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Las impactantes imágenes del funeral de Raffaella Carrà en Roma | MDZ Online

Immaginate Raffaella Carrà, sparata a palla alle 5 del mattino.

È vero che ogni momento è buono per ricordare Raffa, ma gli hipster del primo piano sono stati fortunati, perché l’hanno omaggiata proprio ora che sto seguendo un corso online di Buddismo e psicologia evoluzionistica, come già accennavo qui.

In un altro momento, i miei cari vicini sarebbero morti male, se non altro perché l’uocchie so’ peggio d’ ‘e scuppettate (ovvero, gli strali che lanci col solo mirare sono più perniciosi di un’arma da fuoco).

Adesso, invece, sto mettendo alla prova quanto apprendo al corso di cui sopra. Chiariamoci: continuo a sottoscrivere la massima di Gianfranco Marziano, per cui “Se esiste un club di padreterni, Buddha è chillo che mannano a piglia’ ‘o cafè”. Scherzi a parte, non ho niente da dire contro Siddhartone e le sue vivide descrizioni di cadaveri nei fossi… Diciamo, però, che per i miei gusti il buddismo ha lo stesso difetto di altre filosofie e religioni nate in tempi di indicibili sofferenze, e di piaghe inconcepibili anche per noi che abbiamo Enrique Iglesias. Quale sarebbe il difetto? Beh, sostenere che la vita è dolore, che dobbiamo condurre un’esistenza distaccata, e rimandare la gioia alla prossima reincarnazione (o all’aldilà). Intuirete che le autorità al potere si fregano le mani: “Ecco, bravi, statevene lì a meditare/aspettare il paradiso e non rompete troppo“.

Lo so, lo so, Buddha non diceva questo, anzi: solo che mi pare lo affermi spesso il suo fan club, a parte quell’esperto di Ashtanga Yoga che mi ha confessato che si vedeva sempre circondato da esauriti. “D’altronde” ha aggiunto con una punta di autoironia, “chi pensi che venga a fare meditazione? I tranquilloni?”. Uhm, no.

Però, grazie al corso di cui sopra, ho scoperto un aspetto interessante che accomuna buddismo e psicologia evoluzionistica: le emozioni sono “ingannevoli”, cioè influenzano pesantemente la nostra percezione delle cose (e dunque, i nostri pensieri); tuttavia, se impariamo a osservarle da fuori, saremo noi a dominare loro, e non viceversa.

Sì, sotto sotto c’è sempre questa demonizzazione della rabbia che puzza di privilegio da qui al Tibet: difficile trovare una religione antica e ancora in auge che non dia a Cesare quel che è di Cesare, pure quando Cesare è ‘nu scurnacchiato. Però l’idea di vivere in armonia con le emozioni non è affatto male! E avrebbe pure qualche fondamento scientifico. Da un punto di vista evoluzionistico, abbiamo un cervello supereroe che ci ha fatto sopravvivere all’era glaciale, ma a che prezzo? Quello del mainagioia! I nostri neuroni seguirebbero regole del gioco vecchie di ventimila anni, per cui:

  • perseguiamo piaceri che ci creano dipendenza (senza sesso e zuccheri, col cavolo che assicuravamo la conservazione della specie!);
  • vediamo minacce anche dove non ci sono, con l’eccezione di Enrique Iglesias che è una minaccia oggettiva;
  • per motivi piuttosto singolari, ci conviene distrarci spesso.

In un quadretto così allettante, il buddismo sfiderebbe le regole della nostra mente: cominciamo a osservare da fuori le nostre emozioni, e decideremo noi quali lasciar entrare e quali no. Continuo a vederci la paranoia per cui “il desiderio è sofferenza” (letto davvero in un articolo sulla meditazione), ma oh, mi piace un sacco il principio di gestire le nostre emozioni, prima che loro gestiscano noi.

Vorrà dire che, la prossima volta che i vicini hipster omaggeranno Raffa in terrazzo, farò cinque minuti di meditazione, poi prenderò un secchio d’acqua e glielo getterò addosso.

Però l’acqua sarà tiepida.

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Ecco un uso più che dignitoso dell’ananas! Da: https://www.wilton.com/brush-stroke-pineapple-cake/WLPROJ-8969.html

Oh, alla fine l’ananas dell’altra volta, sparato a caso su abiti altrimenti carini, serviva a riassumere questo: spesso m’illudo che qualcosa mi stia andando bene, e alla fine non è così.

Una sensazione familiare, vero?

Adesso in Italia lo chiamano #mainagioia!

Allora vi faccio una domanda: cosa succede quando già vi preparate a una bella delusione… e vi accorgete che stavolta non vi tocca?

Perché non tutti la prendono bene, eh.

Nel giro di due settimane sono riuscita a farmi insultare sui social sia da un papà che ha figliato per maternità surrogata, che da un giovane vegano. Perché? Beh, perché ero dalla parte di entrambi! E loro proprio non riuscivano a crederci.

Nel primo caso, argomentavo che una cosa sia battersi contro le mafie che controllano la maternità surrogata, e un’altra “insegnare a campare”, per esempio, alla moglie di un marine, che decide di dedicarsi a quello con la stessa “libertà” con cui decidiamo di lavorare in un call center per otto ore, e pagarci l’affitto vendendo cose inutili. Che aveva capito, il papà, di tutto questo? Che io volevo “insegnare a campare” alle mogli dei marines! Ammetto che il mio spagnolo non sia perfetto, ma posso ipotizzare che il babbino caro non fosse proprio un fulmine di guerra? O magari era così abituato agli slogan categorici di altre commentatrici, che ha infilato anche me nel calderone!

Nel secondo caso, provavo a smontare il cliché sui vegani salutisti con l’argomento più potente che avessi: la mia dieta! Infatti odio frutta e insalata, e mangiavo un sacco di pasta fino a cinque minuti fa (e in questi cinque minuti ho perso quasi due taglie, insieme a qualsiasi traccia di tette ancora riscontrabile sul mio corpo!). Ma niente, quello se ne esce con: “Come si permette lei di giudicarci? È vegana, per caso?”. Sì, coglione, è questo il punto! E capisco che l’Italia se ne cade di filosofi che ti muovono critiche del calibro di “Slurp, bistecca!”, ma il fuoco amico anche no, eh.

Vabbe’.

Un esempio più ameno dell’ostinazione a non accettare “una gioia ogni tanto” è quello di un’amica che, a proposito della sua nuova fiamma, mi faceva un discorso che Antonio Albanese aveva già previsto dieci anni prima:

“Ho il terrore di essermi innamorata di lui. Quindi dobbiamo chiuderla qui prima che la nostra storia si trasformi in sofferenza… Lo so, sembro egoista, vero?”.

Per la verità, in quel caso appoggiavo il commento finale di Albanese/Epifanio: “Ma che sei scema, oh?”.

Alla fine eravamo solo gggiovani, tutte e due. Perché anche io, quanto a pippe mentali, non scherzavo mica. Che ne so, ero a un passo dal realizzare il sogno d’ammmore dei vent’anni? Meglio spararmi qualcosa come undici anni a Barcellona, e mi sa che ci rimango addirittura! Oppure, nella prima casa di cui fossi “titolare” e non coinquilina semplice (il che, nel regno del subaffitto, è un passo gigante per l’umanità…), osservavo un compagno d’università crollato sul divano dopo il pranzetto d’inaugurazione, e mi dicevo: “Tutto qui? Dovrei essere più contenta, per quanto mi sono sbattuta ad arrivarci…”.

E a questo punto, miei due lettori e mezzo, avrete indovinato anche dove voglio andare a parare: niente ci andrà veramente bene, se non gli diamo il permesso! Se non ci diamo il permesso.

Con questo non voglio mettere pressione sulle vittime di sfiga cronica. Il fatto è che, dopo anni passati con la sindrome del gabbiano Jonathan Livingstone, siamo proprio fissati con l’idea che non sia possibile trovare… una gioia, appunto, o almeno una connessione estemporanea con qualcun altro.

Eppure, vivere nello stesso pianeta a rischio, e con lo stesso tipo di pollice, ogni tanto unisce più del comune odio per la pizza all’ananas, che comunque mi sembra un’ottima base da cui ripartire! Molto più della rabbia che siamo costretti a nutrire per l’aspirante genocida di turno.

Visto? Da qualunque parte la si guardi, l’ananas c’entra sempre.

(Buoni primi quarant’anni a una tizia che una gioia non ce l’aveva manco per sbaglio! Tant’è vero che è morta a trentaquattro…)

 

 

 

E così oggi presento il libro. Forse venite e forse no. Magari dobbiamo aggiungere altre sedie, oppure ci siamo giusto io, Rossella e Piero, con Cecilia che fa avanti e indietro.

Ya no está en mis manos, come si dice da queste parti: non dipende da me.

E non sono solita emozionarmi per cose che succedano a me, adesso la mia idea è rendere il miglior servizio possibile a Fatima e Anna, a quello che hanno rappresentato nella vita mia e di chi in qualche modo le ha incontrate.

Però oggi, al risveglio, pensavo a tutto ciò che mi ha portato a provarci, almeno: ad abbandonare percorsi più sicuri per mettermi a fare quello che voglio. A questo punto mi pare chiaro che non sia stato il destino.

Quando ho creduto che mi guidasse lui, ho imboccato strade contorte, pensando fossero le uniche possibili.

Quando ho creduto che fosse solo questione di lavorare sodo, invece, ci sono andata più vicina, ma mi sono comunque illusa: puoi ucciderti di fatica e non riuscire mai.

Penso quindi all’incredibile dose di culo che ci vuole anche solo per fallire in quello che ti piace, perché significa che hai avuto il privilegio di provarci. Sì, il privilegio.

Mi sono innamorata di questo ragazzo colombiano, figlio e nipote di musicisti, che è passato dal suonare in un terzetto ad analizzare musica di merda (sic) su Youtube. Luís Fonsi, Enrique Iglesias, Shakira… Che poi io Fonsi non riesco neanche a schifarlo, neanche da femminista: mi sembra un mio compaesano che “si fa il ciuffo” per guadagnare centimetri, che si arrotola una sigaretta davanti alle ragazze e si fa scivolare per puro caso un plettro in mano, perché sia chiaro in giro che ogni tanto strimpella. Però Alvin mi fa schiattare dalle risate, quando gli scimmiotta l’autotune.

Ecco, se ci fosse un destino sarei sicura di aver trovato l’anima gemella, perché, in un’intervista sulla piega curiosa che ha preso la sua esistenza, il mio nuovo idolo ha dichiarato: “Ho finito per vivere di ciò che mi piace, ma non come sognavo o speravo”.

Mi sa che succede ogni volta.

Risultati immagini per alice coniglio parodia Forse ho cominciato a fare tutto con dieci anni di ritardo.

Se dieci anni fa mi avessero chiesto cosa volessi fare nella vita, avrei risposto: “Trovare un lavoro dignitoso all’università che mi permetta di scrivere”. Laddove “scrivere” sarebbe sembrato un’utopia, e “lavoro dignitoso all’università” no. Era l’inizio della crisi, cosa volete.

Le cose che volevo io, ho il coraggio e la lucidità di cercarle solo da quattro anni o giù di lì: come intuirete, non sempre si può recuperare il tempo “perduto”, o starei già affinando le mie apprezzate abilità canore per diventare Lana Del Rey. Oppure starei organizzando almeno il secondo compleanno della piccola Eufrasia Fulgenzia Prassede, pianificata già in età da arresto insieme a Kim Rossi Stuart (che era fidanzato con me a sua insaputa, come Paolo Maldini).

Invece è nei ritorni dalle vacanze che spuntano foto di ex coinquilini conosciuti dieci anni fa, ora sposi e con prole (non in quest’ordine) in una città diversa da Barcellona, che con stipendi come il loro sarebbe un posto fantastico per figliare: ma, se tutto quello che hanno imparato a dire in due anni è “Un mojito, por favor”, capisco anche che stentino a crederci. Oppure vengono fuori scartoffie (notifiche, anticipi da dare, ricevute) che mi costringono a pianificare il mio futuro immediato. Risultato? In questo lunedì pre-settembrino, a tutto penso, fuorché al presente.

Allora mi ricordo che, pazienza per Lana del Rey, ma scrivere dipende solo da me e comincia a dare risultati decenti. Quanto ai figli, l’idea peregrina sarebbe ancora averli con un padre bendisposto, ma, tra gli ex degli ultimi dieci anni, uno crede che gli attentatori sulla Rambla siano stati mandati dal Re di Spagna, e un altro che il Corano preveda gli tsunami. E parliamo di quelli che, a nominarli, la gente non mi ride letteralmente in faccia, come fa invece in altri casi. È difficile imparare all’improvviso a non circondarsi di psicopatici, se sei psicopatica anche tu, e quando guarisci un pochetto devi comunque scommettere su qualcuno e sperare che la sua barba non sia poi così blu. O che la tintura regga abbastanza.

L’unica cosa certa è che la paura di non avverare i miei desideri stava ottenendo esattamente il risultato che temevo, perciò volevo far presente che, a volte, si è più realisti a inseguire esattamente ciò che si vuole, che a trovarsi dei surrogati ancora più fallimentari.

Oppure vi ritrovate come me a fare quello che è necessario dopo un allagamento in casa: salvare il salvabile, in ordine di priorità. E per fortuna, scrivere dipende solo da me e posso farlo sempre.

Se viene anche il resto, sacrificherò un gallo a Esculapio.

Un gallo di tofu, ovviamente.

Tanto chi se la mangiava, quella schifezza.

(Questa dev’essere un’ex dei miei ex)

Risultati immagini per insomnia Ma solo a me vengono le crisi esistenziali, quando mi sveglio nel cuore della notte?

Lasciamo perdere quella volta a Firenze, che aprendo gli occhi avevo visto il Duomo dalla finestra aperta, e mi ero alzata gridando: “I Medici! L’Inquisizione! Fuggiamo!”.

Ve l’ho raccontata, vero? Mio fratello mi sfotte ancora.

In realtà mi capita più spesso di svegliarmi e chiedermi cosa sto facendo della mia vita, una simpatica abitudine iniziata la prima volta che sono andata “fuori dai binari”: non ancora ventenne, avevo rinunciato alla relazione “dal basso” (iniziata, cioè, più o meno in tenera età) che mi avrebbe regalato una placida, immutabile esistenza al paesello.

Da allora mi sono ritrovata alle due di notte in un bagno barcellonese infestato dagli scarafaggi, o mi sono versata bicchieri d’acqua in cucine condivise con studentesse cinesi, e ancora appannate dal vapore della cena. La domanda era, è, sarà sempre: “Che sto facendo della mia vita?”.

Non c’è modo che riesca a rispondermi, nei fumi del sonno: “Esattamente quello che devo fare“. Perché ok, ci saranno cose più affini a me di altre, ma non c’è un solo cammino: ora so che anche rimanere al paesello sarebbe andato bene, a prenderla meglio. Ciò non toglie che preferisca un ambiente internazionale che ai miei tempi il mitico Jimmy il marocchino non riusciva a darmi da solo, nonostante vendesse spillette di Freddie Mercury.

Sapete però qual è la risposta che più si avvicina a lasciarmi in pace? “Sto facendo quello che voglio fare“. Nel mio caso, è scrivere. Troppo spesso ho rinunciato: sapete come funziona, vi prendete un piccolo impegno e diventa enorme, o le ore di lavoro raddoppiano come per magia, senza che lo faccia lo stipendio.

Quindi, se anche voi vi svegliate con la domanda “Che minchia sto facendo?”, provate a chiedervi: “Cosa potrei fare in alternativa?“. E visto che, come si diceva, non c’è una risposta unica, cominciamo ad ascoltarci prima di fare scelte sbagliate, e ritrovarci:

  1. con tre figli, quando in realtà non li volevamo;
  2. senza figli, quando avremmo voluto e potuto averne;
  3. in paese, quando avremmo preferito vivere dall’altra parte del mondo;
  4. dall’altra parte del mondo, quando ci bastava restare in paese, ma con più pazienza, calma e gesso.

Adesso non posso più dirlo alla me stessa di quasi venti anni fa: mi limito a rispettarne le scelte, di cui in qualche caso pago le conseguenze. Quello che posso fare quando mi sveglio di notte, prima di darci sotto di melatonina (e leggere un po’) è assicurarmi che il giorno dopo farò almeno una cosa che mi piaccia.

O ci proverò.

Lo so che è da tempo che non scrivo resoconti cazzari dei miei pomeriggi più surreali, ma facciamo una cosa: io vi racconto quello di lunedì scorso e ci pensate voi a trovargli una profonda morale nascosta. Affare fatto? Cominciamo.

Allora, sono le cinque passate, sono in casa reduce da un’ora di step, in attesa delle uova fresche del Montseny promessemi da un amico brasiliano, che ha lasciato tutto per vivere in montagna. All’improvviso il mio pusher ecobio mi annuncia via WhatsApp di non poter più effettuare la consegna a domicilio. Al massimo posso incontrare la sua compagna, ma solo a Plaça Universitat, e solo tra mezz’ora: è incinta e partorisce a maggio.

Senza neanche docciarmi mi precipito fuori nella seguente tenuta: felpa rossa cinese di pile infiammabile, due taglie più grande; pantajazz di Decathlon (come i pantacollant, ma a zampa); scarpe dello stesso magazzino, col risvoltino fucsia fosforescente.

Ovviamente alla fanciulla avevo dato appuntamento fuori al Buenas Migas e lei si schiaffa giusto all’altro lato della piazza, proprio l’ultima panchina. E le dodici uova che compro sono racchiuse in due cartoni precari, tenuti fermi a stento da uno spago e rigorosamente non imbustati. Così imparo a vivere in città.

Mi vendico a mia insaputa rivelando alla venditrice che secondo il suo compagno partorirà a maggio. Metà giugno, corregge sorpresa e irritata. Magari è una premonizione, butto lì. Ma dalla sua faccia mi rendo conto che non capisco un cazzo di gravidanze e me la batto.

Dopo uno scone di consolazione al Buenas Migas (se dobbiamo gentrificare, che sia per una giusta causa), sempre con le uova in bella mostra accanto al matcha, mi dico che sono quasi le sette ed è inutile tornare a casa, se alle otto e mezzo comincia il film che vorrei vedere. M’incammino dunque verso il Renoir Floridablanca (tra i pochi cinema in lingua originale della zona) a comprarmi il biglietto in netto anticipo: Jackie è appena uscito, più tardi ci sarà la fila. Siccome perfino un’anziana signora comincia a sfottermi per il carico di uova, decido di farmi una spesona al supermercato accanto alla biglietteria (un euro e 50 in totale) per procurarmi una busta.

Eccomi qui di fronte al cinema con la mia tenuta “sportiva” e una busta della spesa, che qualche italiano over 30 amante del Pippo Chennedy Show avrebbe potuto aspettarsi da me un: “Tenissene ciento lire? Aggia vede’ ‘o film d’ ‘a Portmànnn“.

Mentre racconto l’avventura delle uova in un messaggio vocale ai miei, ridendo da sola per il mio abbigliamento, arriva Viggo Mortensen.

No, non me lo sto inventando. Il mio sogno erotico numero due (il primo è Paul Bettany e il terzo Juan Diego Botto) si ferma alla cassa del cinema con una signora alta e magra che compra due biglietti, mentre lui si guarda intorno circospetto.

Via libera, nessuno lo ha riconosciuto. Tranne forse una tipa losca in tuta cinese, con una busta della spesa che sembra contenere uova, ferma nella stessa postazione della mendicante che di solito si mette lì a vendere accendini.

Ma la presunta fan, chissà chi sarà, fa la vaga con lo sguardo fisso sull’orizzonte, o meglio sul tabellone dei film, dicendosi che no, quel piacente signore sulla sessantina sarà solo uno mooolto somigliante ad Aragorn.

E poi va bene la sfiga, ma possibile che l’unico incrocio di sguardi che mi sia dato su questa terra con Viggo mi debba vedere conciata così, con delle uova in mano? No, non può essere, non può…

– Ha’ vitto Moonlight?

Ok, la domanda non era per me (“Hai visto Moonlight?”), però quella che mi giunge è la voce del Capitan Alatriste, con l’accento argentino di chi in Argentina ci ha vissuto. Viggo Mortensen, appunto. Sì, sono una di quelle fan che sanno tutte ste cose.

Scappo a casa, un po’ per nascondermi e un po’ perché l’ora abbondante che ho d’attesa la potrei pur spendere posando le cazzo di uova e regalandomi una bella doccia.

No, non è nella speranza di rivedere Viggo, figurarsi.

Quante probabilità ci sono di ritrovarmelo a guardare Jackie in sala con me?

E infatti al ritorno al cinema finisco seduta dietro alla sua accompagnatrice.

Ma siccome il posto accanto al mio è libero, con abile mossa mi piazzo proprio alle spalle di lui.

Non l’avessi mai fatto!

Non è uno spilungone, ma in questa nuova versione capello bianco corto ha una vertigine proprio sulla sommità del capo, che negli occasionali sussulti di lui per baciare la compagna (maledeeetta!), si pianta direttamente nel naso di Natalie Portman. Che magari lui chiamerà Naty.

Credetemi, il miglior modo di togliervi dalla testa il vostro sogno erotico è vederlo trasformato in un ciuffetto di capelli bianchi davanti al cervello schizzato di Kennedy (non Pippo, proprio JFK).

Specie se smette di coprire lo schermo solo durante i titoli di coda, dileguandosi poco prima che si riaccendano le luci.

Al ritorno a casa riconosco definitivamente su Google gli zigomi della sua fidanzata barcellonese, attrice famosa pure lei. Ma avrei dovuto abbandonare ogni dubbio già durante la proiezione, quando la vertigine bianca si era impennata in un guizzo di riconoscimento alle prime note di…

No, siamo seri, quanti argentini potevano riconoscere la voce di Richard Burton in Camelot, Anno Domini 1960?

E soprattutto, avete trovato una morale a questa storia, a parte “Vai ad allevare galline nel Montseny”?

Io mi assesto su “La sfiga è cieca, ma la fortuna ci vede benissimo”. Scritto proprio così.

Volevo incontrare Viggo Mortensen, una volta nella vita, e sono stata esaudita. Magari non proprio come credevo, e lui non era più né single né Aragorn, ma d’altronde io non ero presentabile. Insomma, viva la vita che ci dà sempre quello che vogliamo, mai al momento giusto, mai come ci immaginavamo. Ma quello si chiama “avere aspettative” ed è un problema.

Per festeggiare v’invito a pranzo. Frittata. Di dodici uova. Fresche di pollaio, eh.

 

Nessun testo alternativo automatico disponibile.

The Jackal, ovviamente

Quando ero piccola, più o meno ai tempi dell’Unità d’Italia, gli alberi di Natale coi desideri sopra non c’erano. O almeno non ne ero al corrente.

Scrivevo la solita letterina a Babbo Natale, e gli chiedevo Bebi Mia.

Non so bene perché non l’ebbi mai. Forse Babbo (in questo caso, Mamma) dubitava delle mie capacità di mantenerla “sana” e intatta per più di un’oretta. Ma tant’è.

A Barcellona, invece, l’unico alberello dei desideri che abbia mai visto si trovava nello spiazzo accanto al negozio del MACBA, costeggiando la parete su cui era coniugato il verbo “ravalejar” (dal mio ex quartiere, l’adorato Raval). Era una pianticella striminzita a cui qualcuno aveva appeso desideri sparsi. Ve lo spoilero subito: gli stessi nostri.

E quelli delle maghe dei tarocchi: amore, salute, fortuna, denaro. Non necessariamente in quest’ordine.

Al massimo come desideri erano un po’ più hipster, che quella è zona di skaters e, ovviamente, appassionati di arte moderna.

In effetti quest’albero lo dovevi o sgamare per caso, o cercare apposta.

Io, fedele alla linea, ci appesi un foglietto con una sola parola. Nome proprio di persona, maschile, onnipresente. E persistente, nel tempo, proprio.

Credo che rischiai di ricevere finalmente una missiva di Babbo Natale che mi comunicasse: “Piuttosto ti porto Bebi Mia”.

Ma, ripensandoci a distanza di qualche annetto, devo dirgli “Grazie, Babbo”.

Certi regali fanno bene se li ricevi e benissimo se non succede.

Sono come la Coca Cola a disposizione quando hai sete, ma tra un momento dovrai stringere la mano a tua suocera, con lo stomaco in preda a borborigmi allarmanti. Regali che in quel momento vuoi, si capisce. Ma a non riceverli, col senno di poi, ti chiedi se “meglio così” sia una magra consolazione o, semplicemente, la verità.

Mi spiace per Babbo, ma devo confessare l’ovvio: i migliori regali me li sono fatti da sola, arrangiando quello che avevo in casa. Ricavando mantelline da gomitoli vecchi e belle serate da litigi domestici. Rimediando a vecchi errori e commettendone di nuovi, ma un po’ diversi. Traendo insomma il miglior vantaggio possibile da momenti più o meno propizi.

È questo che vi auguro, a bocce ferme e regali consegnati.

Insieme a Buone Feste, per quello che rimane.