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Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Risonanze

La bara è lunga e fa un rumore strano.

Lì dentro ho tutto il tempo di ripensare alla sera dell’evento di beneficenza, e a quando poi sono riuscita a mangiare.

L’ho fatto a casa, lontano da Bruno che ho lasciato a lamentarsi con una delle fumatrici sotto il palazzo: una che non gli piaceva, ho valutato odiandomi. Lui spiegava alla fumatrice che per poco non si perdeva l’evento, con tutte le cose che aveva da fare, e nel vetro della porta illuminato da un lampione l’avevo sorpreso a scrutarmi le calze. O magari me l’ero sognato. Magari aveva notato anche stavolta qualche smagliatura nella trama.

Papà invece mi ha squadrato le gambette ossute nei leggings, mentre metteva la mia valigia nel portabagagli, e mi ha subito annunciato che detestava i tarocchi: era un uomo di scienza, lui! “Santa Madre scienza”, l’ho sfottuto.

Da allora lui storpia il nome dell’I-Ching, e conia massime in napoletano contro Jung. Soprattutto detesta il mio corpo, com’è adesso: alla vigilia ho mangiato solo broccoli e lui ha paura, è convinto che io abbia qualche male fisico. Le analisi mediche che mi ha subito inflitto sembrano confermare la sua teoria.

Così sono finita in questa bara oblunga e buia, ad ascoltare rumori strani. I miei livelli di prolattina sono molto alti: da che avevo il ciclo ritardato, adesso potrei addirittura star producendo latte! Interpellata a distanza per gli auguri di Natale, la psicologa junghiana si è premurata di annunciarmi che “mi sto partorendo”.

E invece mio padre mi ha seppellita qui dentro: giorni fa, andando in cucina, ho capito dai sorrisi dei miei familiari che quella era un’imboscata. Avevano già prenotato in clinica, tutto quello che dovevo fare io era sottopormi alla risonanza, e ricordarmi che l’avevano fatto per me. Una volta in clinica, quel distratto cronico di mio padre pretendeva pure che trovassi io il reparto, con la solita notte insonne alle spalle. A quel punto gli ho soffiato in faccia: “Guarda che possiamo aiutare solo chi lo desidera”.

Nel sarcofago divento cintura nera di meditazione: trascorro i venti minuti della risonanza in un viaggio astrale, o qualcosa del genere. Tanto il mio stomaco è talmente vacante che potrei pure vedere la Madonna.

Ovvio che la risonanza non rileva niente di irregolare. In compenso, mi rivela una volta per tutte che ne ho abbastanza. Cristo, sono diventata una lagna! Dai bassifondi della mia mente riaffiora un briciolo di ironia.

Una sera di quelle anonime tra Natale e Capodanno, gioco con due amici su Facebook a storpiare i nomi dei quartieri di Barcellona, associandoli a libri e film famosi: vince a man bassa “Il diario di Hostafrancs”. Rido come una scema, poi me ne accorgo. È questo che voglio per me.

Voglio divertirmi come sto facendo con questi scherzi idioti, e come facevo con Bruno la prima notte passata a ridere, a dirci scemenze fino alle quattro. Quelle risate le ho pagate abbastanza, le rivoglio.

Anche quest’anno mi capita di riascoltare quella canzone napoletana che tradotta si chiama “Uccidimi“, e non andava mica presa alla lettera, ma ormai è andata così.

Prima di capodanno, arriva il terremoto. Il mio istinto di sopravvivenza funziona abbastanza da catapultarmi fuori dal bagno senza scaricare.

In corridoio trovo mia madre appoggiata allo stipite della cucina, come se in quel gesto reggesse tutta la casa. Allora mi appoggio anch’io a una porta a vetri troppo fragile per non tremare tutta. È come se quella fragilità fosse l’unica cosa da salvare.

Ci guardiamo, mamma e io, come vestali assorte in un rito strano, finché le oscillazioni non si fermano. Allora fanno capolino anche gli uomini di casa, che erano rimasti chiusi nelle stanze ad aspettare. Mio padre si mette a cercare su Google, in tutte le lingue, come si dice “È passato il terremoto”.

A quel punto me ne rendo conto: la prima cosa che ho pensato, subito dopo la mia fuga dal bagno, è stata che mi toccava sprofondare in un vortice di detriti senza salutare Bruno. Senza dirgli che lo amavo, e che in fin dei conti non mi dispiaceva, pensarlo felice.

Adesso, però, voglio esserlo anch’io.

A lunedì per il seguito!

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Implacabile

Sul palco mi assale il silenzio.

L’unico faretto rosso è puntato sul mio abito corto, sulle calze traforate, e sul trucco che all’improvviso, più che gli Hunger Games, mi sembra richiamare Jem e le Holograms.

Allora mi passa davanti tutta la vita, o almeno l’ultima settimana.

Lunedì c’è stata la delusione della Strategica: come mi permettevo di essere ancora in quelle condizioni? Come se il suo metodo fosse fuffa…! Almeno, per l’evento di beneficenza che preparavo da mesi, dovevo presentarmi tutta fiera e ben vestita, come se dovessi andare sul “red carpet”. Invece, due ore prima di salire su questo palco ero ancora sul letto, in pigiama e calzini di spugna, col mio lauto pranzo (una tazza di tè con due fette biscottate) e una copia di The Hunger Games.

Martedì l’amico omeopata mi ha accostato le mani alla parte alta del petto, senza toccarmi, e tornando dal suo studio ho starnutito un muco denso e nero. L’amico, avvisato via messaggio, ha dichiarato di aver avvertito una sorta di vuoto all’altezza dei miei polmoni.

“Che fortunato!” ha sbraitato mio padre mercoledì, su Skype. “Io sono medico e, se non tocco un paziente con tutte e due le mani, non ‘avverto’ nessun linfonodo. E il paziente muore”.

Mi aspetta al varco, papà, col suo arsenale di gocce per dormire, vitamine e pastiglie assortite. Io non capisco: una pastiglia di ferro impedirebbe forse a Bruno di presentarsi qui allo Spazio con la Biondissima, adesso che mi tocca stare sul palco a fare gli onori di casa? A quanto pare, non ho i lineamenti abbastanza affilati da impedirlo.

Per non vomitare, ho letto tutto il giorno. Non Jung, ma romanzi di fantascienza, o fantasy. Non riesco più ad abitare la realtà, che mi pende di dosso come le tute che ormai uso per tutto. Il giorno prima, un giovedì, ho ceduto i miei vestiti più belli a una ragazza che è venuta a pulire la mia casa ingestibile, e che forse (ma non me l’ha confessato) metterà in vendita gli abiti di Guess, a parte uno che le sta benissimo.

Mi è rimasto un completo nero: una maglia con un taglietto centrale lì dove dovrei avere il seno, e una gonna asimmetrica che adesso avrebbe bisogno di una cintura. A quel pensiero ho disertato i preparativi per l’evento, mentre continuavo a leggere The Hunger Games come un’adolescente. Nel secondo volume la protagonista viene buttata di nuovo nell’arena, dove sfila su una biga infuocata. Prima, però, si è fatta applicare del trucco rosso fiamma. Vuole apparire subito ai suoi carnefici per com’è adesso: unforgiving. Implacabile.

Ripetevo la parola come un mantra due ore fa, mentre stavo per cadere nel sonno e non facevo niente per impedirlo: avevo proprio bisogno di una pennica pomeridiana… Ma all’improvviso le mie dita hanno serrato il libro che già scivolava di mano, e ho capito: era tornata.

Era la stessa Forza che quando ho saputo della Biondissima si è impossessata delle mie gambe, portandomi fino al mare, e che una notte mi ha insegnato a inabissarmi nelle acque più nere. Adesso si era assunta il compito improvviso, e all’apparenza semplice, di buttarmi sotto la doccia. Dopo, avvolta in una nuvola di vapore, mi sono scoperta a scegliere certi ombretti bordeaux e vinaccia che non avevo mai osato indossare: ammesso che li notasse, lui non avrebbe apprezzato.

Ma io sì.   

In strada le mie gambe, fasciate in calze color ruggine che sembrano fatte a uncinetto, hanno bruciato le poche centinaia di metri che mi separavano dallo Spazio. I Morti di Figo implicati nell’organizzazione sembravano accontentarsi del mio ruolo da bella statuina, finché…

“Come si dice ‘beneficenza’ in catalano?”.

Me lo ha chiesto mezz’ora fa l’anziano patron dello Spazio: un veterano della comunità italiana che sgancia offerte generose, dunque si è aggiudicato il compito di fare il discorsetto di chiusura dell’evento. Dio santo, perché voleva rivolgersi in catalano a un pubblico italiano?

“Non vorrai mica parlare spagnolo, tu!” si è scandalizzato il tipo quando gliel’ho fatto notare, e solo allora ho ricordato che era un indipendentista sardo.

Ho registrato anche il fatto che avrei parlato, che il Figo si era già messo d’accordo con l’addetto ai microfoni, e ho frenato a stento la tentazione di stanarlo, il Figo, di ricordargli chi comandava lì… Ma con che faccia lo avrei fatto? L’ho lasciato a organizzare tutto mentre ero in casa a leggere un romanzo per ragazzine. Vabbè, non posso neanche stare male, adesso?

Eccomi quindi su questo palco, coi riflettori puntati addosso e la voce che non si decide a tornarmi. Per fortuna Bruno sta battendo il record dei ritardi, così non dovrà allontanarsi in cerca di qualsiasi attività che non sia quella di starmi a sentire.

Il primo suono che emetto sembra il principio di un attacco d’asma. Poi schiarisco la voce in un saluto rauco. Che fine ha fatto la Forza che mi ha sbattuta dal letto alla doccia, e davanti allo specchio? Non finisco il pensiero che le mie labbra si schiudono di nuovo: quando comincio a parlare, riconosco nella mia voce incerta i suoni del catalano.  

Non dura neanche il minuto che auspicavo. Grazie per essere qui, sganciate i soldi per l’iniziativa benefica, visitate il nostro sito, buona serata. Ah, ricordatevi di mangiare qualcosa al buffet.

Finalmente posso tacere di nuovo, mentre assaporo con un principio di panico il silenzio che segue alle mie parole. Poi scoppia l’applauso.

Lo so che non è ammirazione, ma sollievo. Rispetto all’infaticabile oratore di prima sono stata a dir poco concisa! Sono così soddisfatta che potrei addirittura mangiare qualcosina anch’io…

Ma prima scendo a prendere un po’ d’aria, tra le ragazze che fumano fuori al portone e mi fanno festa: che belle calze, dicono, e mi scopro a sorridere mentre ricordo piano piano com’è che si chiacchiera… All’improvviso il capannello di fumatrici si apre in un movimento che mi ricorda la coreografia di un musical. Poi osservo il nuovo arrivato.

Per fortuna è venuto da solo.

A venerdì per il seguito!

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La ragazza sul balcone

Da rare-gallery.com

È stato l’urlo a svegliarmi.

Lo seguono passi veloci, interruttori che scattano.

Forse era successo altre volte, ma non me ne accorgevo, quando crollavo stesa da un’ora di pianto. Ormai ho provato a uscire dal mio angolino buio di corridoio, e sono fissa nella camera da letto a fiori azzurri, che ha un armadio vero e un balcone. Era accanto all’armadio che avevo trovato la bambola, tutta nuda e altera sulla sedia di velluto.

Quando l’urlo si smorza c’è uno scroscio prolungato, come di una vasca che si riempie. La mia scarsa cultura horror rievoca storie di reclusioni domestiche, e spaventosi bagni “ristoratori”.

La matta di casa. La matta dell’attico. Sopra il mio appartamento non c’è l’attico, ma ora so che c’è qualcuno che soffre.

Il giorno dopo chiedo lumi al vicino di sotto: un inquilino napoletano che affitta camere a gente di passaggio, attirandosi l’ostilità delle vecchie catalane che vivono nel palazzo. Il vicino mi coltiva come potenziale alleata alle riunioni condominiali, ma davanti alle mie domande nicchia un po’: al piano di sopra si rifugiano perlopiù dei migranti clandestini, che incontri una volta per le scale e non vedi mai più. Impossibile dire chi di loro avesse urlato l’altra notte. Dall’attico, invece… Ma a quel punto il vicino si interrompe. “Dall’attico…?” lo incoraggio.

Dall’attico è precipitata una ragazza.

È successo un anno prima che arrivassi io. Era una giovane americana, prosegue il vicino, venuta in Europa col marito per la luna di miele. L’avevano trovata su uno dei miei balconi: quello della stanza con la carta da parati a fiori azzurri. Mica è lì che dormo, vero? Ah! Ma chissà, forse è andata finire bene: nessuno conosce la sorte di quella ragazza. Certo, quando l’hanno trovata aveva le gambe spezzate, era stata chiamata un’ambulanza. Mentre ascolto, ho la sensazione che quell’uomo ancora giovane muoia dalla voglia di farsi un segno di croce, prima di concludere la sua storia.

Il marito della vittima, americano pure lui, aveva spiegato in uno spagnolo caricaturale che i due stavano litigando, che alzavano la voce. A un certo punto lei era rimasta in silenzio e si era buttata giù, senza una parola. Il marito sembrava disperato: la sua sposa aveva tentato il suicidio per uno stupido litigio… Ma il vicino, quando pronuncia la parola “suicidio”, mi fa un cenno d’intesa tutto partenopeo. Seh, seh.

Neanche del marito sa nulla. Pareva sparito insieme all’ambulanza, come se avesse la valigia pronta o non gli importasse di recuperare le sue cose.

Alla fine era un extracomunitario pure lui, riflette il vicino, e si era dileguato come i clandestini del piano sopra al mio. Però quelli erano colpevoli solo di esistere. L’americano, invece…

Quella notte chiudo bene la serranda sul balcone, e capisco: presto me ne andrò dalla Casa degli spiriti.

Il mio privilegio me l’ha gettata tra le mani, ma è come se la casa stessa mi dicesse che non va bene, che non mi vuole, che devo andar via.

O forse devo ricominciare a mangiare sul serio, per farla finita con ‘sti deliri.

A venerdì per il seguito!

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La ruota non gira più

E io che pensavo di aver fregato i tarocchi!

Invece mi esce di nuovo la Ruota della Fortuna, ed è la seconda volta. Un tempo pensavo pure che non mi sarei mai ritrovata su un tatami a consultare dei tarocchi, ma tant’è.

È stato Jung a spiegarmi tutto.

O così mi è parso un giorno che ero in biblioteca, alle prese con un manualetto di psicologia analitica e con un cappotto troppo stretto, che non si chiudeva bene sulla tuta che da un po’ usavo come pigiama.

Nel rincoglionimento da insonnia prolungata, l’allievo spurio di Freud sembrava dirmi cose tipo: ti sei barricata nella stanza del dolore, hai messo sottochiave una parte di te che non ti ha fatto niente. Era una parte creativa, spesso caotica, che aveva fame, ma forse non piaceva a chi all’inizio ti dava da mangiare. Ho ripensato agli gnocchi sfatti che mio nonno adorava, alle donne di casa che glieli preparavano apposta così.

Con Jung sono arrivati nuovi libri: presi in prestito, comprati, divorati in ogni angolo della mia Casa degli spiriti. Una terapeuta junghiana offriva un colloquio gratuito, e l’ho presa a bordo a patto di vederla di rado. A metà della prima seduta si è interrotta per fissare qualcosa alle mie spalle. Nella stanza del tatami è successo qualcosa di doloroso, mi ha spiegato, e gli spettri non si possono cacciare. Però vanno tenuti occupati! A quel punto mi ha prescritto un rito molto “casalingo”, che prevedeva acqua, candeggina e una preghiera a piacere. Era fondamentale svuotare il secchio in strada. 

Ormai mi era chiaro che in tutta questa roba dovevo cercare la metafora, la pulizia interna di cui avevo bisogno. E poi una lavatina al pavimento non guastava! Gli spettri andassero pure a giocare da un’altra parte.

Una notte che ero già a letto, accostando il libro al lume ho ritrovato un salmo che conoscevo solo grazie a un’atroce canzone da discoteca. Anche se dovessi camminare in una valle oscura non temerei alcun male, perché tu sei con me. il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.

A chi rivolgere questa preghiera?

Il giorno dopo, in biblioteca, Marie-Louise von Franz mi ha impartito da un volumetto quasi intonso una lezione sull’I-Ching: gli oracoli non servono a prevedere il futuro, spiegava l’allieva di Jung, ma a dialogare con l’inconscio. Solo questo, doveva dirmi! Di tutti i testi consultabili a riguardo, l’unico disponibile per il servizio di prestito era un’edizione tascabile di Jodorowsky, sui tarocchi. Anche Jodorowsky non si beveva la storia di predire il futuro: si trattava di interpretare simboli, per risvegliare risorse psichiche che già possedevamo.

Poco dopo, visitando la Fnac, mi sono ritrovata tarocchi e I-Ching sullo stesso scaffale: che coincidenza, per degli articoli con la stessa funzione!

Così eccomi qua a sperimentare i tarocchi, e l’intossicante sensazione di controllo che già mi danno. 

Ho cominciato con delle domande cretine. Cosa mangerò per cena? L’Appeso. Nel senso che mangerò del caciocavallo…? Poi ho tirato fuori gli argomenti che mi interessavano.

Bruno tornerà? La Ruota della Fortuna.

Dormirò stasera? L’eremita. Sì, di recente non ho tutta ‘sta vita sociale…

Bruno adesso sta con la Biondissima? La Ruota della Fortuna.

Riprovo con la croce a cinque carte (livello avanzato!), e quando chiedo di Bruno… Ecco di nuovo La Ruota della Fortuna: la sua posizione nella tirata indica il passato. Che minchia vuol dire? Sfoglio il libretto delle istruzioni come farei per un mobile IKEA: la Ruota della Fortuna indica un cambiamento che non dipende da noi, e che non controlliamo in nessun modo.

Il giorno dopo mi accorgo che la Casa degli spiriti sembra lo sfondo di un tarocco vittoriano, di quelli disegnati verso la fine dell’Ottocento. In un angolo del balcone in salotto, una pianta è cresciuta tanto da traboccare dal vaso: le sue radici puntano fameliche al balcone di sotto, e mi scopro a odiare la loro corsa oscena per la sopravvivenza.

Eppure mi faccio una promessa: se esco indenne da questa casa, da questi digiuni, aiuterò chiunque si senta come me adesso, e voglia starmi a sentire. Così tutto questo sarà servito a qualcosa.

Ma la frenesia arriva col libro di Jung e Pauli sulla sincronicità: inizio a trovare coincidenze dappertutto, e la mia ansia si placa un po’.

Una mattina entro in metro pensando a un frequentatore dello Spazio, tra i pochi a cui Bruno ha raccontato di noi due. Riparte per l’Italia tra qualche giorno, con la moglie e due figli piccoli. Dopo un paio di fermate mi accorgo che qualcuno sta gridando al telefono: è lui, l’amico in partenza! Beccato per caso nella metro di Barcellona, nell’ora di punta, sulla linea più trafficata… Ma niente accade per caso, cavolo. Presa da un ottimismo incosciente propongo:

“Volete fare una festa di addio questa domenica, a casa mia?”.

Ma sì, sono forte ormai: ogni tanto dormo perfino un’oretta in più, e le fette di pane e tortilla sono diventate due… Insomma, potrò ben sopportare la presenza di Bruno nel mio salone.

“Bruno viene accompagnato?” mi chiede al telefono una collega dello Spazio. Vuole portare un dolce e deve sapere quanti siamo. Trattengo il respiro.

“Non lo so. Bruno è sparito”.

“Bruno è innamorato” mi corregge lei. Indovino che sta sorridendo. Mancano dodici ore alla festa.

I conati arrivano alle quattro del mattino.

Che vomito a fare? Bruno non si azzarderà mai a portare la Biondissima a casa mia! Vero? Come se fosse necessario, poi: a farmi star male mi basterebbero i Morti di Figo che scherzano sulla sua nuova fiamma, intanto che io offro i salatini. Dopo mezz’ora passata ad attendere invano il vomito, scrivo in mailing list: festa rimandata, mi dispiace, mi sento male. Proprio non riesco.

Mi alzo dal letto che sono le cinque di una domenica pomeriggio, ed è già buio. La festa si è spostata dalla ragazza che si era offerta di portare il dolce. I festeggiati hanno provato a chiamarmi, per ringraziarmi comunque dell’iniziativa: in fondo è per merito mio che sono tutti lì, insieme.

Manco solo io.

A lunedì per il seguito!

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La vita fa sempre il bis

Da errenskitchen.com

Prima viene l’acqua.

Stringo le gambe al petto come per sottrarle alla corrente, e i muscoli dello stomaco si contraggono per la posizione innaturale, che è la più naturale di tutte. Sento i crampi, sento le ginocchia affondate in angoli dello sterno che sono diventati una filigrana per le ossa. Non piango più, e smetto presto anche di urlare. Mi graffiano la gola versi che non conosco, che non ho mai sentito, ma che forse (idea assurda) ha sentito mia madre, mentre galleggiavo nel suo grembo in attesa di vivere.

Apro gli occhi e ritrovo il buio della stanza. Li richiudo, e sono in alto.

Sono sull’acquascivolo, a quindici anni. Accanto a me c’è l’amica che mi ha trascinato lì sopra. Odio l’acqua in faccia, so già che affogherò. Non sono fatta per le sensazioni intense, rischio davvero di annegarci dentro, ma l’amichetta non lo sa: lei aspetta solo il segnale del bagnino, poi si butta con lo stesso sorriso che sfodererebbe davanti a un cono gelato. Io la imito solo perché non saprei tornare indietro. L’unica è buttarsi.

Così soffoco. Ho l’acqua in faccia, a un certo punto la respiro ma è acqua, mi fa tossire e non finisce mai, mentre io ho finito il tempo. Non arriverò mai alla fine di questo scivolo. Mentre mi rassegno alla mia morte a quindici anni, la schiena che scendeva in picchiata arresta la sua corsa obliqua, e il corpo si ferma. L’acqua scompare.

Sono arrivata alla fine dello scivolo. Sono a terra, sono viva. Ho la vita davanti.

Con la vita davanti mi sollevo dal tatami che puzza di resina e candele alla ciliegia. Ho vinto il dolore lasciandolo entrare. Il dolore non lo vinci, lo accogli. È solo allora che puoi fare tutto il resto.

Questa scoperta è la svolta vera: quando smetto di resistere al dolore lo accolgo nei suoi capricci, nelle esigenze che ha. È da lì che la mia vita peggiora sul serio, e corre anche il rischio di migliorare.

Una sera, smanettando al pc, mi sciroppo una versione hollywoodiana di Biancaneve: il cacciatore si allea con la protagonista, per sconfiggere la matrigna. Guardo abbastanza a lungo da affezionarmi all’atletico cacciatore, e all’interesse sfacciato che nutre per la sua alleata… Mi sto divertendo sul serio, finché non entra in scena il principe.

Ecco qua, la favola terminerà come al solito. Perché le storie devono finire sempre allo stesso modo? Cosa c’è di sbagliato nei finali che mi invento io? Accolgo la scena del bacio con un conato di vomito, ma Biancaneve non si sveglia. Apre gli occhi solo dopo che a baciarla è il cacciatore. In realtà il finale è aperto, posso addirittura sperare che questa Biancaneve qui si sia svegliata da sola. Basta che non sia la solita storia.

Sì, ho quasi trentatré anni e spacco il capello a una favola.

È che la razionalità mi ha rotto. Invece di contattare la Strategica per altre baracconate, invito a cena un amico che di mestiere fa letteralmente il guru, e forse per questo non naviga nell’oro. Così lo trascino nel mio melodramma al prezzo di una zuppa cinese. Ho intuito che seguire il mio corpo, qualsiasi cosa significhi, vuol dire anche circondarsi di gente che sappia ascoltare. Siamo nello stesso ristorante in cui ho celebrato il compleanno, e ho visto Bruno pendere dalle labbra dell’amica Occhiblù. L’amico guru capisce subito due cose: una è che gli toccherà finire anche il mio piatto (il che non gli dispiace), e l’altra è che il tipo “brillante e bizzarro” di cui gli sto parlando è Bruno. L’ha visto una volta sola, e gli è bastata a indovinare.

“Quello che mi sento di dirti” borbotta il guru a bocca piena, “è che il tempo è dalla tua parte”. E pesca un altro tagliolino dalla zuppa vegetariana. “Bruno adesso crede di aver trovato una che gli risolva i problemi, ma i problemi che ha con sé stesso non si risolvono così. Affioreranno, e avveleneranno la nuova storia”.

A quel punto glielo confesso: nei rari momenti di lucidità, alla Biondissima do al massimo tre mesi. “Solo io” potevo restare di più. Ne faccio ancora un merito, una capacità acquisita di cui non voglio liberarmi.

L’amico accetta questa mia debolezza insieme al riso che non riesco a finire. Prima di spazzolarlo, sentenzia:

“Se non impariamo una lezione, la vita ce la ripete”.

E sfodera un sorriso che vorrebbe essere illuminato.

A me, però, risulta solo un po’ sadico.

A mercoledì per il seguito!

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Questi fantasmi

Della casa mi piaceva che non finisse mai.

Ho un bel dire che l’ho presa per calcolo, e perché i miei la capivano più dei bilocali moderni venduti allo stesso prezzo. In realtà mi attrae anche l’illusione di aver percorso tutto il corridoio, con la schiera di balconcini che lo costeggia, per poi scoprire che a sinistra della sala da pranzo c’è un’altra ala, più piccola e buia. Pure all’ingresso, la pesante porta di legno occulta la vista del grande salone. C’è sempre un ultimo tratto da attraversare, e mi piace l’idea di perdermi, ammesso che sia per finta.

Durante il trasloco mi sono concentrata solo sui metri da percorrere per introdurre le mie cose in quello scenario neogotico, costellato da elementi kitsch: l’atroce orologio all’ingresso, le madonne in legno dipinto, e i quadretti bucolici dai colori accesi, raffiguranti pastori con le scocche rosse e dulcinee scollate. Adesso mi turba l’apparizione di una bambola bruna, accomodata su una seggiolina di velluto che scopro tra un armadio e una parete sbiadita. Il sussiego che mostra la bambola è annullato dal particolare che sia nuda. È solo l’inizio.

Dopo l’addio di Bruno, la Casa degli spiriti mi si chiude addosso, con le sue storie che non conoscerò mai.

Per qualche giorno non vado in panico. Con Bruno ci siamo separati più volte, per settimane intere: è sempre tornato. Nelle chattate che faccio al cellulare (ci metterò un mese a farmi installare il wifi), l’amico che ha inventato il concetto di Litofaga e quello di Corte dei Miracoli mi trova una definizione anche per questo:

“Liberati una volta per tutte da ‘sti pesaturi!”.

La mia risata echeggia tra tappeti polverosi e divani damascati. Un pesaturo è una persona che ti opprime con la sola presenza: Bruno è sempre così facile da definire, agli occhi degli altri, e l’idea di liberarmi di un peso è così allettante… E così veloce a franare.

Comincio a star male quando capisco che l’assenza c’è, che è lì per rimanere. Finisce che devo mandargli un messaggio io, per una questione riguardante lo Spazio. Poche parole spigliate, scritte mentre aspetto una coppia di amici a cui regalerò qualche mobile. Alla fine riesco pure a chiedergli: “Come stai?”.

Stavolta la sua risposta arriva subito: è contento. Bruno. Quello che si accostava a chiunque fosse disposto ad ascoltarlo e sciorinava un rosario di problemi. Adesso è contento.

Gli amici hanno bussato. Sono di Napoli, appena vedono la casa citano ridendo Questi fantasmi: “Un’ora la mattina, e un’ora la sera, dovete affacciarvi a tutti i balconi”. Scherzano, ma si guardano intorno con diffidenza. Non sono gli unici.

Uno della mia antica comitiva degli ascensori afferma di aver intravisto delle ombre in salone, mentre mi chiedeva di mediare tra lui e la sua ex. Quando è stata l’ex a visitarmi, l’ho vista stringersi allo stipite come una bambina: per un momento, su una delle due sedie a dondolo le era apparsa davanti una vecchietta. Era stato uno scherzo del lampadario a goccia, ripeteva con una risata incerta.

Quando la coppia corre via trascinandosi i mobili, senza più voltarsi, io resto sola coi fantasmi. Devo orchestrare una risposta a Bruno: “Mi fa piacere che tu sia contento”, gli scrivo, e vorrei che fosse vero ma non è così, e mi sento proprio meschina, ma mi fa male constatare che in un anno non sono riuscita a suscitargli ciò che la Biondissima gli ha regalato in un mese.

Nessuno è responsabile della felicità di nessuno, mi ricordo. E del dolore? Un anno della mia vita è diventato polvere, sono stata messa da parte nello spazio di un messaggino e due pettegolezzi. E tutto perché, a quanto pare, non avevo la struttura ossea adeguata. No, non è possibile: stavamo costruendo qualcosa anche se era complicato, non può aver mandato tutto all’aria perché aveva conosciuto da cinque minuti una che trovasse più bella… O forse sì.

Mi decido a chiamare un amico omeopata, balbettando per l’incapacità di chiedere aiuto, ma quello mi dà buca all’ultimo momento: gli dispiace, devo “affrontare gli spiriti”. Solo così posso guarire.  

Ma come si fa?

Mi rifugio sul tatami che ho comprato per rimpiazzare un antico letto, che il nipote del vecchio proprietario si sarà portato via insieme al materasso. L’odore di resina mi sta dando la nausea, insieme a quello delle candele alla ciliegia che ho comprato d’occasione. Sono incapace di stendermi o rialzarmi, e gli spifferi che infestano la casa diventano fiato gelido: la minaccia di una notte infinita. Quella è proprio la Casa degli spiriti, e io sono un’anima tra tante, spenta come le altre. Come faccio a vincere il dolore?

Devi perdere.

Non è proprio una voce, quella che mi attraversa la mente. Quando sarò più lucida la definirò come una forza, un’energia improvvisa: la stessa che mi aveva fatto correre verso il mare mentre farfugliavo banalità al telefono con Bruno. In mancanza d’altro interrogo questa sorta di voce: contro chi o cosa dovrei perdere?

Contro il dolore. Tanto vince lui.

L’unica via d’uscita è attraversarlo, conclude la voce, come attraverso ogni giorno il corridoio di questa casa: sembra infinito, e non lo è.

E allora, supina sul tatami, mi porto le ginocchia al mento e mi accartoccio come un feto, o una larva nel bozzolo. È a quel punto che smetto di resistere, che dico al dolore: su, vieni. Fammi vedere cosa sai fare.

Poi apro le braccia.

A lunedì per il seguito!

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Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Quelle che servono

 

Da plumens.com

Non è lui. Lui è un sintomo.

Avevo fame e ho trovato lui, e invece dovevo saziarmi di me.

Dopo l’ultima frase a effetto, la Petulante poggia la penna sul taccuino. Resta sempre un po’ stronza, ma ha ragione. Un giorno darò della stronza a me stessa, per quell’ostilità cocciuta verso la mia terapeuta. A conti fatti ha sbagliato solo due cose, una più grave e una meno.

La meno grave è stata farmi sentire come una crostatina del Mulino Bianco, col suo discorso su come non fossi proprio “da dieci”. Ma ora so cosa voleva dire: a Bruno le donne piacevano fatte in un certo modo (“affilate”, a quanto pareva), mentre io ero fatta in un altro. Quel dettaglio non mi aggiungeva e non mi toglieva niente.

La cosa più grave è stata il suo martellare perché lo lasciassi perdere. Un giorno sentirò delle esperte in rapporti di coppia (e violenza di genere) affermare che l’ultima cosa da dire in certi casi è: “Devi lasciarlo”. Come se la tizia in questione non lo sapesse già.

Per il resto, la Petulante aveva ragione: il mio corpo è stato l’unica guida mentre la testa svariava. Il ventre contratto mi ha fatto da bussola in quei giorni di finta estate, di strategie surreali e di ciclo bloccato, che in un anticlimax mi va tornando man mano che smetto di cercarmi le cose in valigia e “prendo possesso” della casa, o almeno ci provo.

Questo linguaggio del corpo segue un percorso a me ignoto, diverso dai miei soliti schemi mentali.

“I segnali che ti mandava il corpo ci sono sempre stati” sorride la Petulante. “La differenza è che adesso impari anche a notarli”.

Magnifico: io non vedevo i segnali, e Bruno non vedeva me. Nei suoi occhi ho trovato solo le mie paure.

“Avevi perso i punti fermi” chiosa la Petulante. “Risentivi della condizione di straniera, del licenziamento, dell’università che non ti pagava neanche l’assegno di ricerca promesso…”.

Insomma, a un certo punto pensavo di non valere niente, e mi sono trovata qualcuno che fosse d’accordo con me. E siccome ritenevo impossibile cambiare la mia vita, ho provato a cambiare lui.

Dio santo. Quello che mi spiazza di più è che pensavo di avere le cose sotto controllo, e invece ero del tutto fuori strada. Mi perdonerò mai per questo? La Petulante infierisce.

“Vedi cosa succede a non essere in contatto con le proprie necessità? Credevi di aver comprato la casa ideale, anche se piaceva solo ai tuoi. Credevi di aver trovato il corso che ti avrebbe riportato all’università, anche se il titolo che rilasciava era carta straccia…”.

Annuisco. Soprattutto, conclude lei, pensavo che un tipo con difficoltà evidenti a innamorarsi (o almeno, a innamorarsi di me) fosse ormai “tornato sul serio”, solo perché in quel momento gli serviva una spalla su cui piangere.

Mica solo una spalla, faccio per dire, ma sono troppo annichilita per scherzare, e la Petulante preme perché ammetta una cosa: l’intuizione, o almeno la capacità di capire cosa voglio, è importante almeno quanto la logica. E sì, passa per le sensazioni del corpo.

“Pensa a quante strategie hai elaborato per tenerti Bruno: com’è andata? Al primo soffio è crollato tutto il castello di carte”.

Castello di carte? No. Di carta, semmai. È bastato un imprevisto idiota, uno scambio linguistico con la bionda sbagliata (o quella giusta, magari…), e l’illusione che tutto volgesse al meglio è andata distrutta. Anche gli “esercizi” della Strategica erano trucchetti da baraccone, ma almeno mi hanno fatto capire una cosa: è ora di cambiare strategia. Sul serio.

Voglio trovare la forza di tradire Bruno con me. Anche se in questo momento sono l’ultimo dei suoi pensieri, ho ancora questa sensazione: progettare una vita senza di lui è un tradimento. Ed è anche l’unica scelta che ho.

Se per qualche tempo devo affondare in un pozzo nero, voglio che almeno mi serva a cambiare, una volta per tutte. Questo qui è un “almeno” che potrei amare. La Petulante solleva la testa dal taccuino:

“Sarà un po’ come imparare di nuovo a camminare”.

Sgrano gli occhi:

“Quante cazzo di volte bisogna imparare a camminare?”.

La Petulante mi sorride:

“Tutte quelle che servono”. 

A venerdì per il seguito!

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Il mare ha un suo metodo

Da barcelonatourisme.com

Viene prima il sollievo.

Colpisce un istante solo, così breve che potrei fingere di non notarlo. Eppure è stato lì, nel mio ventre contratto, un momento prima di lasciare spazio al dolore. Lo sapevo, mi dice il ventre. E dice pure: almeno adesso lo sai anche tu. Quanto cazzo detesto gli almeno.

Ma non ascolto il corpo, non ancora. Sono tutta protesa verso l’amico, che sta scegliendo un’altra oliva.

“Chi lo dice?” riesco a chiedere. “Chi dice che Bruno si è innamorato di questa… tizia biondissima?”.

All’improvviso temo che l’amico mi riferisca qualcosa che ha visto in prima persona. Niente di tutto questo, ma mi sento nominare una fonte di tutto rispetto: un altro che frequenta il bar specializzato in scambi linguistici, e che sa tutto delle ex di Bruno e niente di me.

Io non ho bisogno di sapere altro. Potrei raccontarmi perfino che avevo capito subito: dopotutto avevo irrigidito la testa sul petto di Bruno, mentre lui mi parlava della nuova amica. Ma non è vero, Bruno mi ha nominato diverse donne: lo faceva di meno, ma non aveva mai smesso. Dal caos che mi ha invaso la mente ripesco un detto americano: “Se sostieni un uomo in difficoltà, lo prepari per quella che verrà dopo di te”. Bruno si è consolato tra le mie cosce dei soldi persi, e adesso che sta meglio può passare a una che gli piaccia davvero… No, troppo cinico: la realtà dev’essere ancora più banale.

Quand’è che ha conosciuto la ragazza biondissima? Circa un mese fa, e lo sanno già tutti. Di me, invece, nessuno ha saputo nulla per un anno.

Mi alzo a fatica dal tavolino basso: non riuscirò a simulare a lungo. Accusando i crampi del ciclo (che comunque non inizia) pianto l’amico lì, insieme alla busta coi documenti che custodivo con tanta attenzione. Ma non mi guardo indietro, non voglio vedere gli ossi di oliva rosicchiati. Adesso voglio solo correre, e per la prima volta dopo tre giorni di trasloco non so dove andare. L’unico obiettivo è quello di ripescare il cellulare in borsa.

Bruno risponde quasi subito, sorpreso della chiamata. Per un lungo istante mi chiedo se non stia insieme a lei, poi penso che no, perché lui la voglia così tanto lei dev’essere assente, quasi sempre.

“Perché non sei ancora venuto a casa nuova?” riesco a domandargli.

“Stasera, dici? Avevo un ospite a cena: l’amico di un’amica che…”.

“Perché non sei venuto?”.

Silenzio. Lui assume un tono ambiguo, tra l’incoraggiante e il divertito:

“Se hai qualcosa da dirmi, dimmelo”.

Gli ripeto le parole che ho appena ascoltato. Il nuovo silenzio sembra durare un’eternità, ma so analizzare anche quello: Bruno è seccato.

“Chi te l’ha detto?”.

Non è sorpreso, imbarazzato, pentito. È proprio seccato. Quando gli nomino la fonte del pettegolezzo, prorompe in una serie di imprecazioni sulla gente che “non si fa i cazzi suoi”. E allora capisco che non siamo più soli. Come la Bella Stronza si intrometteva tra noi a sproposito, adesso c’è la Biondissima, con maiuscola: un’altra che non chiamerò mai per nome. Della mia rabbia Bruno non sa che farsene, preso com’è dalla sua indignazione.

Il tuo corpo capisce le cose… Okay, inutile ripetermi la tiritera della Petulante adesso che le gambe mi portano via senza più chiedermi il permesso, e Bruno si scalda: lui con “questa persona” non ci ha fatto proprio niente! Ci si è preso un caffè, che c’è di strano? Al massimo hanno passeggiato un po’…

Me lo immagino a contemplarla in silenzio, senza riuscire ad ascoltare ciò che sta dicendo. Ecco il sentimento che gli mancava, nobile e puro, così diverso dal bisogno immondo di sfogare i suoi umori nel primo corpo a portata di mano: il mio. Che sta avendo un suo collasso interno, senza per questo fermare la corsa.

La prima a crollare è la logica. Questa roba è così allucinante che non sta succedendo, non ho altra spiegazione. Poi arrivano le accuse a me stessa: se Bruno sta avendo questa reazione del cazzo, sto facendo qualcosa di sbagliato io.

“Perché non me l’hai detto, Bru’?”. Riesco persino ad assumere un tono disinvolto, da donna di mondo. “Pensi che mi importi? Tutto quello che voglio da te è lealtà”.

Come ho fatto a spuntare sulla Rambla? Non lo so. A un tratto capisco che sto andando verso il mare, ed è una buona notizia. Il mare ha un metodo tutto suo per calmarmi, o così mi viene da pensare mentre accelero il passo e recupero un po’ di voce.

“Guarda che io non sono il secondo piatto di nessuno”.

Lui sembra soppesare quell’espressione che il mio cervello ha appena tradotto dallo spagnolo, e che un altro italiano non avrebbe colto subito.

“Temevo potessi diventarlo” ammette in un tono che mi pare rassegnato. “Per questo ti ho scritto che non mi sentivo di essere altro che un amico. Non credere sia stato facile, c’era mezzo mondo a farmi pressione ed ero io a frenare, a dire che avevo una frequentazione fino a cinque minuti prima…”.

Frequentazione. Mesi di lavoro, pianti, insonnie, digiuni, cancellati in una parola. A quanto pare non è mai esistita la mia estate inappetente, non è mai iniziato questo autunno passato a sperare, e a correre. Era un’allucinazione anche la gatta che veniva a fregarmi il lettino da campo e a consolarmi, prima di volare giù senza che la lasciassi più entrare nelle mie notti insonni.

Solo che la gatta c’è rimasta secca e io sono ancora lì, in qualche parte del mio corpo che sta correndo dissociato dalla mia voce, dalle parole rassicuranti che racconto innanzitutto a me stessa, poi a Bruno: lealtà. Chiedevo solo lealtà.

La più grande illusione è stata quella di avere tutto sotto controllo.

Quando intravedo il porto, respiro. Partenope si è buttata in mare, io scivolerò contro un lampione a fissare le luci delle barche ormeggiate.

Mi accorgo solo adesso degli accenni di Bruno al suo ospite: il poverino deve restarsene in sala da pranzo, mentre il padrone di casa si sente molto magnanimo a parlare con me, invece di intrattenerlo. E forse non capisce neanche perché ho la voce rotta.

Mi rendo conto che ha ammesso la nostra “frequentazione” solo con quelli che tentavano di piazzarlo con la Biondissima, e solo mentre decideva di mollarmi.

“Possiamo parlarne dal vivo?” taglio corto.

Sembra contento della soluzione: così potrà pure tornare al suo ospite. All’improvviso ha il tempo per venire da me il pomeriggio seguente.

La prima cosa che faccio quando riattacca è chiamare la Petulante: scusa, non sei più stronza, mi riceveresti appena puoi? Forse non lo dico proprio così, ma qualcosa nella mia voce incrinata spinge la Petulante a riservarmi il primo buco che si ritrova in agenda, tra due giorni. Adesso ho un’idea a cui aggrapparmi in queste prime ore.

Intanto mi tocca contemplare quel mare troppo scuro, le acque increspate da un vento che non punge.  

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Luce

Adesso gli è tutto più facile.

Me lo spiega tranquillo, mentre chiacchieriamo tra le lenzuola sfatte. Una volta si rallegrava perché con me era riuscito ad abbassare gli standard. Adesso che quasi diventavo pelle e ossa, deve riconoscere che è più semplice andare con una ragazza che “gli piace pure”.

Mi si mozza il respiro, come ai vecchi tempi. Non commentare, mi ripeto. Lui dice tante boiate, ma poi finisce per fare la cosa giusta.

Me lo ripeto anche allo Spazio, mentre pianifichiamo la serata di beneficenza che sarà l’evento principale dell’autunno. A un certo punto, a Bruno viene chiesto in tono un po’ irridente se “in questo momento” lui stia con qualcuna, e lo sento esitare un istante solo prima di rispondere a bassa voce: “No”.

Sciocchezze, per una volta la situazione è sotto controllo! Sto meglio, sto comprando casa, è tornato Bruno. La Petulante non mi incanterà con le sue storie sull’ascolto del corpo, anche se ho questo formicolio alla pancia e il mio ciclo è bloccato. Finisce che ho un ritardo di due settimane, e so di non essere incinta: Bruno è ancora più maniacale di me nell’evitare rischi. Di certo sono i nervi per la casa, e per le scartoffie di un titoletto universitario che, nei miei piani, mi farà rientrare in sordina nel mondo accademico. Ho ingaggiato a mia insaputa un falso traduttore giurato, e quando ho scoperto l’inghippo ho dovuto far ricorso a un’agenzia online. È ufficiale, l’Europa unita è una baracconata anche per chi ha il passaporto giusto: omologare un titolo di studio è un’esperienza massacrante, e pure costosa.

Ma chi se ne frega di queste minuzie! Dopo la nuova frenesia che ci ha presi, Bruno “passa” meno spesso, ma a intervalli costanti. È una cosa buona, vero? Darsi una calmata, crearsi una routine. È quello che fanno le coppie normali, come… come noi. All’improvviso non sono più un’ospite occasionale a casa sua, e una mattina, in bagno, sto per recuperare lo spazzolino dalla tazza sbreccata che ne contiene vari, poi la mia mano si ferma. Se lo lascio lì è più comodo, no? Mi chiedo pure se dirglielo o no, poi mi rispondo che certe cose è meglio farle e basta, che a ragionarci su si fa peggio.

Anche il suo modo di parlarmi delle ragazze è cambiato: non si dilunga troppo negli apprezzamenti, oppure evita proprio. Ridiamo insieme del fatto che la passione ritrovata abbia, come risultato inedito, quello di farci aguzzare la vista: anche io noto di più i bei ragazzi in strada! Un pomeriggio lui mi spiega che in un bar vicino casa sua, che organizza spesso eventi e scambi linguistici, ha conosciuto una ragazza pallida e biondissima che vuole imparare l’italiano. Bruno mastica qualche parola nella lingua della ragazza, ma vorrebbe approfondire, così loro due si sono dati appuntamento nel bar al prossimo evento. La mia testa sul suo petto si irrigidisce, ma lui non se ne accorge. È soddisfatto dell’opportunità, e non ha fatto apprezzamenti sull’aspetto fisico della ragazza biondissima: quando mai me ne ha risparmiati, su una che gli piaceva? E poi, non ho più niente di cui preoccuparmi.

È domenica e il sole inonda il letto stropicciato. In quella luce perfetta lo scopro a osservarmi: le sue iridi hanno una sfumatura dolce che non gli ho mai visto.

“È un piacere guardarti” confessa.

E allora mi godo la luce sulla pelle umida, e gli occhi di Bruno. Mi nutrirei solo di quelli, di lui.

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La strada per tornare da me

Incredibile: non ha fame.

C’è qualcosa che sta divorando lui, da dentro. Per aiutare un amico in difficoltà ha perso molti soldi, e quando ci si mette è così generoso, ricordo assistendo alla sua angoscia. Non si riesce a perdonare per quella sua fiducia mal riposta, e all’inizio del suo sfogo avverto una sensazione all’addome, come se lui mi avesse conficcato tra le costole quel suo grande zaino che porta ovunque. Magari era questo l’effetto a cui puntava per me la Strategica: una repulsione immediata allo psicodramma a cui sto assistendo.

E invece ogni strategia svanisce quando Bruno inizia a piangere, e io concludo che soffriamo della stessa incapacità di trovare un posto nel mondo. Forse è questo a darci una fame perenne, anche se a volte ci sembra di no.

Ed è questo a buttarci l’una tra le braccia dell’altro, e anche stavolta lui è il mio male e il mio rimedio. Ma non finisce al solito modo. Il mattino dopo, prima di infilarsi gli auricolari, Bruno mi dà già un appuntamento per la prossima volta, di lì a due giorni. È cambiato qualcosa nel suo modo di guardarmi. Forse sono più sicura, diretta.

Di certo sono molto più magra di come mi ricordava.

Non voglio pensare che sia solo questo, o il fatto che gli serva un sostegno: voglio vivere questo nostro ritrovarci, che all’improvviso sembra reale. Voglio tornare in quel posto che conosciamo solo noi, e stavolta mi pare che anche lui sappia la strada.

Quando mi rivede, la Strategica rischia sul serio che le salti al collo per la gioia: il suo metodo funziona! L’ha fatto addirittura tornare da me, e stavolta non disdegna troppo l’idea di restare… L’altra mi guarda con l’espressione di una che abbia vinto la lotteria senza giocare. Ormai mi è chiaro che la sua strategia sopraffina era farmi affezionare allo status di single, finché non lo preferissi alle montagne russe con Bruno.

Ma è contenta anche così: a fine seduta intasca gli ottanta euro con più soddisfazione.

Stavolta ci rivedremo tra un mese, mi annuncia come se mi facesse un regalo. Non sono entusiasta: è tutto, no? Il trattamento è finito, ed è stato davvero breve e strategico come prometteva… Lei fa per dire qualcosa, poi sorride.

“Facciamo almeno un’altra seduta per monitorare”.

Vuole solo i miei soldi, provo a pensare, ma lei mi guarda in un modo così strano che non ci riesco.

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