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Da Feudalesimo e Libertà

Non siamo gli unici.

Una settimana fa, in questo seminario, una brava professoressa di Politica Comparata a Reading ci ha dimostrato che è l’economia, e non il razzismo, la reale partita su cui si gioca il consenso dei populismi in Europa. Un prof. in pensione nel pubblico voleva accaparrarsi le sue conclusioni, a cui lui sarebbe giunto in una ricerca sull’America Latina del 1989. È stato messo a posto in due parole: stiamo parlando di qui e ora, ha precisato la Nostra, e il qui e ora hanno una loro interconnessa, globalizzata peculiarità.

E no, il mal comune non è sempre mezzo gaudio.

Da Apostrofare Catilina in Senato facendogli sapere che ha rotto il cazzo

Come dicevo nell’ultimo post: ad affondare nei barconi non sono gli elettori, quindi non è un problema loro. O meglio: i più non lo sentono tale. Vogliono lavoro e sicurezza, qualunque cosa significhi, e sebbene la Lega non gli ha dato niente del genere in un anno, non tornavano a chiederle al PD del Jobs Act e degli accordi con la Libia, di cui Calenda in non so che trasmissione (quando torno in Italia mi becco sempre il peggio) aveva anche il coraggio di vantarsi.

Oggi mi ripeto molto, ma questo romanzo sulla Brexit mi ha spiegato un po’ di cose, anche se difende il muscoloso maschio 100% della working class, e ci va pesante sulla documentarista “radical chic”, qualunque cosa significhi. Da collega rc – e buonista, pure! – devo dire che ci sono volute molte circostanze favorevoli perché io accumulassi titoli universitari inutili, mentre certe mie coetanee lavoravano a due euro l’ora nella vicina fabbrica clandestina di vestiti (prima di sposarsi con un uomo che guadagnasse anche per loro). Nel mio caso: vogliamo chiamarli priv… privil… Quello, insomma? Non mi sembra una parolaccia: come diceva questa grande ce li abbiamo un po’ tutti in qualcosa, chi più chi meno.

Ribadisco: secondo me la sfida si gioca su quelli.

 

 

 

 

 

 

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Per chi si chiedeva come fosse andata ieri: sono stata l’unica a ordinare un tè.

Per chi non sa neanche di cosa stia parlando: ieri ci siamo incontrati in un bar, tra italiani a Barcellona, invitati da un connazionale che voleva farci un po’ di domande.

Eravamo una dozzina, tra i 25 e i 45 a occhio e croce, e non odiavamo tutti l’Italia, anzi. Qualcuno voleva pure tornarci.

Per me, dopo un po’ che giri, è Francia o Spagna purché se sta bene. E allora perfino l’Italia.

Eravamo d’accordo sul fatto che la deriva razzista e la chiusura non fossero solo un fenomeno nostro, ma una tendenza europea. E l’Europa, così com’è, non ha fatto granché per impedirlo.

Eravamo d’accordo sul fatto che l’Italia avesse paura, più della miseria che del cambiamento, e sul fatto che la sinistra italiana (scusate l’ossimoro) ci metterà tempo a risorgere.

La domanda è stata: “Come?”.

Un po’ di noi avevano fatto studi umanistici, o si occupavano di comunicazione. Insistevamo sulla narrazione, sul dare un obiettivo positivo e possibile a cui aggrapparsi, che accompagnasse il lavoro più serio e approfondito.

Io continuavo a pensare ai ‘mericani, che questo lo fanno bene: al “Vote Kennedy” che oggi sarebbe un hashtag, in risposta a un Nixon che parlava di tasse, e al #lovewins, quello sì un hashtag, di Obama.

E allora ho detto che se c’è una cosa che dovremmo esportare dalla Catalogna indipendentista, come immagine, è quella di un paese migliore, più equo, inclusivo, che si contrappone al conservatorismo di un re e della Chiesa che lo sostiene.

Insistevo sul fatto che, per portare avanti quest’idea, non ci fosse bisogno di battere sull’identità nazionale. Mi dispiace che sfugga sempre questo, delle cose di qua. Ci fermiamo all’idea indigesta di un nazionalismo a sinistra (che per i suoi perpetratori ovviamente non sussiste), senza vederne le complessità, che non condivido, ma che ammiro in molti sensi.

Perché questi che “lottano per una terra migliore” sono incredibilmente concreti: partecipano anche alle azioni antisgombero, si incontrano millemila volte a settimana, si chiamano per nome. Possiamo farlo anche noi senza essere un marchio registrato. Un ragazzo emiliano condivideva l’esperienza dei centri civici, e a me non era neppure chiaro che i centres cívics esistessero anche in Italia.

E se siamo la nazione del “tengo famiglia”, qualcuno al tavolo aveva partecipato a un congresso in India sulle nuove tecnologie, e si era reso conto che, a pensarci cinque anni fa e investirci il giusto, quella roba si sarebbe potuta fare anche in Italia. E allora… “Per i nostri figli!”, slogan perfetto per la nazione delle campagne sballate di fertilità.

A me è rimasto un dubbio: in questo mondo interconnesso, dalla crisi non ne usciamo soli. L’unico rimedio che mi è stato indicato è stato la decrescita, e, come si dice dalle mie parti, ce vo’ tiempo. Dunque, non c’è soluzione immediata e indolore. Questo come glielo spieghi, a milioni di persone? Specie a quelli che, più che votare “di pancia”, hanno detto “proviamo questi altri qua e vediamo che succede”.

Questi altri qua hanno detto che la panacea è una: cacciare gli immigrati. E che risolve quasi tutto.

Come riesci a fare che la gente ti segua, senza sparare anche tu una palla?

La domanda è rimasta lì sul tavolo, anzi, sul tavolino, insieme a uno scontrino che riportava non so quante birre, e una tazza di tè.

Passate voi a rispondere. Noi abbiamo già pagato.

Un po’ di gente in Plaça Catalunya, per i migranti

Ero indecisa tra questo titolo e “La nit degli imbrogli”, pensando alla giornata di ieri.

Lo so, vi starete chiedendo perché non sto già a Repubblica a scegliere i titoli in prima pagina. Ma vedete, la giornata di ieri si era aperta con il tecnico che, in chat, ci chiedeva 60 euro per riparare una serratura “con maniglia nuova”, e 100 per la stessa serratura, senza cambiare la maniglia. Tra il primo e il secondo preventivo era passata una notte di mezzo, e il tipo non aveva neanche avuto l’intelligenza di andarsi a rivedere i WhatsApp iniziali, prima di spararci un’altra enormità.

Era con umore tetro, quindi, che mi apprestavo ad andare alla grande manifestazione contro la Ley de Extranjería, che non permette agli extracomunitari neanche di risiedere ufficialmente nella casa in cui vivono. Queste manifestazioni sono belle partecipate, a Barcellona: infatti eravamo più di mille, e secondo la Guardia Urbana, eh. Solo che, cvd, gli amici che cercavo non erano tra gli energici ragazzi africani (e non) in testa al corteo, ma in coda. Tra autoctoni che, come aveva osservato uno dei compagni, “Sono come noi: contenti di essere qui, ma anche stanchi della settimana di lavoro”. Passo strascicato verso la Rambla, pochi slogan improbabili…

Io mi sono allontanata all’altezza di carrer del Carme, alla vana ricerca di un fabbro nel mio Raval. Tutti chiusi anche lì. Sapete dove l’ho trovato, alla fine? Su Facebook: italiano con buone referenze e tariffe FISSE. Accordo raggiunto su WhatsApp in un breve scambio di battute e fotografie “artistiche”, tra maniglie e lucchetti. Cari luddisti antisocial, sinceramente nun ve capisco.

Il momento di scollamento è venuto la sera, quando il mio telefonino mi ha annunciato in spagnolo che “El primer ministro italiano renuncia a su cargo”. Da Nassirya in poi, quando leggo notizie sull’Italia in un’altra lingua, mi viene questo momento di alienazione in cui non so dove mi trovo.

Poi mi sono ricordata: mi trovo un posto che ci ha messo mesi, a sua volta, a scegliersi un president, con tutti quei candidati in galera o giù di lì. Ok, lo confesso: mi sono chiesta anche se fossi io a portare sfiga.

Tutta la storia della rinuncia di Conte l’ho appresa a casa, più dai drammi su Facebook che dalle notizie: “Il governo lo decidono i mercati!” tuonava anche chi schifa la Lega. “Adesso che si torna a elezioni, vedrai quanto prende Salvini!” si lamentava un altro.

“Meno male, ‘sti fasci non sono saliti al potere” esultavano invece quelli della manifestazione, reduci da un cineforum col film sul giovane Karl Marx. Infatti, la dichiarazione che mi è piaciuta di più è stata: “Riassunto della giornata: The young Karl Marx is for dummies, the old Mattarella is for communists”.

Il riassunto della mia, di giornata, è stato: l’impotenza a volte è un sollievo. Se la porta è bloccata e ho fatto di tutto per aprirla, mi siedo e aspetto il tecnico. Se nei miei due paesi non riescono a formare un governo, oh, mi è bastata la lezione dello scorso ottobre: penso al mio lavoro, ai miei maldestri tentativi di svoltare e faccio il poco che posso.

Per esempio, racconto a chi è rimasto in Italia che qui scendono in piazza 1200 persone (soprattutto autoctone) contro le nuove leggi razziali.

Hai visto mai che, prima o poi, succede anche da noi.