Archivio degli articoli con tag: amore

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Lividi

Da behr.com

Mamma nota subito i lividi.

Neanche il tempo di disfare la valigia e già mi ha squadrato le braccia, incerta se fare una battuta o preoccuparsi sul serio.

Non le sto a spiegare che la morte della gatta mi ha fatto scattare qualcosa, che voglio cambiare tutto. Aspetto che lei e papà ripartano per agire.

I miei sono lividi cocciuti, persistenti sulla mia pellaccia di gommapiuma: forse sono gli stessi notati, quando erano ancora freschi, dall’agente immobiliare milanese che sta diventando mio amico. “Ma che, te menano?” ha sdrammatizzato lui, facendomi pentire di non aver indossato una giacchetta. No, non “me menano”, e sul momento neanche ci faccio caso, ma mi diverte il paradosso: chi mi lascia addosso i lividi fa finta che non sia successo niente, e quelli restano lì a dimostrare il contrario.

Ho contattato l’agente per “farmi un’idea” sulle case in vendita: nella quasi impossibilità di affittare un buco a nome mio, l’aspirazione balzana è quella di spuntare un mutuo, o almeno scoprire come si fa. I miei si sono offerti di farmi da garanti e, magari, versare la cifra iniziale. Chi non ricorre all’aiutino da casa, per potersi aggiudicare un appartamento a Barcellona? Perfino i miei amici medici devono farsi anticipare qualcosa…

“Portami una sola busta paga, e il mutuo è tuo”.

Questa è la promessa del direttore, quando i miei mi accompagnano in banca e proviamo a capirci qualcosa in quattro lingue diverse (napoletano incluso). Però il mio contratto di lavoro dev’essere a tempo indeterminato, avverte dispiaciuto questo cinquantenne gentile, che a giudicare dall’accento barcellonese sarà passato dalla casa dei suoi a quella ereditata dalla nonna.

Uscendo dalla banca, mia madre mi dice che basta così. Ho un vicino di casa che forza serrature e fa volare le gatte dai balconi, dunque devo andarmene da quel posto. Vorrà dire che troveremo una casa economica, e invece di lasciarmi i soldi in eredità i miei mi vedranno proprietaria, e al sicuro, adesso che possono ancora venire a farmi visita.

L’uomo col mastino ci fa trovare le scale addobbate dalle sue scritte minacciose, e dai bisogni del cane. Stavolta non ha lasciato ricordini nella cassetta della posta. L’amministratore si rifiuta di cambiare ancora la serratura del terrazzo condominiale, e la polizia ci ha fatto sapere che “basterà aspettare lo sfratto”, ormai è questione di tempo: il soggetto non se ne andrà per il pericolo che costituisce, ma perché non riesce più a pagare il suo antico affitto calmierato. Lo prenderanno per povertà.

Nel frattempo, liberarsi di lui è diventato un privilegio. L’amico agente scova una casa che i miei “capiscono” (quella che avrei voluto io era grande un terzo e costava uguale), e festeggiamo condividendo una birretta con gente dello Spazio, che si è data appuntamento in un pub del Born.

Bruno fa la sua apparizione in ritardo, schiacciato dallo zaino che si porta sempre dietro, e al momento di ordinare dichiara: “Per me niente”. “Lo vuoi con ghiaccio o senza?” scherza il cameriere, e Bruno non coglie, ma poi si avventa sulle mie patatine e su quelle extra che si premurano di offrire i miei.

All’uscita del pub si prende papà in un angolo e gli spiega le sue varie ipocondrie, e papà, che è medico, inizia a sbrogliargliele. Sembrano intendersela a meraviglia, e mamma è quasi divertita da quella consulenza medica che non finisce più.

“Tu avresti preferito studiare da infermiera” scherza, con una traccia di allarme nella voce.

Poi si rende conto che papà ha lasciato al tavolo la giacca e le chiavi, e senza una parola gliele va a recuperare.

A mercoledì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Requiem per una gatta

Mi avvertono solo al mattino.

Sto scendendo le scale in fretta perché ho rimediato una sostituzione: un amico che insegna italiano ha avuto un’emergenza in famiglia, e ha affidato a me l’ultima lezione del corso. Già pregusto il viaggio in treno come una pendolare qualsiasi, e la sala professori in cui mi saluteranno con cordialità: la nuova “collega”. Forse dovrei insegnare italiano a tempo pieno…

La mia allegria, però, si infrange due piani più sotto. Il piccolo tunisino non mi guarda più con la curiosità che riserva alla “donna sola” nell’attico. Si sente molto importante a darmi la notizia, e allo stesso tempo ha timore.

La gatta è precipitata dal terrazzo condominiale.

Il pensiero mi stordisce. La sera prima ho sentito dei rumori provenire proprio dal terrazzo: il mugolio di un cane, e una voce familiare che provava a rabbonirlo. Quella voce, una volta, era gentile anche con me. Il ragazzino non è soddisfatto dei dettagli che mi ha fornito, come se avesse fatto i compiti a metà: purtroppo, si giustifica, “il signore che comanda nel palazzo” ha cambiato ancora la serratura del terrazzo comune, il che impedisce a chiunque di accedere al “luogo del delitto”.

All’improvviso non voglio più prendere il treno. Inutile fingere che sia solo il dolore a paralizzarmi: comincio a temere sul serio per la mia incolumità.

I miei genitori mi telefonano al ritorno dalla lezione, che ho tenuto con finta allegria. Mamma simula la nonchalance di quando è preoccupata davvero: adesso che vengono a trovarmi, promette, cercheremo insieme una soluzione.

Quale? Le case a Barcellona vanno per “momenti storici”, e in questo qui è impossibile trovare un buco in affitto senza un contratto di lavoro, o senza una di quelle caparre impossibili che, con una scusa o l’altra, non vengono mai restituite per intero. Ho trentadue anni, cazzo. Possibile che per trovare casa abbia bisogno di mamma e papà?

Della coppia che teneva la gatta, trovo solo il ragazzo che lavora da casa: non ha dubbi su chi sia il responsabile. 

Quando gli hanno riportato la gatta in fin di vita, ha scavalcato in un istante il muricciolo che lo separava dal terrazzo condominiale. Sul parapetto, tra i cavi tagliati delle antenne, c’erano escrementi. Eppure la gatta aveva sempre usato la lettiera: perfino io le facevo trovare in terrazzo una scatola di scarpe con dentro dei sassolini. Se l’è fatta addosso mentre “qualcuno” la tratteneva per buttarla giù, afferma il ragazzo. È un tipo alto e robusto, e il suo fidanzato è molto simile a lui: possono permettersi di provare una rabbia perfetta. Io a quella devo aggiungere anche la paura.

Un giorno scoprirò che i gatti precipitano e basta, se non ci sono reti a proteggerli. In quel momento non ne so nulla, né saprò mai se la spedizione notturna dell’uomo col mastino fosse una coincidenza, proprio quella notte. Così decido di far installare un gancio alle ante del terrazzo: per un po’ ingannerà l’ansia. Avrò più tempo per correre fuori se sento un tremolio prolungato di vetri.

Invece non trovo niente per placare il rimorso.

L’ultima volta che la gatta era venuta da me, l’avevo cacciata via. Si era messa a miagolare sotto la mia finestra in una delle notti che passavo a piangere, da quando Bruno se n’era andato. “Lasciami in pace!” avevo urlato fin dai primi miagolii, ma lei non voleva saperne di star zitta, e neanche io. Avevamo ingaggiato una gara assurda a chi urlava di più, lei sotto la luna, io nel buio perfetto. Non avevo le forze di alzarmi e aprire la porta sul terrazzo: volevo solo cancellarmi dal mondo, quella maledetta gatta non aveva il diritto di rificcarmici dentro.

Adesso è lei che non c’è più.

A lunedì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Dove non muoiono le sirene

È il matrimonio a farmi decidere.

I futuri sposi con cui ero stata a cena dopo l’esposizione ci ospitano in costiera per le nozze, e con altri italiani a Barcellona volo fino a certe montagne a strapiombo sul mare, che fanno da sfondo al paese dello sposo.

Sono montagne del Sud Italia, brulle e perfette, fatte apposta per ridicolizzare il mio dolore che passerà, come tutte le cose umane.

Al banchetto nuziale, i piatti destinati a me fanno il giro dei tavoli. Li cedo a chiunque con la scusa della mia transizione a una dieta vegetale, ma nessuno si meraviglia troppo: è un’altra stranezza di noi “stranieri per caso”, approdati alla cerimonia con tenute improbabili e un italiano atroce. Se da fuori sembriamo un’armata Brancaleone, vestita per tutte le occasioni e per nessuna in particolare, al nostro interno le differenze geografiche si notano eccome.

Io e l’altro napoletano abbiamo insistito per offrire una “busta” consistente (che abbiamo finito per versare da soli, senza rivelarne l’importo generoso perché pareva brutto). Se ci svegliamo presto, scendiamo giù al villaggio a prendere i cornetti per gli altri, che magari preferivano solo il caffè. Io non è che mi svegli presto: in realtà non dormo affatto. Singhiozzando con la testa affondata nel cuscino, per non disturbare, riesco a chiudere gli occhi tra lo spuntare dell’alba e le sette in punto, quando suona la sveglia della mia compagna di stanza: dice che dal cellulare nuovo non sa spegnerla. E comunque lei continua a dormire come un sasso.

Al matrimonio, gli uomini del mio gruppo esibiscono cravatte sgargianti o camicie hippie, mentre noi donne sfoggiamo pagliaccetti fioriti, pantaloni lamé con lo spacco, e scarpe più o meno comode. Io sono in abitino lilla, e ho camuffato gli occhi gonfi in sfumature già minacciate dal caldo. Riuscirei quasi a mimetizzarmi con le invitate del posto, se non fosse per i capelli tagliati in una scalatura estrema, tipica di Barcellona, che addosso a me sembra un innesto malriuscito.

“Che problemi abbiamo?” mi viene da pensare a un certo punto. Non riusciamo ad appartenere a nessun posto, e ne facciamo un vanto. Le altre invitate si sono accentuate i ricci con la piastra, e i loro abiti da cerimonia occultano tacchi che toglieranno all’apertura delle danze, sostituendoli con le ballerine che nascondono sotto il tavolo.

Io non ballo, non mangio. A un certo punto mi apparto su uno scoglio, Partenope inappetente e sfatta dall’insonnia. Con gli occhi a quelle montagne logore riesco solo a piangere al cellulare con l’Amico, che non mi regge più.

“Veramente fai? Vai a goderti la festa!”.

Non ci riesco, spiego. E all’improvviso l’eco di quelle parole tra gli scogli mi paralizza. Ma è un momento: subito mi risollevo dalla mia posa di sirena spiaggiata, e mi rassetto il vestito.

Io che non riesco a fare una cosa? Inaudito, devo imparare!

Ecco che riappare l’urgenza di essere all’altezza, di coltivare un’immagine di me che non esiste ancora, ma deve esistere, o “è la fine”, anche se non so mai di cosa.

E invece è l’inizio. È marcio e sbagliato, ma è un inizio. Stasera mi va bene anche questo.

Finalmente mi giro verso quel Mediterraneo mite e aromatico, più familiare di quello che osservo dai moli odorosi di paella surgelata. Mi sono scelta una terra dove il basilico fatica ad attecchire, ma i mostri marini vivono felici, si innamorano e generano terre fertili. Forse le sirene muoiono solo in questo mare qui.

Dov’è che imparano a vivere, invece?

I festeggiamenti sono proseguiti senza di me. Su uno schermo allestito apposta per trasmettere video di amici lontani, un Bruno accaldato e quasi serio augura agli sposi di essere così felici da non crederci neanche loro.

Decido di rubargli quegli auguri, come se per una volta li avesse fatti a me.

A venerdì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Sparire

Un’alternativa in 3D a YouPorn.

Per coniare la definizione ci metto diverse notti appannate, sospese sull’amaca tra le stelle e la gatta. Forse per Bruno sono stata soltanto l’unico corpo a portata di mano: roba da poco, ma questo passava il convento. Con un involucro del genere, era inutile perdere tempo a scoprire il contenuto.  

E invece “il contenuto” è difficile da rassemblare: devo rimettermi insieme pezzo per pezzo, e ne perdo tanti mentre l’estate inizia piano. Il paradosso è che il mio corpo inizia a somigliare a quelli amati da Bruno almeno in questo: nell’ostinazione a occupare il minor spazio possibile.

Chi mi incrocia per strada dice: “Stai sparendo”. Quel pensiero mi piace, e ormai mi nutro soprattutto di pensieri. I miei amici del Sud usano la parola “sciupata”, che mi riporta a una prozia con la fame di guerra che mi tampinava alle feste di famiglia, per vedere se mangiavo abbastanza (e intanto si nascondeva un dolcetto nella manica).

Non voglio nutrire la mia carne profanata, oltraggiata dal suo donarsi a qualcuno che ha risposto soprattutto con indifferenza e paragoni continui (e che amo ancora, nonostante tutto questo). Fasciata in vestiti sempre più piccoli, presi d’occasione, sono una Partenope di seconda mano, senza acque oscure ad avvolgermi. Per quello ci sono le stelle e i lamenti della gatta, che ha sempre fame. Io invece ingurgito quello che posso quando mi sento troppo debole.

Di conseguenza, visito sempre meno il panettiere sotto casa: un diciottenne magrebino che mi corteggia per ammazzare le lunghe ore davanti al bancone. Un giorno, insieme al cartoccio con la baguette precotta mi offre ridendo la sua compagnia. Posso addirittura scegliere tra lui e il suo collega, un coetaneo molto meno audace che lo osserva perplesso. Magari li preferisco entrambi, insinua il dongiovanni in erba.

Gli rispondo con un sorriso di plastica. Il cartoccio caldo resterà intatto, e il pane si trasformerà in un blocco di pietra. Come il mio corpo.

L’Amico di sempre mi segue da lontano, incapace di offrirmi altro che le sue interpretazioni: Bruno si è scelto per sé un copione che sfuma del tutto, con una donna vicino. Assento, ma non ci casco: la spiegazione più semplice è che in quel momento della sua vita non aveva di meglio.

Ma non riesco a essere cinica fino in fondo. Quel posto che conoscevamo solo noi, fatto di litigi e risate, lenzuola spiegazzate e carezze al mattino, quel posto io l’ho visto. L’ho abitato. Se Bruno si racconta che non è mai esistito, non sono io a perderci.

Lo rivedo alle feste di un quartiere che io detesto e lui ama: ormai fa caldo, e sono strizzata in un vestito taglia S, che comincia pure ad andarmi un po’ largo. Lui è con gente che non frequenta lo Spazio da un po’. Mentre chiacchiero a mezza voce con gli altri mi sento i suoi occhi addosso, e mi viene quasi da ridere: è dall’inizio della serata che non smetto di confrontarmi alle passanti. Questa gli piacerebbe più di me, quest’altra no...

Di lì a qualche giorno “passa” da me per questioni relative allo Spazio: mancano pochi mesi all’evento di beneficenza che dovrei coordinare. A un certo punto il discorso tra noi si fa teso, scivoloso. Sul letto ci finiamo soprattutto a parlare, finché non riassumo la situazione.

“Il problema è che io ti amo, e tu invece…”.

Non gli ho mai detto “ti amo”. La frase lo colpisce come un’accusa, come una faccenda domestica che non ha sbrigato come si deve. Mi spiega che un amico che era con lui alla festa di quartiere ha capito cosa c’era stato tra noi due. L’ha capito dal nostro… linguaggio del corpo.

“L’unico che sappiamo parlare” sorrido. “Perché mi guardavi in quel modo?”.

Ci pensa un momento, poi confessa:

“Stavo cercando di capire se eri molto carina oppure no”.

Un altro esame. Non mi dice se l’ho passato, forse per farlo dovrei sparire sul serio.

Per quanto ci provi, però, proprio non riesco.

A mercoledì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

La gatta e la luna

Non ci riesce.

Per lasciarmi si ingarbuglia in un’ora inutile di discussioni, che ci vede finire sul letto solo per parlare.

Sono io a gettare la spugna.

“Vuoi chiuderla qui?”.

“Sì!” grida lui.

Lo grida come quella donnina in camicia da notte gridava di essere prigioniera, la sera che doveva sancire l’inizio del mio grande amore. Il mio soltanto, a quanto pare, perché per Bruno è durato una settimana scarsa: proprio non riusciva a sopportarmi un giorno di più.

Come una malata, mi sottraggo alla luce. All’inizio, a farmi uscire di casa ci sono gli impegni allo Spazio. Riesco perfino a collaborare con Bruno a una rassegna cinematografica, omaggio improvvisato a un regista italiano appena morto. La prospettiva di vederlo comunque riesce a calmarmi un po’ l’ansia, ma a rassegna finita mi sento riavvolgere dal buio. Fortuna che, con quello, torna la gatta.

Aveva iniziato a intrufolarsi in casa mia passando per il terrazzo condominiale, che ora l’uomo col mastino ha chiuso agli umani. Di solito lei si piazzava su un lettino che mantenevo nel ripostiglio, per poterci dormire se avevo ospiti. L’unica volta che si era acciambellata addosso a Bruno, lui l’aveva accarezzata con un certo imbarazzo, poi aveva dichiarato che puzzava. Mi aveva incuriosito la combinazione tra le sue carezze impacciate e gli improperi che le dirigeva.

Subito dopo la rottura, me la sono presa con la gatta e col suo sguardo curioso: come si permetteva di intrufolarsi nel mio dolore? Un giorno ho provato a farla scendere dal lettino, e le è bastato allungare un artiglio per regalarmi un fiorellino di sangue. Alla fine mi è sembrato che scappasse via per pietà, quasi intenerita dalla mia impotenza. Da allora, mentre affondavo la testa nel cuscino per smorzare le urla, sentivo le sue zampine pestare forte il terrazzo condominiale, riportandomi a un mondo di suoni. Quella presenza lì, potevo accettarla.

La gatta ritorna una notte che sto piangendo.

Sono distesa sull’amaca che mi sono fatta montare in terrazzo, e non so con chi parlo: ti manifesteresti un momento, chiedo al buio, o ti devi sempre far pregare per tutto?

È proprio a quel punto che sento un richiamo acuto: quasi un grido alla luna, che la gatta osserva dal davanzale di mattonelle. Poi c’è un tonfo di zampette, e uno strusciare ovattato che si interrompe solo quando sento un fagotto sotto la mia schiena, nel punto in cui la stoffa azzurra dell’amaca sfiora il suolo in pendenza. Da lì la mia ospite non può certo guardare la luna, ma la cosa non sembra importarle. È come se non avessimo mai litigato, come se in tutto questo tempo mi fosse rimasta accanto.

Decido che è un segno, perché mi serve crederlo. Ecco che mi sono ridotta ad aver bisogno di un segno. Ma ne ho abbastanza dei pasti che sto saltando, delle notti che passo sull’amaca a piangere e parlare in diretta con Dio.

La gatta sarà il mio nume tutelare, uno scudo felino contro il mio primo mito di fondazione: Partenope che non riesce a sedurre Ulisse, e per questo si lascia morire. Ho abbandonato quella storia sull’altra sponda del Mediterraneo, ma non è servito. Sei tua, mi dice il mito, finché non incroci il desiderio di un uomo. In quante ci abbiamo creduto, e per quanto tempo?

Eppure sulle spoglie di Partenope sorge una città.

A lunedì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Non convinco

Si addormenta dopo cena.

Dopo la sua breve performance da fidanzato si è incupito: è stanco, dice, il giorno dopo deve tornare a casa presto. Mi appare davanti un’immagine che mi perseguita da un po’: un gatto a cui provo invano ad abbassare la testa. La bestiola gira il collo, mi schiva la mano. Ogni volta l’immagine svanisce prima che io sappia se ci sono riuscita, se il gatto è domato.

Perché Bruno è rimasto a dormire, visto che deve fare una levataccia? Ma quando si alza è giorno fatto, e io sono al computer.

Mi è arrivata la risposta della casa editrice appena fondata, che mi aveva richiesto la scheda di un libro. La mia intermediaria è dispiaciuta: le editrici non sono convinte. Manca il confronto tra il libro che mi hanno incaricato di leggere (un romanzo di cinquecento pagine sui lupi mannari) e altri volumi del genere. Sono livida: per cinquanta euro a scheda volevano pure un trattato di letteratura comparata sulla licantropia?

Eravamo rimaste che mi pagavano, chiede l’intermediaria, o la prova era gratuita? Nel primo caso, mandassi pure il mio conto corrente.

Segnalo a Bruno di farsi il caffè, poi inizio a martellare la tastiera: quelle pezzenti delle “editrici” si tenessero pure i loro quattro soldi! Pretendevano di sfruttarmi a cinque euro l’ora e si chiedono pure se mi devono pagare… Sono già alla frutta prima ancora di iniziare, e in ogni caso si meritano la rovina.

Mentre serve il caffè nelle tazze, Bruno si unisce alla mia indignazione: le delusioni lavorative sono un argomento che riesce a unirci. Ma lui è svogliato nel consolarmi, e io sono furibonda. Non è solo per la mail, o per le ore perse a leggere un libro di cui non mi fregava niente. Lui siede davanti a me, finisce la colazione e poi annuncia: “Rimango un altro po’”. Come se il tempo che si è prefissato di dedicarmi non fosse ancora scaduto. Ma ha lo zaino già in grembo, gli auricolari pronti.

Esito a lungo. Se sto zitta andrò a cena da lui, conoscerò quell’amica che a quanto ne so è dalla mia parte. Dimostrerò a Bruno che è il caso di ammettermi ufficialmente nel suo mondo, visto che lo abito già da un pezzo.

Invece non riesco a tacere. Sento qualcosa bloccarmi il respiro, come il residuo vischioso di un raffreddore. Se non lo sputo via resterà lì anche dopo la benedetta cena con l’amica di Bruno. Resterà sempre, non potrò più respirare.

Punto gli occhi su di lui e sparo. Non sono arrabbiata solo per il lavoro perso: c’è qualcosa di strano nel modo in cui lui mi ha trattata l’altra notte, e mi sta trattando adesso. Sta recitando un copione che non sembra neanche aver letto. È evidente che non crede a una parola di ciò che dice.

Non dimenticherò mai lo sguardo che mi rivolge. I suoi occhi si spalancano un istante, poi si fanno tristi, rassegnati. L’ho colto sul fatto.

Per quanto si sforzi, in fondo di me non gliene frega niente.   

A venerdì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Totò ha gli occhi azzurri

Perché ti ostini a trattarmi come spazzatura?

Manca mezz’ora all’apertura dell’esposizione, e io me ne sto lì a scrivergli. Le dita mi scivolano da sole sulla tastiera del computer, di questo passo smetterò di contenermi. È quello che voglio? È quello che voglio. Esito solo un momento, poi lo scrivo.

Ha presente la sua ex, la Bella Stronza? Quella che era alta, portava la quarta “anche se non si vedeva”, e tutte le informazioni che Bruno mi ha dato mentre distesa accanto a lui c’ero io? Ebbene, la Bella Stronza è uguale a Totò, a parte gli occhi. Mi umilia il fatto che lui mi consideri appena passabile, dunque indegna delle sue attenzioni, e poi mi ponga come modello di estrema bellezza una che è Totò con gli occhi azzurri.

Scrivo proprio così. Fanculo ai miei anni di femminismo attivo, al master in Studi di Genere, al dottorato analogo che mi ha portato fino a Barcellona. Quando premo Invio, sono messa davanti al fatto compiuto: ho risposto alle bassezze di Bruno prendendomela con un’altra donna. Una che non conosco nemmeno, che non mi ha mai fatto niente.

Riesco solo a pensare: mai più, cazzo. Non devo farlo più. E devo anche smetterla di circondarmi di gente che tiri fuori il peggio di me.

Il fatto è che l’ho incrociata davvero, la Bella Stronza, mentre girovagava tra i baretti del Gotico insieme a certi amici suoi… E niente, mi sono messa a piangere con discrezione mentre andavo avanti per la mia strada: non avrei mai voluto essere lei. Eppure per mesi la mia identità è stata ridotta proprio al fatto di non esserlo.

Bruno si collega quasi subito: è vero che non sta facendo tutto come dovrebbe, ma io gli metto troppa fretta! Non ci credo, che mi parli di fretta dopo che ho passato sei mesi a fargli da donna invisibile. Poi capisco: per lui non sono mai stati “sei mesi”. Quello che vede è una serie di episodi in cui si trovava a “passare”, poi si infilava gli auricolari e annegava nella musica ogni traccia di me.

Però mi giura che la sera prima, mentre discuteva di luci con la coppia di Napoli, si chiedeva anche lui perché mi stesse ignorando. Era pure rimasto deluso, al ritrovarsi i due artisti alla porta senza me ad accompagnarli: si era chiesto sul serio dove mi fossi cacciata, pensando a me in virtù di quella assenza. Dunque è la mia presenza che proprio non tollera, parafraso. Il suo mea culpa si sta trasformando in autocommiserazione, ma all’ultimo momento lui devia verso il dettaglio che vorrei dimenticare: la mia definizione della Bella Stronza. Il paragone con Totò ha intrigato Bruno come qualcosa di assurdo da decifrare, e a me viene quasi da ridere: eccola che ritorna, la sua ex, che si vendica di quella mia critica stupida rubandomi la scena una volta di più.

“Raggiungimi più tardi all’esposizione” gli ordino, ma si ribella subito: si è già sbattuto abbastanza, ci arrangiassimo da soli! Sì, capisce che glielo chiedo per noi due, ma stasera non può farci niente. Stasera ha altro da fare.

Ho una foto della cena organizzata dopo l’esposizione.

Sono a un tavolo con due coppie: quella di Napoli che esponeva i quadri, e un’altra che mi ha appena consegnato l’invito per il suo matrimonio. Il pittore di Napoli ha appena fatto una gaffe, dando per scontato che avrei partecipato alle nozze con un compagno. “Invitalo pure” si è affrettato a concedere il futuro sposo. “Non sapevamo ci fosse un fortunato…”.

Per un lungo istante ho perso le parole. Al matrimonio ci sarei andata da sola, ho precisato poi, e intanto pensavo: cazzo, quelle lì sono coppie vere, mentre io sto con uno che si vergogna di me e si autocommisera per la sua vergogna, sentendosi un eroe per il solo fatto di “provarci” comunque.

Eppure nella foto sorrido. Sono di nuovo in tiro, ho un bel foulard. Sembro stonare nella mia eleganza inutile, contrapposta alla tenuta sfiziosa delle altre due commensali: nella nostra ultima, brevissima interazione allo Spazio, Bruno aveva già fatto apprezzamenti con me sulla pittrice napoletana.

Torno a casa stremata. Ho fatto il mio lavoro di coordinatrice: a quanto pare sono tutti contenti, e io non ho più energie. Anche Bruno ha fatto il suo lavoro: la serata di raccoglimento gli ha fatto recuperare la sua etica integerrima. Mi ha dato la sua parola che ci avremmo provato, e non la sta mantenendo. Però quando “passa” di nuovo gli do addosso in un modo che non si aspettava, e all’improvviso mi interrompe per chiedere a sproposito:

“Sabato verresti a cena da me? Ho un’ospite”.

Non è un’ospite: è l’amica per eccellenza, che non vive a Barcellona e, benché a distanza, gli fa da consigliera su tutto. Forse Bruno vuole sottopormi al suo autorevole giudizio, oppure quello è il suo modo di “costringersi” a fare cose da fidanzato, come invitarmi se ha ospiti in casa.

Nella mia mente già inizio a selezionare l’abito che indosserò. Devo essere perfetta. Perfetta.

Dopo l’invito a cena è più disposto a trattenersi, come se a quel punto non gli restasse altra scelta che prestarmi attenzione. Sta interpretando il copione di fidanzato, ce la sta mettendo tutta, e io gli faccio da spalla, incrociando le dita.

In quel momento non so che altro fare.

A mercoledì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Paesaggi

Adesso abbiamo un nome.

“Fidanzati” non lo dice mai, ma dice tutto il resto. Tutt’a un tratto aumenta il tempo che passiamo a parlare in terrazzo, godendoci la primavera tra le antenne del Raval. L’uomo col mastino spiasse pure: sono contenta lo stesso, avevo ragione ad aspettare. Bruno ce la sta mettendo tutta, prima aveva solo un po’ di paura.

Continua a farne una questione “etica”: ho ragione io, non va bene che si passi la notte insieme e al mattino ci si tratti da sconosciuti. È uno che prova sempre a fare la cosa giusta, non vuole sbagliare proprio con me.

Ora che l’amore sembra filare, mi apro al resto. Mi lascio invitare al bar dalla mia ex insegnante di scrittura creativa: forse c’è un lavoretto per me, in una casa editrice appena nata. Pagano una miseria, ma si tratta di leggere un libro in inglese e compilarci una scheda. Accetto senza pensarci, mentre il barista fa una battuta discreta sul colore dei miei occhi. La vita è bella.

Bruno mi incoraggia, anche lui è tornato a cercare lavoro. Ancora non usciamo “insieme”, intuisco che davanti agli altri gli ci vuole tempo, anche se insisto perché lui smetta di evitarmi, o trattarmi come un’amica quando va bene. E allora si impegna: quando partecipiamo a un evento in rappresentanza dello Spazio mi abbraccia una volta o due, mi resta vicino. È un inizio, mi dico. La prova del nove sarà allo Spazio, nel territorio che io gli avrei usurpato.

Presto inaugureremo una mostra di paesaggi.

La coppia che espone è di Napoli: con loro sono io a prendere accordi, mentre Bruno si incarica di appendere i dipinti alle pareti dello Spazio. Ho evitato di andare di persona a sovrintendere, a lui non piacerebbe. La profezia sulla mia inesperienza col “progetto” non si sta realizzando: il calo di entusiasmo si è verificato prima che subentrassi io, e a detta di tutti (escluso Bruno, che non si pronuncia), mi sto rivelando un buon acquisto.

Incontro la coppia di Napoli dopo la seduta dalla Petulante. Ho un tubino bordeaux con foulard abbinato, e una linea scura sugli occhi. Quando mi ha vista così in tiro, la Petulante mi ha assecondata con un sorriso di circostanza: aspetta, sembrava dirmi, e vedrai se conciarti così serve a qualcosa. La Petulante è una stronza.

Sotto al portone dello Spazio sono trattenuta da una telefonata, e segnalo alla coppia di salire: ad accoglierli ci penserà “il nostro incaricato”.

Quando Bruno apre la porta anche a me, l’istante di gioia che gli leggo negli occhi cede il posto a una specie di sorpresa. È come se non mi associasse a quel luogo, e al tempo che ha appena trascorso a lavorare lì dentro. Ancora una volta non sono che un’estranea, una che ha invaso il suo Spazio.

La coppia ha qualcosa da ridire sulla posizione delle luci, e lui assecondando le richieste diventa quasi professionale: è il padrone di casa, io sono un’intrusa. Mentre riposiziona i quadri devo osservarlo in disparte, come una potenziale acquirente che è arrivata troppo presto.

In fondo è un’opera d’arte anche il suo talento nell’ignorarmi.

Stavolta rimando le spiegazioni a un momento più tranquillo. Gli accenno soltanto, via messaggio, che dopo la mostra vorrei un chiarimento importante. Ma in fondo non sono preoccupata: è questione di tempo, benedetto tempo. Il mattino dopo, con la coppia di Napoli montiamo un video divertente sulla Rambla per promuovere l’esposizione, e finisco per cantare ‘Na sera ‘e maggio con un gruppo di argentini. Quando mi lascio trasportare, ricordo che c’è vita al di là di Bruno.

Solo a casa mi rendo conto del messaggio, ricevuto ore prima: non viene alla mostra. Gli dispiace informarmi adesso, ma non gli è riuscito di mandarlo più presto. Non accenna nemmeno al fatto che gli voglia parlare, che gli abbia detto che è urgente. Ha delle cose da fare, e gli sembra di essersi sbattuto fin troppo negli ultimi tempi.

Forse, se lo chiamassi un momento, sentirei in sottofondo il rumore della lavatrice.

A lunedì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Prigioniera

Cosa diavolo ho visto?

Sono a cento metri da casa di Bruno, dalla cena che a quanto pare ci consacrerà come coppia. Ma devo tornare sui miei passi: dietro a un portone con le inferriate moderniste, una donnina molto anziana, in camicia da notte, sta spingendo i vetri con tutte le sue forze. L’hanno chiusa dentro, mi grida, una donna malvagia l’ha ingannata. Che sia la vittima di un furto, ancora sotto shock? Provo a bussare ai citofoni, ma non risponde nessuno. Bruno accorre alla mia chiamata con una velocità che non mi aspettavo: mi avverte che quella è una casa di riposo.

Alle spalle dell’anziana si materializzano un uomo e una donna in camice verdolino. Questa fa sempre così, assicura l’uomo, è pazza. Non è vero, grida la diretta interessata, e pure io accenno a protestare, ma l’uomo non mi ascolta: sta per portarsi via quella donnina in camicia da notte, e l’unica cosa che posso fare è prometterle che verrò a visitarla. Il pensiero sembra tirarla un po’ su.

Arrivo a casa di Bruno che sono ancora senza parole. Lui inizia a raccontarmi di una nonna lontana che conosce solo il dialetto, e in nessun momento accenna a noi due, alla storia che inizia una volta per tutte. Col mio strano ultimatum gli ho dato un’occasione d’oro: riconoscere che stiamo insieme senza mai ammetterlo ad alta voce. Bastava l’invito a cena. In fondo lui ama cucinare.

Non mi arrendo: sul suo letto a una piazza provo a scucirgli le parole, come se fossero una formula magica che spazzi via l’ansia. Allora, stiamo insieme o no? Lo vedo soppesare la domanda.

“Se no, non ti invitavo” risponde.

È comunque una festa.

Il mio corpo esulta di una gioia perfetta, e mi risveglio pure con meno lividi del solito. Rivestendomi ricordo il testo di una canzonetta Brit pop, dei tempi del mio Erasmus: questa potrebbe essere la fine di tutto, quindi perché non ce ne andiamo in un posto che conosciamo solo noi?

Che sciocchezza, questo per noi è l’inizio! E poi Bruno troverebbe quel pezzo troppo commerciale.

Tornando a casa passo davanti alla mia chiesa preferita, Sant Pau del Camp: ho una voglia improvvisa di dire grazie a qualcuno. Ma vengo fermata all’ingresso: una donna seduta a un tavolo disseminato di santini mi fa capire che, se non sgancio un obolo, la mia presenza lì non è gradita.

Allora saluto senza rimpianti la navata avvolta in penombra. Dietro la chiesa ci sono due file troppo ordinate di alberi immersi nel sole, piantati apposta per fare ombra a qualche auto, ma all’improvviso quel boschetto improvvisato mi sembra più sacro della navata buia, dei santini in vendita.

Osservando il sole tra le foglie penso: se ci sei, grazie. Fa’ che stavolta vada bene.

Ma l’immagine della donnina che scuote il portone non mi abbandona più.

A venerdì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Ultimatum

Non conosco più le regole.

Lui “passa” da me, si emoziona, mi emoziona. Ci sono le risate e il cibo condiviso, la passione e il sonno. Poi capisco dal suo silenzio che sta per andare. Prima di uscire si infila gli auricolari, e io divento rumore di fondo. Lo dice anche lui: finché sta con me, sta bene. Poi scivolo via dalla sua giornata, e non sa come impedirlo.

Una sola volta non mi ha resistito: eravamo allo Spazio, io esibivo un taglio nuovo e indossavo un vestito di marca, appena comprato in offerta. Lui aveva avuto una brutta giornata, di quelle che ti fanno credere di essere fuori dal mondo. Voleva sentirsi normale. Continuava a dirmi che ero proprio carina, quella sera. Mi ha abbracciata tra i sacchi della spazzatura che ci eravamo offerti entrambi di buttare, andando via insieme. Non l’avevo mai visto così, non in strada, davanti ai passanti. Mentre mi rannicchiavo tra le lenzuola e la sua pelle odorosa di cibo, l’ho scoperto a fissarmi con un sorriso benevolo: ero così “brava”, mi ha detto, che avrebbe voluto che tutti gli altri mi provassero. Anche stavolta non si è spiegato le mie lacrime improvvise, e si è affrettato ad abbracciarmi: il suo voleva essere un complimento, autentico. Gli dispiaceva che l’avessi presa così, quando ero con lui dovevo sentirmi sempre a mio agio.

C’è un rituale che ormai accompagna le nostre rotture: prima di infilarsi gli auricolari mi dà tre baci, i primi due sulle guance e l’ultimo, più lento, sulla fronte. Lui si sente molto nobile nell’addio: sta facendo la cosa giusta, si ripete, a costo di non battere chiodo per chissà quanto. Poi torna a “passare”, e io non lo mando via. Non lo so fare più.

Gli sembra normale questa roba?

Questo gli scrivo, dopo che mi ha piantato di notte sulla Rambla per preparare una salsa piccante. Quello che non gli scrivo è che ho cominciato anch’io a paragonarmi alle altre. Per strada, nei negozi, le osservo una a una e mi dico: “Questa gli piacerebbe più di me, questa no”. È un vizio che non mi abbandonerà mai per davvero, che tornerà nei periodi più agitati. Per sentirmi più sicura mi “faccio bella” con due soldi, vado spesso da Kiko e nelle catene di parrucchieri a buon mercato (una volta gli è piaciuto il mio ritorno al biondo scuro, quasi castano). Cerco vestiti di seconda mano che mi evidenzino i “punti forti”, e facciano sparire il resto. Mi ripeto che lo faccio per me.

I complimenti altrui non mi saziano. L’unica a rimanere perplessa dal mio cambiamento è la Divina: quella troppo bella perché Bruno la aggiungesse a Facebook in contemporanea con me. A una serata di danze brasiliane mi squadra i capelli dalla tinta giallastra, sbagliata da una parrucchiera inesperta. Non mi dice niente, ma mi arrabbio lo stesso: non siamo mica tutte bellissime al naturale, come lei! Sulla Rambla i turisti ubriachi mi chiamano Shakira o Lady Gaga, a seconda di come mi sia pettinata, e quasi mi diverte l’idea di rievocare donne così diverse.

Ma di questo a Bruno non scrivo nulla.

La sua riposta al mio sfogo arriva la sera successiva: non riesce a vederci come coppia, sta provando a capire perché. C’è ancora la nobiltà di quando parla di chiudere, privandosi dell’unica “occasione” sicura, ma la chiosa è ambigua, come se lasciasse a me l’onere dell’ultima parola.

Lo contatto all’istante: e quindi? Non ho capito, che vuole fare? Va fuori dai gangheri. Sapeva che gli avrei scritto proprio in quel momento! Sta per uscire ed è già in ritardo, lui che mi fa aspettare anche due ore quando l’appuntamento ce l’ha con me. E poi non può spiegarsi meglio, va bene? Non sa come farlo. Capisco che si sente molto generoso, a parlarmi ora che dovrebbe solo scappare. È tutto preso da quell’impegno più urgente di me.

Ripenso alla storiella della rana nella pentola: se questo schifo fosse successo solo un mese prima, gli avrei riso in faccia e l’avrei cancellato dalla mia vita. Ora non ci riesco. Con Bruno non è mai tutto orribile, né tutto fantastico: c’è sempre la giusta miscela che lo fa tornare, che mi fa aprire la porta da cui lui uscirà con gli auricolari a palla, riducendomi a un rumore di fondo.

Chissà se mi fa una colpa anche di questo, della mia incapacità di bastargli.

Io invece sono nelle sabbie mobili. Non voglio credere di aver perso tutto questo tempo, e allora aspetto, e ne perdo ancora di più.

Ma ora so cosa succederà. Bruno tornerà presto a “passare”, e una sera saremo allo Spazio, e i Morti di Figo lo stuzzicheranno con domandine su questa o quella ragazza. Lui darà il suo “parere tecnico” proprio davanti a me, a quella che avrà finto di incontrare giusto sotto il portone, un’ora dopo averle lasciato dei lividi addosso.

Allora qualcosa in me si incepperà.

Quando succede tutto questo, è l’ultima volta che fuggo. Per arrivare a casa imbocco scorciatoie, evito i passanti sulla Rambla senza esimermi dal dare giudizi: questa gli piacerebbe, quella no. 

Una volta a casa, il messaggio che mando a Bruno è un ultimatum.

Lo rivedrò solo se stiamo insieme, davvero. Se accetta mi invitasse a cena da lui, per una volta. Altrimenti gli basta non rispondere, e sparirò dalla circolazione. 

Quando mi arriva il suo messaggio è tardi, e io vorrei solo dormire. Mi devo calmare un bel po’, prima di leggere.

A mercoledì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Progetta un sito come questo con WordPress.com
Comincia ora