Archivio degli articoli con tag: Mediterraneo

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Dove non muoiono le sirene

È il matrimonio a farmi decidere.

I futuri sposi con cui ero stata a cena dopo l’esposizione ci ospitano in costiera per le nozze, e con altri italiani a Barcellona volo fino a certe montagne a strapiombo sul mare, che fanno da sfondo al paese dello sposo.

Sono montagne del Sud Italia, brulle e perfette, fatte apposta per ridicolizzare il mio dolore che passerà, come tutte le cose umane.

Al banchetto nuziale, i piatti destinati a me fanno il giro dei tavoli. Li cedo a chiunque con la scusa della mia transizione a una dieta vegetale, ma nessuno si meraviglia troppo: è un’altra stranezza di noi “stranieri per caso”, approdati alla cerimonia con tenute improbabili e un italiano atroce. Se da fuori sembriamo un’armata Brancaleone, vestita per tutte le occasioni e per nessuna in particolare, al nostro interno le differenze geografiche si notano eccome.

Io e l’altro napoletano abbiamo insistito per offrire una “busta” consistente (che abbiamo finito per versare da soli, senza rivelarne l’importo generoso perché pareva brutto). Se ci svegliamo presto, scendiamo giù al villaggio a prendere i cornetti per gli altri, che magari preferivano solo il caffè. Io non è che mi svegli presto: in realtà non dormo affatto. Singhiozzando con la testa affondata nel cuscino, per non disturbare, riesco a chiudere gli occhi tra lo spuntare dell’alba e le sette in punto, quando suona la sveglia della mia compagna di stanza: dice che dal cellulare nuovo non sa spegnerla. E comunque lei continua a dormire come un sasso.

Al matrimonio, gli uomini del mio gruppo esibiscono cravatte sgargianti o camicie hippie, mentre noi donne sfoggiamo pagliaccetti fioriti, pantaloni lamé con lo spacco, e scarpe più o meno comode. Io sono in abitino lilla, e ho camuffato gli occhi gonfi in sfumature già minacciate dal caldo. Riuscirei quasi a mimetizzarmi con le invitate del posto, se non fosse per i capelli tagliati in una scalatura estrema, tipica di Barcellona, che addosso a me sembra un innesto malriuscito.

“Che problemi abbiamo?” mi viene da pensare a un certo punto. Non riusciamo ad appartenere a nessun posto, e ne facciamo un vanto. Le altre invitate si sono accentuate i ricci con la piastra, e i loro abiti da cerimonia occultano tacchi che toglieranno all’apertura delle danze, sostituendoli con le ballerine che nascondono sotto il tavolo.

Io non ballo, non mangio. A un certo punto mi apparto su uno scoglio, Partenope inappetente e sfatta dall’insonnia. Con gli occhi a quelle montagne logore riesco solo a piangere al cellulare con l’Amico, che non mi regge più.

“Veramente fai? Vai a goderti la festa!”.

Non ci riesco, spiego. E all’improvviso l’eco di quelle parole tra gli scogli mi paralizza. Ma è un momento: subito mi risollevo dalla mia posa di sirena spiaggiata, e mi rassetto il vestito.

Io che non riesco a fare una cosa? Inaudito, devo imparare!

Ecco che riappare l’urgenza di essere all’altezza, di coltivare un’immagine di me che non esiste ancora, ma deve esistere, o “è la fine”, anche se non so mai di cosa.

E invece è l’inizio. È marcio e sbagliato, ma è un inizio. Stasera mi va bene anche questo.

Finalmente mi giro verso quel Mediterraneo mite e aromatico, più familiare di quello che osservo dai moli odorosi di paella surgelata. Mi sono scelta una terra dove il basilico fatica ad attecchire, ma i mostri marini vivono felici, si innamorano e generano terre fertili. Forse le sirene muoiono solo in questo mare qui.

Dov’è che imparano a vivere, invece?

I festeggiamenti sono proseguiti senza di me. Su uno schermo allestito apposta per trasmettere video di amici lontani, un Bruno accaldato e quasi serio augura agli sposi di essere così felici da non crederci neanche loro.

Decido di rubargli quegli auguri, come se per una volta li avesse fatti a me.

A venerdì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

I 10 Comandamenti di una comunicazione efficace

Due parole di aggiornamento sulla mia carriera di White Savior: mi sento a casa!

Ebbene sì. Ci ho preso gusto a trattare con queste persone che vengono dall’altro lato del Mediterraneo, anche perché fanno parte di una comunità ancor più discriminata della mia d’origine (sulla quale, nell’Anno Domini 2021, resta accettabile liquidare il razzismo con il classico “fatti una risata”). L’esperienza mi ha fatto tornare in mente una frase letta chissà dove, e che mi sembra sempre più fondata: ciò che la politica prova a unire con le tenaglie, la cultura separa, e forse il Sud Italia è più affine ai paesi dell’Africa mediterranea che al più continentale Nord. Senza scadere in facili cliché, il Mediterraneo meridionale unisce: crea famiglie allargate, affinità e nevrosi. Quindi io, in queste settimane, mi sono sentita nel mio ambiente d’origine, nel bene e nel male. Nel bene, per la gentilezza, la gratitudine, e la delizia: vedeste i manicaretti che mi sono stati offerti per un gesto minimo di solidarietà. Con tanto di ringraziamenti del proprietario del ristorante.

Tra gli aspetti negativi, c’è l’inconcludenza che ha accompagnato tutto questo: i progetti di collaborazione abbozzati e mai cominciati, i grandi proclami a cui è seguito il silenzio. Intendiamoci, alcune iniziative più che lodevoli salveranno anche una vita o due, che è tantissimo: ma non puntano mai alla giugulare, non arrivano mai a gridare che è l’intero sistema a essere sbagliato.

Insomma, a quest’ora avrei dovuto fare “l’angelo biondo” in non so quante interviste mai portate avanti, e avrei dovuto curare una pagina interculturale in italiano che non vedrà mai la luce, oltre a presenziare a una riunione antirazzista che non si è mai tenuta.

Da una parte è un sollievo, vedete sopra: povera la comunità che ha bisogno d’eroi. Specie se si tratta di un’eroina dal valore dubbio, proveniente da una comunità meno discriminata. Dall’altra parte mi sono ricordata dei miei vent’anni paesani, e dei progetti culturali che dovevano spaccare tutto, ma che al massimo finivano per portare due lire a quelli che mi sfruttavano con la promessa di un tesserino di pubblicista, o con quella ancora più volatile di star lavorando per una giusta causa. Senza vedere un soldo.

Già, i soldi. Una matrice comune è quella, dai due lati del Mediterraneo: i soldi mancano, combattere per un mondo più giusto è un’operazione di volontariato che non tutti si possono permettere, in una società governata dal denaro. Si dà per scontato che è una prestazione gratuita, e che è volgare anche solo pretendere un compenso, per sì nobile causa! In un contesto del genere, in effetti, è difficile fare grandi cose.

In secondo luogo, nelle mie interazioni con i nuovi “compagni di lotta” c’è un grosso difetto che non mi scrollo di dosso, perché, plot twist, intanto ero in contatto con i compagni di lotta italiani, o quello che ne rimaneva: adulti un po’ disillusi, ma non del tutto, che mi parlavano di problemi di tutt’altra natura. Poco importa se fossero questioni lavorative o sentimentali.

In tutte queste comunicazioni incrociate, e nelle storie che trattavano, c’era un grande assente: la comunicazione in sé, intesa come “parlare chiaro e senza trucchetti”. In inglese il dire e non dire si chiama “play games“, ed è più o meno consentito nelle fasi di corteggiamento, che ormai avvengono soprattutto via app. In italiano credo si dica: “Dire a nuora perché suocera intenda”. Insomma, è la prassi di chiedere indirettamente a un datore di lavoro recalcitrante quando e se ti pagherà, invece di ordinargli di “Cacare i denari”. Come se i sottintesi portassero poi a vederli, questi denari. Oppure è la tendenza a vivere con una persona che il tempo ha trasformato in estranea, ma non osiamo chiederle perché: per quanto ne sappiamo, la persona che credevamo di amare potrebbe desiderare addirittura il matrimonio, o al contrario la separazione! Eppure, non sappiamo fare altro che provare a decifrare il suo comportamento, invece di sederci insieme a un tavolo e chiedere: “Oh, come stai?”. Io capisco pure la tentazione di scansare le conversazioni difficili come se si trattasse di fossi in autostrada: avviene per l’idea, che abbiamo assimilato insieme al latte materno, che sia assurdo chiedere esattamente ciò che vogliamo.

L’erba voglio, si sa, non cresce neanche nel giardino del re. L’erba vorrei, però, è facile da trovare in giro. Abbiamo quest’idea, tipica del pensiero magico, che se comunichiamo esattamente ciò che vorremmo, non l’otterremo mai. Chiedete e non vi sarà dato. Suggerite e non vi sarà dato comunque, ma vi risparmiate l’onta di aver chiesto. Una volta, una psicologa mi prestò un libro sulla comunicazione efficace, e mi cambiò la vita. Non era una roba da pubblicità del balsamo per capelli, come quelle che trovate su Google: era proprio un manuale per imparare a comunicare sentimenti ed esigenze alle persone a noi più vicine. In pratica, scoprii sfogliandolo, era un libro di grammatica! Insegnava a mettere insieme soggetto, predicato e complemento. “Mi sento triste perché tu hai fatto questo, quindi temo che stia succedendo quest’altra cosa, e la mia soluzione sarebbe questa. Tu che ne pensi?”. Una questione semplice come l’uovo di Colombo.

Eppure quello di suggerire, non dire, o mentire addirittura, è un comportamento talmente radicato nelle esistenze di tanti che non ce ne accorgiamo nemmeno. Nelle interazioni amorose, poi, abbiamo imparato che bisogna affidarsi al carisma e sintomatico mistero del corteggiamento, altrimenti non valiamo niente. Ok, se proprio ci tenete fate pure i giochetti da inizio relazione, ma poi si diventa sinceri, vero? Altrimenti impariamo a “non dire” all’inizio, e continuiamo così per il resto della relazione.

Io ho lasciato che questo mi rovinasse la vita troppo a lungo per farlo ancora. E poi, giacché siamo in vena di comunicare, vi confesso un segreto: il non detto ci ossessiona. Un problema o un’esigenza che dipende da altri, ma che non comunichiamo, ci rosica via tempo prezioso che potremmo passare a essere felici. Invece, se proviamo a comunicare le nostre esigenze, qual è la cosa peggiore che può succedere? Scoprire che quella persona non può o non vuole aiutarci a soddisfarle. Peccato! Ma anche: benissimo. Abbiamo il tempo di girare pagina, piuttosto che vivere comunque nella piena insoddisfazione. Possiamo addirittura prenderci il tempo di cambiare esigenze, che a volte succede anche quello.

Provate! Altrimenti vi succederà come a me, che mi vedo coinvolgere cinque minuti in chissà quale progetto meraviglioso per salvare il mondo, e poi lo vedo sfumare perché nessuno ha il coraggio di dire che ci mancano il tempo, le energie e i soldi.

Peccato sul serio, perché a volte basta ammetterlo. Poi passeremo a dedicarci a qualcosa che possiamo fare davvero.

Tutto mi sarei aspettato dalla ragazza, tranne che mi parlasse del sjug.

Oppure zhoug, o סחוג, o anche سَحاوِق. Insomma, quella salsetta di coriandolo e peperoncini verdi che dieci giorni fa ho finito per comprare alla Fiera vegana, quella volta che ci facevo la commessa per caso. Aiutavo un amico, quando un tipo israeliano che conoscevo da un esperimento fallito di socializzazione si era fermato davanti a me, meravigliato di vedermi. Io, d’altronde, ero stupefatta: che ci faceva lui, in mezzo alla gente erbivora?

“Sono venuto a trovare il ragazzo della bancarella in fondo, lo vedi? Vende una salsa che mi piace molto”.

Era tornato da me, il tempo di farmi venire l’acquolina in bocca, col barattolo dal contenuto verde e la scritta “sjug”, che lui pronunciava senza la j.

“Come il sugo italiano!” avevo provato a dire.

Lui, che aveva vissuto molto tempo in Italia, mi aveva fatto un sorriso di commiserazione ed era sparito. In effetti quella sera, a casa, dopo aver intinto un pezzetto di pane in quel laghetto smeraldo, avevo cominciato a sputare fuoco e fiamme. Neanche certi sughi calabresi arrivano a quei livelli! (E poi, a dirla tutta, questa cremina piccante viene considerata il pesto mediorientale, mentre un cugino più evidente della salsa di pomodoro è il “tuco” argentino!)

L’altro ieri, dunque, alla cena egiziana di Abrazo Cultural, la donna della coppia di invitati californiani – lui bianco e allampanato, lei bassina e con la pelle ambrata, forse di origine indiana – mi ha chiesto proprio se alla fiera, che avevo appena nominato, avessi notato il tipo che vende il sjug. Anche lei, che su Netflix segue una roba che si chiama Taco Chronicles, all’evento ci va un po’ perché è vegano il marito, e un po’ per comprare l’ormai mitico sugo. Al che mi sono detta: vuoi vedere che sono l’unica che ne abbia ignorato l’esistenza fino ad ora? Sia del bancarellaro, che della salsa.

“Adesso sono confusa” ho confessato “di dov’è, ‘sto comesichiama?”.

Prima di rispondermi, la tipa si è consultata col marito su come si dicesse in spagnolo – la lingua che stavamo usando – quello che voleva esprimermi.

“È una domanda politica, la tua” ha replicato lui al posto suo.

“Qualcuno ti dirà che è palestinese” gli ha fatto eco lei “e qualcun altro, che è israeliano”.

Dunque, parallela alla guerra cruenta che già conosciamo, se ne stava sviluppando un’altra, sotterranea, sull’origine di vari piatti, tra cui il sjug. Avrei scoperto dopo che la pietanza è originaria dello Yemen, di cui ora conosciamo, o meglio ignoriamo, solo la recente guerra che condanna alla fame migliaia di bambini. Di tutto questo, io non sapevo un bel niente.

Eppure era politica l’intera cena egizia, pure vegana tra l’altro. Il giovanissimo cuoco, che vi ho già presentato qui, ci ha spiegato prima cosa significasse essere gay in Egitto – tra i nomi che ha fatto ne valga uno: Zaky –  poi si è esibito in un assortimento di legumi cucinati in vario modo: lenticchie stufate con carote, fave nel loro sughetto, e certe foglie che ricordavano gli spinaci, ma erano più saporite. Il tutto accompagnato da riso in bianco e succhi di frutta. Infine ci ha servito una sorta di budino con l’amido di mais, un dolcetto farinoso con disseminati sopra dei pistacchi, e del molto forte, che non mi avrebbe fatto dormire la notte successiva.

“Dovresti mettere anche tu una bancarella alla Fiera vegana!” ho proposto a Mahmood.

Ha detto che ci pensa, tanto il tempo non gli manca. Sta aspettando che lo Stato spagnolo gli conceda il diritto d’asilo nonostante gli accordi di Dublino, sulla base di una doppia discriminazione: in Egitto come omosessuale, e nel primo paese europeo d’accoglienza (la Romania) come “terrorista”. Proprio così. Gliel’hanno urlato un vecchietto in bus, e una professoressa di francese, mentre i primi amici che era riuscito a conoscere avevano deciso più diplomaticamente di evitarlo. Qui a Barcellona deve andare ogni sei mesi in commissariato, per vedere se è arrivato il sospirato vistiplau. Tra una visita e l’altra, manco a dirlo, vive una vita un po’ sospesa, come la sua richiesta d’accoglienza.

Degli aneddoti che mi ha raccontato, mi è piaciuto tanto quello della zia che durante il Ramadan, mentre lui pregava più per abitudine che per convinzione, si era messa a urlare perché gli aveva sgamato i WhatsApp del fidanzato: Rouhi, c’era scritto. Chi era quel ragazzo che chiamava suo nipote “Anima mia”?

Allora, visto che a quanto pare non puoi rivolgere la parola a uno che sta pregando, lui aveva cacciato una devozione infinita, e per un tempo spropositato! Dopodiché si era rassegnato a dare spiegazioni, e a casa l’avevano presa più o meno bene. Più o meno.

Dell’Egitto gli manca il dialetto, e le cene post-digiuno con piatti propri, diversi da quelli mediorientali: il sjug, per esempio, non è contemplato.

Devo abbinare questa salsa contesa a piatti miei, in una vera e propria cena “anema e sugo”, magari con quel pane buonissimo che Mahmood ha servito a tavola: quello che con nome greco chiamiamo pita, ma alla fine la mangiano in mezzo Mediterraneo. Per raccogliere il cibo ne stacchi un pezzetto e lo apri “a orecchio di gatto” (sic), così ti diventa una via di mezzo tra un cucchiaio e una vera e propria scarpetta di pane.

Vorrei essere più brava, in operazioni così.

A volte ci sono tante di quelle cose da raccogliere, che ne lasci sempre qualcuna dietro.

 

 

 

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Viva i pompieri: fidatevi anche se non capite lo spagnolo!

 

Cantamañanas: è l’insulto più bello che abbia visto rivolgere a Pedro Sánchez. Persona irresponsabile, indegna di fiducia.

Ho scoperto il termine in un commento nella pagina barcellonese di Mediterranea, sotto a quest’articolo da cui, a beneficio di chi ha ancora bisogno di eroi in salsa brava, mi permetto di citare uno stralcio:

In altre parole, secondo [la vicepresidente spagnola] Calvo, Open Arms sta infrangendo la legge «a cui siamo tutti sottoposti» giacché la Spagna «è uno stato di diritto». Dimenticando che il codice della navigazione prevede espressamente l’obbligo di salvataggio dei naufraghi. La vicepresidente ha quindi confermato che all’arrivo in Spagna il governo, attraverso la Direzione generale della marina mercantile (che dipende dal ministero spagnolo dei trasporti), potrebbe multare la ong catalana per ben 900mila euro. Il che equivale a distruggere l’associazione, che vive di donazioni e aiuti. E di fatto, allineando completamente il governo spagnolo alla posizione di Toninelli e Salvini.

Il commento migliore a dichiarazioni del genere è stato quello di Oscar Camps di Open Arms: “Non so se parla lei, o Salvini è ventriloquo”. Che mi sembra una provocazione sublime, anche, e lo dico per chi ha dubbi sul mansplaining, se a dirla è un uomo a una donna.

Quello che non può dire un uomo a una donna è quanto questa debba far dimenticare all’elettorato di avere un bel corpo, anzi, di avercelo proprio, se vuole “giocare ad armi pari” (che poi, “donna” e “armi pari” nella stessa frase mi suscitano un sorriso che diventerebbe sghignazzo se fossi nera).

Ma, intanto che si risolveva tutto il casino dell’Open Arms e continuava l’odissea dell’Ocean Viking, l’Italia se ne stava un po’ a misurare i centimetri del bikini di un’ex ministra e un po’ a fare meme divertenti sulla crisi di governo, mentre l’Open Arms, finalmente lontano dai riflettori, entrava indisturbata nel porto di Lampedusa.

Stamattina mi sono alzata con un’idea balzana, stropicciata dal sonno: e se non li cacassimo proprio più, i migranti? Se i giornali si dimenticassero di loro, se invece di pensarci andassimo da questi a dire: “Ciccio, e i bilanci da approvare? I 49 milioni?”, oppure “Guapo, e il ‘commissariamento‘ della Catalogna? E i tagli?”. All’improvviso salvare vite non diventerebbe uno strumento indegno di lotta politica per afferrarsi alle poltrone, e cominceremmo a capire che, stato di diritto o no, se fossimo noi in mezzo al mare vorremmo essere salvati, e, pensate un po’, avremmo pure la legge dalla nostra parte.

Un momento! Era una provogazzione, ok? Più che altro un brutto risveglio.

Sì che dobbiamo parlarne, del razzismo mosso dalla paura mossa dalla crisi (come se il razzismo avesse bisogno di moventi). Però se dicessimo, tipo, non è questo il punto?

Che cazzo, ci sono migliaia di leoni da tastiera che ogni giorno mettono bene in chiaro che quello dei migranti non è un problema nostro, di noi che ce ne stiamo a discutere all’asciutto, ma non abbiamo un lavoro fisso o dei figli che ce l’abbiano. E allora ascoltiamoli: perché non guardiamo ai problemi che ci riguardano davvero?

La domanda sia piuttosto: questi qui del Governo, in un anno, che diavolo hanno fatto? E non è una domanda retorica. Di tutto quello che hanno fatto, cosa ce ne viene in tasca a noi?

Brucio dalla curiosità di scoprirlo. E in questo momento, mi sa, non sono l’unica a bruciare.

(Ho sentito questa versione di Aquarela do Brasil, cioè “Brasil nanananananana”, dopo aver letto il capitolo sul Brasile di Inhuman Bondage, libro sulla storia della schiavitù. Da allora mi commuovo ogni volta che l’ascolto.)

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Foto di Francesco Gentico dalla pagina Facebook di Open Arms Italia

Ricordo quando ho rigirato a un amico sardo l’invito a una conferenza storica su Alghero (un pallino di certi indipendentisti di qua), ma ero anche la presidentessa di AltraItalia. Mezz’ora dopo ero taggata in un post su Facebook con la domanda: perché a parlare di Alghero invitano “gli altritaliani”, e non le associazioni sarde? In realtà l’invito mi era stato trasmesso dal mio gruppo di ricerca, l’associazione non c’entrava niente.

Ricordo anche quando, stavolta con AI, abbiamo organizzato una serata per il terremoto del centro-Italia (“e allora i terremotati???!1!!!”): un amministratore di una pagina molto seguita ha portato una bottiglia di liquore per contribuire al servizio bar. Commenti a manetta: possibile che una roba con migliaia di utenti se la sia cavata con una bottiglina? In realtà vari membri erano arrivati alla spicciolata con offerte diverse, anche pecuniarie, e il liquore era stato regalato a titolo personale.

Ma è più facile saltare a conclusioni. Lo so, lo faccio.

E lo vedo: è più gratificante, di fronte alla mancanza cronica d’informazioni che possiamo avere nella vita, vedere nessi che non ci sono, girarci in testa un film di cui siamo registi, comparse e spettatori, di solito passivi.

Sta capitando, a fronte della drammatica emergenza di queste ore, sulla pagina di Open Arms: gente che strilla da una tastiera. “Perché non li avete portati in Spagna?!”. “Perché il vostro medico diceva che stavano inguaiati e per l’equipe di Lampedusa hanno al massimo un’otite?”. Là non ci vuole niente a scavare un po’ e ricostruire: non si trattava del “loro medico”, cioè il primo referto non era di Open Arms, ma dei medici dell’Ordine di Malta; il medico responsabile del Poliambulatorio non era sull’isola e la polizia lo vuole sentire quando torna. Quanto alla Spagna: Sánchez non li vuole. Prima dell’articolo apologetico di oggi su Repubblica, quest’informazione su San Sánchez non tanto è passata nel nostro povero paese che ha bisogno di eroi, ma il compañero non è più quello che… “L’Aquarius ce lo teniamo noi“. Adesso ci sono il PP e i fasci di Vox, e la paura di perdere voti: per tre volte dal suo entourage è stato negato un abboccamento con Oscar Camps di Open Arms. Prima della svolta a Minorca, l’offerta di prendere “solo parte delle persone a bordo” era arrivata tipo quattro giorni fa, senza risolvere, come intuirete, la situazione.

Qualcuno mi dirà: ma che gliene frega a quelli che vomitano odio su Facebook. Sono rimasti fregati dalla crisi, dalla vita, condannati al precariato eterno per loro e/o i loro figli. Le promesse fatte loro dall’infanzia, che l’abbiano trascorsa ai tempi del boom o a quelli del pane e Nutella, sono state spazzate via da un sistema economico di merda. Allora è venuto uno, ha detto che la soluzione in tutto questo erano i migranti, e…

E, come si diceva, è facile saltare a conclusioni.

Continuo a pensare che dare un messaggio positivo sia la chiave per sperare di vincere qualcosa, invece di fare leva su paure che, poi, cambiano spesso.

Intanto mi hanno consigliato questo gruppo: l’idea è sgamare bufale e confutarle. Da quel che leggo mi pare interessante, ed è un’operazione che si può fare anche senza hashtag.

Vi lascio con questo articolo di Miquel Molina su La Vanguardia, che vi traduco perché ha una proposta interessante sul concetto di buonismo:

Non fu prima del 2017 che la Real Academia Española accettò il termine buonismo, definito come “atteggiamento di chi davanti ai conflitti sminuisce la loro gravità, cede con benevolenza o agisce con eccessiva tolleranza”. Si certificava così l’uso dispregiativo di una parola coniata da colonnisti conservatori e destinata a riprendere la sinistra e le ONG.

Ha fatto allusione a quella il politico di destra Matteo Salvini, ministro italiano degli Interni, nel suo tweet di risposta alla “sindaca buonista di Barcellona”. La sindaca, Ada Colau, aveva tuittato poco prima su “la crudeltà” che comportava mantenere alla deriva per due settimane 134 migranti a bordo dell’Open Arms (ieri si è dato il permesso di sbarcare a 27 minori). Salvini si è affrettato a polemizzare con la sindaca barcellonese perché ha visto l’opportunità di accentuare il suo profilo autoritario. È lo stesso profilo che lo ha portato a vietare lo sbarco senza dare ascolto ai giudici né alla UE, e malgrado la situazione a bordo sia diventata insostenibile. Al di là di quello che pensi ciascuno sulla politica pro-immigrazione dei comuni di sinistra – accusati di creare aspettative infondate – persone di tutte le posizioni politiche esigono che si metta fine al tormento vissuto sulla nave. Il clamore non proviene solo dalla sinistra. Però Salvini cerca di fidelizzare soprattutto i suoi elettori più estremisti. 

Quelli che usano il termine buonista come arma brandiscono come antonimi le parole rigore, disciplina o fermezza. Ne hanno il diritto. Ma bisognerebbe pensare a un altro modo di dire il contrario di buonista: magari bisognerebbe iniziare a parlare del buonismo di Trump con i suprematisti bianchi, del buonismo dei mandanti dell’Est con gli omofobi, o del buonismo di Salvini con quelli che credono che chiudere gli occhi davanti al dramma dell’Open Arms aiuti a vivere in un paese migliore. 

 

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Per dare un po’ di spazio anche a mamma. E dimostrare che la “purezza italica” è vera quanto le fragole a dicembre

Nella puntata precedente avevo portato mio padre a fare un aperitivo, cosa per lui del tutto inusuale, e come regalo di compleanno non gli avevo detto cosa stessi scrivendo: un saggio su come gestire un’annosa voglia di maternità, se all’improvviso ti ritrovi single a trentott’anni.

C’è un aggiornamento: ieri abbiamo ripetuto la scena e, quando mio padre si è lamentato perché “Quella coppia lì ha due figli e i miei ragazzi nessuno!”, gli ho spiegato dei quaderni. Terrorizzato dall’opzione “assenza di un padre” (d’altronde appartiene a una generazione di cambiatori seriali di pannolini, e rinomati chef di pappe), il mio premuroso genitore mi ha suggerito diverse strade alternative:

  • trovarmi uno mommo’, tanto “bastano sei mesi” (sic) a decidersi per una vita insieme;
  • mandare l’email a un povero ex che piuttosto che figliare preferirebbe il colera, arruolandolo per l’impresa: lui sarebbe stato senz’altro entusiasta. Cuore di papà.

Passando davanti a una casa ristrutturata da poco, mi ha detto:

“Forse qui abitava l’unico compagno tuo che aveva un progetto di vita ‘normale’? Quello che un altro po’ si sposa…”.

Grazie, papà.

“Eh, ma si metteva con tipe troppo strane”.

“E allora andavi benissimo!”.

“Troppo strane anche per me”.

Ha pagato i nostri aperitivi in silenzio, rifiutando la mia dieci euro già pronta rispetto al suo fascio di banconote, arrotolato male.

In realtà prima di uscire avevo visto una bambina bellissima, che una mamma già ce l’ha e che per fortuna, mi pare di capire, si è salvata con lei. Perché era Fatima, cinque mesi, a bordo di Mediterranea, la nave sequestrata ieri a Lampedusa.

Non posto l’immagine, perché mi sono ricordata dell’osservazione di un fotografo: i bambini africani hanno più probabilità di essere schiaffati dappertutto a figura intera, e senza autorizzazione dei genitori, perché non ci sono leggi in merito nei loro paesi.

Ho messo dunque la foto di una bimba bianca un po’ stagionata, che attacca una possibile immigrata: tornatene a casa tua, qui siamo ariani!

Ok, siamo io e mia madre.

Che, fedele alla linea dell’altra volta, se n’è rimasta a casa e ci ha lasciati ai nostri deliri.

Capirete che per me è commovente che al mondo esistano meraviglie come Fatima, visto e considerato che, per farne una io, al massimo posso mandare una mail all’ex di cui sopra, nella speranza che replichi con una foto della sua faccia. E allora mi chiedo: perché non siamo tutti là a salvarla dall’acqua, invece di augurarle la morte?

E so la risposta: perché l’idea fraudolenta che passa è che c’è un problema di sovraffollamento, quando la distribuzione dei migranti in Europa è diversa da quella che ci figuriamo. E la gente senza lavoro, né prospettiva di trovarne tramite i suoi leader, diventa feroce o anche solo un po’ stronza (penso a tutte le notizie false della storia, da quella degli untori al grasso di maiale e di vacca per le munizioni dei sepoy “britannici”).

Tuttavia, siccome ci crediamo “brava gente”, magari questa foto-meteora di Fatima che ho visto circolare aprirà coscienze. D’altronde, “cuccioli e tette” erano le nostre pubblicità, secondo una definizione inglese.

O almeno così giura il tipo che ieri s’è preso l’aperitivo con me. E che, niente, proprio non riesce ad accettare “qualcosa da stuzzicare”.

Dice che fa troppo caldo.

 

(Omaggio a Joao Gilberto, un altro che veniva da un paese etnicamente puro)

 

 

 

Nel dormiveglia ho avuto la visione orripilante di Salvini con la fascia per capelli di Mariarca – personaggio dell’indimenticabile Loredana Simioli – mentre nel suo napoletano (quello di Salvini, dico…) affermava che ” ‘A voggarità ‘o saje addo’ sta? Dint’ ‘a gggente che nun sape ama’”.

Anche se io la sapevo un po’ diversa, o mi ricordo meglio lo sketch in cui la personificazione della “vrenzola” napoletana afferma che la volgarità sta “dint’ ‘a gente che nun sape canta’”.

E ieri, nel mio pomeriggio costellato di esperienze indimenticabili, sapevano cantare tutti.

Cantava l’Etiopia raccontata dall’attivista Beza Oliver: i suoi rapper prendevano una base internazionale e ci mettevano su una musica loro, come accade in un paese descritto ieri come “non globalizzato“. Io avevo capito “non colonizzato“, e stavo per protestare: ma come? Eccomi lì nell’ultima fila, quella che si copriva la faccia quando si parlava di certe tradizioni locali sull’età delle spose, che noialtri, una volta lì, siamo stati velocissimi a sfruttare.

Infatti cantavano per motivi diversi le donne immerse in acqua di questo corto proiettato ieri all’Ateneu del Raval: erano intente a piangere i loro morti mai sepolti, quelli che, al contrario di loro, non hanno mai raggiunto l’altra sponda del Mediterraneo.

Per il dibattito si dava priorità alle persone nere nelle prime file, e si offriva così al resto del pubblico l’opportunità di ascoltare voci con poca risonanza mediatica. Era finita che non aveva parlato quasi nessuno, perché le prime file erano troppo impegnate a piangere, e chi poteva permettersi di non farlo doveva, giustamente, aspettare. Per la cronaca piangevo pure io, anche perché l’unica persona che è riuscita a intervenire dalle prime file ha ringraziato la regista e ha detto:

“Non capiscono che siamo persone, che se facciamo questo [rischiare la vita sul mare] è per tutto quello che ci hanno rubato”.

Che come spiegazione è poco esauriente: una femminista algerina un po’ complottista accusa l’Europa di vedere tutto quello che accade in Africa come “colpa sua”, non rinunciando all’eurocentrismo neanche in questo. Ma c’è una verità di fondo che non riusciremo a negare con nessun riferimento a “le strade e gli ospedali”, e cosa hanno fatto i romani per noi? Gli acquedotti, le scuole…

E il deserto: quello vero, che non rifiorisce alla prima pioggia.

E l’hanno chiamato pace.

 

 

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Da tvynovelas.com

Oggi farnetico più del solito, perché mi manca il mare.

Dico il mare che da ragazzina significava solo vacanze, e al massimo era pieno di alghe e odorava strano – ma a quello, sul litorale domizio, eravamo abituati.

È vero, allora sui giornali c’erano barconi straripanti di ragazzi dalla pelle bianca, che attraversavano l’Adriatico anche perché guardavano la Rai, secondo i giornalisti Rai. Ma a dodici anni non leggevo i giornali. Al massimo sbirciavo in TV l’altra immagine del mare che avevo quando le vacanze erano finite, e cenavo prima di preparare lo zaino per la scuola: quella di Juan del Diablo a torso nudo sulla prua del Satán.

Che mi è sempre sembrata un po’ comica, ma allora la telenovela Cuore selvaggio era una follia! Le telespettatrici di mezza Italia erano innamorate del compianto attore Eduardo Palomo (“Che omo!” recitava una gag). A doppiare in prima serata lui e i suoi compari c’era il fior fiore: Luca Ward, Giuppy Izzo… In realtà io, quando eludevo il bando familiare su “queste sciocchezze”, preferivo il fratello señorito di Juan, perché almeno sullo schermo, da Anthony di Candy Candy a Brandon di Beverly Hills, m’innamoravo sempre del buono e noiosetto a cui le altre preferivano il bello e dannato. E Andrea Aleardi della Valle non faceva eccezione.

Lo ritrovo ventisei anni dopo come Andrés Alcázar y Valle, nella serie caricata tutta in lingua originale da qualche fan storico. Lottando un po’ con l’accento messicano, ho scoperto pure che:

  • l’angelica Beatrice (come altro si poteva battezzare, in Italia?) in realtà si chiamava Mónica, così il diabolico Juan poteva sfotterla “Santa Mónica”, invece che “Suor Beatrice”: lo siento, señor Puccini;
  • la perfida Anna (interessante da un punto di vista GENDER!1!1) si chiamava Aimée, pronunciato malissimo, ma più coerente con la tendenza a riferirsi a lei col solo nome, senza il rischio di equivoci;
  • la storia è un classico, e ha più di mezzo secolo!

Infatti è l’ennesimo rifacimento (quello entrato nel mito) di un romanzo del 1957, della prolifica scrittrice Caridad Bravo Adams, ambientato però nella Martinica francese: l’ultima versione, dieci anni fa, era più fedele all’originale ma è stata un insuccesso clamoroso, con tanto di sfottò per l’età e il peso dell’attore che interpreta il nuovo Juan del Diablo… E sia dai critici (che lo chiamano direttamente “feo”, brutto) che dalle fans! Il mondo delle telenovelas non finisce mai di sorprendere.

Il mondo reale nemmeno: mi sarebbe piaciuto chiudere in caciara questo post su vecchi ricordi e pirati con l’orecchino, e invece devo tradurre questo appello della ProActiva Open Arms, che da due mesi è attraccata nel porto di Barcellona per ordine delle autorità spagnole. E se il Mare Nostrum diventasse Mare Omnium?

Siamo ancora bloccati in porto.

Più di due mesi e centinaia di morti nel Mediterraneo.

Impediscono che salpiamo a proteggere vite, a denunciare le violazioni dei diritti umani. Se i paesi europei bloccano le navi umanitarie, che portano sempre con sé luce e tachigrafi, sarà che preferiscono dei morti invisibili piuttosto che affrontare e rispettare le leggi che difendono il diritto più elementare: la vita.

 

 

Risultati immagini per cartel italia aquarius Oh, non vi facevo così patriottici. Levata di scudi nazionale contro gli “insulti” di Macron, che per quanto mi riguarda, come si dice a Napoli, a proposito dell’Aquariusci ha chiamati per nome. E se pure un negriero inamidato come Macron ha schifato l’Italia (che inspiegabilmente lo ammirava pure), io sarei indecisa se collocarci subito prima di Mordor, o dopo la Gora dell’Eterno Fetore. Bando alle ciance, comunque: senza promettervi nulla di sistematico, volevo farvi sapere cosa dicono di noi, traducendo qua e là dalle testate on-line, e dai social spagnoli e catalani.

Per prima cosa El País (altro giornalino che se ti schifa è grave assai) m’informa che

La distribuzione dei 629 [migranti a bordo] è stata fatta in tutta fretta, perché la Guardia Costiera italiana aveva concesso dieci minuti. C’è stato bisogno di decidere con molta rapidità chi restava sull’Aquarius e chi sarebbe stato trasferito [su un’altra imbarcazione].

Anche La Vanguardia, giornale catalano, sottolinea:

Il piano di spostamento già comincia male, perché obbligherà i naufraghi a restare più giorni – tre o quattro –  in alto mare, e ritirerà due navi – peraltro italiane – da questa zona del Mediterraneo in un momento in cui precisamente mancano mezzi di salvataggio.

Il no della Lega a liberare i porti viene considerato da questo articolo “la parte più grave della faccenda”, con un’allusione non troppo velata alla legalità (o legittimità) del procedimento: Salvini viene indicato come “leader della xenofoba Lega”. La parola “xenofobo” non era stata lesinata neanche dal País, che fin dalla visita a Pozzallo notava che Salvini “fosse ancora in campagna elettorale”.

Conclusione? Per una volta sentiamo El Diario

Il messaggio xenofobo e contraddittorio dell’Italia alimenta il caso della riforma migratoria in Europa.

Avete ragione: Pedro Sánchez, il nuovo idolo italiano che per me puzza ancora di articolo 155, non è proprio alla guida di un paese “samaritano”. Anche se il suo Ministro degli Interni, Fernando Grande-Marlaska, ha annunciato l’intenzione di ritirare il pericolosissimo filo spinato di Ceuta e Melilla: un omaggio, udite udite, del governo Zapatero, nel 2005, poi ritirato parzialmente e rinforzato dal PP nel 2013. Però il ministro ha anche precisato in un’intervista che i migranti a bordo dell’Aquarius verranno trattati “come tutti gli altri”: cioè, come specifica fin dal titolo questo articolo, “avranno un permesso di soggiorno di tre mesi, anche se non si esclude che alcuni finiscano nei CIE”.

Ma nella pagina Facebook di Bienvenidos Refugiados – España, un’utente invita nei commenti a “non essere negativi” (!),  perché almeno, sottolinea, “Ci siamo distinti dai fascisti italiani”.

E da quelli spagnoli: colpito e affondato, il PP non ce la fa proprio a tacere e ha già dato battaglia su questa decisione del nuovo governo, mentre i suoi seguaci hanno fatto proprio l’originale motto, in voga anche da noi, “Mételos en tu casa” (più che “Accoglili a casa tua”, quindi, proprio “Mettiteli in casa”). Il trend che si è generato su Twitter è già leggenda: un politico catalano posta una foto della “casa” di Felipe VI, invero molto capiente, e qualcuno prova a fare lo stesso discorso per la famiglia reale. Tra queste “risate a denti stretti” non poteva mancare:

Se ti piace così tanto il fascismo, mettiti il governo italiano in casa.

Res a afegir.

Nada que añadir.

Niente da aggiungere.

A parte, se permettete, un ricco “chitemmuorto”.

Stretta è la soglia, larga è la via…

Che volete da me, non riesco a essere nostalgica.

Magari avrei voluto che i miei vent’anni fossero stati sereni come i trenta, questo sì. Ma sto dormendo da due giorni di fronte alla mia antica facoltà, e tutto quello che riesco a pensare è: “Cosa posso prendermi, oggi, da Napoli?”.

Va detto che la città è generosa, a parte gli “smoothies” a 3.50 per un bicchiere pieno a metà.

Per esempio, mi è piaciuta l’offerta del sindaco di accogliere la nave Aquarius. L’ha appena fatto anche la sindaca di Barcellona, sto a posto.

Nella mia facoltà ho trovato questa scritta che percorre le pareti di quella che per me, una volta, era solo l’anticamera della biblioteca: “Ognuno di noi deve dare qualcosa, in modo che alcuni di noi non siano costretti a dare tutto”.

La vita, tipo. Per garantire il consenso a qualche politico senza scrupoli, e regalare una sensazione illusoria di sicurezza a chi pensa che i problemi arrivino dal mare.

Peccato che invece vengono da stanze chiuse, spesso molto vicine, in cui chi ha molti soldi decide come fare per mantenerli, costi quel che costi.

E chi non ne ha abbastanza da “stare quieto” cerca capri espiatori alla sua portata. Storia vecchia. Ho letto su Facebook:

“Sono calabrese, ero disoccupato e ho provato a raccogliere arance, ma uno mi ha detto che lavoro, in quel frutteto, non ce n’era. Era tunisino”.

Una volta spiegai a un collega catalano che i ricercatori italiani in Catalogna erano tanti perché, nelle nostre università, non c’era  lavoro. “Be’, neanche qui ce n’è!” aveva sbottato lui, non troppo scherzoso. Temeva gli rubassi il posto. Sapete com’è finita? Quel posto non l’ha avuto nessuno dei due. È stato eliminato per mancanza di fondi.

“Il sindaco di Napoli si sta solo facendo pubblicità, marciando su un fatto di cronaca”.

Un amico mi dice che è dal secondo mandato che il sindaco di Napoli sembra fare pochi gesti plateali, e molti cambiamenti di facciata. Non so se sia vero, spero di no. So che, pubblicità o meno, un bambino nato in Catalogna ora è anche napoletano, e che intanto l’offerta di accogliere la nave c’è.

Certo, vorrei che tutto ciò fosse “normale amministrazione”.

Alcuni di noi lo vorrebbero.