Appena li fate. Quaderno e penna sul comodino, accendete un attimo il lume e scrivete. Man mano che lo fate, vi ricordate di altri dettagli. È come una mappa del tesoro, scusate l’ingenuità. Vi tornano in mente cose assurde, che avevate dimenticato da un sacco di tempo.
Io è come se vivessi qui e ora, Barcellona 2014, e in un mondo onirico senza tempo, con personaggi delle mie vacanze di bambina che parlano con altri che ancora devo conoscere.
Mi sono anche resa conto di una cosa, sognando: nella mia vita, la spontaneità non è andata lontano. Per esempio, l’ultimo slancio verso qualcuno, che non mi spiegassi, che fosse spontaneo e improvviso, l’ho avuto a… diciamo, sette anni?
No, vabbe’, non esageriamo. Ma il resto non è stato quasi mai amore. È sempre stato fame.
Avete presente quando vi siete fatti un’escursione lunghissima e non vi reggete più in piedi? Mangereste pure il braccio dei vostri compagni, senza stare tanto a guardare cosa sia.
È il contrario di “non è fame, è voglia di qualcosa di buono”. Là è proprio fame, fame nera.
Indiscriminata. Ed era quella, che avevo io. Fame di attenzione, approvazione. Fame di novità, di un motivo per alzarmi la mattina, quando le cose mi andavano troppo male.
E allora, uccisa precocemente ogni traccia di spontaneità, ho cercato di saziare quella, la fame. Mai innamorata, sempre preoccupata: perché sembrava cominciare qualcosa e poi si è allontanato? Perché pare che mi preferisca un’altra?
E chiamavo amore la fame.
Mi dicono anche che sia molto comune.
Allora, invece di essere pazzi come me, dovete smettere di badare alla fame. Cercate la voglia di qualcosa di buono, quella che ti viene ad appetito saziato (e a quello possiamo provvedere solo noi) e ti porta a scoprire la gelateria artigianale dietro l’angolo, o quella tamponata con un aperitivo che ti porta a resistere fino al ristorante in fondo alla strada, invece che entrare dal primo kebabbaro sconosciuto. O, meglio, che ti fa andare a mangiare a casa tua, invece che prendere quella pizzetta al volo, che non è neanche forno a legna (ok, ci do un taglio).
La gente affamata fa cattivi acquisti, mi hanno detto.
Voi non fate come me. Dategli retta, ai vostri sogni.
E saziatevi da soli. Solo allora gusterete il meglio.
No, vabbe’, sta cosa di raccontarvi la favola mi fa mettere un poco scuorno.
Do you understand, scuorno?
Comunque, c’era una principessa (lo so, che fantasia), a cui regalavano una bambola. Doveva essere una bambola di quelle che nei film horror cominciano a parlare lingue sconosciute e di lì a poco si siedono a tavola e mettono il parmigiano sull’impepata di cozze, perché la principessina era proprio spaventatissima.
Tant’è vero che un giorno la prese e la nascose in un’ala del castello (perché una principessa un monolocale proprio no) che col tempo era stata abbandonata.
Quella parte del maniero, ovviamente, la cominciò a schifare, come se le sue mura di pietra si fossero impregnate dell’orrore che le faceva la bambola. Crescendo, dimenticò perfino perché le facesse tanta paura, ma insomma, fatto sta che quell’ala del castello rimaneva disabitata, e cominciò anche a proibire alla corte di andarci.
Finché, un brutto giorno (che poi quando leggevo “un brutto giorno” pensavo sempre che piovesse), dei nemici del regno vicino vennero ad assiediare il castello.
La battaglia medievale immaginatevela voi, oh, mica so’ George R. R. Martin! Alla fine, alla principessa e alla corte non restava che una sola via di salvezza: rifugiarsi nell’ala proibita del castello e riorganizzare le difese.
Ma la principessa era riluttante. Quella parte era pericolosa, era peggio dell’incendio, peggio dei nemici, perché… Perché?
Non se lo ricordava, ma comunque nenanche a parlarne. La corte si tratteneva dallo sputarle in faccia, ma avevano pure un po’ di fretta, che la fama dei saccheggi non è esattamente gloriosa.
Finché, a malincuore, la Nostra non si decise: tutti all’ala proibita!
Ora ci starebbe bene un principe, ma a noi non piacciono le storie tradizionali e poi la Nostra, una volta varcata la soglia proibita di quest’ala del castello, cominciò a gasarsi. Quello, tutt’è dare il primo passo. Quando vide che non succedeva niente, ragni cazzimmosi a parte, organizzò efficientemente le difese e riuscì finalmente a mandare un piccione viaggiatore a… Al PRINCIPE! Dai, inseriamolo qua, se no si piglia collera, anche se prima dell’assedio, va detto, la pereta non se lo filava proprio.
E alla fine, nemici sconfitti, castello bruciacchiato ma ancora in piedi, tutti felici e contenti.
Un momento… Tutti? La principessa restava col dubbio: chi m’ha cecato a chiudere sta parte del castello? (Intuirete che la sua origine è incerta, forse scandinava)
Finché, mentre tutti andavano a festeggiare e il principe pure si appropinquava a mangiare una cosina prima d’invitarla a ballare, la Nostra prese coraggio e seguì il suo istinto. Che la guidò sugli antichi passi che aveva percorso da bambina, fino al corridoio che finiva nella scaletta a chiocciola, che terminava nel giardino pensile, che sfociava in uno scalone di pietra, che portava a un attico con travi a vista, e vista mare (sì, la Nostra aveva voluto proprio assicurarsi di non trovarla più, la bambola, e il castello l’aveva progettato Calatrava). Comunque, la bambola era lì.
Un po’ impolverata, con qualche cacchetta di piccione sul vestito, e sempre ‘o cesso.
Ma, appunto, era una bambola.
La principessa, per non ammettere la figura di merda, si limitò a ridere delle sue paure.
Perché, insomma, quelle che abbiamo sono spesso false paure. Ci distolgono dai saccheggi veri, ci rovinano la vita, e quando ci decidiamo ad affrontarle ci accorgiamo che non erano proprio niente. Le loro conseguenze sulla nostra vita erano ben peggiori.
Il presente è una schiena. Ampia, avvolta di bianco. T-shirt classica, a nido d’ape, credo, da lontano così sembra. Una fodera nera sulla spalla destra. Mazze da golf. Ci si potrebbe scrivere, un racconto, su una schiena ampia e bianca con una sporta piena di mazze da golf. Chissà se ci gioca lui, chissà se ci lavora, penso mentre lo seguo, attratta dal biondo perfetto, quasi abbagliante, dei capelli.
Non che lo segua, va dove vivo io. Magari siamo vicini. Ed è altissimo, quei capelli brillano quasi nel buio. Gli ho intravisto appena il volto, al semaforo all’uscita della metro, per farlo ho dovuto guardare in direzione contraria alle auto e devo essere sembrata ridicola, se ha abbassato abbastanza gli occhi da accorgersi della mia esistenza.
Due metri, decido, e poi aspetto.
Voglio proprio vedere se lo fa.
Sì, lo fa.
Il codino dorato brilla un istante sotto il neon triste del supermercato verso cui sono diretta, e poi entra.
Non è la prima volta.
C’era un’altra schiena, tempo fa, che seguivo rapita sulla Rambla del Raval. Stessa strada mia, qualche passo avanti, e io a ritrovarmi ipnotizzata come una sfigata di 16 anni in crisi ormonale. E quando l’avevo persa di vista, che gli ormoni non mi portano più a fare gli stalking che improvvisavano le amiche in paese, era successo: ne avevo ritrovato il proprietario in calle Parlament, al supermercato italiano.
E si era messo in fila alla cassa esattamente dietro di me.
Come costui.
Perché sì, succede anche ora. E la ragazza che protesta alla cassa, prima di me, fa che passi abbastanza tempo perché quei wurstel un po’ tristi, farciti al formaggio, vengano subito dopo la mia bottiglia di latte.
Ma lei, la cliente che protesta, non la guardare, mi scopro a pregare. Lei alta biondissima quasi quanto lui, col carré scalato che vorrei io, ma l’asperità di chi ha lo stomaco di contestare la “spesa minima per la carta di credito”, e il sorriso giusto per farlo.
Ricordo, difficile farne a meno. Ricordo un’altra schiena e un passato sempre meno recente, quegli accenni ad altre donne, le ipotesi indolenti su se andassi io con altri, le frasi secche, taglienti, buttate lì con folle noncuranza a ricordarmi sempre che ero solo di passaggio, che la prima bionda considerata più bella di me mi avrebbe fatta sloggiare, come è stato.
Ma quando esco col collo freddo della bottiglia tra le dita, e la schiena di nuovo davanti, non c’è quel dolore, non ci sono le notti passate a non vivere. C’è solo il presente e quella schiena bianca, che scompare dietro la banca all’angolo.
E allora, quando anche la schiena bianca è diventata passato, subito dopo, mi rendo conto.
Non è che non ci siano, il passato e le notti bianche. Ma non ci sono quanto il presente di una schiena che mi ipnotizzi nella sua andatura perfetta, che mi riporti alla vita. Ci sono, ma solo se voglio. Per un lungo periodo ci sono state anche quando non ho voluto.
Ora sì, ci sono solo se voglio.
E la differenza è che ora so cos’è presente e cosa non è, e il presente sta scritto sulle schiene che incontro per un po’, che invariabilmente ritrovo quando penso di averle perse, schiene che fantastico diventino occhi, sorrisi, mani su di me.
Finché, forse, a metà strada tra il passato e il coraggio, non diventeranno anche quello.
Facebook non è necessario, basta incontrare uno di loro, o un loro conoscente. Di quelli che frequentavamo prima.
Parlare del più e del meno, chiedere “che fanno gli altri”. E scoprire quanto sei cambiata rispetto a loro.
Io lo so, perché sono mesi, ormai. Mesi che mi sveglio ogni giorno e scrivo questo blog, e faccio il mio pezzettino di meditazione e i lavori del giorno, e sopporto i silenzi miei e altrui, e lavoro alle cose che sappiamo (se avete letto gli articoli precedenti) per migliorare, diciamo, la mia vita.
E dopo mesi che ti alleni a creare una routine che sia davvero tua, che ti rispecchi nei tuoi desideri più intimi e non in quello che credi di volere, è strano sapere di loro. Di quelli che ti popolavano, sarebbe meglio dire infestavano, la vita quando questo non lo facevi.
Di quelli che si potrebbero dare il cambio tra loro, tanto sono tutti uguali e tanto simili a te com’eri prima, tanto presi da se stessi da non sapere davvero dove andare.
E non è che tu sia tanto diversa, eh, la differenza è la direzione. Me lo spiegò un ingegnere, una volta. Non sapevo se perdonare un tipo che mi stava facendo soffrire un bel po’, ma mi aveva anche fatto del bene, in precedenza. E lui a spiegarmi questo concetto di direzione, l’esigenza di dover ordinare cronologicamente i fatti per vedere dove andavano a parare.
Io, se ordino cronologicamente i miei fatti, vedo quelli che c’erano “prima prima”. Quelli di quando rimuovevo la me stessa che era un problema, la mettevo da parte come un vestito da buttare. Di quando mi ero tinta i capelli di biondo, preferivo descrivere appartamenti a scrivere libri, la solitudine all’ammissione di voler essere amata, e mi accompagnavo a gente simpatica e noiosetta. Quella fa la sua vita, lavora, convive, si lascia, se ne va, torna, e forse non è neanche così noiosetta, ero io che nell’affanno di cercarne così avevo deciso lo fosse.
Poi ci sono quelli di prima. Di quando ho accettato la parte creativa e squilibrata che avevo ridotto in un angolino, e allora quella si è sfogata, mi ha popolato la casa di angosce e di gente più sbandata di me. Questi qua sono sempre gli stessi anche loro, sempre angosciati, con l’illusione che andandosene cambierà qualcosa, e l’inesorabile tendenza a tornare credendo che cambierà qualcosa anche così. Quelli mi fanno ancora male. Perché siamo così simili, e perché ormai so che per fare una buona rivoluzione, una buona pulizia vitale, devi capire che la verità non esiste, e non sei migliore di nessuno.
E allora chiamo libertà questo mio aver attraversato lo stagno in cui “mi avevano chiuso” quelli di prima, e in cui in realtà mi ero buttata io per questo difetto di costruzione che me ne faceva trovare solo così. Ma devo ammettere che sono contenta, di averlo fatto, e questa è la mia verità, e la cosa più bella è essere riuscita a rispettare la loro. Che è una cosa che avrei dovuto fare fin dall’inizio.
Perché ora ho imparato la famosa compassione. Per me, per loro. Per i miei errori, per i loro. E so anche che finché mi aggrapperò a quelli, agli errori, come una bambina a un aquilone, sarò legata controvoglia anche a quelli di prima, saremo costretti da questo filo invisibile, anche se ci evitiamo, ci rimuoviamo dalle rispettive vite.
Se lascio andare, invece, davvero non ho idea di se riusciremo mai a rivederci.
Di sicuro, so che sarà, per una volta, per il motivo giusto.
Uff, non so come scrivere quello che leggerete senza essere retorica. E non posso neanche chiamare Proust per consigli.
Allora comincio con una precisazione: per disertare il corso di francese e andare in palestra, devo stare proprio male.
Ma malemalemale. Quelle cose che dici ok, ho sbagliato tutto, la mia vita è una scemenza, vado a buttarla insieme al sudore su una cyclette e poi andrò al parco ogni giorno come un pensionato 80enne finché il dolore non sia finito.
Avete presente quegli errori che sono come cambiali, che si continuano a pagare molto dopo aver ammesso che fossero errori? Ne parlavamo qua. Ci si domanda, senza voler declinare le proprie responsabilità, quo usque tandem, hasta cuando… Inso’, quando finisce l’incubo.
È lì che la speranza, sempre più stronza, mi tende un agguato. Proprio nella palestra comunale a prezzi stracciati, quella in cui respiro il sudore dei vicini di step sperando in cambio di essere al sicuro.
Macché. Taglio la strada a uno. Un tipo di quelli che mio padre, medico, saprebbe esattamente che cos’hanno, ma io al massimo so dire che ha di quegli spasmi che sembra che una parte del suo corpo voglia andare altrove, in tutt’altra direzione, e il proprietario con fatica e pazienza lo metta insieme, attimo per attimo, portandolo dove vuole.
Se non mi sputasse in faccia, gli direi che su un piano infinitamente più facile sto facendo qualcosa del genere. Ma no, mi ritrovo lì nel mezzo della sua traiettoria un po’ ellittica, e gli chiedo scusa. Lui fa una specie di sorrisetto con la parte di bocca che lo asseconda, e mi invita con un cenno nervoso a passare.
Poi, mentre cerco di non piangere e far giocare i numeri a mezza palestra, me lo ritrovo sempre vicino, tipo angelo custode, lui cyclette mentre butto il sangue sullo step, lui sul materassino degli addominali a due postazioni dal mio.
Mentre faccio gli addominali inferiori, reggendomi alla sbarra nella posizione più ridicola possibile, assisto alla scena: il tipo di cui sopra va a riporre il suo materassino. Deve infilare i due fori metallici in altrettanti pioli, impilandolo con gli altri, operazione che a me richiede un secondo e a lui almeno 30. Tra minimanovre per coordinarsi, centrare prima un piolo, senza andare troppo in fondo, e poi puntare all’altro.
In quella arriva un pezzo d’uomo che mi domando come non abbia notato prima. Sta lì a osservare l’operazione e aspettare un po’, poi, armato delle migliori intenzioni (come sempre accade in questi casi), allunga le mani verso il materassino traballante, offrendosi di completare lui l’operazione. L’altro fa un gesto più brusco degli altri: si tira l’oggetto a sé, stacca l’auricolare dall’orecchio destro e parlotta un po’ con questo, che lo ascolta con un’espressione di circostanza.
Immagino sia una di quelle cose tipo “devo farcela da solo”, e non posso fare a meno di pensare a tutta la retorica che accompagna la vita di persone come lui, dai corri, Forrest, corri, al conferenziere monco che si rialza con una bella colonna sonora in sottofondo a sottolineare l’importanza del “rialzarsi sempre nella vita”. E mi chiedo come si possa trovare un equilibrio tra smettere di trattarli come se fossero speciali e allo stesso tempo apprezzarne il coraggio, quando lo mostrano.
Intanto, sarò io a fare gli addominali in fretta o il tipo a essere davvero lento, ma arrivo a riporre il materassino quando lui ha appena finito, finalmente, di piazzare il suo.
Lo guardo con un sorriso, aspettando che si sposti per compiere la stessa operazione.
È lì, che succede.
Il tipo mi strappa il materassino di mano, con un gesto che sarebbe stato brusco in altre circostanze, e comincia a riporlo sopra il suo.
Resto costernata. Cavalleria? Si è offeso per il sorriso? Vuole dimostrare qualcosa a me? O a se stesso?
C’è poco di retorico, nel suo gesto. Non scatta nessuna colonna sonora commovente e resto col dubbio che una femminista non dovrebbe prenderla benissimo.
Ma sono ammirata, davvero. Dal fatto che la reazione più normale di quelli come me, che si credono così infelici da dover saltare il corso di francese, sarebbe stata aiutarlo. E invece no. Invece lui compie un gesto di gentilezza che fatto da chiunque sarebbe una goccia nel mare, ma da lui.
Ringrazio, chiedendomi se debba aspettare che riponga o appunto me la debba squagliare grata del secondo che mi fa risparmiare, col suo mezzo minuto. Lo saluto.
Mentre scrivo, capisco che la cosa più bella che mi ha dato non è stata il suo esempio. Il fatto di avermi ricordato che se uno sconosciuto può regalare 30 secondi di convulsioni a una sconosciuta, quest’ultima saprà ben gestire i suoi amori e le sue case in affitto.
No, mi ha ricordato che sto imparando a ricevere. Dopo tanti anni passati a dare, dare, dare, anche a chi non mi chiedesse niente, sto ricevendo volentieri complimenti, carezze, manifestazioni d’affetto.
Ma quei 30 secondi di uno sconosciuto, e ok il volemose bbene, o il siamo tutti figlidellostessoddio alla Gigi D’Alessio, quei 30 secondi sono stati finora il regalo più bello.
Niente, non lo trovo. Vorrei citarlo a dovere, ma si sarà perso tra un trasloco e l’altro.
Il libro sull’ansia, dico. L’unico testo in italiano sull’argomento in cui mi sia imbattuta.
In attesa di riacciuffare l’autore, ricordo il concetto.
In molti casi, quando ci prefiggiamo delle mete, abbiamo lo stesso atteggiamento di chi accende un cero alla Madonna e spera di vincere al lotto.
Ci diciamo infatti: il mio obiettivo è prendere 30 all’esame.
Alt. È legittimo e più che desiderabile, ma dipende da noi? No. Dipende da un’infinità di fattori: da come si è svegliato il professore, da quale assistente ci sentirà la parte generale, da che domande ci faranno, e a che ora (meglio una prof. affamata e desiderosa di chiuderla lì, o una ancora in digestione ma soddisfatta del pranzetto?).
E già, dipende anche (si spera soprattutto) da come abbiamo studiato.
Sui primi fattori, come vedete, possiamo influire molto poco. Sul secondo… Be’, sì, c’è molto da fare.
Quindi, prendere 30 all’esame, se ricordo bene la definizione del libro, è un Obiettivo Risultato: una cosa che ci sfugge di mano, perché non sta in noi ottenerla. A meno che il vostro santo di fiducia non sia più efficace di una raccomandazione multipla, e allora svelatecene il nome che corriamo in cereria.
Intanto, quello che ci serve è un Obiettivo Performance.
Ovvero, soffermarci sulla seconda parte: quello che possiamo fare.
Il nostro obiettivo, quindi, dovrebbe essere studiare da 30.
Ovvio che l’esempio più assurdo in questi casi, insieme al famoso terno al lotto, è l’amore.
Uno può essere attratto o meno da noi per un insieme di fattori imprevedibili, che vanno da quanto abbia bevuto quella sera a quanto somigliamo alla sua personale bambina coi capelli rossi (non Anna, dico quella di Charlie Brown).
Il bello è che non ce ne rendiamo conto e ci ostiniamo a pensare che l’amore sia qualcosa che possa essere “provocato”.
E sì, che possiamo fare qualcosa al riguardo: possiamo presentarci nella nostra migliore veste, possiamo non demordere subito, possiamo anche corteggiare un po’, senza sfinire. Un mio ex di Napoli aveva la regola dei tre inviti a uscire: il primo rifiuto può essere davvero dovuto a ad altri impegni, il secondo è probabilmente una scusa, il terzo ci dice che non ne vuole sapere.
Quello che non possiamo fare è ipnotizzare la persona che ci interessa e costringerla ad amarci, e non è neanche raccomandabile il noto metodo Alfredo Canale, il luogotenente del Camorrista di Tornatoreche risolve un litigio con la fidanzata gambizzandola (nella scena successiva stanno battezzando il loro figlioletto).
Quindi, il nostro obiettivo non dev’essere: devo conquistarla/o.
Manteniamoci su un prudente: devo fare quanto sta in me per piacere, e (soprattutto) capire se piaccio.
Insomma, a meno che non stiamo chiedendo due numeri a San Gennaro, capiamo una volta per tutte che soffermarci su quanto possiamo fare noi, invece di pretendere di piegare il destino, non è volare basso, è volare e basta.
Seguendo il vento. E quando lo facciamo (seguire il vento, dico), invece di soffermarci sul fatto di non poterlo piegare alla nostra volontà, dovremmo renderci conto che siamo noi a imboccare la strada più semplice, senza più pretendere di decidere il meglio per gli altri e per la sorte.
Quando rinascete padreterni, per nostra disgrazia, farete tutto quello che vorrete.
In quel caso, mi raccomando, tenetemi presente. 15 e 58, una settimana sì e una no.
Vi ho ingannati: in questa breve conclusione non parleremo, ancora una volta, di naufragi. Delle crisi che ci costringono a uscire dall’angolino in cui ci siamo riparati da soli, prigionieri delle nostre stesse paranoie.
Volevo solo ribadire una cosa strana: nell’angolino ci rimaniamo anche quando le cose vanno bene. Per inerzia e ostinazione, pronti a respingere ogni evidenza che la vita sia gestibile. E per gestibile, ripetiamo fino allo sfinimento, non si intende né meravigliosa né disposta a darci tutto quello che desideriamo.
Ritornando all’idea di cosa ci dia sollievo: quando le circostanze ci tolgono quelle cose che non vanno, un lavoro deludente, un progetto fallito, una relazione – tortura (che da soli, spesso e volentieri, non riusciamo a farlo), ci sentiamo perduti. Quella cosa ci faceva star male, ormai ci toglieva più energie di quante mai ce ne avrebbe date se fossimo finalmente riusciti nell’impresa. Ma non c’è niente da fare, senza, per un bel po’, stiamo peggio.
E allora ci attacchiamo come cozze alla speranza che tutto ciò vada come speravamo, che le cose finalmente e per miracolo prendano il corso desiderato, che l’amore trionfi anche se contorto, che il riconoscimento dei capi arrivi anche se siamo del sesso sbagliato e sappiamo più lingue di loro.
Sembriamo quei condannati a morte di cui parla Viktor Frankl, che avvicinandosi la forca si fanno prendere da questa convinzione irrazionale che non può essere davvero la fine, che arriverà loro la grazia in extremis.
Nel nostro caso, però, la grazia consisterebbe nel continuare nel nostro ergastolo, nella gabbia da cui guardare il mondo che ci siamo costruiti da soli, magari per difenderci da una minaccia reale, anche quando questa minaccia ormai è passata (e qui il pensiero va, invece, a quei soldati delle guerre del Novecento, persi nella jungla, che sono usciti allo scoperto solo dopo decenni dalla fine del conflitto).
Nel nostro caso, dovremmo proprio rassegnarci: non solo siamo condannati. Ma non siamo neanche condannati a morte.
Siamo condannati alla vita.
Ci tocca, proprio. E sì, quella ragazza così simpatica e interessante ha sorriso proprio a noi, nonostante i nostri discorsi sul non saper sedurre.
E sì, dopo aver tanto cercato lavoro, all’associazione umanitaria in cui studiamo lingue cercano davvero volontari stipendiati. Non sarà quello per cui abbiamo studiato, ma è un inizio.
È una condanna severa, lo so, la condanna a vita.
Ma state tranquilli, scontatela tutta. La morte si sconta vivendo, no?
E vi porterò le arance nella vasta galera che ci tocca, vasta quanto il mondo.
Quando non si è in cattività, chissà perché, sono ancora più buone.
Si parlava di tutte quelle cose che ci fanno sentire al riparo dal mondo, con l’effetto collaterale di non farci vivere.
Sei al riparo, ovviamente, se costeggi la vita. Nessuno ti fa male, ma a che prezzo.
Alla fine non te ne accorgi subito, in fondo hai i polmoni per respirare e un piatto a tavola, ti dici di amare le cose semplici.
Ma c’è sempre quel prurito, l’insoddisfazione di chi sa o sente di volere qualcosa, e non prova nemmeno a ottenerlo. Per la constatazione lapalissiana che quasi tutto quello che vogliamo non dipende solo da noi, quindi c’è il rischio di sbattersi tanto e restare con un pugno di mosche.
Per evitare questo rischio, appaltiamo l’intera vita alla paura di muoverci.
Scegliendo di ripararci da noi stessi, dai nostri desideri.
Perché? Per paura di essere incapaci di realizzarli.
O almeno è quello che capita a me. Ripensando a passate relazioni, mi sono resa conto che partivo da un “problema” reale: come voi, immagino, detesto molte cose di un rapporto di coppia consolidato. Nel mio caso, però, è una cosa quasi patologica, con le sue bravie ragioni geografico-sociali che vi risparmio e che in fondo non vanno considerate se non nel modo in cui le ho vissute io. E le ho prese molto male. La comprensibile riluttanza ad avere a che fare coi suoceri, nel mio caso diventa maniacale. Vacanze insieme? Meglio la morte. Devo essere gentile con qualche cognata che odio? Eh? Non mi ci fate sedere allo stesso tavolo, neanche a Natale. E poi tutto questo dover pensare per due, i fidanzati partenopei che mi chiedevano “Ma questa gonna te la metti anche quando non ci sono?”, i pakistani “Che ci fa questa birra nel tuo frigo?”.
Allora, per mettermi “al riparo” da questo, mi inventavo storie alternative. Erano molto romantiche e molto drammatiche, a mio giudizio, e in fondo neanche me ne accorgevo. L’idea era trovarmi qualcuno che fosse distante anni luce dal modello convenzionale di virilità, meglio se avesse proprio problemi a rapportarsi con quello, e unire le nostre paure in una tipica storia da “nonostante tutto”. Nonostante tutto, saremmo restati insieme. Nonostante tutto, le coppie “convenzionali” si sarebbero sgretolate alla fine del loro amore così noioso, innamoramento – consolidamento – noia – rottura. No, noi no. Noi saremmo rimasti lì, a sopportarci per l’eternità.
Ignoravo spesso e volentieri che tanti uomini che hanno problemi coi modelli di virilità, in fondo in fondo vorrebbero imitarli, ma, come me mutatis mutandis, non credono di poterlo fare. Sotto i loro problemi esistenziali si nasconde a volte il più convenzionale degli uomini, che semplicemente è incapace di essere se stesso.
Io stessa, semplicemente, avevo paura. Paura che al momento di flirtare con qualcuno in un bar, uscirci insieme, vedere se ingranava, conoscere i suoi ecc. ecc., a prescindere da se lo volessi o meno, non fossi capace di farlo. Semplicemente, mi mancava qualcosa. Non ero abbastanza bella secondo gli standard, o abbastanza normale, o abbastanza serena.
E quindi eccomi in un angolo con le mie storie assurde, e gli amici a chiedere ma come fai a sopportarlo e io a fare l’eroina romantica, salvo stancarmi se la storia rischiava di diventare troppo convenzionale.
Sono stata quella degli amori eterni ed eternamente platonici, delle imprese disperate, degli anni persi a rincorrere la sostanziale indifferenza di chi aveva più paura di me.
Finché non ho capito il trucco: ripararsi è come la tagliola della gatta delle favole, che comincia a leccarla tutta contenta finché non si accorge che quello che stava ingurgitando con tanta soddisfazione era ormai il suo stesso sangue.
E che mi fa più paura che qualcuno che trovi interessante mi sorrida e s’interessi a me, che continuare in un’impresa disperata, alla ricerca della mano dal cielo che avveri il mio desiderio di essere infelici in due.
Quindi, quando ci sentiamo messi alle strette, chiediamoci quanto ci sia di indipendente dalla nostra volontà, e quanto dipenda invece dalla nostra ostinazione a non metterci in gioco, alla falsa percezione di minaccia che ci fa accantonare ogni speranza di ottenere ciò che vogliamo. Di essere, ciò che vogliamo.
Purtroppo, per attraversare questo genere di mare, spesso aspettiamo di fare naufragio.
… tranne te. Siamo noi a chiuderci, spesso e volentieri, in un angolino, da cui guardare il mondo senza parteciparvi. Ci sarà pure un motivo per cui la frase del titolo sia la più famosa di Dirty Dancing, film nazionalpopolare che, come si suol dire, “parla alla pancia”, e almeno quello lo fa bene.
A metterci in un angolo siamo proprio noi.
Ad accontentarci. Che non è rinunciare saggiamente alle cose che non dipende da noi ottenere, o smettere di accanirci nella ricerca. No, accontentarci è metterci da soli in un angolino della nostra vita, contenti di aver trovato almeno quello. Tanto, mica si può avere tutta la stanza.
Sicuri? Ok, magari la stanza no, ma uno spazio vitale più grande?
No, ci chiudiamo da soli nell’angolo, con lo stesso entusiasmo con cui a Barcellona vanno a mangiare indiano con Groupon in un vistoso ristorante del ricco Eixample, che offre roba mediocre agli stessi prezzi dei veri indiani del Raval.
Ma era un’offerta, vuoi mettere?
E allora, vuoi mettere anche la necessità di ricordarti che la tua vita non è un 3 x 2?
Ma niente, tu come me fili nell’angolo, hai visto mai ti tolgano pure quello.
E allora come me ti accontenti di lavorare gratis, meglio che niente, poi dice che mi assumono, e poi hai idee migliori?
E ti ritrovi a dedicare tempo a gente che ti dà le briciole del suo, a mendicare le attenzioni di chi, quando non ha voglia di sesso o coccole rassicuranti, ti dedica al massimo un saluto su facebook. Finché non ti mette da parte, un bel giorno, magari per qualcuno dispostissimo a riservargli lo stesso trattamento che ha propinato a te.
E finisci per sacrificarti per tutti, senza mai saper dire di no, perché è così che va, perché se nella tua vita non pensi di meritarti che un angolino, figurarsi in quelle degli altri.
Ora, se n’è parlato ampiamente in precedenza, hai ragione. Almeno quando intuisci che tutto lo spazio non lo puoi avere, non come vorresti, almeno. Non con la libertà di controllare tutto ciò che vi succeda, il traffico di persone ed eventi e le improvvise virate della sorte.
Ma questo è un buon motivo per chiudersi in un angolo e costeggiare la vita?
E non parlo di quando ormai la ruota va avanti da sé, di quando ormai hai messo la faccia in quel progetto e sei comprensibilmente riluttante a lasciarlo cadere, a quando sei talmente innamorato o talmente frustrata da una relazione sbagliata che non riesci a staccartene e deve intervenire qualcosa di esterno (un’altra persona, un trasferimento per lavoro) per farti mollare la presa.
Parlo del sublime momento (che non è mai un momento, abbiamo tempo per prepararci) in cui tutto questo può essere evitato.
Ed è un momento che comincia alzandoti dall’angolo, senza aspettare il ballerino trappano di turno che ti porti sul palco a ballare la pachanga.
È il momento in cui sei di fronte a un bivio.
Ma ti ho già ucciso abbastanza la salute, di questo bivio parleremo la prossima volta.
E niente, per concludere questo discorsetto così breve e lineare, butto giù una cosa che ho pensato al parco.
Passeggiavo in uno spiazzo costeggiato da pini e improvvisamente ho sentito odore di Capri, e d’infanzia. I due profumi erano strettamente collegati, per l’amore dei “grandi” di casa per l’isola. Non quella dei turisti ricchi e degli yacht, che riuscii a non scoprire fino all’adolescenza. Ma quella del mirto, del rosmarino, della salvia.
E, sì, dei pini.
Allora nel parco seguivo quest’aroma, cercando di catturare il ricordo come una farfalla nella rete.
Finché non ho ricordato, piuttosto, che le farfalle si lasciano libere. E questi pini di un parchetto semisconosciuto di Paral·lel non sono quelli sotto Punta Tragara, oltre la roccia con la poesia di Pablo Neruda su Capri, che a 8 anni leggevo come fosse italiano, Reina de roca, en tu vestido de color amaranto y azucena, viví desarrollando…. (E credo che nella mia fantasia Neruda somigliasse un po’ a Maradona).
Non sono gli stessi pini, ma l’idea di pino è presente e viva, come il suon di lei. E questi pini sono il mio presente.
Se invece di rievocare quel profumo passato cercassi lo stesso benessere ora, da adulta contenta di tirare a campare, sarei a cavallo.
Si può applicare a ogni genere di ricordi, a tutto. Pure a me. Che da piccola storpiavo Neruda e ora lo leggo con pronuncia spagnola, ma l’idea di Maria resta anche in formato più grande. Come io sono una personale interpretazione dell’idea di essere umano.
E anche l’amore, forse non sarà più collegato a quella persona, a quelle vicissitudini che ormai diventano sempre più un ricordo, ma l’idea di amore resta, si può incarnare in un altro, respirare su un altro petto.
E non sto dicendo che un pino vale l’altro, che chiodo scaccia chiodo, che Capri o Spagna purché se magna.
Solo che siamo portatori sani delle idee del mondo, e il tempo scandisce solo il modo in cui le decliniamo.