Archivio degli articoli con tag: coppia

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Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Luce

Adesso gli è tutto più facile.

Me lo spiega tranquillo, mentre chiacchieriamo tra le lenzuola sfatte. Una volta si rallegrava perché con me era riuscito ad abbassare gli standard. Adesso che quasi diventavo pelle e ossa, deve riconoscere che è più semplice andare con una ragazza che “gli piace pure”.

Mi si mozza il respiro, come ai vecchi tempi. Non commentare, mi ripeto. Lui dice tante boiate, ma poi finisce per fare la cosa giusta.

Me lo ripeto anche allo Spazio, mentre pianifichiamo la serata di beneficenza che sarà l’evento principale dell’autunno. A un certo punto, a Bruno viene chiesto in tono un po’ irridente se “in questo momento” lui stia con qualcuna, e lo sento esitare un istante solo prima di rispondere a bassa voce: “No”.

Sciocchezze, per una volta la situazione è sotto controllo! Sto meglio, sto comprando casa, è tornato Bruno. La Petulante non mi incanterà con le sue storie sull’ascolto del corpo, anche se ho questo formicolio alla pancia e il mio ciclo è bloccato. Finisce che ho un ritardo di due settimane, e so di non essere incinta: Bruno è ancora più maniacale di me nell’evitare rischi. Di certo sono i nervi per la casa, e per le scartoffie di un titoletto universitario che, nei miei piani, mi farà rientrare in sordina nel mondo accademico. Ho ingaggiato a mia insaputa un falso traduttore giurato, e quando ho scoperto l’inghippo ho dovuto far ricorso a un’agenzia online. È ufficiale, l’Europa unita è una baracconata anche per chi ha il passaporto giusto: omologare un titolo di studio è un’esperienza massacrante, e pure costosa.

Ma chi se ne frega di queste minuzie! Dopo la nuova frenesia che ci ha presi, Bruno “passa” meno spesso, ma a intervalli costanti. È una cosa buona, vero? Darsi una calmata, crearsi una routine. È quello che fanno le coppie normali, come… come noi. All’improvviso non sono più un’ospite occasionale a casa sua, e una mattina, in bagno, sto per recuperare lo spazzolino dalla tazza sbreccata che ne contiene vari, poi la mia mano si ferma. Se lo lascio lì è più comodo, no? Mi chiedo pure se dirglielo o no, poi mi rispondo che certe cose è meglio farle e basta, che a ragionarci su si fa peggio.

Anche il suo modo di parlarmi delle ragazze è cambiato: non si dilunga troppo negli apprezzamenti, oppure evita proprio. Ridiamo insieme del fatto che la passione ritrovata abbia, come risultato inedito, quello di farci aguzzare la vista: anche io noto di più i bei ragazzi in strada! Un pomeriggio lui mi spiega che in un bar vicino casa sua, che organizza spesso eventi e scambi linguistici, ha conosciuto una ragazza pallida e biondissima che vuole imparare l’italiano. Bruno mastica qualche parola nella lingua della ragazza, ma vorrebbe approfondire, così loro due si sono dati appuntamento nel bar al prossimo evento. La mia testa sul suo petto si irrigidisce, ma lui non se ne accorge. È soddisfatto dell’opportunità, e non ha fatto apprezzamenti sull’aspetto fisico della ragazza biondissima: quando mai me ne ha risparmiati, su una che gli piaceva? E poi, non ho più niente di cui preoccuparmi.

È domenica e il sole inonda il letto stropicciato. In quella luce perfetta lo scopro a osservarmi: le sue iridi hanno una sfumatura dolce che non gli ho mai visto.

“È un piacere guardarti” confessa.

E allora mi godo la luce sulla pelle umida, e gli occhi di Bruno. Mi nutrirei solo di quelli, di lui.

A venerdì per il seguito!

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Qualcosa è cambiato

Da pupa.it

I risultati arrivano troppo presto.

Sul momento me li godo e basta, senza pensarci troppo: la Terapia Breve Strategica funziona! Il primo giorno passo in rassegna le cose più frivole che farei “se Bruno non esistesse”, come la metto tra me e me, e finisco per ripescare un vecchio lucidalabbra dall’armadietto in bagno. L’odore fruttato mi mette subito allegria, e decido di abbinare il colore a un vestito carino.  

Un giorno mi dirò che quella terapia così bizzarra dà risultati immediati, ma non duraturi. Lo ammettono anche i fondatori nei libri che ho divorato: bisogna lavorarci sempre, nonostante la sensazione immediata di star meglio. Così ogni mattina, davanti allo specchio, scelgo l’azione più piccola che farei come single. Ogni mattina mi scopro a uscire di casa canticchiando.

Stavolta invito Bruno da me perché non ho altra scelta. Ho mandato un messaggio collettivo nelle varie mailing list: è il mio onomastico, e ora che compro casa cerco anche qualcuno che occupi quell’attico al posto mio, per accelerare la restituzione della caparra…

Ma chi voglio prendere in giro? Desidero solo festeggiare il mio ritorno alla vita, al cibo. Tanto Bruno si dichiara subito in forse perché “ha da fare”, e per una volta penso che sia meglio così. La possibilità di vederlo placa sempre la mia ansia, ma se non viene continuerò con gli esercizi della Strategica, senza il rischio di interferenze.

Infatti alla festicciola mi diverto. Anche l’uomo col mastino si mantiene lontano dal mio muricciolo, come se quello fosse il suo regalo per me. Con certi amici cerchiamo su Google i titoli dei porno che parodizzano film famosi: Natural Porn Killers, Apocalypse Climax… Mi si scioglie il trucco dalle risate, e non me ne frega niente: i miei lividi sono ormai invisibili, ed è bello sfottere un genere che, nelle versioni più apprezzate allo Spazio, sembra fregarsene del piacere femminile. Riderci su in quel modo è un toccasana, e i melodrammi del passato non mi sembrano neanche più tristi o sciocchi. Sono solo inutili.

Bruno mi telefona verso l’una di notte: era a un incontro letterario a leggere racconti suoi, si è liberato solo adesso. Si trova dalle parti di casa mia, può ancora “passare”?

La festicciola è finita. Il mio vestitino di raso nero è tornato nell’armadio, mi sto struccando. Perché rischiare? D’altronde non ho più nulla da temere, sono immune al nostro psicodramma! Vero? Ci metto un po’ a replicare.

“Passa pure, ma sappi che mi troverai in pigiama”.

Tie’! Neanche lo accolgo all’ingresso: gli faccio trovare la porta socchiusa, mentre arrangio in cucina un piatto di avanzi. Dopo che avrà mangiato ci farò due chiacchiere e lo spedirò a casa.

A sorprendermi è il silenzio. Quando lo sento buttarsi sul divano, nell’eco dei suoi movimenti avverto una lentezza nuova. Allora esco dalla cucina col mio piatto di avanzi.

Mi basta un’occhiata per capire che qualcosa è cambiato. 

A lunedì per il seguito!

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Lividi

Da behr.com

Mamma nota subito i lividi.

Neanche il tempo di disfare la valigia e già mi ha squadrato le braccia, incerta se fare una battuta o preoccuparsi sul serio.

Non le sto a spiegare che la morte della gatta mi ha fatto scattare qualcosa, che voglio cambiare tutto. Aspetto che lei e papà ripartano per agire.

I miei sono lividi cocciuti, persistenti sulla mia pellaccia di gommapiuma: forse sono gli stessi notati, quando erano ancora freschi, dall’agente immobiliare milanese che sta diventando mio amico. “Ma che, te menano?” ha sdrammatizzato lui, facendomi pentire di non aver indossato una giacchetta. No, non “me menano”, e sul momento neanche ci faccio caso, ma mi diverte il paradosso: chi mi lascia addosso i lividi fa finta che non sia successo niente, e quelli restano lì a dimostrare il contrario.

Ho contattato l’agente per “farmi un’idea” sulle case in vendita: nella quasi impossibilità di affittare un buco a nome mio, l’aspirazione balzana è quella di spuntare un mutuo, o almeno scoprire come si fa. I miei si sono offerti di farmi da garanti e, magari, versare la cifra iniziale. Chi non ricorre all’aiutino da casa, per potersi aggiudicare un appartamento a Barcellona? Perfino i miei amici medici devono farsi anticipare qualcosa…

“Portami una sola busta paga, e il mutuo è tuo”.

Questa è la promessa del direttore, quando i miei mi accompagnano in banca e proviamo a capirci qualcosa in quattro lingue diverse (napoletano incluso). Però il mio contratto di lavoro dev’essere a tempo indeterminato, avverte dispiaciuto questo cinquantenne gentile, che a giudicare dall’accento barcellonese sarà passato dalla casa dei suoi a quella ereditata dalla nonna.

Uscendo dalla banca, mia madre mi dice che basta così. Ho un vicino di casa che forza serrature e fa volare le gatte dai balconi, dunque devo andarmene da quel posto. Vorrà dire che troveremo una casa economica, e invece di lasciarmi i soldi in eredità i miei mi vedranno proprietaria, e al sicuro, adesso che possono ancora venire a farmi visita.

L’uomo col mastino ci fa trovare le scale addobbate dalle sue scritte minacciose, e dai bisogni del cane. Stavolta non ha lasciato ricordini nella cassetta della posta. L’amministratore si rifiuta di cambiare ancora la serratura del terrazzo condominiale, e la polizia ci ha fatto sapere che “basterà aspettare lo sfratto”, ormai è questione di tempo: il soggetto non se ne andrà per il pericolo che costituisce, ma perché non riesce più a pagare il suo antico affitto calmierato. Lo prenderanno per povertà.

Nel frattempo, liberarsi di lui è diventato un privilegio. L’amico agente scova una casa che i miei “capiscono” (quella che avrei voluto io era grande un terzo e costava uguale), e festeggiamo condividendo una birretta con gente dello Spazio, che si è data appuntamento in un pub del Born.

Bruno fa la sua apparizione in ritardo, schiacciato dallo zaino che si porta sempre dietro, e al momento di ordinare dichiara: “Per me niente”. “Lo vuoi con ghiaccio o senza?” scherza il cameriere, e Bruno non coglie, ma poi si avventa sulle mie patatine e su quelle extra che si premurano di offrire i miei.

All’uscita del pub si prende papà in un angolo e gli spiega le sue varie ipocondrie, e papà, che è medico, inizia a sbrogliargliele. Sembrano intendersela a meraviglia, e mamma è quasi divertita da quella consulenza medica che non finisce più.

“Tu avresti preferito studiare da infermiera” scherza, con una traccia di allarme nella voce.

Poi si rende conto che papà ha lasciato al tavolo la giacca e le chiavi, e senza una parola gliele va a recuperare.

A mercoledì per il seguito!

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Requiem per una gatta

Mi avvertono solo al mattino.

Sto scendendo le scale in fretta perché ho rimediato una sostituzione: un amico che insegna italiano ha avuto un’emergenza in famiglia, e ha affidato a me l’ultima lezione del corso. Già pregusto il viaggio in treno come una pendolare qualsiasi, e la sala professori in cui mi saluteranno con cordialità: la nuova “collega”. Forse dovrei insegnare italiano a tempo pieno…

La mia allegria, però, si infrange due piani più sotto. Il piccolo tunisino non mi guarda più con la curiosità che riserva alla “donna sola” nell’attico. Si sente molto importante a darmi la notizia, e allo stesso tempo ha timore.

La gatta è precipitata dal terrazzo condominiale.

Il pensiero mi stordisce. La sera prima ho sentito dei rumori provenire proprio dal terrazzo: il mugolio di un cane, e una voce familiare che provava a rabbonirlo. Quella voce, una volta, era gentile anche con me. Il ragazzino non è soddisfatto dei dettagli che mi ha fornito, come se avesse fatto i compiti a metà: purtroppo, si giustifica, “il signore che comanda nel palazzo” ha cambiato ancora la serratura del terrazzo comune, il che impedisce a chiunque di accedere al “luogo del delitto”.

All’improvviso non voglio più prendere il treno. Inutile fingere che sia solo il dolore a paralizzarmi: comincio a temere sul serio per la mia incolumità.

I miei genitori mi telefonano al ritorno dalla lezione, che ho tenuto con finta allegria. Mamma simula la nonchalance di quando è preoccupata davvero: adesso che vengono a trovarmi, promette, cercheremo insieme una soluzione.

Quale? Le case a Barcellona vanno per “momenti storici”, e in questo qui è impossibile trovare un buco in affitto senza un contratto di lavoro, o senza una di quelle caparre impossibili che, con una scusa o l’altra, non vengono mai restituite per intero. Ho trentadue anni, cazzo. Possibile che per trovare casa abbia bisogno di mamma e papà?

Della coppia che teneva la gatta, trovo solo il ragazzo che lavora da casa: non ha dubbi su chi sia il responsabile. 

Quando gli hanno riportato la gatta in fin di vita, ha scavalcato in un istante il muricciolo che lo separava dal terrazzo condominiale. Sul parapetto, tra i cavi tagliati delle antenne, c’erano escrementi. Eppure la gatta aveva sempre usato la lettiera: perfino io le facevo trovare in terrazzo una scatola di scarpe con dentro dei sassolini. Se l’è fatta addosso mentre “qualcuno” la tratteneva per buttarla giù, afferma il ragazzo. È un tipo alto e robusto, e il suo fidanzato è molto simile a lui: possono permettersi di provare una rabbia perfetta. Io a quella devo aggiungere anche la paura.

Un giorno scoprirò che i gatti precipitano e basta, se non ci sono reti a proteggerli. In quel momento non ne so nulla, né saprò mai se la spedizione notturna dell’uomo col mastino fosse una coincidenza, proprio quella notte. Così decido di far installare un gancio alle ante del terrazzo: per un po’ ingannerà l’ansia. Avrò più tempo per correre fuori se sento un tremolio prolungato di vetri.

Invece non trovo niente per placare il rimorso.

L’ultima volta che la gatta era venuta da me, l’avevo cacciata via. Si era messa a miagolare sotto la mia finestra in una delle notti che passavo a piangere, da quando Bruno se n’era andato. “Lasciami in pace!” avevo urlato fin dai primi miagolii, ma lei non voleva saperne di star zitta, e neanche io. Avevamo ingaggiato una gara assurda a chi urlava di più, lei sotto la luna, io nel buio perfetto. Non avevo le forze di alzarmi e aprire la porta sul terrazzo: volevo solo cancellarmi dal mondo, quella maledetta gatta non aveva il diritto di rificcarmici dentro.

Adesso è lei che non c’è più.

A lunedì per il seguito!

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Dove non muoiono le sirene

È il matrimonio a farmi decidere.

I futuri sposi con cui ero stata a cena dopo l’esposizione ci ospitano in costiera per le nozze, e con altri italiani a Barcellona volo fino a certe montagne a strapiombo sul mare, che fanno da sfondo al paese dello sposo.

Sono montagne del Sud Italia, brulle e perfette, fatte apposta per ridicolizzare il mio dolore che passerà, come tutte le cose umane.

Al banchetto nuziale, i piatti destinati a me fanno il giro dei tavoli. Li cedo a chiunque con la scusa della mia transizione a una dieta vegetale, ma nessuno si meraviglia troppo: è un’altra stranezza di noi “stranieri per caso”, approdati alla cerimonia con tenute improbabili e un italiano atroce. Se da fuori sembriamo un’armata Brancaleone, vestita per tutte le occasioni e per nessuna in particolare, al nostro interno le differenze geografiche si notano eccome.

Io e l’altro napoletano abbiamo insistito per offrire una “busta” consistente (che abbiamo finito per versare da soli, senza rivelarne l’importo generoso perché pareva brutto). Se ci svegliamo presto, scendiamo giù al villaggio a prendere i cornetti per gli altri, che magari preferivano solo il caffè. Io non è che mi svegli presto: in realtà non dormo affatto. Singhiozzando con la testa affondata nel cuscino, per non disturbare, riesco a chiudere gli occhi tra lo spuntare dell’alba e le sette in punto, quando suona la sveglia della mia compagna di stanza: dice che dal cellulare nuovo non sa spegnerla. E comunque lei continua a dormire come un sasso.

Al matrimonio, gli uomini del mio gruppo esibiscono cravatte sgargianti o camicie hippie, mentre noi donne sfoggiamo pagliaccetti fioriti, pantaloni lamé con lo spacco, e scarpe più o meno comode. Io sono in abitino lilla, e ho camuffato gli occhi gonfi in sfumature già minacciate dal caldo. Riuscirei quasi a mimetizzarmi con le invitate del posto, se non fosse per i capelli tagliati in una scalatura estrema, tipica di Barcellona, che addosso a me sembra un innesto malriuscito.

“Che problemi abbiamo?” mi viene da pensare a un certo punto. Non riusciamo ad appartenere a nessun posto, e ne facciamo un vanto. Le altre invitate si sono accentuate i ricci con la piastra, e i loro abiti da cerimonia occultano tacchi che toglieranno all’apertura delle danze, sostituendoli con le ballerine che nascondono sotto il tavolo.

Io non ballo, non mangio. A un certo punto mi apparto su uno scoglio, Partenope inappetente e sfatta dall’insonnia. Con gli occhi a quelle montagne logore riesco solo a piangere al cellulare con l’Amico, che non mi regge più.

“Veramente fai? Vai a goderti la festa!”.

Non ci riesco, spiego. E all’improvviso l’eco di quelle parole tra gli scogli mi paralizza. Ma è un momento: subito mi risollevo dalla mia posa di sirena spiaggiata, e mi rassetto il vestito.

Io che non riesco a fare una cosa? Inaudito, devo imparare!

Ecco che riappare l’urgenza di essere all’altezza, di coltivare un’immagine di me che non esiste ancora, ma deve esistere, o “è la fine”, anche se non so mai di cosa.

E invece è l’inizio. È marcio e sbagliato, ma è un inizio. Stasera mi va bene anche questo.

Finalmente mi giro verso quel Mediterraneo mite e aromatico, più familiare di quello che osservo dai moli odorosi di paella surgelata. Mi sono scelta una terra dove il basilico fatica ad attecchire, ma i mostri marini vivono felici, si innamorano e generano terre fertili. Forse le sirene muoiono solo in questo mare qui.

Dov’è che imparano a vivere, invece?

I festeggiamenti sono proseguiti senza di me. Su uno schermo allestito apposta per trasmettere video di amici lontani, un Bruno accaldato e quasi serio augura agli sposi di essere così felici da non crederci neanche loro.

Decido di rubargli quegli auguri, come se per una volta li avesse fatti a me.

A venerdì per il seguito!

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Sparire

Un’alternativa in 3D a YouPorn.

Per coniare la definizione ci metto diverse notti appannate, sospese sull’amaca tra le stelle e la gatta. Forse per Bruno sono stata soltanto l’unico corpo a portata di mano: roba da poco, ma questo passava il convento. Con un involucro del genere, era inutile perdere tempo a scoprire il contenuto.  

E invece “il contenuto” è difficile da rassemblare: devo rimettermi insieme pezzo per pezzo, e ne perdo tanti mentre l’estate inizia piano. Il paradosso è che il mio corpo inizia a somigliare a quelli amati da Bruno almeno in questo: nell’ostinazione a occupare il minor spazio possibile.

Chi mi incrocia per strada dice: “Stai sparendo”. Quel pensiero mi piace, e ormai mi nutro soprattutto di pensieri. I miei amici del Sud usano la parola “sciupata”, che mi riporta a una prozia con la fame di guerra che mi tampinava alle feste di famiglia, per vedere se mangiavo abbastanza (e intanto si nascondeva un dolcetto nella manica).

Non voglio nutrire la mia carne profanata, oltraggiata dal suo donarsi a qualcuno che ha risposto soprattutto con indifferenza e paragoni continui (e che amo ancora, nonostante tutto questo). Fasciata in vestiti sempre più piccoli, presi d’occasione, sono una Partenope di seconda mano, senza acque oscure ad avvolgermi. Per quello ci sono le stelle e i lamenti della gatta, che ha sempre fame. Io invece ingurgito quello che posso quando mi sento troppo debole.

Di conseguenza, visito sempre meno il panettiere sotto casa: un diciottenne magrebino che mi corteggia per ammazzare le lunghe ore davanti al bancone. Un giorno, insieme al cartoccio con la baguette precotta mi offre ridendo la sua compagnia. Posso addirittura scegliere tra lui e il suo collega, un coetaneo molto meno audace che lo osserva perplesso. Magari li preferisco entrambi, insinua il dongiovanni in erba.

Gli rispondo con un sorriso di plastica. Il cartoccio caldo resterà intatto, e il pane si trasformerà in un blocco di pietra. Come il mio corpo.

L’Amico di sempre mi segue da lontano, incapace di offrirmi altro che le sue interpretazioni: Bruno si è scelto per sé un copione che sfuma del tutto, con una donna vicino. Assento, ma non ci casco: la spiegazione più semplice è che in quel momento della sua vita non aveva di meglio.

Ma non riesco a essere cinica fino in fondo. Quel posto che conoscevamo solo noi, fatto di litigi e risate, lenzuola spiegazzate e carezze al mattino, quel posto io l’ho visto. L’ho abitato. Se Bruno si racconta che non è mai esistito, non sono io a perderci.

Lo rivedo alle feste di un quartiere che io detesto e lui ama: ormai fa caldo, e sono strizzata in un vestito taglia S, che comincia pure ad andarmi un po’ largo. Lui è con gente che non frequenta lo Spazio da un po’. Mentre chiacchiero a mezza voce con gli altri mi sento i suoi occhi addosso, e mi viene quasi da ridere: è dall’inizio della serata che non smetto di confrontarmi alle passanti. Questa gli piacerebbe più di me, quest’altra no...

Di lì a qualche giorno “passa” da me per questioni relative allo Spazio: mancano pochi mesi all’evento di beneficenza che dovrei coordinare. A un certo punto il discorso tra noi si fa teso, scivoloso. Sul letto ci finiamo soprattutto a parlare, finché non riassumo la situazione.

“Il problema è che io ti amo, e tu invece…”.

Non gli ho mai detto “ti amo”. La frase lo colpisce come un’accusa, come una faccenda domestica che non ha sbrigato come si deve. Mi spiega che un amico che era con lui alla festa di quartiere ha capito cosa c’era stato tra noi due. L’ha capito dal nostro… linguaggio del corpo.

“L’unico che sappiamo parlare” sorrido. “Perché mi guardavi in quel modo?”.

Ci pensa un momento, poi confessa:

“Stavo cercando di capire se eri molto carina oppure no”.

Un altro esame. Non mi dice se l’ho passato, forse per farlo dovrei sparire sul serio.

Per quanto ci provi, però, proprio non riesco.

A mercoledì per il seguito!

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La gatta e la luna

Non ci riesce.

Per lasciarmi si ingarbuglia in un’ora inutile di discussioni, che ci vede finire sul letto solo per parlare.

Sono io a gettare la spugna.

“Vuoi chiuderla qui?”.

“Sì!” grida lui.

Lo grida come quella donnina in camicia da notte gridava di essere prigioniera, la sera che doveva sancire l’inizio del mio grande amore. Il mio soltanto, a quanto pare, perché per Bruno è durato una settimana scarsa: proprio non riusciva a sopportarmi un giorno di più.

Come una malata, mi sottraggo alla luce. All’inizio, a farmi uscire di casa ci sono gli impegni allo Spazio. Riesco perfino a collaborare con Bruno a una rassegna cinematografica, omaggio improvvisato a un regista italiano appena morto. La prospettiva di vederlo comunque riesce a calmarmi un po’ l’ansia, ma a rassegna finita mi sento riavvolgere dal buio. Fortuna che, con quello, torna la gatta.

Aveva iniziato a intrufolarsi in casa mia passando per il terrazzo condominiale, che ora l’uomo col mastino ha chiuso agli umani. Di solito lei si piazzava su un lettino che mantenevo nel ripostiglio, per poterci dormire se avevo ospiti. L’unica volta che si era acciambellata addosso a Bruno, lui l’aveva accarezzata con un certo imbarazzo, poi aveva dichiarato che puzzava. Mi aveva incuriosito la combinazione tra le sue carezze impacciate e gli improperi che le dirigeva.

Subito dopo la rottura, me la sono presa con la gatta e col suo sguardo curioso: come si permetteva di intrufolarsi nel mio dolore? Un giorno ho provato a farla scendere dal lettino, e le è bastato allungare un artiglio per regalarmi un fiorellino di sangue. Alla fine mi è sembrato che scappasse via per pietà, quasi intenerita dalla mia impotenza. Da allora, mentre affondavo la testa nel cuscino per smorzare le urla, sentivo le sue zampine pestare forte il terrazzo condominiale, riportandomi a un mondo di suoni. Quella presenza lì, potevo accettarla.

La gatta ritorna una notte che sto piangendo.

Sono distesa sull’amaca che mi sono fatta montare in terrazzo, e non so con chi parlo: ti manifesteresti un momento, chiedo al buio, o ti devi sempre far pregare per tutto?

È proprio a quel punto che sento un richiamo acuto: quasi un grido alla luna, che la gatta osserva dal davanzale di mattonelle. Poi c’è un tonfo di zampette, e uno strusciare ovattato che si interrompe solo quando sento un fagotto sotto la mia schiena, nel punto in cui la stoffa azzurra dell’amaca sfiora il suolo in pendenza. Da lì la mia ospite non può certo guardare la luna, ma la cosa non sembra importarle. È come se non avessimo mai litigato, come se in tutto questo tempo mi fosse rimasta accanto.

Decido che è un segno, perché mi serve crederlo. Ecco che mi sono ridotta ad aver bisogno di un segno. Ma ne ho abbastanza dei pasti che sto saltando, delle notti che passo sull’amaca a piangere e parlare in diretta con Dio.

La gatta sarà il mio nume tutelare, uno scudo felino contro il mio primo mito di fondazione: Partenope che non riesce a sedurre Ulisse, e per questo si lascia morire. Ho abbandonato quella storia sull’altra sponda del Mediterraneo, ma non è servito. Sei tua, mi dice il mito, finché non incroci il desiderio di un uomo. In quante ci abbiamo creduto, e per quanto tempo?

Eppure sulle spoglie di Partenope sorge una città.

A lunedì per il seguito!

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Non convinco

Si addormenta dopo cena.

Dopo la sua breve performance da fidanzato si è incupito: è stanco, dice, il giorno dopo deve tornare a casa presto. Mi appare davanti un’immagine che mi perseguita da un po’: un gatto a cui provo invano ad abbassare la testa. La bestiola gira il collo, mi schiva la mano. Ogni volta l’immagine svanisce prima che io sappia se ci sono riuscita, se il gatto è domato.

Perché Bruno è rimasto a dormire, visto che deve fare una levataccia? Ma quando si alza è giorno fatto, e io sono al computer.

Mi è arrivata la risposta della casa editrice appena fondata, che mi aveva richiesto la scheda di un libro. La mia intermediaria è dispiaciuta: le editrici non sono convinte. Manca il confronto tra il libro che mi hanno incaricato di leggere (un romanzo di cinquecento pagine sui lupi mannari) e altri volumi del genere. Sono livida: per cinquanta euro a scheda volevano pure un trattato di letteratura comparata sulla licantropia?

Eravamo rimaste che mi pagavano, chiede l’intermediaria, o la prova era gratuita? Nel primo caso, mandassi pure il mio conto corrente.

Segnalo a Bruno di farsi il caffè, poi inizio a martellare la tastiera: quelle pezzenti delle “editrici” si tenessero pure i loro quattro soldi! Pretendevano di sfruttarmi a cinque euro l’ora e si chiedono pure se mi devono pagare… Sono già alla frutta prima ancora di iniziare, e in ogni caso si meritano la rovina.

Mentre serve il caffè nelle tazze, Bruno si unisce alla mia indignazione: le delusioni lavorative sono un argomento che riesce a unirci. Ma lui è svogliato nel consolarmi, e io sono furibonda. Non è solo per la mail, o per le ore perse a leggere un libro di cui non mi fregava niente. Lui siede davanti a me, finisce la colazione e poi annuncia: “Rimango un altro po’”. Come se il tempo che si è prefissato di dedicarmi non fosse ancora scaduto. Ma ha lo zaino già in grembo, gli auricolari pronti.

Esito a lungo. Se sto zitta andrò a cena da lui, conoscerò quell’amica che a quanto ne so è dalla mia parte. Dimostrerò a Bruno che è il caso di ammettermi ufficialmente nel suo mondo, visto che lo abito già da un pezzo.

Invece non riesco a tacere. Sento qualcosa bloccarmi il respiro, come il residuo vischioso di un raffreddore. Se non lo sputo via resterà lì anche dopo la benedetta cena con l’amica di Bruno. Resterà sempre, non potrò più respirare.

Punto gli occhi su di lui e sparo. Non sono arrabbiata solo per il lavoro perso: c’è qualcosa di strano nel modo in cui lui mi ha trattata l’altra notte, e mi sta trattando adesso. Sta recitando un copione che non sembra neanche aver letto. È evidente che non crede a una parola di ciò che dice.

Non dimenticherò mai lo sguardo che mi rivolge. I suoi occhi si spalancano un istante, poi si fanno tristi, rassegnati. L’ho colto sul fatto.

Per quanto si sforzi, in fondo di me non gliene frega niente.   

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Prigioniera

Cosa diavolo ho visto?

Sono a cento metri da casa di Bruno, dalla cena che a quanto pare ci consacrerà come coppia. Ma devo tornare sui miei passi: dietro a un portone con le inferriate moderniste, una donnina molto anziana, in camicia da notte, sta spingendo i vetri con tutte le sue forze. L’hanno chiusa dentro, mi grida, una donna malvagia l’ha ingannata. Che sia la vittima di un furto, ancora sotto shock? Provo a bussare ai citofoni, ma non risponde nessuno. Bruno accorre alla mia chiamata con una velocità che non mi aspettavo: mi avverte che quella è una casa di riposo.

Alle spalle dell’anziana si materializzano un uomo e una donna in camice verdolino. Questa fa sempre così, assicura l’uomo, è pazza. Non è vero, grida la diretta interessata, e pure io accenno a protestare, ma l’uomo non mi ascolta: sta per portarsi via quella donnina in camicia da notte, e l’unica cosa che posso fare è prometterle che verrò a visitarla. Il pensiero sembra tirarla un po’ su.

Arrivo a casa di Bruno che sono ancora senza parole. Lui inizia a raccontarmi di una nonna lontana che conosce solo il dialetto, e in nessun momento accenna a noi due, alla storia che inizia una volta per tutte. Col mio strano ultimatum gli ho dato un’occasione d’oro: riconoscere che stiamo insieme senza mai ammetterlo ad alta voce. Bastava l’invito a cena. In fondo lui ama cucinare.

Non mi arrendo: sul suo letto a una piazza provo a scucirgli le parole, come se fossero una formula magica che spazzi via l’ansia. Allora, stiamo insieme o no? Lo vedo soppesare la domanda.

“Se no, non ti invitavo” risponde.

È comunque una festa.

Il mio corpo esulta di una gioia perfetta, e mi risveglio pure con meno lividi del solito. Rivestendomi ricordo il testo di una canzonetta Brit pop, dei tempi del mio Erasmus: questa potrebbe essere la fine di tutto, quindi perché non ce ne andiamo in un posto che conosciamo solo noi?

Che sciocchezza, questo per noi è l’inizio! E poi Bruno troverebbe quel pezzo troppo commerciale.

Tornando a casa passo davanti alla mia chiesa preferita, Sant Pau del Camp: ho una voglia improvvisa di dire grazie a qualcuno. Ma vengo fermata all’ingresso: una donna seduta a un tavolo disseminato di santini mi fa capire che, se non sgancio un obolo, la mia presenza lì non è gradita.

Allora saluto senza rimpianti la navata avvolta in penombra. Dietro la chiesa ci sono due file troppo ordinate di alberi immersi nel sole, piantati apposta per fare ombra a qualche auto, ma all’improvviso quel boschetto improvvisato mi sembra più sacro della navata buia, dei santini in vendita.

Osservando il sole tra le foglie penso: se ci sei, grazie. Fa’ che stavolta vada bene.

Ma l’immagine della donnina che scuote il portone non mi abbandona più.

A venerdì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Ultimatum

Non conosco più le regole.

Lui “passa” da me, si emoziona, mi emoziona. Ci sono le risate e il cibo condiviso, la passione e il sonno. Poi capisco dal suo silenzio che sta per andare. Prima di uscire si infila gli auricolari, e io divento rumore di fondo. Lo dice anche lui: finché sta con me, sta bene. Poi scivolo via dalla sua giornata, e non sa come impedirlo.

Una sola volta non mi ha resistito: eravamo allo Spazio, io esibivo un taglio nuovo e indossavo un vestito di marca, appena comprato in offerta. Lui aveva avuto una brutta giornata, di quelle che ti fanno credere di essere fuori dal mondo. Voleva sentirsi normale. Continuava a dirmi che ero proprio carina, quella sera. Mi ha abbracciata tra i sacchi della spazzatura che ci eravamo offerti entrambi di buttare, andando via insieme. Non l’avevo mai visto così, non in strada, davanti ai passanti. Mentre mi rannicchiavo tra le lenzuola e la sua pelle odorosa di cibo, l’ho scoperto a fissarmi con un sorriso benevolo: ero così “brava”, mi ha detto, che avrebbe voluto che tutti gli altri mi provassero. Anche stavolta non si è spiegato le mie lacrime improvvise, e si è affrettato ad abbracciarmi: il suo voleva essere un complimento, autentico. Gli dispiaceva che l’avessi presa così, quando ero con lui dovevo sentirmi sempre a mio agio.

C’è un rituale che ormai accompagna le nostre rotture: prima di infilarsi gli auricolari mi dà tre baci, i primi due sulle guance e l’ultimo, più lento, sulla fronte. Lui si sente molto nobile nell’addio: sta facendo la cosa giusta, si ripete, a costo di non battere chiodo per chissà quanto. Poi torna a “passare”, e io non lo mando via. Non lo so fare più.

Gli sembra normale questa roba?

Questo gli scrivo, dopo che mi ha piantato di notte sulla Rambla per preparare una salsa piccante. Quello che non gli scrivo è che ho cominciato anch’io a paragonarmi alle altre. Per strada, nei negozi, le osservo una a una e mi dico: “Questa gli piacerebbe più di me, questa no”. È un vizio che non mi abbandonerà mai per davvero, che tornerà nei periodi più agitati. Per sentirmi più sicura mi “faccio bella” con due soldi, vado spesso da Kiko e nelle catene di parrucchieri a buon mercato (una volta gli è piaciuto il mio ritorno al biondo scuro, quasi castano). Cerco vestiti di seconda mano che mi evidenzino i “punti forti”, e facciano sparire il resto. Mi ripeto che lo faccio per me.

I complimenti altrui non mi saziano. L’unica a rimanere perplessa dal mio cambiamento è la Divina: quella troppo bella perché Bruno la aggiungesse a Facebook in contemporanea con me. A una serata di danze brasiliane mi squadra i capelli dalla tinta giallastra, sbagliata da una parrucchiera inesperta. Non mi dice niente, ma mi arrabbio lo stesso: non siamo mica tutte bellissime al naturale, come lei! Sulla Rambla i turisti ubriachi mi chiamano Shakira o Lady Gaga, a seconda di come mi sia pettinata, e quasi mi diverte l’idea di rievocare donne così diverse.

Ma di questo a Bruno non scrivo nulla.

La sua riposta al mio sfogo arriva la sera successiva: non riesce a vederci come coppia, sta provando a capire perché. C’è ancora la nobiltà di quando parla di chiudere, privandosi dell’unica “occasione” sicura, ma la chiosa è ambigua, come se lasciasse a me l’onere dell’ultima parola.

Lo contatto all’istante: e quindi? Non ho capito, che vuole fare? Va fuori dai gangheri. Sapeva che gli avrei scritto proprio in quel momento! Sta per uscire ed è già in ritardo, lui che mi fa aspettare anche due ore quando l’appuntamento ce l’ha con me. E poi non può spiegarsi meglio, va bene? Non sa come farlo. Capisco che si sente molto generoso, a parlarmi ora che dovrebbe solo scappare. È tutto preso da quell’impegno più urgente di me.

Ripenso alla storiella della rana nella pentola: se questo schifo fosse successo solo un mese prima, gli avrei riso in faccia e l’avrei cancellato dalla mia vita. Ora non ci riesco. Con Bruno non è mai tutto orribile, né tutto fantastico: c’è sempre la giusta miscela che lo fa tornare, che mi fa aprire la porta da cui lui uscirà con gli auricolari a palla, riducendomi a un rumore di fondo.

Chissà se mi fa una colpa anche di questo, della mia incapacità di bastargli.

Io invece sono nelle sabbie mobili. Non voglio credere di aver perso tutto questo tempo, e allora aspetto, e ne perdo ancora di più.

Ma ora so cosa succederà. Bruno tornerà presto a “passare”, e una sera saremo allo Spazio, e i Morti di Figo lo stuzzicheranno con domandine su questa o quella ragazza. Lui darà il suo “parere tecnico” proprio davanti a me, a quella che avrà finto di incontrare giusto sotto il portone, un’ora dopo averle lasciato dei lividi addosso.

Allora qualcosa in me si incepperà.

Quando succede tutto questo, è l’ultima volta che fuggo. Per arrivare a casa imbocco scorciatoie, evito i passanti sulla Rambla senza esimermi dal dare giudizi: questa gli piacerebbe, quella no. 

Una volta a casa, il messaggio che mando a Bruno è un ultimatum.

Lo rivedrò solo se stiamo insieme, davvero. Se accetta mi invitasse a cena da lui, per una volta. Altrimenti gli basta non rispondere, e sparirò dalla circolazione. 

Quando mi arriva il suo messaggio è tardi, e io vorrei solo dormire. Mi devo calmare un bel po’, prima di leggere.

A mercoledì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

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