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Fermo immagine da La Vanguardia

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Quando mio fratello e io eravamo piccoli, nostra madre ci faceva lei la valigia, per andare in vacanza.

Un anno che eravamo ormai grandicelli, semplicemente, smise di farlo.

Aspettavo che il mio spazzolino si materializzasse dalla sacca interiore come per magia, come sempre, e dovetti ricomprarmelo.

Eravamo grandi, era meglio che cominciassimo a badare a noi stessi. Non fu niente di programmatico, successe e basta. All’inizio ci rimasi un po’ male, poi imparai a mettere in valigia esattamente quello che avrei voluto, invece di ritrovarmici il golfino regalo della zia con 30 gradi all’ombra o la camicetta con le maniche a sbuffo.

L’indipendenza ha il suo prezzo, ma anche le sue soddisfazioni, e non si può dire che lo scopriamo tardi, nella vita.

La questione è: se qualcuno fa per noi più di quanto dovrebbe, noi vi ci adagiamo. Lo troviamo normale.

A noi ovviamente va benissimo e l’altra persona non sembra dispiaciuta, “altrimenti non lo farebbe”.

Quando finisce la pacchia, ci ritroviamo pure a protestare, come fosse una cosa dovuta venire viziati.

So che è più complesso, ma applicavo quest’idea a varie questioni. La guerra tra i sessi, giacché in guerra l’abbiamo trasformata, funziona molto secondo i meccanismi della valigia di cui sopra, secondo me.

E qui non sto giustificando gli uomini che fino a poco fa si facessero servire e riverire senza complessi, come se fosse cosa dovuta. Era sempre stato così, perché farci caso, perché proprio loro. Ma è umano, è facile caderci, come per le donne è facile tenersi il posto in tram o il cavalier servente che automaticamente porta loro i carichi pesanti o le “protegge”… da che, ancora non si è capito.

Ma se ho capito qualcosa, ascoltando discorsi al pub di anglosassoni e scandinavi ubriachi, è che sulle donne sono capaci di dire tutti cose molto simili, la differenza, a mio giudizio, sta in quanto le donne dei vari paesi siano disposte a permettere.

Applico lo stesso ragionamento a un argomento che mi sta a cuore, ultimamente: Barcellona è in fiamme, un’altra volta. Le fiamme di pochi cassonetti sono diventate più importanti della protesta pacifica che le ha avute come effetti collaterali. E la protesta era motivata dallo sgombero di un centro sociale occupato, Can Vies, nel quartiere di Sants. Ma non tutti i manifestanti c’erano stati, a Can Vies.

Quello per cui manifestavamo era il diritto allo spazio.

Il diritto a prenderci uno spazio culturale gratis in una città in cui perfino affittare le stanze a turisti diventa un campo di battaglia, tra lobby che si accaparrano le licenze e singoli proprietari (tra cui la sottoscritta) che ti affitterebbero un letto per 20 euro a notte.

La motivazione ufficiale per la limitazione delle licenze è conservare l’identità dei quartieri di Barcellona, infestati dai turisti proprio mentre la Catalogna sarebbe disposta a inventarsi pure le tradizioni che non ha (e ne ha molte), per rivendicare la sospirata autonomia.

Ma viene spontaneo chiedersi, facendosi un giro per il Barrio Gotico o per quartieri come il Born, se quel turismo rovinapaese non fosse lì da un bel po’, e agli autoctoni la cosa sia cominciata a bruciare solo quando si sono resi conto che a lucrare davvero fossero in pochi, specie dopo crisi economica e bolla immobiliare.

Sabato, alla manifestazione, sfilavo davanti alle camionette della polizia locale, che ci accoglieva in visiera abbassata, scudo e manganello in vista. Senza citare il solito Pasolini, mi chiedevo se tutti quei sosia di Darth Vader, a parte le bestie assetate di sangue perroflauta, non volessero stare da tutt’altra parte, e lasciarmi tranquilla a manifestare. Se più forte dell’eventuale disprezzo non fosse la loro voglia di stare quieti con le loro famiglie.

È difficile in questi casi non scadere in una retorica che la prima manganellata sull’orecchio, per un sasso lanciato da qualcun altro o anche gratis, mi farebbe dimenticare in un nanosecondo.

Ma ho avuto la sensazione che tra manifestanti e poliziotti ci stessimo facendo una guerra non scelta da noi, mentre, a prescindere da quante orecchie avrebbero sanguinato di lì a qualche ora, o dalla conta dei cassonetti bruciati, i monopolizzatori dello spazio urbano se ne stavano incolumi a casa loro, unici vincitori.

E ciò che mi fa più orrore, a parte gli arrivisti di punta, che ci vuole una personalità pure a essere uno spietato arrivista, è il sospetto che la maggioranza di queste persone potrebbero essere come me, ai tempi della valigia fattami da mamma.

Potrebbero occupare uno spazio di potere graziosamente concesso da chi non si fosse preoccupato prima di difenderlo.

In fondo, quante volte la mia condizione di napoletana di ceto medio, di madrelingua italiana, ha costituito un privilegio per me senza neanche che me ne accorgessi? E quante volte, da europea, ho avuto il privilegio di approfittare o no della manodopoera sottopagata degli immigrati?

È facile adagiarsi su un’ingiustizia che apparentemente va a nostro vantaggio. Apparentemente, perché dalla parità dei sessi, dall’uguaglianza sociale, dalle valigie fatte come cavolo ci pare e piace senza disturbare una mamma già stanca di suo, ci avvantaggeremo tutti.

Quindi, ammettiamo le nostre responsabilità di sfruttatori, ma anche quelle di sfruttati.

Per inciso, delle giornate di protesta per Can Vies, alcuni giornali accusano gli italiani come pericolosi sobillatori. Non è la prima volta che si tira in ballo questa storia.

Ora, piuttosto che sentirmi offesa e fare il loro gioco, vorrei chiedermi: perché a questa società civile che mi ospita da sei anni servono capri espiatori? Perché non si arrendono all’evidenza che sono in tanti a non apprezzare l’ordine su cui la maggioranza si adagia, finché non le toccano troppo stipendi e ferie?

E che forse eliminando i quattro balordi che incendiano cassonetti, o la comunità italiana, o gli immigrati, non ricopriranno quel senso di vuoto che nessuno, ormai, può alleviare?

Il senso di vuoto di chi non ha mai imparato a farsi la valigia da solo, e pretende che gliela facciamo noi.

caceroladamallorca È succieso che s’è appicciato. Chi? Mariano Rajoy, Primo Ministro spagnolo. Ha bruciato quel poco di credibilità che gli restava rispetto alle gesta del suo ex tesoriere Bárcenas, coinvolto in uno scandalo legato alla contabilità sottobanco del partito: il PP riceveva finanziamenti privati da entità finanziarie influenti in Spagna.

E Rajoy, stando a quanto dichiara Bárcenas e a quanto confermano certi SMS di cui si riconosce autore, avrebbe intascato un bel po’ di soldi anche lui.

Cos’ha a che vedere, tutto questo, con una calda serata di luglio nella Barcellona della crisi? Soprattutto, che c’entrano le pentole e i cucchiai che alle 20 di ogni sera suonano ininterrottamente per un’ora, insieme a fischietti, chiavi, frizzi e lazzi, nel quartiere più elegante di Barcellona?

La cacerolada, o cacerolazo, nasce in Sudamerica negli anni ’70, viene riportata in auge dall’Argentina della crisi economica dei primi anni 2000, ed entra nella mia vita con gli Indignados, nel 2011. Ci sono foto di me seduta al centro di Plaça Catalunya, in buona compagnia, con un cartello per invitare a votare ai 3 referendum per acqua, nucleare e legittimo impedimento.

Ora che gli indignados latitano, ho lasciato padella e cucchiaio a casa, le chiavi sarebbero bastate. E siccome era tardi, ho preso addirittura la metro, per presentarmi in c. Mallorca 278, fuori alla Delegación del Gobierno de España circondata, ovviamente, da bandiere indipendentiste catalane.

Ma mai come a Barcellona il privato è pubblico e, nonostante le mie scarse aspettative di trovare volti noti tra la folla cacerolante e fischiante che brandiva cartelli (no hay pan pa tanto chorizo, sul doppio senso spagnolo tra “salame” e “profittatore”, Españistan: 100% corrupción, 0% ética, e il grandioso Attento, Mariano, ti veniamo a sfrattare, nel paese degli sfratti forzosi), nonostante le urla assordanti Mariano, Mariano, no pasas el verano, nonostante tutto ho incontrato ben 2 paia di occhi azzurri, completamente diverse tra loro.

Un paio ha visto l’Inferno e l’ha raccontato, ma ancora mi sorride ogni volta che l’incrocio, e spero sia più spesso.

L’altro paio è un bel po’ più chiaro del blu della sua estelada, la bandiera indipendentista sotto la quale, lo sapevo, l’avrei trovato a fissarmi. Non ricambiato. Ci sono momenti in cui puoi solo abbassare lo sguardo, perché non sai come spiegare il va e vieni di inviti, sparizioni, nuovi inviti, a chi non conosce il caos emozionale della comunità italiana a Barcellona. Mi è venuto in mente Shakespeare, Misshapen chaos of well-seeming forms, ma non c’era posto per l’inglese, era tutto un cantare catalano, dopo lo spagnolo glorioso de A las barricadas c’era l’Estaca: se tiriamo tutti, il palo a cui siamo tutti legati cade. Come questa cacerolada: l’idea è perseverare finché le urla Dimissió non si trasformino in un unico boato consolatorio. Che forse non ci sarà mai, ma intanto a poc a poc, come si dice qua, cacerolada per cacerolada, slogan per slogan. Almeno la gente si ricorda che i problemi comuni meglio provare a risolverli.

E anch’io, a poc a poc, giorno per giorno, pentola sul fuoco dopo pentola sul fuoco, salvo quando è l’ora di farle suonare per strada, e chiedersi se è il caso di mettersi i tacchi che il poliziotto nella camionetta ha una faccia proprio schifata (ma ci sono le telecamere e le giornaliste magrissime che sì che ce li hanno, i tacchi)… A poc a poc, i problemi li risolvo anch’io.

E quando il secondo paio d’occhi mi scova tra la folla in cui mi sono rifugiata e diventa una mano sulla mia spalla, e poi un solo fiato, magari ci vediamo uno di questi giorni, allora smetto di cantare segur que tomba, tomba tomba e chiudo gli occhi, per sentire se ho ancora sangue nelle vene.

I ens podrem alliberar.

(Il pubblico)

(Il privato)

prostituteindignate Insomma, una non si può deprimere in santa pace, a Barcellona, che le ricordano subito che c’è chi sta peggio di lei. E peggio ancora, che a rigirarsi i pollici non si ottiene niente.

Tornavo dalla Biblioteca de Catalunya, mezza stordita dal caldo, da due notti insonni e da un ripasso della Prima Guerra Mondiale in Catalogna (quello che ti tocca quando hai discusso da due anni una tesi di dottorato che i tagli all’università hanno trasformato in carta igienica). Mi dirigevo verso la Rambla in missione speciale (comprare shampoo al Body Shop con la tessera clienti, vedi Matrix). La Rambla invasa nel 1917 dalle donne dei quartieri popolari, rimaste senza carbone e soldi per affrontare il caroviveri, che l’avevano percorsa tra i turisti eleganti che non potevano più passare l’estate a Baden-Baden. Avevano invaso i caffè scintillanti di luci inutili, portandosi dietro qualche ballerina solidale con la causa, tra gli stranieri danarosi attoniti che si facevano un’idea della Barcellona che non vedevano.

Non ho fatto in tempo ad attraversare che ho sentito i primi fischi. E le urla. Un signore si è messo a sbraitare “Dov’erano quelli, quando i chorizos del parlamento ce lo mettevano in quel posto?”.

Non gli ho fatto neanche un sorriso di circostanza. Ho modificato la rotta e sono scesa verso il Banco Popular, una banca che ha una filiale sulla Rambla. Ci ho trovato la Pah, Plataforma de Afectados por la Hipoteca.

Fondata da più di 4 anni, quest’associazione, che per i media ha soprattutto il volto di Ada Colau, è stata recentemente premiata dal Parlamento europeo: si occupano delle vittime di quei famosi mutui a tasso variabile che improvvisamente hanno trasformato la Spagna dal regno della bolla immobiliare a quello degli sfratti. Il PP li ha chiamati nazisti, ha sostenuto che i suoi elettori non mangerebbero, pur di pagare il mutuo, e li ha associati all’ETA… Loro continuano coi loro escrache, delle azioni collettive volte a mettere alla berlina delle personalità pubbliche considerate colpevoli di mancanze gravi verso i cittadini.

Ora toccava al Banco Popular, che non aveva concesso un dación de pago (è quando proponi di estinguere il tuo debito offrendo beni diversi dal denaro) a uno dei membri Pah.

La prima cosa che ho visto sono stati i telefonini dei turisti, increduli di portarsi il ricordo di una manifestazione, insieme a quello della paella surgelata. Poi le auto, che passando tra due file di manifestanti in maglietta verde suonavano il clacson per sostenerli. Infine loro, con fischietti e coreografie che insultavano le banche in rima baciata, mentre un poliziotto osservava discreto, in disparte.

Mi ha colpito che dalle macchine qualcuno incitasse davvero.

Come fosse andata a finire, me lo sono chiesta il giorno dopo, fuori al Parlamento catalano, di fronte allo striscione di Stop Bales de Goma.

Dentro, Nicola Tanno, fondatore di Stop Bales, e Esther Quintana, l’ultima a perdere un occhio per i proiettili ad aria compressa, rispondevano alla Comissió d’Estudi dels Models de Seguretat i Ordre Públic i de l’Ús de Material Antiavalots en Esdeveniments de Masses: raccontavano come avevano perso l’occhio e quanto è importante che siano gli ultimi a perderlo.

E noi aspettavamo fuori, parlando anche dell’azione sulla Rambla. Una signora che era presente ce lo ha detto: verso la mezzanotte, i manifestanti sono stati sgomberati, ecco il video. Due poliziotti per manifestante. Hanno invitato ad andarsene pacificamente, i manifestanti si sono rifiutati. Sono volate manganellate, sono stati chiesti a tutti i documenti. Il problema erano gli stranieri, spiegava la signora. Latini, senza i documenti in regola. Quelli avevano paura. Ma nessuno si è alzato, mi sembra di capire dal video, quando la polizia li ha invitati a uscire coi loro piedi.

Per me la giornata della Pah non era finita al ritorno dalla Rambla, ma vicino alla mia rambla preferita, quella del Raval. Con un altro rumore familiare, quello di pentole e coperchi battuti con un cucchiaio nella calle Robadors.

Ancora loro, le prostitute indignate.

A due passi dal sontuoso (e kitschissimo) Hotel Barceló, la familiare schiera di donne di tutto il mondo e tutte le età che battono a pochi metri dalla cultura istituzionale della Filmoteca de Catalunya. Anche stavolta, però, non ho osato chiedere a loro che succedesse, e mi dispiace. Ho chiesto a una delle poche che non avevano la divisa del mestiere, forse perché come me possono esprimere solidarietà senza mai capire cosa si prova, a essere considerata infetta, l’ultimo gradino della società. L’interpellata ha riposto un momento il fischietto e mi ha risposto: “Protestiamo ogni mercoledì alle 20 contro la repressione della polizia ai danni delle prostitute”. Vero, ricordo. Controlli continui, interrogatori a donne che spesso hanno la gonna più lunga della mia. Se rimorchiassi io in mezzo alla strada mi chiederebbero i documenti?

Tra tanti interrogativi, Barcellona e i suoi abitanti mi hanno insegnato qualcosa che scordo spesso, che la mia terra scorda spesso, forse perché lo riteniamo troppo scontato e banale per ritenerlo degno della nostra attenzione. Non siamo forse quelli del Rinascimento? Quelli dell’Impero Romano? E poi, quelli del Partito Comunista più grande del blocco occidentale?

Seh.

Dalla bacheca di un altro che ieri stava al Parlament:

Tra ieri e oggi ho visto che cosa è una società sana, che ha ancora voglia di lottare per la giustizia e la democrazia, e lo fa, riuscendo anche a dialogare con le istituzioni.

Vero. Nicola e Esther sono arrivati al Parlamento, le prostitute a parlare col sindaco, Ada Colau ha potuto dire alla Commissione di Economia del Congresso che i banchieri sono criminali.

Io ho visto una volta di più che se proviamo a fare qualcosa non sappiamo mai se riusciamo. Figuriamoci se non facciamo proprio niente.

(una canzone che sento spesso per strada, ma con un accento decente)
http://www.youtube.com/watch?v=7F_9FEx7ymg

Fora piloteres (Sense data) (35x59,50cm)Le nuvole restano il mio posto preferito per pensare. Segno che penso molto poco, giusto quell’ora e mezza di cielo che attraverso ogni morte di papa (anche se il proverbio andrebbe aggiornato) per passare Pasqua con chi voglio. Cioè, con i miei.

Oggi, guardando il soffice letto di nuvole ai miei piedi (ne ignoravo volutamente le temperature ultraglaciali) mi sono detta che è passato un anno.

Un anno fa ero a Plaça Universitat, di ritorno dallo sciopero generale del 29 marzo, e mi veniva sparato un proiettile ad aria compressa senza motivo apparente. Si schiantava a un metro d’altezza da me, rimbalzando contro il portone laterale all’incrocio tra la piazza e il c. Balmes e finendo per strada.

Io, è il caso di dirlo, ero caduta dalle nuvole e avevo pensato a un petardo. Chi era con me dice di aver visto il cecchino sparare nella nostra direzione.

Due mesi dopo fu chiesto a Nicola Tanno, alla presentazione del suo libro: perché colpiscono sempre gli italiani?
Su 8 vittime in 3 anni in Catalogna, la percentuale d’italiani è alta. C’è chi ci ha ricamato sopra complotti anarcoitaliani.

Io ormai sapevo. Non c’entra niente, la nazionalità. E nemmeno cosa stessi facendo in quel momento. Probabilmente aspettavi, come me, che finisse il casino per tornartene a casa.

La sera del 29 marzo i social network erano un rincorrersi di richiami: a te che è successo? Ti hanno caricato? Qualcuno se l’era portato a casa, il proiettile che non avevo avuto il coraggio di raccogliere. E nella foto ravvicinata mi sembrava grande come un uovo. Brividi.

Da allora ne è passata, di acqua sotto i ponti. C’è stato un altro sciopero generale, costato un altro occhio. Non a un’anarcoitaliana, a una catalana attiva nel sociale. E le cose, per fortuna, hanno cominciato a muoversi. A Stop bales de goma si è affiancato Ojo con tu ojo. Hanno imputato due poliziotti per Esther, e due pure per Nicola, tre anni dopo. Finalmente.

È rimasta la paura, che mi ha fatto messaggiare dal paese all’ultima grande manifestazione. Ero tornata per le elezioni ed ero paradossalmente bloccata in casa al paese da un temporale, mentre i miei amici sfilavano per le strade di Barcellona con lo striscione di Stop bales, e cominciavano i disturbi a Madrid…

Sulle nuvole pensavo a tutto questo. Senza sapere che, una volta atterrata, RaiNews mi avrebbe restituito la faccia martoriata di Federico Aldrovandi al sit-in dei poliziotti fuori al comune in cui lavora sua madre. E quella della sorella di Giuseppe Uva, indagata per diffamazione. E allora avrei ricordato pure la paura che mi presi ad Aversa, anni fa, per quel tipo morto di overdose proprio mentre la guardia penitenziaria gli metteva un piede sulla gola. Attento, dicevamo all’amico che voleva seguire il caso. Il ragazzo era uno sbandato, figlio di un mezzo camorrista, licenza di uccidere, insomma. Non lo trovo manco su google. Ne uscì un articolo sull’Unità, credo, l’amico fu contattato solo dopo Aldrovandi.

Sì, le nuvole tra Barcellona e Napoli non sanno di portare ben altro che mozzarelle e vacanze omaggio con Groupon.

Quello che sanno è che in quest’anno è cambiato tanto anche per me. Che in certe cose, ok, sto uguale o quasi, e devo ricordare con Scrubs che crescere è una scelta, non viene spontaneo. Puoi solo decidere di crescere tu, quando sei pronta.

E a un anno di distanza devo dire che il proiettile ha aiutato. Come il mattone che distrugge il claustrofobico vetro di The Dreamers, portando le strade del ’68 nei drammi personali dei sognatori. Perché ha centrato, solo metaforicamente per fortuna, quella parte del mio mondo che se ne stava rintanata ad aspettare che qualcuno si muovesse anche per lei. Prima di scoprire che se non ti muovi tu, fija mia, non lo fa nessuno per te.

Questo le nuvole lo sanno eccome.

http://www.youtube.com/watch?v=ujyWQW8AhiA

da meteoweb.eu

da meteoweb.eu

Finora mi è piaciuto di più il 2009.

L’hanno organizzata anche quest’anno, eh, la manifestazione dell’8 marzo. Come sempre parte da Plaça Universitat, stavolta alle 19, e arriva in Plaça Sant Jaume. Andateci, se potete, è bello e confortante vedere quanti uomini partecipino.

Ma il 2009 per me fu impagabile.

Non mi sembrò vero, scendere per la Rambla. Stavo leggendo, per la tesi di dottorato, di operaie che avevano fatto lo stesso durante la Prima Guerra Mondiale, per il caroviveri e la scarsità di carbone. Roba che ai tempi la polizia di Barcellona ti massacrava pure se eri incinta. Come cambiano le cose, eh?

E allora queste ragazze che lungo la Rambla si palleggiavano il mondo, un mappamondo gigante, gonfiabile, mi divertirono più dei loro cartelli improbabili in tutte le lingue (con errori che li facevano più sfiziosi). Certo più delle austere custodi catalane della Transizione, che sfilavano coi loro caschetti sbarazzini di cinquantenni composte. Ma a quelle, come alle mie ’68ine, dovevo essere solo grata.

La Transizione l’aveva vista un po’ anche questa tipa, sul palco di Plaça Sant Jaume che è la sede del poder (maschile singolare anche qui). A un certo punto ha detto una frase che mi ha colpito molto:

– E ci perdoneremo per essere diventate padrone della nostra vita.

Cavolo, sì. Che grande concetto. Ora so che è anche multisfaccettato, perché gli esseri umani, indipendentemente dal genere, non vedono l’ora di scaricare le proprie responsabilità sugli altri, meglio se sul destino. Prendersi quella della propria vita è in effetti imperdonabile.

L’anno dopo fu magico per un altro motivo. Nevicò. E, quel che è peggio, cominciò che ero entrata da cinque minuti nell’Arxiu Nacional. A Sant Cugat, che se come me vi sentite lontani da casa a lasciare il centro si traduce culandia ulteriore. Scese apposta il direttore ad avvertire che chiudevano, facendo pure lo splendido a cacciarmi in italiano davanti a due impiegate ammirate.

Tanto, per me era il giorno dell’ottimismo. Stavo in crisi nera e la sera prima, seguendo il consiglio di certi amici nordici, avevo visto The Secret, che se non lo prendi con le molle è salutare quanto l’invasione di cavallette in Israele. E infatti avevo fatto la talebana dell’ottimismo tutto il giorno, ridendo della neve, della cacciata dal tempio della cultura catalana, degli stivali sfondati, della casa senza riscaldamento. Per poi rendermi conto, quella sera stessa, che a essere ottimisti a oltranza pure si fa una gran fatica. Infatti ero esausta. Come faranno i ‘mericani? Intanto, però, niente manifestazione.

L’anno dopo, ricordo quando spiegai al mio ex, pakistano del Kashmir, che quel pomeriggio sarei andata a una manifestazione per i diritti delle donne.

– I che…?
– Diritti delle donne.
– ?
Women’s rights?
Yo no sabe.

Però venne a riprendermi col telefonino, mentre scendendo di nuovo per la rambla reggevo uno striscione, Altraitalia credo, con qualcosa su “papi”, nipoti di Mubarak e affini.

Allora la mia vicina, una signora veneta, vide questo gigante di due metri che ci riprendeva ridendo tutto gasato, come se stessimo facendo una cosa divertentissima, e commentò:

– Un ammiratore?
– È il mio ragazzo.

Non sono sicura che il sorriso fosse proprio scevro da sorpresa. Ma quando lui tornò a lavorare (e ripensai a Mrs. Dalloway, il soldato impazzito perché lei potesse fare la splendida coi suoi rimpianti e vestiti anni ’20), ci fu un altro momento magico a Plaça Sant Jaume. Due ragazze italiane salirono sul palco, prima che si sciogliesse l’assemblea in una Barcellona ormai oscura e freddina. Si fece silenzio. E cantarono:

Sebben che siamo donne
paura non abbiamo
ci abbiamo delle belle e buone lingue
e ben ci difendiamo

La catalanissima piazza risuonò delle note di quell’antica canzone italiana. Che ci volete fare, mi emoziono facile.

Infatti la manifestazione scorsa, ancora un po’ fresca di indignados e di feministes indignades, per me non uguagliò quel momento nonostante la maggiore organizzazione, i cartelli fantasiosi con le tipiche forbici dei tagli, e i classici slogan: la 38 me aprieta el chocho (la 38 mi strizza la patana), e il mitico

non è che mi fa male la testa, è che non sai scopare!

Mo’, tralasciando la profondità del messaggio, ce la vedete, in Italia, una libertà sessuale così scanzonata?

Beati voi.

Vediamo quest’anno come va.

La mia benda sull’occhio è un successone, ben 75 euro (ok, centesimi) dal cinese del Carme contro il cartone appezzottato delle altre. Mi sfottono, l’amico siciliano e i suoi colleghi assistenti sociali, conosciuti in Plaça Sant Jaume quando avevano smesso di pagarli e ora tutti lì, fuori al Departament d’Interior di Barcellona alle 18 di mercoledì 21 novembre. Quasi tutti con un occhio coperto per solidarietà con Ester Quintana, la donna che ci ha rimesso il suo lo scorso sciopero generale. Per un proiettile ad aria compressa, dicono lei e i suoi compagni. Impossibile, dice Felip Puig, Conseller d’Interior: nella zona del Passeig de Gràcia, dove si trovava lei quando ancora vedeva bene, non ne sarebbero stati sparati.

Ma i reduci dallo sciopero del 29 marzo, me compresa, hanno avuto esperienza sufficiente di questo tipo di armi per ricordare, insieme agli 8 che invece ne hanno avuto esperienza diretta, che Barcellona può costarti un occhio della testa. E allora #ojocontuojo, il comitato che si è costituito per solidarietà con la donna ferita, ha organizzato questa manifestazione silenziosa a cui partecipavano anche i miei amici di Stop bales de goma .

In realtà a vedere la scena da lontano, risalendo il Passeig de Sant Joan dalla metro Tetuan, quelle quattro sirene che lampeggiavano su altrettante camionette disposte intorno all’edificio non erano proprio rassicuranti, specie se parli a telefono con tuo fratello e sarebbe d’uopo dissimulare. Ma non ci provo nemmeno.

– Ecco, brava, mi raccomando, tu resta là invece di tornare subito a casa! – mi viene detto col sarcasmo rassegnato di chi sa che invece resto eccome.

E faccio benissimo: la manifestazione, per fortuna, è pacifica e si apre con un messaggio di ringraziamento di Ester (dimessa dall’ospedale con sorprendente fretta), trasmesso dai potenti mezzi degli organizzatori (un altoparlante che ha visto tempi migliori) insieme alle seguenti istruzioni: stiamoci più o meno zitti tutto il tempo, e ogni 10 minuti sfoghiamo.

E lo sfogo, in effetti, è potente. Puig dimissió lo slogan più gettonato. Certi altri non li ho ripetuti, preferisco quelli che chiedono cose concrete invece di lanciare accuse generiche. Efficacissimo invece il buon Enrico (leggete il suo blog) che si fa fotografare in tutta la sua imponenza con la benda sull’occhio e regge, aiutato a stento dalla Vostra Affezionata, lo striscione di Stop bales de goma. Finché un gruppetto di volenterosi, al ventesimo tentativo, non riesce a legarlo a un albero (lo striscione, non Enrico), col fucile che sembra magari un po’ più ammaccato che al naturale.

Quanti siamo? Non sono brava a contare la gente, è un lavoro che alle manifestazioni italiane lasciavo volentieri a Emilio Fede. Qualcuno dice 400, e c’è chi si lamenta che non va bene. Troppi appelli, troppe manifestazioni. Meglio una buona, tutti insieme.

La mia amica veronese chiede che pretendono, questi, se uno stato ci schiaccia noi reagiamo. I morti non possono andare alle manifestazioni, e allora ci andiamo noi per loro. Morti di debiti, suicidatisi per aver perso la casa… Se questi ci fanno la guerra, conclude, noi rispondiamo con la guerra.

Non sono d’accordo, le dico. Oggi manifestiamo per un occhio perso, non vorrei che la prossima volta fosse per un morto. E quella ancora per due.

Ma le rivoluzioni, ribatte lei, come si sono fatte? Coi morti, per la libertà.

Restiamo ognuna della sua idea mentre una raffica finale di fischietti (che in un mondo ideale si dovevano suonare tutti insieme alle 20 in punto) segnala che la protesta è finita, andiamo in pace.

In metro mi accoglie ancora un manifesto di Artur Mas, il leader di Convergència i Unió che ha promesso il referendum per l’indipendenza se, come tutti si aspettano (o temono), stravincerà le elezioni catalane questa domenica 25. Con le braccia alzate e circondato da bandiere. La voluntat d’un poble.

Ma qualche impertinente gli ha messo una benda nera sull’occhio.

http://www.youtube.com/watch?v=MIlPHwS4Kn0

Non c’è niente da fare, il privato è pubblico. Quando succedono “i fatti”, leggi sciopero generale o manifestazione viuuulenta, a me succede sempre qualche altra cosa. Mentre Barcellona si mobilitava per la vaga general, io ero alle prese con un cuore spezzato (il mio) fresco di giornata, anzi, di nottata in bianco.

Fortuna che gli amici compaiono sempre nel momento del bisogno: mentre mi trascinavo sul balcone alle 9 del mattino, con occhiaie delle dimensioni di un condor, ecco il rombo familiare dell’elicottero della polizia. Quello che salutavamo da Via Laietana nelle manifestazioni di massa del 15-M, quello che ci assordò tutto il giorno quando sgombrarono plaça Catalunya “per ripulirla”, in vista dello scontro al vertice tra indignados e tifosi del Barça (che ovviamente non ci fu).

In questo tripudio di occhiaie e timpani rotti, ecco arrivare anche lui, l’altoparlante dei centri sociali. Ora, non saprò mai la provenienza dei manifestanti che alle 10.30 percorrevano Joaquim Costa, sotto casa mia, incitando i negozianti paki ad abbassare le saracinesche (cosa che i pochi aperti facevano prontamente, per evitare danni). Ma dalla qualità dell’audio e dalla scarsa folla sospetto venissero da qualche casa Okupa, magari quella che aveva respinto un’italiana invalida “perché non la conoscevano”, facendomi rimpiangere i 510 euro d’affitto per ospitare solo gente che conosco.

E non è che l’inizio.

Alla manifestazione arrivo dunque assonnata, “somatizzante” e in ritardo. Per fortuna Xisca e Marie, le mie compagne di sventura, mi aspettano con calma fuori da Louis Vuitton (!), sul Passeig de Gràcia, e con me seguono l’imprevedibile rotta dei gruppetti Altraitalia, associazione italiana di sinistra. Dopo vari cambi di direzione e diverse foto alla fiumana di “scioperati” (che tra Manu Chao e Inti Illimani rock si divertono non poco), riusciamo ad accodarci ai nostri prodi, armati di due striscioni e di Santa Pazienza: da lontano, all’altezza di Plaça Urquinaona e poi di Plaça Universitat, arrivano “segnali di fumo” non proprio amichevoli. E dire che è una bella mani, come la chiamano qua, l’unica che finisca con un inno nazionale, quello catalano, cantato a squarciagola (incerta sulle parole mi limito a sussurrarlo, mentre un ambulante mi dichiara troppo snob per partecipare allo sciopero…).

Ma niente, i bollettini degli italiani che arrivano alla spicciolata sono da guerriglia urbana. Alessandra se la squaglia: “essendo io più coraggiosa”, scherza, mi chiamerà più tardi per ascoltare il seguito.

Ancora lo deve fare, ma le dirò che porta sfiga. Ingannata dalla calma apparente mi allontano verso Plaça Universitat, per ritrovarmi tra due fuochi: cassonetti bruciati e camionette della polizia a profusione. Una fricchettona spalmata contro il muro sorride e spiega: “Siamo circondati, verranno da qua e da là, tanto vale aspettare”.

I pochi che cercano di mantenere la calma fanno gruppo contro stipiti e cancelli. La maggioranza scappa a ogni scoppio. Petardi o…?, mi chiedo allarmata, mentre con due del gruppo di prima entro in simbiosi col muro di cinta dell’università. Mi risponde un tonfo vicinissimo, orrendo. Io non lo riconosco, Paolo sì: la “pelota”. Il proiettile ad aria compressa. Sparato ad altezza d’uomo. Me la indica pure, perché è rimbalzata in strada. Mi sembra di vedere una pallina nera, ma non capisco più nulla, sono stanca e non so nemmeno se riuscirò a tornare a casa senza buchi “supplementari”.

Ah, capisco un’altra cosa: dopo un tentativo fallito di circumnavigare i cassonetti in fiamme, e l’attraversamento finale della Gran Via, mi rendo conto che il corazón espinado che mi aveva causato tante noie, di fronte a un proiettile tace. Grazie al cazzo, lo so. Ma in questi momenti la vita sembra curiosa assai.

La pucundria diventa sfinimento quando ormai raggiungo casa, e mi dico che da lì non esco fino all’ora di andare al lavoro. Sperando che un lavoro ancora ce l’abbia.

Ora, “quoro” permettendo, io una cosina la mangerei.

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