Archivio degli articoli con tag: cuore infranto

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Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Da healthshots.com

Prima del silenzio

“Uno fa degli errori, ma poi si può anche correggere”.

Lo dice con un mezzo sorriso, ma ha gli occhi bassi. Lo dice perché mentre tirava un predicozzo dei suoi contro l’amore mordi e fuggi, e i corpi usati come passatempo, ho piantato i miei stivali sulla sedia (indosso di nuovo i jeans) e ho mormorato: “Come sei nobile”.

È l’unico momento di imbarazzo tra me e Bruno, alla festa di arrivederci a Già: il mio ragazzo starà via diversi mesi, per le ricerche relative al dottorato che sta finendo. Dopo, però, verrà a vivere con me, o magari ci troveremo un posto meno gelido e più grande, senza lutti a impregnarne le pareti.

A Già ho mostrato i quadri, i divani in penombra e i gatti stesi sui davanzali dipinti a olio. Gli ho detto che adesso ho fame di quelli, della serenità che mi trasmettono. Gli ho detto anche di Bruno, e del fatto che non so se mi riprenderò. Ma ce la metterò tutta, nell’ultimo anno non ho fatto altro che provarci. Anche questo mi sembra un tradimento, il più strano di tutti: cedo a Bruno la dignità di amante abbandonato, la palma di martire truffato dalla vita.

“Uno fa degli errori, ma poi si può anche correggere” mormora Bruno senza alzare gli occhi.

Siamo diventati l’uno l’errore dell’altra.

Alla fine un po’ ci riesco, a cambiargli la vita. Lo faccio quando ho smesso di provarci, e convivo con Già in una bella casa che, rispetto all’attico gelido, era giusto dietro l’angolo, come tante cose che cercavo invano. Dopo tutti i miei sforzi inutili, per cambiare la vita di Bruno mi basta girargli un’offerta di lavoro, che avevo rifiutato perché ormai ero insegnante. Stavolta quello di segnalargli offerte era un favore che aveva chiesto lui, una cosa che voleva, e a me ritornano in mente le parole che avevo sibilato a mio padre prima di quella assurda risonanza elettromagnetica: possiamo aiutare solo chi lo desidera.

A me ci pensa Già, che mi adora. E comunque non ha bisogno di farlo, per trattarmi bene. Nei mesi trascorsi lontano da Barcellona ha ascoltato spesso una canzone dei 24 Grana, gli stessi che cantavano “Uccidimi”. Questa di Già però era una canzone buffa, quasi allegra: da che neanche mi piaceva, è diventata pure mia. 

A un certo punto mi giunge voce che per Bruno c’è stata un’altra ragazza, dopo la Biondissima. Ma è finita presto, e con gran sorpresa dell’amico dello “scoop” (sempre lo stesso!) completo io il racconto: Bruno trovava che le mancasse qualcosa, e in ogni caso non poteva vederla spesso perché “aveva da fare”.

Ormai ho imparato che è inutile prenderla sul personale, chi ci ferisce non lo fa solo con noi. Non siamo “speciali” neanche in quello, ed è meglio così.

Questa storia finisce quando ritorno a sorpresa allo Spazio. Ho rinunciato da tempo a quell’incarico di rappresentanza e temo di non conoscere più nessuno, così ho chiesto a Già di accompagnarmi al concerto programmato per la serata. Con lui mi sono assegnata un progetto speciale: creare un rapporto così bello che, anche se finisse in malo modo (come succederà), vorremmo continuare a esserci nelle rispettive vite (come succederà).  

Tenendoci la mano salutiamo Bruno, intrappolato in una conversazione con una sconosciuta che gli piace, ma che trova noiosa. Mi accorgo all’istante di entrambe le cose, e mi ritrovo a lanciargli un’occhiata ironica, di quelle che ti aspetteresti dalla fidanzata di un amico. Mo’ ti arrangi, testone.

Bruno si svincola solo quando inizia il concerto del suo amico cantautore, lo stesso che era in visita la prima volta che lui mi ha spiegato che non ero niente di che. Un giorno scoprirò che dopo il concerto il cantautore, ignaro del fatto che nessuno sapesse, aveva detto di me: “È l’unica con cui ho visto Bruno star bene. Solo che con lei non ci voleva stare”.

Intanto, però, l’artista chiama Bruno dall’angolo che fa da palco: loro due, annuncia al pubblico, hanno scritto qualcosa insieme.

L’interpellato rifiuta di accostarsi al microfono, ma dall’angolino in cui me ne resto con Già lo vedo incurvare la schiena e capisco, mentre la canzone comincia.

Prima che inizi il silenzio, ho una cosa da chiederti.

La canzone parla di Bruno, e anche di me. Parla del suo dolore per la Biondissima, e del mio per lui. Non può farci niente, in quella canzone ci sono anch’io. C’è la sequenza del lutto che abbiamo provato entrambi in stanze separate, ugualmente buie e lontane: abbandono, incredulità, e una solitudine che verso la terza strofa diventa la tentazione oscena di andare avanti.

Prima che inizi il silenzio, tu vattene via.

Ogni nota mi risuona nel ventre che si contrae un momento, poi si distende insieme a me che già canto.

È qui che finisce la storia. Finisce col dolore di Bruno che è anche il mio, e finisce con la speranza che, per una volta, pure ci unisce. Ormai so che la nostra canzone non esiste, ma non importa.

Finalmente ho trovato una canzone per noi.

Grazie per aver letto Fame!

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Ricambio

Nella stanza mi assale l’aria.

Mi arroventa la pelle con un odore dolciastro, e la sua immobilità mi colpisce più della stanza stessa: è rimasta uguale a quando ci dormivo e venivo svegliata dalle auto che correvano in strada. Bruno non mi ha aperto la porta coi libri già in mano, come avevo sperato, poi si è sorpreso di vedermi nei jeans che all’improvviso preferisco ai soliti abitini. Adesso si stende sul letto, gettandosi addosso la coperta che doveva avvolgerlo un istante prima. Dà per scontato che siederò alla scrivania, di fronte a lui, ma non mi osserva per sincerarsene. Con lo sguardo fisso davanti a sé, come quando mi stava mollando, mi parla di una malattia che di solito è innocua, ma che a sentirlo quasi lo ammazzava.

La vera malattia è un’assenza che io non posso colmare. Posso solo agguantare i libri e trovare una scusa per filarmela, ora che sul serio mi viene l’affanno. Almeno non ho bisogno di chiedergli dove sia il bagno. Mi fa sorridere la tazza sbreccata, orfana del mio spazzolino. Poi poso gli occhi sullo specchio e soffoco un grido.

Ho delle macchie rosse sul petto. Anche il collo è picchiettato da puntini dello stesso colore. Che sia una risposta cutanea alla mia agitazione? Ma no, mi succede anche quando faccio docce troppo calde… In ogni caso, pochi minuti in quella stanza mi hanno lasciato quei segni addosso.

Tornando in camera non resisto: mi offro di aprire la finestra. Bruno non risponde subito, l’idea sembra spaventarlo un po’. Ma non si oppone, abituato com’era a me che provavo a fargli del bene. A volte ci riuscivo pure. Mentre recupero la borsa, un fruscio smorzato mi ricorda l’altra missione da compiere.

“Biancheria!” grido come un’imbonitrice, mentre la bustina cade sul letto. “Tienili pure, che non sono della mia misura…”.

Lui osserva i boxer puliti che aveva lasciato a casa mia una delle ultime volte. Non sono stata in grado di buttarli, né di restituirglieli prima di adesso. Non cambia espressione, sembra riflettere.

“Meno male” sentenzia infine. “Un ricambio mi serviva proprio”.

Adesso ho abitato il suo dolore.

Me lo sono visto addosso, e mi sono accorta che ne conoscevo ogni tratto. Tutto ciò che posso fare è lavorare il mio, di dolore: trasformarlo in noia, nell’esercizio quotidiano che ci vuole a star bene. È una routine impeccabile, interrotta solo dai nostri incontri sporadici. Tutti ridicoli.

“Dobbiamo trovare una fidanzata al nostro Bruno!” ammicca una ragazza alla festa di tesseramento dello Spazio. Lo dice come se progettasse una spedizione in Antartide. Mi limito a un sorriso e a un’alzata di spalle: in quel caso perfino lui, a evento finito, mi manda un messaggio per dirmi che gli dispiace per “l’incidente”.

Ma sono esposta di continuo a situazioni del genere. Una settimana prima, dei Morti di Figo mi avevano proposto davanti a tutti, a mo’ di sfida, di “sedurre Bruno”, che aveva gli occhi altrove. Io avevo scherzato: “Ah, no, Bru’, lo sai che con me non hai nessuna speranza!”. Non avevano riso, ero passata per una che se la tirava.

Un’altra sera lui è molto loquace, mi afferra le spalle come se ci si volesse appoggiare, e io mi irrigidisco a quel tocco ormai estraneo. Poi mi scopro a osservarmi le braccia come se quel gesto, da solo, potesse lasciarmi addosso dei lividi.

Un istante dopo, dalla piazza su cui affaccia lo Spazio ci giungono accordi che riconosco subito, e Bruno deve interrompere il suo sproloquio per osservarmi. Scusa, faccio, questa canzone mi mette un po’ d’ansia. Lui sorride all’idea: perché Mr. Brightside dovrebbe mettermi ansia? Non rispondo. In testa mi risuona il rullare monotono della cyclette, lo strusciare delle mie gambe magre, la battuta d’arresto delle ruote mentre visualizzo lui a letto con la Biondissima, a schermi unificati.

Prima o poi parleremo sul serio, ora lo so.

Il momento arriva quando meno me lo aspetto, a una serata in cui siamo complici almeno nella determinazione a sentirci esclusi. La padrona di casa se ne accorge, e ruba tempo ai suoi ospiti fighetti per parlare con noi due: forse ci tiene entrambi nel suo elenco di persone strane, e ci intrattiene come i bimbi che siamo (o eravamo), fino alla fine della festa.

La questione viene fuori all’improvviso, mentre sotto i lampioni di Gràcia dividiamo la strada per la metro. C’è subito accordo su una cosa: lui non vuole parlare della Biondissima, e io approvo in pieno la sua risoluzione.

Riusciamo lo stesso a fare le quattro, davanti alla metro ormai chiusa. A un certo punto lui alza la voce:

Dopo non sono mica tornato da te con la coda tra le gambe!”.

Lo rivendica come se quella fosse una gran prova di rigore morale. Io non gli dico che mi sono scoperta a scrutare le invitate anche alla festa di quella sera: di sicuro gliene piacevano almeno un paio, se soprassedeva sulla scarsa altezza di una. Non gli parlo dei digiuni, né dell’istante sul balcone. Inizio a indottrinarlo sulla vulgata junghiana, come farei con le “seguaci” del mio blog.

Non fare come me, gli dico, non restare con la fame. Prima o poi, la parte di te che stai ignorando si libererà dall’angolo in cui l’hai rinchiusa, e ti trascinerà nella prima esperienza insalubre che le dia l’illusione di saziarsi. Tanto vale che la nutri tu, concludo. È l’unico modo per non esserne schiavi.  

La parte più convincente della predica è quella in cui scoppio a piangere.

Un istante dopo, mi ritrovo premuta contro i bottoni della sua giacca. È un abbraccio diverso da tutti quelli che mi ha dato. È l’abbraccio di due che hanno sofferto insieme senza accorgersene.

Quest’abbraccio qui non lascia lividi.

A mercoledì per il seguito!

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I will survive

Va a finire che rimando sempre.

Non vado mai da Bruno a prendere i libri per l’esame di omologazione: ogni giorno sfido me stessa a non contattarlo, e comunque sono troppo occupata a litigare con la coordinatrice del corsetto online, che avrei dovuto iniziare quando era cominciata la crisi. A quanto pare sarei stata offensiva nei toni con cui ho criticato una delle letture obbligatorie: l’accusa non mi è arrivata in privato, ma è stata postata nel forum virtuale condiviso con gli altri alunni. La coordinatrice è una dottoranda senza titoli per insegnare. La sua professoressa, una figura carismatica nel mondo delle lettere catalane, finirà nei guai per il suo ruolo nell’organizzazione del referendum indipendentista. Intanto dalla segreteria mi fanno sapere che non riavrò neanche un centesimo, se mi ritiro ora che il corso volge al termine.

Anche l’estate sta per finire. L’Amico per eccellenza mi ha raggiunta a Barcellona, ma invece di cercare lavoro come si proponeva se ne sta perlopiù tappato in camera, spaventato all’idea di parlare male lo spagnolo. Ogni tanto perdo le staffe anche con lui.

La parte più odiosa di quando provi a cambiare vita è scoprire che questo non cancella le vite precedenti, e soprattutto le loro conseguenze, che ti accolli come se fossero minori a carico. Resta una punta di rancore verso questa te che prima te le ha affibbiate, poi si dilegua a poco a poco. D’altronde, neanche lei sparirà dalla sera alla mattina.

A un certo punto mi scrive la Divina, quella troppo bella perché Bruno la aggiungesse subito a Facebook: mi racconta di essere venuta alla festa del Poble-sec, il mio nuovo quartiere, e che tra le persone che la accompagnavano c’era Bruno. Peccato non esserci viste, credeva che lui mi avesse avvisata! Forse è stato dopo quel messaggio che ho inviato la critica “offensiva” al corso virtuale.

Ne sa qualcosa anche l’Amico, specie quando lo lascio tre minuti a governare una pasta risottata che mi sto sudando da mezz’ora, e lui la fa scuocere. Mi trattiene a stento dall’afferrare la borsa e piombare fuori, in cerca di una pizzeria da asporto. Io quella roba non la voglio, dichiaro: d’ora in avanti non manderò giù mai niente che non mi piaccia sul serio! Poi finisco per decidere che la pasta non è poi così scotta.

La rabbia è buona, mi ripeto, basta saperla usare. E poi se ce l’ho è perché non ci sto: non trovo più normali delle situazioni che, prima, mi lasciavo scorrere addosso.

Così cerco attività che mi facciano bene. Nelle pause studio sto passeggiando molto per i parchi, e prendo lezioni di lingue negli istituti comunali: in metro, mentre scappo al corso di francese, vedo dei ragazzi francesi andare in spiaggia e penso che vorrei essere loro, conoscere già la loro lingua per saltare il corso, andare a farmi un bagno… Ma non so più affidarmi alla gioia, ai piccoli piaceri imprevisti: mi fa paura l’idea che non dureranno, che all’improvviso mi si ritorceranno contro. Così risolvo prima le incombenze noiose.

La Casa degli spiriti è stata affittata con un contratto regolare, e con un forte sconto perché l’inquilino soprassedesse sulle condizioni disastrate. Non sento troppo l’esigenza di uscire, dunque rientro sempre nelle spese, anche se non arrivo a risparmiare niente. Sono così pallida che sembro anemica, studio tutto il giorno e rimando sempre il momento di sentire Bruno: i pochi contatti con lui non sono stati incoraggianti.

L’ho visto allo Spazio, a una proiezione di inizio estate: il Figo, che ormai spadroneggiava senza me a fargli concorrenza, ha buttato tutto in caciara, con tanto di DJ set finale. Io mi sono ritrovata accanto alla borsa un bigliettino anonimo, che si è rivelato un invito a ballare, e per scoprirne l’autore è partita una caccia all’uomo che ha finito per divertirmi. Bruno non partecipava: attendeva sul ciglio della pista improvvisata che finisse l’ennesimo tripudio swing, messo su a beneficio degli invitati catalani. Quando è scattata l’immancabile I will survive mi sono unita alle danze, iniziando a cantare a pieni polmoni. Ci ho messo un po’ ad accorgermi che non ero l’unica: alle mie spalle, con voce più potente della mia, Bruno masticava le parole di Gloria Gaynor con una furia che non gli conoscevo. Anche in una festicciola scema, l’unica cosa che ci univa era il dolore.

Allora ho abbandonato la pista, e mi sono accorta della coppia.

Si sarebbero sposati di lì a poco, per questo lui non frequentava lo Spazio come prima: lei lo aveva coinvolto nei corsi di danza così in voga tra le ragazze barcellonesi, e lui dichiarava ridendo che, se non ci andava, poteva dire addio alle nozze. Ma ora eccoli che danzavano insieme, trasformando I will survive in una canzone swing. La musica che ballavano, la sentivano solo loro.

Tornando a casa non ho fatto girare subito la chiave nel portone: mi sono allungata sul vicino Passeig de l’Exposició, tra gli alberi che ondeggiavano e le ultime cicale. La voglio anch’io quella danza, mi sono detta, Bruno e io siamo buoni solo a gridare schiena contro schiena, giurando a noi stessi che sopravviveremo.

Solo allora ho ripensato sul serio alla donnina in camicia da notte, che urlava al di là del cancello. L’avevo sorpresa a tentare la fuga dall’ospizio il giorno in cui la storia con Bruno doveva iniziare davvero. Avevo promesso di farle visita.

Quando trovo il numero della casa di riposo, non mi risponde nessuno.

Ci penso un intero pomeriggio prima di scrivere a Bruno: magari può bussare lui un attimo? È ridicolo estendere al di là di ogni logica la mia lotta quotidiana per non scrivergli! Un messaggino veloce mi risparmierebbe il viaggio fino alla strada di casa sua, e pure l’ansia nell’intraprenderlo dopo tanto tempo (ma questo non glielo dico). Lui risponde quasi subito, gentilissimo, e si impegna ad aiutarmi: mi assicura che non gli costa niente.

Quando svanisce nel nulla lo sollecito solo una volta, poi aspetto altri giorni. Infine scovo un numero alternativo, poi un altro, finché la figlia della donnina in camicia da notte non mi informa personalmente, e con molta diffidenza, che a giorni trasferirà la madre in un istituto migliore, appena fuori città. Meglio non destabilizzarla con la visita di una sconosciuta.

Riattacco avvilita da quella mia promessa non mantenuta, e al rimorso si unisce una rabbia improvvisa verso Bruno: perché impegnarsi ad aiutarmi, per poi farmi perdere altro tempo? Alle mie accuse in chat, lui reagisce attaccando.

“La tua era una scusa” sostiene con una sicurezza che mi manda in bestia. “Cercavi solo un pretesto per parlare con me. Lo so perché sto passando anche io per un’esperienza simile”.

Non trovo la forza per rispondere. Dopo settimane trascorse ad annegare nei libri, e a passeggiare con l’Amico, e a lottare con l’ansia pur di non chiamare lui, per una volta che faccio uno strappo alla regola e chiedo un favore (entrambe operazioni che mi costano tantissimo), scopro che non ho neanche diritto a un dolore che sia mio! Ma già, l’unico a soffrire al mondo è lui, per una che ci ha messo trenta secondi a lasciarlo perdere… Ah, beata lei! Stavolta la rabbia ci mette un po’ a trasformarsi in singhiozzi.

L’Amico si rassegna a entrare in camera senza bussare, sapendo di trovarmi rannicchiata sul tatami che già marcisce per l’umidità. Mi accarezza la fronte come se fossi una bambina malata.

“Perché ti accanisci, cazzo?”.

Non so spiegarglielo: forse voglio una prova che con Bruno non sia stato tutto vano, uno schifo che mi abbia sottratto solo tempo e salute mentale.

Ma queste prove si trovano solo in fondo a certe sabbie mobili: ti danno l’illusione di potertici aggrappare, e invece ti rendono così pesante che cadi ancora più giù.

Adesso so che facevo bene a evitare contatti, che voglio restare nel mio mondo sicuro, coi parchi vicini e l’Amico che si occupa di me.

Quando mi sarò rimessa un altro po’, andrò a prendermi i maledetti libri.

A lunedì per il seguito!

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Il Mondo

L’amico scuote l’aureola.

“No!” grido.

L’ho stupito: osserva meglio la madonna di legno che sta torturando.

“Vuoi dire che questo cerchio non serve ad appendere la statuetta?”.

Sorrido. Ormai dovrei sapere che ciò che è sacro per qualcuno è ridicolo per qualcun altro. L’amico è un ex vicino del Raval, ha partecipato anche lui alla mia mudanza col carrello da spesa che ha parcheggiato nell’androne: gli cedo gratis le madonnine kitsch e i quadretti che tre mesi prima, al mio compleanno, mi avevano raccomandato di provare a vendere. Ma io voglio sgomberare la casa prima possibile.

“E questa cos’è?” interroga l’amico.

Non vedo subito l’oggetto che mi ha indicato: sto controllando di nuovo il cellulare. Un tempo aspettavo i messaggi di Bruno, adesso a farsi desiderare è il proprietario dell’attico gelido, che a quanto pare è ancora in affitto. Ma sono tenace: ho trascorso il pomeriggio di Pasqua nei pressi del palazzo dove si trova l’attico, in un parchetto del Poble-sec dalle pergole ricoperte di glicini. A vivere da quelle parti, mi rimetterei più in fretta. Ho ripensato a mia nonna, che si rammaricava da Skype perché non ero da lei per Pasqua, ma uscendo dal parco ho sorpassato palazzetti bassi dai colori pastello, e gli edifici moderni del Passeig de l’Exposició, coi balconi di lamiera colorati da qualche bandiera indipendentista. La mia sorpresa mi ha divertito: un quartiere di Barcellona che fosse ancora abitato da barcellonesi? Qualcuno in quelle case sperava in un futuro migliore, e in quello, almeno, volevo credere anch’io.  

“Vabbè, questa roba te la lascio”.

Finalmente mi giro, sorprendendo l’amico nell’atto di cacciarsi un Gesù Bambino nella sporta già piena: l’oggetto che mi indicava prima era la mangiatoia.

“Con ‘questa roba’ il bambinello vale di più” gli assicuro.

“Allora è una culla? Anche se è piena di paglia?”.

“Serviva a nutrire un bue”.

Quello crolla il capo. Forse si chiede a che prezzo possa vendere quella paccottiglia incomprensibile.

Anche io ho tante domande su ciò che farò: il trasloco, il mezzo tirocinio che mi inizia allo Spazio… E poi la Petulante mi ha già bocciato il progetto principale.

“Mettiamo pure che trasformi casa tua in un AirBnb: di tutte le persone che te lo potevano gestire, hai scelto proprio…?”.

Non è come pensa, mi ripeto salutando l’amico che si allontana col carrello pieno. Non so ancora niente di licenze turistiche, di permessi e lotte alla gentrificazione, ma sono sicura di una cosa: con Bruno non ci sarebbero contatti. Se accetta la proposta di gestirmi la casa, ci sarà un solo incontro, per un rapido scambio di chiavi, e il resto saranno comunicazioni di servizio e versamenti bancari. Bruno ha bisogno di soldi, e io ora so che, semmai fosse possibile, dovrebbe tornare lui da me e non viceversa. Rinunciare a lui non significa smettere di volerlo aiutare.

È anche per questo che sgombero casa: l’amico agente immobiliare ha già portato degli studenti a vederla, ma nessuno la vuole, è troppo vecchia e lugubre.

Dopo che ho inviato a Bruno la “proposta indecente”, sono così tesa che uscendo dimentico la penna. Me ne accorgo che ormai sono a un passo dalla biblioteca, in una zona senza cartolerie, e per non darmi della cretina mi appello a quei manuali fumosi che sto leggendo sulla sincronicità junghiana: che la mia sbadataggine porti con sé una lezione?

Forse devo accettare con umiltà i miei errori più scemi, oppure devo imparare a chiedere quando ho bisogno di qualcosa, fosse anche una penna in prestito! Ma no, perché? Per una volta mi godrò le letture junghiane senza l’ossessione di prendere appunti…

Entro in biblioteca e, proprio accanto ai tornelli, la vedo.

Chiedo un po’ in giro ma no, non appartiene a nessuno; una penna in biblioteca, che coincidenza incredibile! Il bello è che, rapita dai miei pensieri, quasi non la notavo: forse questa è l’unica lezione possibile.

L’ho appena raccattata, quando mi telefona Bruno.

***

Mentre mi parla inizio a camminare.

Sto avanzando verso la Rambla del Raval, ma stavolta non seguo la strada del mare. Sono solo affari, ricordo, e lui è un po’ impacciato ma gentile: prima di discutere del progetto deve darmi una notizia che “forse già conosco”. Si sposa, decido. La Biondissima è incinta e si trasferiranno nel suo paese, dove lui insegnerà italiano e saranno felici, e…

“Parto”.

Guardo davanti a me la strada sozza, e penso subito a un tarocco che nei mesi più bui pescavo spesso, se mi interrogavo su Bruno: il Mondo. Spesso indica un viaggio. Che scema che ero: Bruno non parte mai. Minaccia sempre di farlo, poi resta. Almeno so per certo che con la Biondissima è finita: dal tono di lui è evidente che quella partenza è una fuga.

All’improvviso c’è qualcosa di nuovo a unirmi a questo Bruno sconosciuto. È una sorta di pietà, forse reciproca: un’umanità di amanti sconfitti, distrutti dai propri sbagli.

Lui invece non afferra i miei accenni ad analisi mediche, alle compresse che ancora prendo per assicurarmi di non produrre latte… In che senso, vuole sapere. Forse gli verrebbe più facile credere di avermi messa incinta, piuttosto che immaginarmi insonne e inappetente (e piena di latte!) per qualcosa che lo riguardi in prima persona.

Quando riattacco non so ancora che Bruno farà il prezioso per un po’, poi respingerà la mia offerta. È facile da immaginare, ma sono troppo distratta dalla scoperta che il mondo è uguale a prima. In fondo, alla Biondissima avevo dato tre mesi, e poi mi viene in mente una frase lapidaria di mamma al telefono, nel caos dei primi tempi senza mangiare.

Che lui stia con un’altra o entri in convento, a te che importa? L’unica questione che ti riguarda è che non vuole stare con te.

Il bello è che stavolta non gli servirei neanche per consolarsi: è chiaro che a questo dolore qua non vuole rinunciare. E io?

Io sono occupata a nutrire questa forza che non mi molla più, che dopo anni di abbandono pretende tutta la mia attenzione.

Il mio corpo, adesso, è aperto solo a lei.

A lunedì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

A lunedì per il seguito!

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Presenze

Da cosedinapoli.com

Non mancano i volti buoni.

Nella Casa degli spiriti approdano due amici di passaggio per Barcellona, reduci entrambi da una rottura sentimentale. Uno dei due, napoletano, non fa che ripetere che “noi donne” siamo questo e quest’altro, al punto che resto zitta solo perché non ho le forze per replicare. L’altro, madrileno, l’ha presa così bene che il tempo di posare la valigia e sta già chiacchierando su Skype con l’ex. Alla fine ci tornerà insieme e avranno due bambini, ma intanto ci indottrina: si no puede ser, no puede ser. Perché noi italiani la facciamo così tragica? Tutta colpa del Vaticano! Io e l’altro napoletano dovremmo dare uno schiaffo morale al papa e coricarci insieme: almeno ci facciamo compagnia…

“Perché non ci dormi tu, con me?” lo sfotto, strizzando l’occhio al napoletano. “Voi spagnoli parlate tanto, ma poi…”.

Lo vediamo filare nella stanza degli ospiti, e ne ridiamo. Quella volta non mi sveglio alle cinque del mattino per piangere.

Viene anche mia madre, per “aiutarmi coi lavori in casa”: forse quello è il primo viaggio che fa da sola. Mi hanno sempre affascinato le donne della mia vita, coi loro gnocchi sfatti e le scelte così diverse dalle mie. Mamma mi porta tante cose da mangiare, e La Settimana enigmistica, che diventa il suo passatempo barcellonese insieme alla lettura delle notizie: al contrario di me non ama uscire, e adora la casa che io detesto.

Non saprò mai in che lingua riesca a litigare col capomastro, un giovedì che rincaso tardi per ritirare della paella da asporto. Dai monosillabi di lui capisco che mamma si è “permessa” di suggerire un colore diverso da quello concordato per tinteggiare le stanze, e lui non può prendere ordini da due clienti diverse. O da due donne? Non glielo chiedo. È ormai evidente che si era accollato la tinteggiatura solo per aggiudicarsi l’impianto elettrico (per il quale poi non mi rilascerà l’apposito bollino). Anche stavolta il mio corpo agisce prima di me, e mentre accompagno alla porta il furfante sto già chiamando un imbianchino suggerito da un altro frequentatore dello Spazio: un artista che pretenderà subito le chiavi, per poter dare priorità ad altri incarichi, e dopo un mese di tinteggiature notturne e capatine alla dispensa non mi praticherà lo sconto promesso.

Se i lavori in casa sono un inferno, quelli a Barcellona lo sono di più.

L’artista-imbianchino si farà aiutare proprio dall’amico che me l’aveva consigliato (altra coincidenza strabiliante!), e che mi saluterà ironico al mattino, quando mi vedrà uscire dalla stanza a mezzogiorno passato.

Non gli spiegherò che a volte piango fino all’alba, quindi mi addormento tardissimo, e comunque mi tengo il computer sul comodino, in caso sia abbastanza lucida per seguire il corsetto online. A tinteggiatura finita, sotto la mano di pittura fresca scorgerò ancora brandelli di parato.

Poco prima che mia madre riparta, un’attrice napoletana viene a propormi un progetto artistico che non andrà in porto, e a darmi una dritta: nel suo palazzo al Poble-sec si sta liberando un atticuccio piccolo e gelido, e a buon mercato. Aspetto che mamma prenda l’aereo per contattare il proprietario. La Casa degli spiriti sfida ogni mio tentativo di sentirmici bene.

Per qualche giorno mi fa visita pure una madre che mi sono scelta io: la professoressa che mi ha iniziata al femminismo accademico, e che tutta entusiasta farà avanti e indietro con dépliant di musei e bigiotteria da mercatino, chiedendosi perché io sia così refrattaria a divertirmi.

In suo onore invito gente dello Spazio, armata di bombolette e striscioni intonsi: parteciperemo al corteo dell’8 marzo! In mailing list ho scherzato sul fatto che stavolta non griderò lo slogan “La taglia 38 mi stringe la patata!”, e un’attivista queer si è prodigata in una filippica sull’uso dell’ironia nella lotta al patriarcato. Ho capito, replico, ma ormai la 38 non mi stringe un bel niente. Dovrei forse restare a casa?

No. Mentre prepariamo gli striscioni, qualcuno chiede notizie di Bruno: a quanto pare non frequenta lo Spazio da un po’ (come me, d’altronde), e non si trova in un periodo felice. Prima che gli altri possano replicare, scappo a preparare altro caffè.

Alla manifestazione mi diverto, grido slogan, mi commuovo. Un video dei The Jackal mi ha confermato che l’8 marzo in Italia significa ancora mimose e spogliarelli, e questa cosa a quanto pare farebbe molto ridere. A Barcellona, mentre il corteo si prende tutto il centro, la vetrina di un negozio italiano di intimo viene bombardata di scritte, con sommo scandalo della figlia di un Guardia Civil, trascinata alla manifestazione da una collega che bazzica lo Spazio. Io fisso come ipnotizzata quei reggiseni di pizzo dozzinale, imbottiti pure se vestono una terza abbondante. A seppellirli è bastato un colpo di bomboletta: “Stop alla pressione estetica!”. È la prima volta che mi imbatto in quell’espressione.

“Noi uomini pretendiamo troppo da voi” aveva ammesso Bruno una volta. La frase mi aveva infastidito anche così: qualsiasi pretesa era troppo, non importava se fosse grande o piccola…

Scaccio via il ricordo e agito di più lo striscione.

Qualsiasi cosa pretenda Bruno, non è più affar mio.

A mercoledì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Mr. Brightside

Ballatoio della palestra Can Ricart, in una foto di TimeOut

Perché no?

Dall’Italia sono partita con qualche etto in più, e con la rinnovata usanza di mangiare tre volte al giorno (anche se lascio il piatto a metà). D’altronde l’I-Ching mi dava spesso come responso l’esagramma 27, “Gli angoli della bocca”. Dovevo mangiare. Ma l’oracolo definitivo era stato mia nonna: se me lo ordinava lei, recuperare l’appetito era un obbligo!

A questo punto, perché non tornare in palestra? Se mi sento troppo debole, mollo dopo un quarto d’ora e torno a casa.

Mentre mi immergo nel riscaldamento (venti minuti di cyclette) considero che anche l’Amico per eccellenza mi ha fatto bene, con la sua presenza muta e solidale nella mia cameretta di bambina. Sta parlando di “venirmi a trovare” a Barcellona, ed è un’ottima idea: così lui si trova un lavoro decente, o migliore di quelli che becca in paese, e io mi godo il suo sostegno. L’isolamento in cui sono caduta è un problema.

Approfittando di questi passetti da formica, sto provando a rendere abitabile la mia Casa degli spiriti: c’è da rifare l’impianto elettrico, altrimenti il pericolo per me non saranno certo i fantasmi… Comincia a premermi la mia incolumità, ed era ora, dopo quattro mesi passati in quello scenario da horror. Il capomastro mi è stato consigliato all’unisono dal Figo e dai suoi Morti: che sia un loro compagno di bevute? Con una certa spavalderia, quell’uomo latino coi capelli già bianchi mi ha annunciato che, per mille euro in più, potrebbe perfino tinteggiarmi le pareti ingiallite… Ma a incarico ottenuto ha cominciato subito a pentirsi dell’azzardo.

Mentre accelero la pedalata sto scegliendo il colore da dare alle stanze, e intanto mi guardo intorno: non sono l’unica a fare progetti! Il ballatoio degli esercizi cardio è cambiato, come pure la sala attrezzi al piano di sotto. Da quanto tempo manco? Quella fabbrica riqualificata dal comune inizia a prendersi sul serio. I pannelli che ho visto esposti all’ingresso mostravano la sua trasformazione in club sportivo a vocazione multietnica. Forse era per questo che l’uomo col mastino detestava l’“ambientaccio”, e i giovani immigrati che lo popolavano. Ma l’uomo col mastino è finito chissà dove, dopo il suo sfratto senza gloria, e io sono ancora lì, a rimettermi in sesto insieme alla palestra multietnica.

Fortuna che ho scovato l’unica cyclette libera sul ballatoio. Continuo a pedalare a velocità moderata, con gli occhi rivolti ai monitor accesi lungo la parete di fronte. La tuta mi scende troppo sui fianchi e rimango subito col fiatone, ma mi perdono anche quello. Comincio a perdonarmi un bel po’ di cose.

Ho abbassato gli occhi un momento per risollevarmi i pantaloni, ma li ripianto sul monitor, ipnotizzata da un giro di chitarra che mi pare angosciante. Quello lì è il cantante dei The Killers? Sì, e la canzone dev’essere vecchiotta, ma il video sembra recente: una ragazza dalla pelle di latte è contesa tra un attore famoso e il cantante stesso, che appare angosciato sul serio mentre vede flirtare la fidanzata col rivale… Oddio, i pedali. Dove sono finiti?

But she’s touching his chest now

He takes off her dress now

Let me go…

I miei piedi rallentano senza riuscire a frenare. I raggi della bicicietta seguono un ritmo loro.

I just can’t look it’s killing me

They’re taking control

Ed eccoli, su tutti gli schermi: Bruno e la Biondissima. A reti unificate i loro capelli si confondono sullo stesso cuscino. Il mio.

Jealousy

Turning saints into the sea

Qualcuno spenga i monitor, o inizio a urlare.

But it’s just the price I pay

Destiny is calling me

I miei piedi si devono riabituare al suolo prima che mi giri troppo la testa. Tanto la mia pedalata non portava in nessun posto. E poi la Petulante me lo raccomanda sempre.

Open up my eager eyes

Quando sono imprigionata nella mia testa, dice la Petulante, devo premere i piedi sul pavimento…

Cause I’m Mr. Brightside.

Così me lo ricordo subito.

I never… I never…

Così ricordo subito che il mio presente è qui.

A mercoledì per il seguito!

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Risonanze

La bara è lunga e fa un rumore strano.

Lì dentro ho tutto il tempo di ripensare alla sera dell’evento di beneficenza, e a quando poi sono riuscita a mangiare.

L’ho fatto a casa, lontano da Bruno che ho lasciato a lamentarsi con una delle fumatrici sotto il palazzo: una che non gli piaceva, ho valutato odiandomi. Lui spiegava alla fumatrice che per poco non si perdeva l’evento, con tutte le cose che aveva da fare, e nel vetro della porta illuminato da un lampione l’avevo sorpreso a scrutarmi le calze. O magari me l’ero sognato. Magari aveva notato anche stavolta qualche smagliatura nella trama.

Papà invece mi ha squadrato le gambette ossute nei leggings, mentre metteva la mia valigia nel portabagagli, e mi ha subito annunciato che detestava i tarocchi: era un uomo di scienza, lui! “Santa Madre scienza”, l’ho sfottuto.

Da allora lui storpia il nome dell’I-Ching, e conia massime in napoletano contro Jung. Soprattutto detesta il mio corpo, com’è adesso: alla vigilia ho mangiato solo broccoli e lui ha paura, è convinto che io abbia qualche male fisico. Le analisi mediche che mi ha subito inflitto sembrano confermare la sua teoria.

Così sono finita in questa bara oblunga e buia, ad ascoltare rumori strani. I miei livelli di prolattina sono molto alti: da che avevo il ciclo ritardato, adesso potrei addirittura star producendo latte! Interpellata a distanza per gli auguri di Natale, la psicologa junghiana si è premurata di annunciarmi che “mi sto partorendo”.

E invece mio padre mi ha seppellita qui dentro: giorni fa, andando in cucina, ho capito dai sorrisi dei miei familiari che quella era un’imboscata. Avevano già prenotato in clinica, tutto quello che dovevo fare io era sottopormi alla risonanza, e ricordarmi che l’avevano fatto per me. Una volta in clinica, quel distratto cronico di mio padre pretendeva pure che trovassi io il reparto, con la solita notte insonne alle spalle. A quel punto gli ho soffiato in faccia: “Guarda che possiamo aiutare solo chi lo desidera”.

Nel sarcofago divento cintura nera di meditazione: trascorro i venti minuti della risonanza in un viaggio astrale, o qualcosa del genere. Tanto il mio stomaco è talmente vacante che potrei pure vedere la Madonna.

Ovvio che la risonanza non rileva niente di irregolare. In compenso, mi rivela una volta per tutte che ne ho abbastanza. Cristo, sono diventata una lagna! Dai bassifondi della mia mente riaffiora un briciolo di ironia.

Una sera di quelle anonime tra Natale e Capodanno, gioco con due amici su Facebook a storpiare i nomi dei quartieri di Barcellona, associandoli a libri e film famosi: vince a man bassa “Il diario di Hostafrancs”. Rido come una scema, poi me ne accorgo. È questo che voglio per me.

Voglio divertirmi come sto facendo con questi scherzi idioti, e come facevo con Bruno la prima notte passata a ridere, a dirci scemenze fino alle quattro. Quelle risate le ho pagate abbastanza, le rivoglio.

Anche quest’anno mi capita di riascoltare quella canzone napoletana che tradotta si chiama “Uccidimi“, e non andava mica presa alla lettera, ma ormai è andata così.

Prima di capodanno, arriva il terremoto. Il mio istinto di sopravvivenza funziona abbastanza da catapultarmi fuori dal bagno senza scaricare.

In corridoio trovo mia madre appoggiata allo stipite della cucina, come se in quel gesto reggesse tutta la casa. Allora mi appoggio anch’io a una porta a vetri troppo fragile per non tremare tutta. È come se quella fragilità fosse l’unica cosa da salvare.

Ci guardiamo, mamma e io, come vestali assorte in un rito strano, finché le oscillazioni non si fermano. Allora fanno capolino anche gli uomini di casa, che erano rimasti chiusi nelle stanze ad aspettare. Mio padre si mette a cercare su Google, in tutte le lingue, come si dice “È passato il terremoto”.

A quel punto me ne rendo conto: la prima cosa che ho pensato, subito dopo la mia fuga dal bagno, è stata che mi toccava sprofondare in un vortice di detriti senza salutare Bruno. Senza dirgli che lo amavo, e che in fin dei conti non mi dispiaceva, pensarlo felice.

Adesso, però, voglio esserlo anch’io.

A lunedì per il seguito!

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La ragazza sul balcone

Da rare-gallery.com

È stato l’urlo a svegliarmi.

Lo seguono passi veloci, interruttori che scattano.

Forse era successo altre volte, ma non me ne accorgevo, quando crollavo stesa da un’ora di pianto. Ormai ho provato a uscire dal mio angolino buio di corridoio, e sono fissa nella camera da letto a fiori azzurri, che ha un armadio vero e un balcone. Era accanto all’armadio che avevo trovato la bambola, tutta nuda e altera sulla sedia di velluto.

Quando l’urlo si smorza c’è uno scroscio prolungato, come di una vasca che si riempie. La mia scarsa cultura horror rievoca storie di reclusioni domestiche, e spaventosi bagni “ristoratori”.

La matta di casa. La matta dell’attico. Sopra il mio appartamento non c’è l’attico, ma ora so che c’è qualcuno che soffre.

Il giorno dopo chiedo lumi al vicino di sotto: un inquilino napoletano che affitta camere a gente di passaggio, attirandosi l’ostilità delle vecchie catalane che vivono nel palazzo. Il vicino mi coltiva come potenziale alleata alle riunioni condominiali, ma davanti alle mie domande nicchia un po’: al piano di sopra si rifugiano perlopiù dei migranti clandestini, che incontri una volta per le scale e non vedi mai più. Impossibile dire chi di loro avesse urlato l’altra notte. Dall’attico, invece… Ma a quel punto il vicino si interrompe. “Dall’attico…?” lo incoraggio.

Dall’attico è precipitata una ragazza.

È successo un anno prima che arrivassi io. Era una giovane americana, prosegue il vicino, venuta in Europa col marito per la luna di miele. L’avevano trovata su uno dei miei balconi: quello della stanza con la carta da parati a fiori azzurri. Mica è lì che dormo, vero? Ah! Ma chissà, forse è andata finire bene: nessuno conosce la sorte di quella ragazza. Certo, quando l’hanno trovata aveva le gambe spezzate, era stata chiamata un’ambulanza. Mentre ascolto, ho la sensazione che quell’uomo ancora giovane muoia dalla voglia di farsi un segno di croce, prima di concludere la sua storia.

Il marito della vittima, americano pure lui, aveva spiegato in uno spagnolo caricaturale che i due stavano litigando, che alzavano la voce. A un certo punto lei era rimasta in silenzio e si era buttata giù, senza una parola. Il marito sembrava disperato: la sua sposa aveva tentato il suicidio per uno stupido litigio… Ma il vicino, quando pronuncia la parola “suicidio”, mi fa un cenno d’intesa tutto partenopeo. Seh, seh.

Neanche del marito sa nulla. Pareva sparito insieme all’ambulanza, come se avesse la valigia pronta o non gli importasse di recuperare le sue cose.

Alla fine era un extracomunitario pure lui, riflette il vicino, e si era dileguato come i clandestini del piano sopra al mio. Però quelli erano colpevoli solo di esistere. L’americano, invece…

Quella notte chiudo bene la serranda sul balcone, e capisco: presto me ne andrò dalla Casa degli spiriti.

Il mio privilegio me l’ha gettata tra le mani, ma è come se la casa stessa mi dicesse che non va bene, che non mi vuole, che devo andar via.

O forse devo ricominciare a mangiare sul serio, per farla finita con ‘sti deliri.

A venerdì per il seguito!

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Precotta

Da recetasveganas.pro

“E adesso parlagli”.

Squadro la sedia vuota che l’amico mi ha sbattuto davanti. Cosa avrei da raccontare a una poltroncina di velluto rosso?

“Eccolo qua, Bruno!” insiste l’amico. “All’improvviso non hai niente da dirgli?”.

Sì. Tipo che, adesso che non gli serve più, il mio corpo si dissolve.

Della mia brutta casa senza fine occupo solo l’ultimo tratto: l’angolo tra cucina e bagno, e la cameretta in cui ho fatto gettare il tatami. La Petulante ha un bel dire che mi sono rinchiusa da sola in una tana, nella vastità della Casa degli spiriti. È che tutto quello spazio mi sembra ostile, mentre un angolo lo so controllare. E poi lì il dolore mi trova subito, e prima mi trova, prima mi lascia dormire.

Mi sto perdendo tutto il corsetto online, ma che importa? Sono al sicuro nella mia tana, in fondo alla casa che non finisce più. A pranzo mangio una tortilla precotta, che mi dura svariati giorni. A volte la accompagno a una fetta di pane. Accanto al comodino troppo alto per il tatami ho piazzato un panettone al cioccolato: tra poco è Natale. Ci ho conficcato dentro un coltello, che però non uso mai. È con le dita che pesco la cioccolata: lo faccio tra le quattro e le cinque del mattino, quando mi sveglio per piangere. Mi riaddormento dopo un’altra oretta, e a quel punto potrei risvegliarmi che è già pomeriggio. Spesso, in quei casi, mi accoglie il buio.

Dov’è finita la mia spavalderia al telefono con Bruno, mentre percorrevo la Rambla? “Non sono il secondo piatto di nessuno”. Col cazzo. Non mi importa più dell’altra, non mi importa di come mi ha trattata lui. Voglio solo che torni e metta fine a tutto questo.

E invece una parte di me resiste, non riesce a rimuovere l’istante di sollievo di quando ho saputo della Biondissima. Non saprei più fingere di abitare quel castello di carta, che ora non c’è più.

Tanto lui è sparito davvero nel nulla.

L’ho contattato solo quando mi è arrivata una notizia dal mio vecchio palazzo: hanno sfrattato l’uomo col mastino. In un messaggio vocale, la coppia che viveva con la gatta mi ha descritto la scena quasi all’unisono, compreso l’intervento della polizia. La statura modesta dell’uomo lo faceva sparire tra i ragazzoni in divisa scura, che lo portavano via. Alla fine è stato sloggiato perché non pagava da un pezzo il suo affitto calmierato. Forse quella cifra irrisoria era davvero l’unica cosa rimasta della sua infanzia.

Nessuno sa che fine abbia fatto il mastino, né la donna (la Iside bionda) che risaliva le scale con gli zatteroni ai piedi e le buste della spesa.

In chat, Bruno ha accolto la notizia con una solidarietà un po’ ironica: e io che avevo comprato casa per sfuggire a quello lì! Neanche il tempo di trasferirmi e sono andati a sfrattarlo. Non ha scritto altro, e io ho disattivato da un po’ le notifiche al suo profilo, ma di lì a qualche giorno, prima che potessi impedirlo, mi è balenato davanti il post di un suo amico. Era uno che un tempo sapeva “una mezza cosa” di me, e adesso linkava a Bruno con nonchalance un articolo sul paese della Biondissima. Mica una roba qualsiasi: una curiosità su come allevavano lì i bambini. Il primo commento, in perfetto italiano, era della Biondissima in persona. Anche Bruno ha replicato con fare da esperto, dando lezioni nella lingua di lei che stava imparando così bene. In quella stessa lingua stavo guardando a spezzoni un thriller sottotitolato, ma da quel momento in poi l’ho lasciato a metà. Da allora, e per quasi un anno, sarei riuscita a seguire solo distopie e saghe fantasy.

Adesso che l’amico agente immobiliare mi ha riaccompagnato a casa, dopo che mi ha visto lasciare la mia pizza a metà, ho osservato attraverso i suoi occhi il mio tatami, mezzo sfatto e puzzolente di candele alla ciliegia. Da bravo milanese, l’amico ha polverizzato con lo sguardo anche il panettone al cioccolato, che ormai pugnalo solo quando mi scoccio di scavare con le dita.

“Stai sparendo” ha constatato, esasperato dall’ostinazione con cui ignoravo la mia fortuna, la casa nuova che mi aveva spuntato a un prezzo ridicolo.

È stato a quel punto che mi ha trascinato in salotto e mi ha schiaffato su una poltrona rivestita di velluto, piazzandomi davanti questa sedia altrettanto brutta.

“Bruno è seduto qui” mi ripete un’ultima volta, poi ordina: “Digli tutto ciò che devi. Ora”.

Dev’essere qualcosa che sta studiando per diventare terapeuta, e io sono troppo debole per opporre resistenza, così finisco per dire un sacco di cose a quella sedia che non è Bruno.

Gli dico che un conto è non amarmi, e un altro è mettermi da parte appena non gli servo più.

Gli dico che siamo stati due scemi. Che quella canzone napoletana che ho scoperto a Natale scorso, “Uccidimi”, non andava certo presa alla lettera.

Soprattutto gli svelo la scoperta che ancora non mi perdono: la mia sopravvivenza è più importante di lui. Gli dico tutto questo.

Per tutto il tempo, però, non dimentico mai di star parlando a una sedia.

A venerdì per il seguito!

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La vita fa sempre il bis

Da errenskitchen.com

Prima viene l’acqua.

Stringo le gambe al petto come per sottrarle alla corrente, e i muscoli dello stomaco si contraggono per la posizione innaturale, che è la più naturale di tutte. Sento i crampi, sento le ginocchia affondate in angoli dello sterno che sono diventati una filigrana per le ossa. Non piango più, e smetto presto anche di urlare. Mi graffiano la gola versi che non conosco, che non ho mai sentito, ma che forse (idea assurda) ha sentito mia madre, mentre galleggiavo nel suo grembo in attesa di vivere.

Apro gli occhi e ritrovo il buio della stanza. Li richiudo, e sono in alto.

Sono sull’acquascivolo, a quindici anni. Accanto a me c’è l’amica che mi ha trascinato lì sopra. Odio l’acqua in faccia, so già che affogherò. Non sono fatta per le sensazioni intense, rischio davvero di annegarci dentro, ma l’amichetta non lo sa: lei aspetta solo il segnale del bagnino, poi si butta con lo stesso sorriso che sfodererebbe davanti a un cono gelato. Io la imito solo perché non saprei tornare indietro. L’unica è buttarsi.

Così soffoco. Ho l’acqua in faccia, a un certo punto la respiro ma è acqua, mi fa tossire e non finisce mai, mentre io ho finito il tempo. Non arriverò mai alla fine di questo scivolo. Mentre mi rassegno alla mia morte a quindici anni, la schiena che scendeva in picchiata arresta la sua corsa obliqua, e il corpo si ferma. L’acqua scompare.

Sono arrivata alla fine dello scivolo. Sono a terra, sono viva. Ho la vita davanti.

Con la vita davanti mi sollevo dal tatami che puzza di resina e candele alla ciliegia. Ho vinto il dolore lasciandolo entrare. Il dolore non lo vinci, lo accogli. È solo allora che puoi fare tutto il resto.

Questa scoperta è la svolta vera: quando smetto di resistere al dolore lo accolgo nei suoi capricci, nelle esigenze che ha. È da lì che la mia vita peggiora sul serio, e corre anche il rischio di migliorare.

Una sera, smanettando al pc, mi sciroppo una versione hollywoodiana di Biancaneve: il cacciatore si allea con la protagonista, per sconfiggere la matrigna. Guardo abbastanza a lungo da affezionarmi all’atletico cacciatore, e all’interesse sfacciato che nutre per la sua alleata… Mi sto divertendo sul serio, finché non entra in scena il principe.

Ecco qua, la favola terminerà come al solito. Perché le storie devono finire sempre allo stesso modo? Cosa c’è di sbagliato nei finali che mi invento io? Accolgo la scena del bacio con un conato di vomito, ma Biancaneve non si sveglia. Apre gli occhi solo dopo che a baciarla è il cacciatore. In realtà il finale è aperto, posso addirittura sperare che questa Biancaneve qui si sia svegliata da sola. Basta che non sia la solita storia.

Sì, ho quasi trentatré anni e spacco il capello a una favola.

È che la razionalità mi ha rotto. Invece di contattare la Strategica per altre baracconate, invito a cena un amico che di mestiere fa letteralmente il guru, e forse per questo non naviga nell’oro. Così lo trascino nel mio melodramma al prezzo di una zuppa cinese. Ho intuito che seguire il mio corpo, qualsiasi cosa significhi, vuol dire anche circondarsi di gente che sappia ascoltare. Siamo nello stesso ristorante in cui ho celebrato il compleanno, e ho visto Bruno pendere dalle labbra dell’amica Occhiblù. L’amico guru capisce subito due cose: una è che gli toccherà finire anche il mio piatto (il che non gli dispiace), e l’altra è che il tipo “brillante e bizzarro” di cui gli sto parlando è Bruno. L’ha visto una volta sola, e gli è bastata a indovinare.

“Quello che mi sento di dirti” borbotta il guru a bocca piena, “è che il tempo è dalla tua parte”. E pesca un altro tagliolino dalla zuppa vegetariana. “Bruno adesso crede di aver trovato una che gli risolva i problemi, ma i problemi che ha con sé stesso non si risolvono così. Affioreranno, e avveleneranno la nuova storia”.

A quel punto glielo confesso: nei rari momenti di lucidità, alla Biondissima do al massimo tre mesi. “Solo io” potevo restare di più. Ne faccio ancora un merito, una capacità acquisita di cui non voglio liberarmi.

L’amico accetta questa mia debolezza insieme al riso che non riesco a finire. Prima di spazzolarlo, sentenzia:

“Se non impariamo una lezione, la vita ce la ripete”.

E sfodera un sorriso che vorrebbe essere illuminato.

A me, però, risulta solo un po’ sadico.

A mercoledì per il seguito!

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