella vetrinetta del mio primo comedor, e un test di gravidanza mai utilizzato (falso allarme, erano i frijoles di Romesco).

Di tutta la vicenda Obama, e di quello che sarebbe seguito, delle truppe non ritirate e i raid a sorpresa, oltre alle riforme mezzo riuscite e al fatto di essersi tolti i pistoleri matti di torno, confesso che mi era rimasto impresso soprattutto questo: che tutti dicevano che l’America non era pronta per il cambiamento.

Manco io lo ero. Ero una persona completamente diversa, 4 anni fa, appena atterrata già mi ero messa nei guai, avevo scelto l’appartamento sbagliato, mezzo litigato con l’università che mi mandava, e mandato a puttane il sogno d’ammore della mia vita prima ancora che si avverasse.

No, non ero pronta al cambiamento.

Oggi ho acceso il PC nel mio appartamentino, sgarrupato ma tutto per me, ho letto Obama’s Night sul New York Times e ho pensato che siamo cambiati assai, tutti e due. Alle primarie contro Hillary (“la gente ha votato un nero pur di non votare una donna”) era lui a non avere un programma definito, ora si accusa il suo avversario dello stesso. Era uno sconosciuto che aveva stravinto, ora è il Presidente, riconfermato, che non essendo più eleggibile si spera faccia grandi cose, foss’anche per vanagloria.

Io sto facendo, per la prima volta, esattamente quello che mi piace, e solo quello.
E sono così pronta al cambiamento, che in questi stranissimi 4 anni, di errori, tesi di dottorato, diplomi di lingue, zen e self-help poi messi da parte, e addirittura un accenno di dieta, ho sperimentato quelle che per me, l’Election Day di 4 anni fa, potevano benissimo essere parole a vuoto: Yes we can.

Un afroamericano può essere Presidente. Un Presidente può essere un buon presidente, visti gli standard. Gli standard possono cambiare. Io posso cambiare. Tutto il mondo può cambiare.

E il Celtic può vincere il Barça, mentre osservo in silenzio, unica a non tifare.

C’è una frase che giuro di aver sentito, 4 anni fa, in una sitcom americana, ma che non trovo più da nessuna parte.

Things never change. Till they do.

Le cose non cambiano mai. Finché non cambiano.

http://www.youtube.com/watch?v=FtKBwuOtntw&feature=fvst

Non posso andare a nanna prima di raccontare questa serata.

Cominciata col mitologico video di due anni e due fegati fa, e la seguente, profonda riflessione: l’idea che tutto questo sia passato, e che abbia una vita nuova, mi va stretta come le ballerine bioniche che mi hanno martoriato i piedi per un mese, con tanto di cerotti perforati e zoppicamenti luciferini, ma che un bel giorno hanno cominciato a calzarmi a pennello (le cesse).

Insomma, dopo ragion pura e ragion pratica, ecco la Critica della ragion pezzotta. Cosa si fa pur di non ripetere catalano a tre giorni dall’esame.

Fatto sta che con quelle ballerine ci esco, subito dopo, diretta troppo tardi a una mostra sarda. Ma lungo Joaquín Costa, tra la folla delle 8 di sera, comincio a rallentare. Non per le scarpe (tie’!), ma per guardare meglio una bambina in piedi su un bidone, di quelli alti e cilindrici che qua piazzano ai margini della strada. Di fronte a lei, suo padre, brizzolato, che le sorride e in inglese l’invita a saltare. E le giura che la prenderà.

Mi giro ancora verso di loro, assorta.
E allora una voce mi dice:
– Stai pensando alla tua infanzia, vero?”.

È l’argentino.

Quello altissimo bellissimo sbandatissimo che vedo sempre coi barboni sotto l’Arco de la Virgen, o con l’ex vicino spacciatore, o a discutere di soldi prestati. Quello che ho notato troppo tardi, per fortuna, e anche se adesso sono una personcina giudiziosa (con “z” sonora, come la diceva mio nonno) meglio che non ci parli troppo. Anzi, meglio che non ci parli affatto.

Infatti gli dico:
– Stavo pensando che lei se ne ricorderà per sempre.
– Vero, sono cose che restano impresse.
Sensibile. No, Maria, si dice drogato.
– E poi mi sembra una metafora, no? Il padre che insegna a sua figlia a lanciarsi, nella vita…
– Già.
Ci guardiamo un secondo, sorridenti, incerti. Poi dico:
– Be’, ciao.
– Hasta luego, guapa.

A rompere la poesia ci pensa la mostra sarda, già finita. Almeno mi guardo anche il primo tempo di Napoli-Lazio.

Ma sulla strada della “mia” pizzeria, rallento di nuovo.

E stavolta sono le scarpe.
Ma come, non mi calzavate a pennello? Come il passato? ‘o tiempo se ne va…
Seh. Compro i cerotti e mi piazzo al bancone, tra la calca.
A quanto stiamo? 1-0.

Adesso ragioniamo.

Tre schermi. Alla mia sinistra il Napoli, di fronte il Catania (colpo basso, perché amo Catania) e a destra la Roma.

Spettacolo.

Mentre i romani acclamano “er capitano”, dopo il goal, l’unico laziale presente mormora qualcosa sulle medicine che dovrebbe comprarsi… Non capisco chi, spero non Insigne, che quando l’ho visto ho capito subito di che zona fosse, nel mio paese, e mi sono detta “Ua’, adesso la gente che non l’avrebbe cagato manco di striscio si starà gloriando di avercelo come compaes… ehm, concittadino”. Ho pensato gloriando perché in paese chi crede di sapere l’italiano ama i paroloni. Dalle parti del laziale evidentemente no.

– Sta azzeccanno – ammicco dopo il secondo di Cavani. Il ragazzo alla mia destra, che becco sempre, sorride. Il cameriere bellillo, invece, entra col casco ancora in testa e annuncia al barista:
– Pare ‘o cazzo!

Musica per le mie orecchie. Stasera le consegne le fa lui e, complice un’ordinazione appuntata male, ha dovuto fare i conti col principal catalano. Una specie di ammezzato fatto per confondere i fattorini stranieri, che aumenta sistematicamente i piani senza che qui lo si ammetta. Il tuo bisnonno avrebbe saputo cos’era un piano nobile, penso mentre lo circondano tre siciliane. Va forte con le siciliane, a un’amica catanese ricorda l’ex.

– Noi ci andiamo a preparare per andare in discoteca, vièni?

Il bellillo si aggiusta il capello in cemento armato sull’intramontabile abbronzatura e indaga:
– Ci andate tutte e tre?
Annuiscono.
E allora si appoggia al bancone, le guarda intensamente e, dondolando leggermente la testa, dice in italiano perfetto:
– Allora non posso proprio mancare.

Non so se affogare le risate nella birra o nel saltimbocca.
In borsa ho ancora il buono per il negozio aperto dalla sua ragazza, vai che ti fa lo sconto, mi garantiva il collega. Avevo deciso che lei fosse malamente, o semplicemente manesca, per la fedeltà esemplare che lui aveva ostentato finora.

Ma all’inizio del secondo tempo concludo che magari non ci va, ma non poteva far vedere agli altri che faceva il ricchione.
Poi mi chiedo: ma perché Cavani sbaglia i rigori, sono troppo facili?

– Facevate tirare Insigne! – sbraitano intorno a me.

Ma il risultato è salvo, sicuro come l’appuntamento alla prossima volta coi compagni di bancone. Il cameriere al telefono mi parla il napoletano dei segni: “Stu saltimbocca nun t’ ‘o magne cchiù?”. “Dammi una bustina”, rispondo con l’indice.
Sulla strada del ritorno la scarpa s’insinua di nuovo tra me e il cerotto, ma resisto fino a casa. Stavolta non mi frega.

Lascio perdere scorze ‘e limone e cieli ‘e cartone. Penso ai libri già prenotati in biblioteca, per domani, all’aperitivo in compagnia che li compenserà, e allora…

I fuochi da Montjuïc mi ricordano che sono qui da 4 anni.

Dalla festa della Mercè di 4 anni fa, quando presi un taxi dall’aeroport del Prat (non sapevo dove si prendesse la navetta) e usai tutto lo spagnolo che conoscevo, “Para Sants, por favor”. Non avevo manco prenotato l’albergo.

Dovevano essere 5 mesi, e poi quasi giorno quasi casa quasi amore.

Oggi ho festeggiato senza accorgemene, ballando pizzica su Rambla Raval, tra catalani un po’ hippie e riluttanti ad alzare il culo da terra, per poi scatenarsi sulle ultime canzoni.

Quindi, michelada con una messicana e un siciliano, che per una volta che ci sia qualcuno che l’apprezzi come me quasi ne prendo due.

E una birra sul mio terrazzo. Perché ora ho un terrazzo tutto mio, e del caciocavallo da offrire.

Cosa ho perso, in 4 anni? Tutto.

Cosa ho guadagnato? Tutto.

Was blind but now I see.

Se non vado a Napoli per qualche tempo mi iscrivo di nuovo a gospel.

Anche se probabilmente non c’è nessun Dio, ho molte cose per cui dire grazie.

E adesso è la Mercè.

La patrona di Barcellona, col suo manto di stelle che non le ho mai visto addosso, ma che le spetterà di diritto, come a tutte le Madonne.

Specie quest’anno, che è tutto un firmamento di estels indipendentiste, dipinte in bianco o in rosso su una bandiera indossata modello Superman. Te le ritrovi in metro e per strada, ma non nel mio Raval. Che continua imperterrito a lavorare fino a tardi nonostante il film anti-Maometto, nonostante le vignette, nonostante quelli che pensano che Islam significhi quattro fanatici pronti a scattare su a ogni provocazione (e allora non avrebbero un minuto di tempo).

Comunque.

Il 29 ho l’esame. Lo so, napoletani in ascolto, un giorno a caso.
Lo scritto. L’orale tra l’1 e il 4.
In classe sono scene da film horror.
La prof. che fa l’elenco di cosa NON spiegherà, e si cimenta in paragoni con lo spagnolo che ne fanno l’unica catalana che proprio non lo conosce.
La classe che guarda sbalordita la lavagna, cercando trattini dove non sono mai esistiti, o le elisioni che popolano il linguaggio parlato, e allora qualcuno, durante gli esercizi, viene a chiedere consiglio a ME.

Mo’, che l’unica straniera debba insegnare il catalano si spiega in due modi: sono anche l’unica che si è dovuta fare un culo così per il diploma, gli altri se lo sono aggiudicato di default per nascita e studi; il catalano non lo parlo che con qualche amica, non l’ho potuto contaminare con “r” mangiate e le “e” aggiunte a ca… volo.

Tanto nel mio girarrosto di fiducia parlano in urdu. “Ehi, mi hai appena chiamato ‘ragazza’, vero? Troppo buono!”, e loro divertiti dalle due parole che capisco, “ragazza/o”, e la roba da mangiare. Le basi, insomma. E poi vabbe’, “ti amo” e “meri jan”, che praticamente significa “core mio”, come ne Gli esami non finiscono mai.

Solo che stavolta, per me, gli esami finiranno, che li superi o li ripeta a febbraio. Questo è il diploma di catalano più avanzato, dopo c’è solo il napoletano.

E ora, Mercè. Ho già visto lo spettacolo di luci dell’anno, sulla Sagrada Familia, e ieri nel Parc de la Ciutadella un tango infuocato (letteralmente) che non mi ha ammaliato quanto il Tetris gigante e il nostro tifo per i giocatori, specie per i bambini che, se non fosse stato per la Mercè, il Tetris non sapevano manco che era.

Lunedì mi tolgo una soddisfazione: ballare la pizzica su Rambla Raval. Ho già avvisato tutti.
Anche perché sono quasi tutti stranieri, non si renderanno conto che sto alla pizzica come Romina Power sta al Belcanto.

E poi aspetto. Notizie da Napoli, se ci vado per 5 mesi, miracolata tra le decine di richieste per una borsa di studio, o dopo l’esame devo proprio mettermi a cercare un lavoro, che il sussidio è finito e tutti i colleghi licenziati hanno trovato qualcosa, meno noi del dipartimento di Content.

Io speriamo che me la cavo.
E intanto festa. Barcellona è così. Crisi e feste.
E le stelle stanno a guardare.

(When you wish upon a star, dice Satchmo…)
http://www.youtube.com/watch?v=4cHsPCAZlP4

Lo so, non siamo sul blog di Hello Kitty, ma all’università ho scoperto l’angolo del cortile in cui vanno le ragazze a parlare d’amore.

Vicino al campetto chiuso, dove stanno le panchine in ferro battuto, che ti ci puoi stendere. Dove ho fatto la seconda intervista da napoletana a Barcellona per un giovane meridionalista.

Miii, ogni volta che mi siedo a leggere ci stanno due lì vicino, sempre diverse, che fanno discorsi da romanzo di Lyala.

Solo un po’ più moderni.

Il “lui” di turno, ad esempio, è sempre ambiguo, sentimentalmente incerto. Ma anche loro non scherzano.

Di solito ce n’è una esasperata e l’amica che le dà saggi consigli.

Tipo: parlagli chiaro, non fare lo zerbino ecc.

Il tutto in catalano, ovviamente, o in una buffa combinazione catalano/spagnolo che manda a farsi benedire la mia concentrazione. Specie se è un libro di storia da recensire.

L’ultima volta le ho lasciate al(le) loro pene e me ne sono andata un po’ in giro.

Sono approdata nel Born, al Carders Public House. E l’urlo belluino che proveniva da lì mi ha ricordato che il mio Manchester City si misurava col Liverpool, la squadra della città più schifata dai mancuniani (io me ne frego, ma mi piace sfotterli).

Ho acchiappato gli ultimi 10 minuti, mentre Andy Carroll entrava in campo per gli Scousers e il suo orribile codino mi rendeva più facile il compito di gufare. Ero pure in minoranza, i fan del Liverpool erano numerosi.

Si è affacciato un signore catalano e ha chiesto a quanto stessero. Gli ho risposto 2 a 2 e mi ha chiesto se avesse segnato il Barça. Ah, già, giocava pure quello. E dulcis in fundo, il Napoli. Se è così ogni domenica mi sparo. Chi non ha il cuore sparso in giro non può capire.

Per fortuna lì per lì i patemi sono durati il tempo di una clara, 2-2 e contenti tutti.

Il proprietario mi ha quasi riconosciuta.

L’ultima volta mi ha vista proprio lì all’uscita, alle 4 del mattino, con la custodia di un microfono e due tizi, uno che reggeva una cornamusa e un altro che teneva fermo il leggio.

Ero pure stata invitata a casa loro, da quello sbagliato.

Wrong bedroom, avevo sorriso in silenzio.

E sulla strada di casa, a un semaforo della Rambla, il passante accanto a me era stato agganciato da una prostituta.

– Stammi vicino – aveva implorato, scostandosi dall’orecchio una bocca bianco metallizzato (alle nigeriane sta da dio).

Non era la prima volta che salvavo qualcuno dalle prostitute sulla Rambla. Ma questo era siciliano.

– Sto qui da 4 anni. No, il catalano non lo parlo perché non mi piace e non mi serve, al lavoro. Ah, tu sei stata licenziata? Vabbe’, la situazione è tremenda, ma sempre meglio dell’Italia, no?

La mattina in facoltà potrei dirne anch’io, di cose, alle amiche innamorate della panchina accanto.

Ma la prossima volta mi porto un libro comico, magari mi concentro di più.

(omaggio all’amore, ma soprattutto a Manchester. E che San Morrissey ci perdoni!)

portami il mondo in una piazza

Home is so far from Home, scriveva Emily Dickinson.

Di solito, la notte prima di lasciare Barcellona, anche solo per una settimana di Napoli, mi faccio un lungo giro per “congedarmi”.

Stavolta l’ho dovuto fare per forza, perché ho lasciato le piantine a Urgell, alla donna dal pollice verde. Che le ha piazzate subito accanto alla vite, incaricandola d’istruirle sulle regole della casa.

Altri livelli, ho pensato avviandomi in ritardo all’appuntamento. Una coppia di napoletani (lei di Matéra, ma ormai dei nostri) con una notizia da darmi.

Ovviamente se ne vanno da Barcellona, mi spiegano sulla strada del Port Vell. A lei scade il contratto a termine, a lui è slittato un lavoro a ottobre. Hanno altri progetti, tutti fuori dall’Italia.

Li ascolto attenta e dispiaciuta, quando mi squilla il telefono e grido:
– Nooo!

Se l’aspettavano. Forse mi avevano dato appuntamento per questo, per stare lì mentre ascoltavo:

– Ciao! Sto con … e la sua ragazza, appena arrivata! Ci raggiungi?

E qui mi si è aperta la rosa delle scuse:

Oh, che bello, peccato che debba lavare i capelli alle Barbie.

Magari, ma devo separarmi tutte le doppie punte.

No, me lo chiedi proprio ora che Johnny (Depp) ha parcheggiato l’elicottero in terrazzo e si è autoinvitato a cena?

Alla fine ho guardato i due amici in ascolto e ho detto solo che restavo con loro, perché partivano, caso mai vi raggiungo più tardi.

– Ok, allora chiama direttamente lui, che io torno presto e li lascio soli.
– Contaci!

– Partiamo a settembre – hanno specificato i napulegni a fine chiamata.

Poi, guadagnandosi il Nobel per la pacienza, mi hanno ascoltata sbariare per 3 ore. Perché coi napoletani non mi lamento, non vado in crisi, non sclero. Sbareo, al massimo azzecco ‘e ponte.

Una lunga filippica sull’ambiguità nei rapporti. Posso accusare qualcuno di ambiguità, nell’ennesima situazione ridicola in cui mi sono cacciata? Forse no. Tutto ciò che posso dire, signori della corte, è che, per quanto fossi stata riservata e timida (tanto, tanto tempo fa), che fossi fidanzata prima o poi mi scappava.

– Moglie e buoi dei paesi tuoi – mi sfotteva lui.

E giù altre filippiche sul mio manifesto autorazzismo.

Il giro ce lo siamo fatti, eh: Barceloneta (col cinema gratis sulla sabbia), Born, e il mio lungo ritorno a casa attraverso la Rambla. Poi c. Carme e lo slalom per evitare l’imbecille della serata, che decido di non salutare perché anche solo un “hola” di risposta per qualcuno è un invito. Mi è capitato con filippini, paki, argentini, l’idiozia non ha confini.

Come Plaça Universitat, che mi aspetta tra una settimana insieme alla navetta dell’aeroporto, che ripartirà puzzolente di caciocavallo.

È la mia piazza preferita, con tutto il suo potenziale: la gente che s’incontra fuori alla metro, gli skaters scassaminchia, Plaça Catalunya a sinistra, con la Fnac alla fine del Pelayo, la Ronda di Sant Antoni a destra, col mercato.

Al paese invece mi aspetta Sky in infradito, e qualche amico che non parte. I due cinema proporranno i film dei Vanzina, o qualche sparatutto doppiato.

E quando tornerò, lui sarà sparito. Resterà Barcellona.

Come si dice dalle mie parti, “vado bene io”.

(esempio di sbariamento con flamenco)

(esempio di addio romantico)

da homeaway.es

Il giorno che lui è partito mi ha chiamato il manager per dirmi che non mi assumeva.

La prima cosa che ho pensato è stata: meno male.

Brutto segno. La crisi ti fa accettare lavori che quando li perdi ti senti meglio.

Non lavorerò perché sono laureata da più di 5 anni, e per spacciarmi per stagista dovrei avere un titolo più fresco.

I manager hanno la stessa voce, quando te ne mandano, contrita quanto basta, solidale quanto basta, sempre un po’ impersonale.

Mi hanno segnalato un altro annuncio, più o meno la stessa storia, ma contratto di 6 mesi invece che 3. 6 mesi a guadagnare 10 euro in meno dell’affitto. Lo sapete meglio di me, questi ormai vanno a scatafascio, sono indebitati fino al collo e la gente è esasperata.

Adesso, quindi, mi tocca pensare a cosa fare.

Ed è difficile perché qui è veranito, piena estate. L’estate non si dimentica mai di cominciare. Concerti e cinema all’aperto ogni sera, spesso gratis. I vicini hanno cominciato il Ramadan. I marocchini hanno chiuso i ristoranti giusto venerdì scorso, che con Petra finalmente si andava a mangiare il cous cous.

E i poliziotti che li fermano sono scuri quanto loro. A volte vedo le volanti da lontano, magari a Plaça Universitat, e so che fa un po’ figo, alzare la testa preoccupata come se fossi Lupin, ma dallo sciopero generale tante volanti insieme mi fanno un po’ paura. Adesso, poi, dopo i minatori a Madrid…

Chissà dove vanno al mare, i poliziotti. In quei posti in culo al mondo in cui vanno quelli di qua, snobbando i guiri, come ci chiamano.

Pure io ho inaugurato la stagione delle ustioni. Sabato a Sitges, tra addii al celibato per matrimoni gay (c’era un clone di Borat) e venditori statuari ma quasi più ‘nzisti dei pakibeer della Barceloneta. Volevo pure fare la battuta “è succieso ca m’aggio appicciato”, ma coinciderebbe col più devastante incendio della storia recente di Catalogna, che ci arriva fino alle narici e avvolge Barcellona in una nebbiolina irreale.

Sabato invece minacciava pioggia, il sole sembrava non voler proprio uscire, e poi…

Prima o poi Barcellona lo fa sempre uscire, il sole, e le sono grata per questo.

Ma non mi basta più. Quattro anni a settembre e quasi non ho amici fissi, che non se ne vadano o pensino di farlo, che non si sentano in vacanza tutto l’anno per poi fuggire appena decidono di metter su famiglia, perché di Barcellona conoscono solo i bar e le agenzie interinali.

E allora ho pensato perfino a…

Sì. Perfino a tornare.

Come soluzione estrema. Fare quelle cose che ho rifiutato a 20 anni, il master chiattillo per comprarmi il tesserino, o il lavoro aggratis per fare curriculum. No, fin lì non ci arrivo.

Gli italiani quanti sono? 60 milioni. Non è detto che perché non mi sono trovata bene con quei 3 o 4 debba essere sempre così.

Sarebbe una specie di tregua. Tornerei a casa serena e “riconciliata” come se fossi appena uscita a giocare, a saltare sulla pietra enorme spuntata un giorno in mezzo al marciapiede. Chissà da dov’era uscita. Magari era un avanzo di costruzione.

“La pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo”, diceva il protagonista di un best-seller che leggevo allora.

Io è già tanto che non prendo a testate gli angoli di casa!

Ma vi dico cosa faccio. Faccio passare un altro po’ d’estate, che Barcellona non la lascio facile, e decido finalmente che sarà di me.

Parola di scout.

Non l’ho mai fatta, la scout.

Tutto è cominciato con tre giganti sotto casa.

Appena usciti dall’Almazen, trasformato per l’occasione in un vero almacén (magazzino) di festoni e co. : il mio vicolo è letteralmente il cuore della Festa major del Raval 2012.

Ogni barrio ha la sua festa e stavolta tocca al mio.

E i gegants sono d’obbligo, come i castellers, e tutto l’ambaradan delle feste catalane.

Io li adoro, è come se al mio paese ci ritrovassimo improvvisamente tutto il mondo a passeggiare per il Corso e la festa del patrono continuasse invariata.
Ah, siete abituati a Capodanno a Times Square? Che ce frega, noi andiamo avanti con le nostre tradizioni.
Che di solito, non rievocandomi i ricordi d’infanzia delle mie amiche, mi annoiano anzichenó.

Ma il Raval non annoia mai. Siamo appena al secondo giorno e sulla Rambla Raval è già comparsa la denuncia degli indignados: il cineforum all’aperto non è stato autorizzato, perché “troppo rivoluzionario”. Un poliziotto di passaggio non avrebbe gradito le cariche della polizia rappresentate nell’ultimo film. Fonte non specificata e immancabile frecciatina alla Filmoteca de Catalunya, che semplificando “non dà niente al quartiere e fa aumentare gli affitti”.

Certo. Non vedo l’ora di rinunciare alla visita di Costa Gavras e alle rassegne su Berlanga per sedermi a terra a rivedere V for Vendetta. E il ragionamento “niente musei e filmoteche perché ci aumentano l’affitto” mi fa indignare con gli indignados.

Balliamoci su, va’, che alla cena catalana ho provato ad andare, ma mentre pregavo perché non fosse troppo nazional-popolare mi ritrovo Plaça dels Angels apparecchiata col servizio buono e tanti anziani in ghingheri (più 5 ragazzi di un coro) che aspettano di essere serviti da camerieri in nero.

È questa la Catalogna del Raval?, mi chiedo piazzandomi sotto al palco della rambla a ritmo di samba. Sembrerebbe di sì, se uno scherzoso “sisplau” del cantante brasiliano riesce a suscitare l’ilarità generale. Sono poche le mani che si alzano quando chiede se ci sono catalani e canta la storia della Montserrat, trasferitasi a Rio col fidanzato Jorginho Pandeiro. Poi però un rastone alle mie spalle lo chiama scherzosamente fill de puta e ricordo che la rappresentanza catalana tra i fricchettoni è decisamente alta.

Invece i pakibeer, stasera, fanno proprio casa e puteca, e mi urtano con l’Estrella fredda a un euro mentre uno strepitoso rapper brasiliano scende tra il pubblico a ballare anche lui.

Pure un pako verso l’ultima canzone, accompagnata un gruppetto di batucadores, fa roteare la cervesabeer in un rock acrobatico con un biondissimo spettatore.

Mentre gridiamo “bis” mi sento prendere per la spalla e baciare sulle guance.

– Hola, qué tal?

È lui, la cosa più vicina alla pedofilia capitatami (nel mio vecchio gruppo italiano, dai 5 anni di differenza in su si era tacciati scherzosamente di pedofilia). Cerco di calcolare se almeno ha raggiunto i 22 anni e di allontanarmi il più possibile, che gli amigos con derecho sarebbero una grande invenzione se non scordassero spesso di essere, appunto, amigos. E sparire nel nulla per più di un anno non lo chiamo amicizia.

– I musicisti sono amici miei – riesce a dirmi prima che riprendano le percussioni.

Già. Questo ragazzo che è un romanzo vivente solo per la sua storia (nonno architetto amico di Dalì, padre scampato a un attentato franchista a Parigi), vive più o meno a scrocco tra gli artisti a cui fa da manager.

E adesso col suo entusiasmo infantile abbraccia il rapper, che si è appena presentato a un gruppo di conterranee. Thiago.

Ma a me dice Tiago, quando gli faccio i complimenti. Perché io sono spagnola. Anzi, catalana.

Infatti domani parteciperò al Sopar Sabors del Món con un risotto a… Un risotto a…

… allo zafferano, suggerisce Andrea, incrociato sulla strada di casa.

Perfetto! Una napoletana che scambiano per spagnola e fa il risotto alla milanese.

– Se non lo mangia nessuno un piatto lo prendo io – promette Andrea prima di andare al concerto punk.

Rincuorata torno a casa, e scopro che sul palco montato sotto al cuore illuminato dell’Almazen raccontano fiabe ai bambini, ai Kalima, Ahmed e… Jordi che nominavano al microfono nel pomeriggio.

E c’è uno striscione rosso aranciato con caratteri in corsivo:

En aquest carrer tenim un cor gegant.

In questa strada abbiamo un cuore gigante.

Lo misuro col mio che in confronto mi sembra piccolo piccolo.

Non posso fare a meno di chiedermi se sarà all’altezza.

E siamo appena a metà festa.

(l’ultima festa maggiore, #beimomentipuntocom)

(chi me piglia pe’ francese, chi me piglia pe’ spagnola… e se fossi giapponese?)

Tra i personaggi che infestano la mia vita barcellonese c’è il ragazzo del Lindy Hop.

Scrivo “infestano” perché appare e scompare come un fantasma.

Per farvi capire perché mi rimase tanto impresso, il giorno che lo vidi, devo raccontarvi un po’ la notte prima.

Era una notte speciale, per due motivi. Il primo era che mi avevano regalato uno spray antistupro al peperoncino. Un ragazzo dello scambio linguistico che non rividi mai più.

Il secondo fu il messaggio del coinquilino olandese. Mi ero presa una cotta spaventosa per lui, e mi ero un po’, come dire, lost in translation: “Maria, quando l’altra notte ti ho chiesto se ‘ti aspettavi’ qualcosa, da me, intendevo questo”, “Ma expectation in inglese non ha questo significato!”, “Vuoi che prendiamo il vocabolario?”, “Ok, mi fido”. Che gli vuoi insegnare l’inglese a un olandese? Per un po’ avevo cercato un’altra casa, poi mi ero detta vabbuo’, le cose vanno affrontate.

E nel Michael Collins, alle 2 di notte, mentre scherzavo beata con due amici sul mio nuovo regalo, “affrontai” il seguente messaggio: “Maria, non so che stai nell’appartamento [pure sgrammaticato] ma vorrei dirti che non sono solo nell’appartamento”. Brillante eufemismo. Uno dei due amici si offrì di spalancare la porta di camera sua, gridare “Perché mi tradisci con una donna???” e spruzzargli in faccia il famoso spray al peperoncino. Alla fine mi schiaffai io una doppia bustina di tiglio (la camomilla di qua) e mi preparai a una nottatella niente male.

Il giorno dopo ero seduta su una panchina del Parc de la Ciutadella, con due voragini sotto gli occhi e lo zaino: avevo deciso di tornare a dormire nell’hotel in cui avevo passato i miei primi giorni qua, per la serie “ricominciamo daccapo che è meglio”.

Quando improvvisamente lo vidi.

Era nel gazebo vicino alla fontana.

C’era un raduno di appassionati di Lindy Hop, una danza molto diffusa tra i fricchettoni, come dimostra questa canzone.

E lui aveva avuto un’idea geniale: abbinare i boxer con la maglia. Bordeaux, tono su tono. Per un uomo etero, non italiano, non fighetto, ero commossa. I pantaloni a metà fianco risaltavano tutto il movimento d’anca con cui passava da una ballerina a un’altra, premuroso, discreto, ma asciutto, potente.

Era uscito un po’ di sole, e anche se il gazebo, ovviamente, era in penombra, la sua barbetta di qualche giorno per contrasto sembrava ancora più nera. E sorrideva.

E quel movimento di fianchi mi fece decidere. La vita era bella e continuava. E 30 euro per dormire in un vecchio hotel fuori alla stazione erano pure troppi. Tornai a casa, e una volta lì ricordai che non sapevo manco come si chiamasse.

Nonostante il mio stalking (tra ricerche su facebook, lezioni di ballo da un coinquilino riluttante e una visitina al circolo Lindy) non lo seppi mai. Tornai altre volte, ma non c’era, lo vidi solo un giorno che attraversavo il parco di fretta.

Lo rividi nel maggio dell’anno scorso. Nella piazzetta vicino casa mia. Altri tempi, altro quartiere, capelli più corti. Lo riconobbi solo quando ormai era passato. Che gli dicevo? Ciao, scusa, ti ho visto due anni fa, vuoi un caffè?

E poi stavo in fase ottimismo assoluto (vedi questo articolo). L’avrei rivisto ancora.

Infatti.

Giorni dopo, nella stessa piazza, in un’ora diversa.
E poi ore dopo, mentre correvo a lezione di canto e quasi ci andavo a sbattere contro, mentre usciva da un supermercato con due baguettes.
E dopo il corso, sul binario della metro di Gràcia, mentre cercavo la linea 4 e lui andava in tutt’altra direzione.

Coincidenze. Come l’amico che si è scoperto nella stessa foto di un concerto oceanico con un coinquilino che avrebbe conosciuto anni dopo. Come la ragazza incontrata su un treno a Catania e rivista anni dopo a Madrid.

Ma in quel momento sapevo che non c’era due senza tre.

Oggi, meno magicamente, l’ho visto a un raduno Lindy Hop a Barceloneta. Sudatissimo e felice. Il movimento di fianchi era diventato una danza indiavolata, e ormai era troppo fricchettone per i miei gusti neochiatt (neochiattilli, sono una snob dell’ultim’ora).

Ma era lui.

E in quel momento penso: quasi quasi, se mi invitasse…

– Ciao, bella! – mi saluta il vecchio alto che balla al suo fianco. Mi guardo. La tartarughina argentata sulla borsa Carpisa? Il fatto che sia praticamente l’unica truccata? Da cosa l’ha capito, che sono italiana?

La canzone finisce, il mio eroe si congeda dalla ballerina, poi si gira e…

E il vecchio m’invita a ballare.

Manco il tempo di sfuggire alla sua presa, che il ragazzo del Lindy Hop ha già invitato un’altra.

Ma al prossimo raduno vado, voglio vedere se prima della fine del mondo (che come saprete è imminente) riusciamo a dirci almeno hola.

(Lindy nel Parc de la Ciutadella. Odio i pantaloni sotto i vestiti, ma a Barcellona siamo in poche)

(un’altra che cercava di rimorchiare durante il Lindy)

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