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Risultati immagini per insomnia Ma solo a me vengono le crisi esistenziali, quando mi sveglio nel cuore della notte?

Lasciamo perdere quella volta a Firenze, che aprendo gli occhi avevo visto il Duomo dalla finestra aperta, e mi ero alzata gridando: “I Medici! L’Inquisizione! Fuggiamo!”.

Ve l’ho raccontata, vero? Mio fratello mi sfotte ancora.

In realtà mi capita più spesso di svegliarmi e chiedermi cosa sto facendo della mia vita, una simpatica abitudine iniziata la prima volta che sono andata “fuori dai binari”: non ancora ventenne, avevo rinunciato alla relazione “dal basso” (iniziata, cioè, più o meno in tenera età) che mi avrebbe regalato una placida, immutabile esistenza al paesello.

Da allora mi sono ritrovata alle due di notte in un bagno barcellonese infestato dagli scarafaggi, o mi sono versata bicchieri d’acqua in cucine condivise con studentesse cinesi, e ancora appannate dal vapore della cena. La domanda era, è, sarà sempre: “Che sto facendo della mia vita?”.

Non c’è modo che riesca a rispondermi, nei fumi del sonno: “Esattamente quello che devo fare“. Perché ok, ci saranno cose più affini a me di altre, ma non c’è un solo cammino: ora so che anche rimanere al paesello sarebbe andato bene, a prenderla meglio. Ciò non toglie che preferisca un ambiente internazionale che ai miei tempi il mitico Jimmy il marocchino non riusciva a darmi da solo, nonostante vendesse spillette di Freddie Mercury.

Sapete però qual è la risposta che più si avvicina a lasciarmi in pace? “Sto facendo quello che voglio fare“. Nel mio caso, è scrivere. Troppo spesso ho rinunciato: sapete come funziona, vi prendete un piccolo impegno e diventa enorme, o le ore di lavoro raddoppiano come per magia, senza che lo faccia lo stipendio.

Quindi, se anche voi vi svegliate con la domanda “Che minchia sto facendo?”, provate a chiedervi: “Cosa potrei fare in alternativa?“. E visto che, come si diceva, non c’è una risposta unica, cominciamo ad ascoltarci prima di fare scelte sbagliate, e ritrovarci:

  1. con tre figli, quando in realtà non li volevamo;
  2. senza figli, quando avremmo voluto e potuto averne;
  3. in paese, quando avremmo preferito vivere dall’altra parte del mondo;
  4. dall’altra parte del mondo, quando ci bastava restare in paese, ma con più pazienza, calma e gesso.

Adesso non posso più dirlo alla me stessa di quasi venti anni fa: mi limito a rispettarne le scelte, di cui in qualche caso pago le conseguenze. Quello che posso fare quando mi sveglio di notte, prima di darci sotto di melatonina (e leggere un po’) è assicurarmi che il giorno dopo farò almeno una cosa che mi piaccia.

O ci proverò.

Risultati immagini per valigia di cartone Ho un’amica che è stata l’ultima a partire.

Anche lei, come me, si ritrova i quarant’anni più vicini dei trenta, benché non proprio dietro l’angolo, e anche lei, una volta a Barcellona, non si è fatta prendere subito da quell’entusiasmo da Carnevale eterno che rende altri espatriati un po’ difficili da tollerare. Io avevo vissuto quest’esordio “sobrio” a ventisette anni, dimostrando se ce ne fosse il bisogno che certe teorie su cosa piaccia a trenta e cosa a venti sono spesso luoghi comuni.

Può essere vero, però, che più il tempo passa e più è difficile partire, a meno che in effetti non si fugga da qualcosa come un divorzio, un tracollo economico… Lo dico per far contenti quelli che si sentono una specie di supereroi a non muoversi da dove sono nati.

Parliamoci chiaro, anche la mia amica ha ceduto a quest’affascinante retorica, infatti mi ricorda sempre che “sta ricominciando daccapo a trentasei anni suonati“, ed è subito armatura d’oro, fulmine di Pegasus, e andiamo a comandare armate di curriculum tra le aziende di copywriter sulla Diagonal.

I curriculum li aveva già tradotti almeno in spagnolo, perché se devo pensare alla cosa più saggia che abbia fatto la mia amica me ne viene in mente una sola: si è informata. E molto prima di far passare le sue tre valigie strapiene al check-in di Capodichino.

Pare la più scontata delle misure di sicurezza, e invece è l’ultima che si fa: spesso i nuovi arrivati sono troppo rapiti dal “chi la dura la vince”, e poi si sa, “il mondo è di chi se lo piglia” (ho già detto che Steve Jobs ha fatto più danni delle cavallette?).

Mi ritrovo così delle trentenni che sui social mi chiedono informazioni per insegnare italiano a Barcellona, “anche se non parlano un’acca di spagnolo”. Finiscono per stupirsi: “Ma come, non basta una laurea italiana?”. Ora, io detesto i parrucchieri che attaccano chi si taglia i capelli da sé (presente), quindi non riservo a nessuno lo stesso trattamento da professionista offesa: faccio solo notare che non si è molto competitive, se una scuola deve scegliere tra un’italiana con la laurea e un’altra con laurea, diploma d’insegnamento e documenti in regola per lavorare (sempre io). A questo punto, però, viene la carrambata: le mie interlocutrici o vogliono partire in queste condizioni dalla Germania, lasciandosi alle spalle un lavoro ben remunerato, o vengono al seguito di un compagno già assunto con un modesto stipendio locale. Il “probabilissimo” lavoro d’insegnante era per riuscire a pagare l’affitto di 80 mq a Barcellona (e qui trattengo le risate), e anche una scuola privata al figlio di tre anni, che si sa, quelle pubbliche insomma… A questo punto ricordo i 500 euro per una escola concertada, comunque più economica delle private, e non rido più: penso a questo frugoletto che una volta qui, oltre a dover imparare i pronoms febles, rischia di sciropparsi 30 metri quadri in culo ai lupi e un’iscrizione alla scuola pubblica fatta in ritardo.

La mia amica è partita da sola, ma ancora prima di rivolgersi a me ha avuto la presenza di spirito d’informarsi sui documenti e di trovare un alloggio temporaneo intanto che gira a caccia di stanze non lillipuziane, né proprio in Papuasia.

Perché il problema delle autonarrazioni non è la pretesa sacrosanta di ricominciare a trentasei, cinquanta o settanta suonati: ricordo una negoziante sessantenne che dalla Toscana voleva le trovassi un posto da cameriera! Il problema è scordarsi delle mille cose da fare per riuscirci, tappe che hanno meno a che vedere col “sudore della fronte” e più con ore di fila all’alba fuori a un commissariato, chilometri macinati coi curriculum in mano, eterne rassegne di ripostigli riciclati come stanze a 350 + spese.

Si tratta, dunque, di noia, di esercizio e della costanza di ricordare perché si sta facendo tutto questo, anche quando i perché cambiano.

Solo allora scopriamo il magnifico lusso di “ricominciare daccapo”, e ci godiamo il processo.

 

Immagine correlata  Mi scoccia un po’ la narrativa del “ci vuole coraggio a restare”. So che chi parte se ne costruisce spesso una uguale e contraria, stile “il mondo è di chi se lo piglia” + massima a caso di Steve Jobs. Ma questa del coraggio di chi resta sta ricorrendo un po’ troppo nelle costruzioni identitarie di collettivi che altrimenti ammiro.

Vi prevengo: mi sono chiesta se a muovere il mio fastidio non sia il senso di colpa che dicono di avere altri… “fuggitivi“. Ma non credo sia così, per due motivi.

Prima di tutto, l’Erasmus e altre esperienze all’estero mi hanno fatto costruire un’identità “transnazionale”: insomma, nostra patria è il mondo intero, per restare in tema di narrative seducenti.

E poi, credo che la cosa più utile che io possa fare, alla luce dei fatti, sia costruire ponti (altro cliché affascinante): confrontare le mie esperienze estere con quelle di chi resta. Continuo a pensarlo anche ora che mi hanno fatto sentire paranoica perché mi preoccupo della gentrificazione a Napoli (“Ma no, è il salumiere che si rifà il negozio per piacere ai turisti!”), nonostante lo sfruttamento dei lavoratori nel settore turistico e l’evidente aumento del costo della vita. D’altronde vivo in una città che, di tutte le critiche mai mosse alla sindaca, non ne ha mai avanzato nessuna contro il termine “sindaca“. So che dalle nostre parti c’è qualcuno che ancora liquida queste cose come quisquilie che distolgono dai “veri problemi”: i suoi.

Specie in tempo di elezioni, poi, alla narrativa del “se ne sono fuggiti” si alterna il “sono stati costretti a fuggire”: in un caso o in un altro, la nostra volontà di scelta va a farsi benedire. Non possiamo proprio decidere per motivi vari di voler fare una nuova esperienza altrove. Lo so, lo so, il buon vecchio Fëdor mi aveva messo in guardia sul rapporto difficile tra essere umano e libero arbitrio: ma qui si degenera.

Allora con un sorrisetto antipatico mi viene da guardare qualcuno che si senta “eroe” per il fatto di essere rimasto (o qualche eroina, che sono anche di più), e chiedere: “Neh, ma siete proprio sicuri che riuscireste a fuggire?”.

Perché non è affatto scontato, eh. È vero, la stagione a Londra e Barcellona se la fanno un sacco di diciottenni senza molti studi, che puntano subito ai lavori più umili “finché non imparano la lingua” (e, paradossalmente, dopo un po’ finiscono a parlare solo italiano nei call center).

Ma… Sicuro che riuscirebbero a restarci, fuori? E che sarebbe una fuga piacevole? Ricordo che mi avvicinavo ormai ai trenta, quando ho letto i primi messaggi disperati di coetanee in vacanza che chiedessero “come funziona la lavatrice”. E continuo a sospettare che non pochi coetanei maschi moriranno prima di scoprirlo.

Sicuro che ci andrebbe tanto di farci sfruttare dietro un bancone da qualche connazionale che approfitta della nostra scarsa padronanza della lingua locale per sottopagarci? Sicuro che ci andrà bene vedercela con agenzie e padroni di casa, e farlo in una lingua straniera? E no, lo spagnolo non è italiano con le “s” alla fine, i francesi se non arrotiamo le “r” non capiscono, e potreste diventare vecchi prima di dire l’unica frase d’inglese (o giù di lì) imparata a scuola: “the book is on the table” (io sto ancora aspettando questo momento). Spassionatamente: guardiamoci sempre Netflix coi sottotitoli in inglese, e forse non tenteremo il suicidio la nostra prima sera a Manchester.

Proviamo poi a farci degli amici che non siano quelli d’infanzia, o di scuola, o del lavoro fisso a cui avrebbe potuto aspirare nostro padre. Magari conosceremo più gente alla festa d’addio di un collega in partenza (evento frequentissimo nelle metropoli), che tra i vicini del nostro stesso palazzo.

Per non parlare delle difficoltà di “fuggire” verso una terra che, checché se ne dica, non è messa proprio benissimo, rispetto all’Italia: a Barcellona non ce la farà mammà, la nottata a Sant Cugat del Vallès per prendersi il Nie, che danno senza appuntamento solo ai primi quindici in fila. È vero che qualche mamma o papà s’iscrive di stramacchio sulle pagine d’italiani all’estero, per aiutare la prole a trovare casa anche a distanza. Ma è una parola lo stesso! La mia padrona di casa potrebbe dirmi all’improvviso, come altri proprietari nel quartiere, che devo lasciarle l’appartamento per “motivi familiari”: in tal caso, posso sospettare legittimamente che in realtà voglia affittarlo per soggiorni brevi al 50% in più del prezzo. Ormai, considerando che 1000 euro a Barcellona sono uno stipendio non disprezzabile, oltre il 50% di quanto guadagniamo serve a pagarci l’affitto.

Morale della favola: tanta gente che “fugge” non resiste tre mesi. Arriva a settembre, dopo un mese ancora non ha i documenti per lavorare e approfitta delle vacanze di Natale per tornare alla chetichella.

Spero che chi “non se la sente di fuggire” sia in grado di fare meglio!

Perché tutti quanti ci costruiamo un’autonarrazione, e l’indulgenza verso noi stessi deve sempre occuparvi un ruolo da protagonista.

Basta che non diventi un racconto consolatorio che impedisca di partire a chi starebbe meglio altrove, e di tornare a chi ha scoperto che non basta un altrove, per stare meglio.

Perché c’è un piccolo particolare da cui non riusciremo a scappare mai: il fatto che le cose, malgrado tutti i nostri sforzi, possano andarci male sia in Italia che in Papuasia citeriore.

Proviamo quindi a esercitare quel poco di scelta che abbiamo senza pregiudicarci nulla, che sia un trasferimento, un ritorno, o la sacrosanta voglia (che dovrebbe essere un diritto) di non muoverci proprio.

A volte ci vuole coraggio a partire, altre volte ce ne vuole a restare.

In tutti i casi, basta trovare il coraggio.

https://www.captiongenerator.com/183232/Hitler-e-il-NIE

 

scream4maskknifesetChe bella figura ci facciamo, a essere vittime del destino. Vero?

La dea bendata è cieca, la sfiga ci vede benissimo, e noi vediamo a intermittenza, guarda caso quando ci conviene.

Ok, parlo per me.

Che la posizione di vittima l’ho coltivata per anni.

Quant’è nobile la figura di chi si sbatte per tutti, con gli amici, al lavoro, in coppia.

Quante perfette padrone di casa conoscete che si lamentano della scarsa collaborazione dei loro mariti? La distribuzione dei ruoli nella società è una delle tematiche che mi stanno più care, però da femminista mi chiedo: quante osano chiedere, pretendere la collaborazione maschile? Ai pranzi di Natale, dalle mie parti, ho visto spesso tutte in cucina e tutti davanti alla tele, cacciati dalla cucina se (raramente) si arrischiano a offrire aiuto. Magari con la sola padrona di casa, a meno che le ospiti non siano figlie sue, a cucinare per 20.

Ci piace, secondo me, dimostrarci di essere le sante che sopportano per tutti. Vale anche per gli uomini. E mi chiedo, se lo facciamo soprattutto per sentirci approvati, quanto ci sia di altruismo, in questo.

Ma non è l’esempio più scontato.

Quant’è bello fare la figura di chi soffre per amore, no? Di chi ha iniziato una relazione ambigua, caotica, della serie massimo risultato con minimo sforzo, ma poi si è innamorato, guarda caso non corrisposto. Ci restituisce al più classico dei copioni romantici in quella che era iniziata come la più prosaica delle scopamicizie. Che sono belle e divertenti finché tutti e due (tutti e tre, tutti e quattro…) vogliono esattamente quello. Se no, inutile domandarsi perché a un certo punto, a equivoco chiarito e non-storia dissolta, l’amato bene abbia difficoltà a rapportarsi con noi anche se cerchiamo almeno di salvare l’amicizia, o le apparenze. E ti credo, in che posizione l’abbiamo messo? Il cinico impassibile che di fronte a tanto amore, ricevuto da una personcina così speciale, proprio non risponde ai palpiti? Come se dipendesse da lui, vedi articolo corrispondente, come se non fosse cominciata in condizioni simili, come se la “voglia di sbattersi zero” (cit.) non fosse stata, inizialmente, reciproca.

E quando noi siamo dall’altra parte? Ma no, noi non siamo mai i cinici che non corrispondono. Noi siamo chiari fin dall’inizio, la dichiarazione d’intenti stile “È un momento terribile della mia vita, non posso darti certezze” è il nostro scudo per declinare ogni responsabilità. Gliel’avevamo detto. E allora perché i “te l’avevo detto” altrui non ci vanno bene?

Perché è solo paura, mi permetto d’ipotizzare ora che vengo invitata a uscire da qualcuno e mi dico “No, devo prima superare la precedente delusione”, e comunque c’è questa o quella cosa che non mi convince, nonostante sia bello, intelligente e sensibile. E mi congratulo con me stessa per “fiutare” finalmente, dall’inizio, le cose che non mi convincono, ma mi chiedo anche perché le abbia accettate, e magari le accetterei ancora, in chi invece ne aveva a josa.

E allora formulo l’ipotesi: è solo paura. Sfuggiamo alle nostre responsabilità nelle cose, al rischio di non ottenere quello che vogliamo, e allora ci chiudiamo da soli in un angolo e decidiamo di accontentarci. È un patto col diavolo per non affrontarle, le nostre paure.

Ma avete notato, come me (e Giorgio Nardone, e un’infinità di altri autori), che a evitare di affrontare le paure finiamo per incappare proprio in quello che temiamo?

Penso a una polemica a me molto vicina, tra italiani all’estero e in patria, sulla partenza dall’Italia come fuga. “Bisogna restare per cambiare le cose”. A me sembra che ci sia gente che parta per paura e gente che per paura resti. Finendo scontenta in tutti i casi. Preferisco quelli che scelgono di partire o di restare per coraggio. Il coraggio di fare ciò che vogliono. Non sto dicendo neanche di perdere i pochi soldi che avete in astrusi investimenti, magari all’estero. Solo che lasciare la via vecchia per la nuova, spesso significa passare da un fallimento che non ci siamo scelti a uno che almeno proveremo a evitare. Ed è la peggiore delle ipotesi, eh. Figuriamoci le altre!

Ho più esperienza, come si sarà notato, per dire che a evitare le delusioni d’amore si incappa proprio in quelle. Perché ci ficcano in quelle proprio le misure che prendiamo per evitarle, come fughe strategiche da relazioni “troppo dense”, o relazioni “libere” quando vogliamo un altro tipo di storia (se no oh, ribadisco, dove c’è gusto non c’è perdenza).

Quindi, mi sento di argomentare, ammantarci di vittimismo è un alibi che per il dolore che comporta ci evita anche di vederlo come tale (le scorciatoie non erano tutte comode?). Ma è un “manto” che dopo un po’ fa sentire freddo e fa anche perdere tempo.

E per tempo perso intendo tempo non impiegato a fare cose ce ci piacciano o ci “riempiano”, come si dice in spagnolo.

Allora, man mano che smetto di far cose solo per sfuggire alle mie paure o per avere l’approvazione altrui, mi sto rendendo conto che: 1) le cose che voglio, nei limiti del possibile, le ottengo; 2) divento altruista per davvero, e mai come quando divento altruista per davvero penso al mio proprio bene.

Ma di questo, se vi va, ragioneremo (magari insieme) nel prossimo articolo.