Archivio degli articoli con tag: relazione

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Di Già

Dove "sembro più io", ma ormai lo so già.
Da online.scuola.zanichelli.it

Certe cose non riaffiorano più.

Si sono perse nel pozzo da cui risalgo a poco a poco. Resta una frattura tra me e il mio corpo nudo, e l’idea di condividerlo con qualcun altro. Ma succederà di nuovo, ora lo so. Solo che non sarà più come prima.

A volte mi guardo le braccia e mi sembra che i lividi siano ancora lì. Almeno sono spariti da un pezzo alla vista. Con questo “almeno” qui, posso far pace.

Con l’anno nuovo inizio a insegnare italiano, e saluto l’Amico che non tornerà. Lui non lo sa ancora, è convinto di dover allontanarsi qualche tempo per questioni familiari. In realtà è entrato di diritto nell’esercito di indecisi che arriva a Barcellona in estate, prova svogliato ad ambientarsi, e infine approfitta delle vacanze di Natale per svignarsela di nuovo in Italia, a raccontare a chiunque come sia difficile vivere “fuori”. Però mi ha aiutato tanto nei mesi più difficili: quelli di assestamento, dopo un lutto.

Prima che se ne vada usciamo con l’Amica che mi aveva presentato Bruno, e lei si porta dietro la Divina, quella che era troppo bella perché lui la aggiungesse a Facebook in contemporanea con me. È sopravvalutata, sentenzia l’Amico, e allora gli mollo uno scappellotto mentre le sbircio il vestito lungo e prego che sia così alta perché si è messa i tacchi: davanti a una che piace a Bruno, entro ancora nella spirale ossessiva.

Lei a sua volta mi osserva l’abito senza fronzoli, e i capelli corti che sono tornati al loro biondo ambiguo, oscurato dal tempo.

“Stai molto meglio così” si complimenta. “Non che stessi male prima, è che adesso… come dire? Sembri più tu”.

Vorrei abbracciarla e chiedere scusa, non solo a lei: anche all’amica Occhiblù, alla Bella Stronza, alla Biondissima… A tutte quelle che ho considerato mie rivali in una gara che non esisteva. Ma riesco solo a dirle che ha ragione, adesso sembro più io.

E questa me che impara di nuovo a camminare smette pure di voler risolvere le vite altrui: lascio partire l’Amico senza fare storie, abituandomi al pensiero che non tornerà.

È appena arrivato, invece, il ragazzo alto e serio che a una conferenza dello Spazio alza la mano per fare un’osservazione antipatica: manca qualcosa, il conferenziere ha trascurato un argomento importante. Che faccia tosta! La conferenza è durata un’ora, come si fa a concentrarsi solo su “ciò che manca”? Poi lo sconosciuto si vede offrire un microfono, e a quel punto si prodiga in un ragionamento che mi sorprende. Ciò che invece mi spaventa di Giacomo, detto Già, è che leghiamo soprattutto per l’affinità di pensiero: quello lì è un mondo in cui mi perdo, e poi viene fuori che ho fame. Manca la connessione improvvisa, la notte perfetta in cui ho riso con Bruno fino alle quattro… Ed ecco che sto facendo lo stesso errore di Già alla conferenza: mi concentro anche io su ciò che manca.

Perché, stavolta, non bado un po’ a quello che c’è?

Ci rifletto su mentre contemplo una vetrina, all’uscita della scuola di lingue in cui ho ottenuto il mio primo incarico come insegnante. Nessuno sembra comprare quei quadri, eppure mi rilassano: interni domestici molto stilizzati, con vasi sul tavolo e gatti acciambellati sul divano. All’improvviso voglio abitare anch’io quella serenità, ma senza dover frequentare corsi di danza Bollywood, o bramare a tutti i costi un ascensore nel palazzo! Deve esistere una mia via alla felicità, e la troverò.

Una sera Già, ignaro di ciò che sta facendo, trascina Bruno fino a casa mia dopo una riunione allo Spazio: l’ora di cena è passata, e io ho ancora un po’ della zuppa avanzata a pranzo. Una volta che si è riempito lo stomaco, Bruno inizia a lamentarsi del lavoro che ha dovuto accettare per non rimanere in bolletta. Già e io lo ascoltiamo poco, intenti a passare in rassegna i pochi libri che ho portato nell’attico gelido: ho ancora difficoltà a leggere narrativa contemporanea, ma Già non mi sfotte per questo, anzi. Scopriamo di amare lo stesso personaggio di Trono di Spade, che è anche il più odiato dai nostri amici italiani.

“Che ossessione, con Trono di Spade!” insorge Bruno. Lui non legge “quelle robe lì”, e non guarda neanche la serie, okay? Lo lapidassimo pure!

Invece lo ignoriamo. Non ho neanche il tempo di sperare che Bruno si ingelosisca: mi interessano davvero le opinioni di Già. Sarà lui a confessarmi che uscendo da casa mia aveva chiesto: “Secondo te ho delle speranze, con lei?”. C’era dell’affinità, aveva borbottato Bruno, che si traducesse in qualcos’altro era tutto da verificare.

Lo “verifichiamo” a un concerto che si tiene allo Spazio: uno di quelli che di solito Bruno diserta, perché si balla. Nella foto che posteranno poi sul sito risulto sfocata, un faretto rossiccio mi trasforma il sorriso in uno scippo sul volto. La mia felicità è quasi oscena, ma la vita non è certo tornata con Già: è entrata solo quando ero pronta ad accoglierla di nuovo.

Alla fine Bruno è venuto al concerto, ma nelle foto non c’è mai. Rimaneva immobile accanto a noi mentre Già mi avvolgeva le spalle, poi scambiava la mia confusione per abbandono e mi cingeva la vita. Quando mi ha vista impallidire, non ha avuto bisogno di chiedermi nulla: a un mio cenno ha avvisato Bruno che andavamo a prendere “una boccata d’aria”.

Quando sono tornata a scorgere Bruno, lui usciva dal portone dello Spazio e io ero lì fuori, che baciavo Già. Era un bacio da ragazzini, così lungo che a un certo punto ho riaperto gli occhi.

Ho fatto in tempo a intravedere Bruno che indugiava un momento, come a valutare se raggiungerci o no. Era rimasto solo e forse era seccato, o un po’ geloso, o inesorabilmente contento per me, e soprattutto per il suo nuovo amico.

Poi a un certo punto non l’ho visto più.

A venerdì per l’ultimo capitolo!

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I will survive

Va a finire che rimando sempre.

Non vado mai da Bruno a prendere i libri per l’esame di omologazione: ogni giorno sfido me stessa a non contattarlo, e comunque sono troppo occupata a litigare con la coordinatrice del corsetto online, che avrei dovuto iniziare quando era cominciata la crisi. A quanto pare sarei stata offensiva nei toni con cui ho criticato una delle letture obbligatorie: l’accusa non mi è arrivata in privato, ma è stata postata nel forum virtuale condiviso con gli altri alunni. La coordinatrice è una dottoranda senza titoli per insegnare. La sua professoressa, una figura carismatica nel mondo delle lettere catalane, finirà nei guai per il suo ruolo nell’organizzazione del referendum indipendentista. Intanto dalla segreteria mi fanno sapere che non riavrò neanche un centesimo, se mi ritiro ora che il corso volge al termine.

Anche l’estate sta per finire. L’Amico per eccellenza mi ha raggiunta a Barcellona, ma invece di cercare lavoro come si proponeva se ne sta perlopiù tappato in camera, spaventato all’idea di parlare male lo spagnolo. Ogni tanto perdo le staffe anche con lui.

La parte più odiosa di quando provi a cambiare vita è scoprire che questo non cancella le vite precedenti, e soprattutto le loro conseguenze, che ti accolli come se fossero minori a carico. Resta una punta di rancore verso questa te che prima te le ha affibbiate, poi si dilegua a poco a poco. D’altronde, neanche lei sparirà dalla sera alla mattina.

A un certo punto mi scrive la Divina, quella troppo bella perché Bruno la aggiungesse subito a Facebook: mi racconta di essere venuta alla festa del Poble-sec, il mio nuovo quartiere, e che tra le persone che la accompagnavano c’era Bruno. Peccato non esserci viste, credeva che lui mi avesse avvisata! Forse è stato dopo quel messaggio che ho inviato la critica “offensiva” al corso virtuale.

Ne sa qualcosa anche l’Amico, specie quando lo lascio tre minuti a governare una pasta risottata che mi sto sudando da mezz’ora, e lui la fa scuocere. Mi trattiene a stento dall’afferrare la borsa e piombare fuori, in cerca di una pizzeria da asporto. Io quella roba non la voglio, dichiaro: d’ora in avanti non manderò giù mai niente che non mi piaccia sul serio! Poi finisco per decidere che la pasta non è poi così scotta.

La rabbia è buona, mi ripeto, basta saperla usare. E poi se ce l’ho è perché non ci sto: non trovo più normali delle situazioni che, prima, mi lasciavo scorrere addosso.

Così cerco attività che mi facciano bene. Nelle pause studio sto passeggiando molto per i parchi, e prendo lezioni di lingue negli istituti comunali: in metro, mentre scappo al corso di francese, vedo dei ragazzi francesi andare in spiaggia e penso che vorrei essere loro, conoscere già la loro lingua per saltare il corso, andare a farmi un bagno… Ma non so più affidarmi alla gioia, ai piccoli piaceri imprevisti: mi fa paura l’idea che non dureranno, che all’improvviso mi si ritorceranno contro. Così risolvo prima le incombenze noiose.

La Casa degli spiriti è stata affittata con un contratto regolare, e con un forte sconto perché l’inquilino soprassedesse sulle condizioni disastrate. Non sento troppo l’esigenza di uscire, dunque rientro sempre nelle spese, anche se non arrivo a risparmiare niente. Sono così pallida che sembro anemica, studio tutto il giorno e rimando sempre il momento di sentire Bruno: i pochi contatti con lui non sono stati incoraggianti.

L’ho visto allo Spazio, a una proiezione di inizio estate: il Figo, che ormai spadroneggiava senza me a fargli concorrenza, ha buttato tutto in caciara, con tanto di DJ set finale. Io mi sono ritrovata accanto alla borsa un bigliettino anonimo, che si è rivelato un invito a ballare, e per scoprirne l’autore è partita una caccia all’uomo che ha finito per divertirmi. Bruno non partecipava: attendeva sul ciglio della pista improvvisata che finisse l’ennesimo tripudio swing, messo su a beneficio degli invitati catalani. Quando è scattata l’immancabile I will survive mi sono unita alle danze, iniziando a cantare a pieni polmoni. Ci ho messo un po’ ad accorgermi che non ero l’unica: alle mie spalle, con voce più potente della mia, Bruno masticava le parole di Gloria Gaynor con una furia che non gli conoscevo. Anche in una festicciola scema, l’unica cosa che ci univa era il dolore.

Allora ho abbandonato la pista, e mi sono accorta della coppia.

Si sarebbero sposati di lì a poco, per questo lui non frequentava lo Spazio come prima: lei lo aveva coinvolto nei corsi di danza così in voga tra le ragazze barcellonesi, e lui dichiarava ridendo che, se non ci andava, poteva dire addio alle nozze. Ma ora eccoli che danzavano insieme, trasformando I will survive in una canzone swing. La musica che ballavano, la sentivano solo loro.

Tornando a casa non ho fatto girare subito la chiave nel portone: mi sono allungata sul vicino Passeig de l’Exposició, tra gli alberi che ondeggiavano e le ultime cicale. La voglio anch’io quella danza, mi sono detta, Bruno e io siamo buoni solo a gridare schiena contro schiena, giurando a noi stessi che sopravviveremo.

Solo allora ho ripensato sul serio alla donnina in camicia da notte, che urlava al di là del cancello. L’avevo sorpresa a tentare la fuga dall’ospizio il giorno in cui la storia con Bruno doveva iniziare davvero. Avevo promesso di farle visita.

Quando trovo il numero della casa di riposo, non mi risponde nessuno.

Ci penso un intero pomeriggio prima di scrivere a Bruno: magari può bussare lui un attimo? È ridicolo estendere al di là di ogni logica la mia lotta quotidiana per non scrivergli! Un messaggino veloce mi risparmierebbe il viaggio fino alla strada di casa sua, e pure l’ansia nell’intraprenderlo dopo tanto tempo (ma questo non glielo dico). Lui risponde quasi subito, gentilissimo, e si impegna ad aiutarmi: mi assicura che non gli costa niente.

Quando svanisce nel nulla lo sollecito solo una volta, poi aspetto altri giorni. Infine scovo un numero alternativo, poi un altro, finché la figlia della donnina in camicia da notte non mi informa personalmente, e con molta diffidenza, che a giorni trasferirà la madre in un istituto migliore, appena fuori città. Meglio non destabilizzarla con la visita di una sconosciuta.

Riattacco avvilita da quella mia promessa non mantenuta, e al rimorso si unisce una rabbia improvvisa verso Bruno: perché impegnarsi ad aiutarmi, per poi farmi perdere altro tempo? Alle mie accuse in chat, lui reagisce attaccando.

“La tua era una scusa” sostiene con una sicurezza che mi manda in bestia. “Cercavi solo un pretesto per parlare con me. Lo so perché sto passando anche io per un’esperienza simile”.

Non trovo la forza per rispondere. Dopo settimane trascorse ad annegare nei libri, e a passeggiare con l’Amico, e a lottare con l’ansia pur di non chiamare lui, per una volta che faccio uno strappo alla regola e chiedo un favore (entrambe operazioni che mi costano tantissimo), scopro che non ho neanche diritto a un dolore che sia mio! Ma già, l’unico a soffrire al mondo è lui, per una che ci ha messo trenta secondi a lasciarlo perdere… Ah, beata lei! Stavolta la rabbia ci mette un po’ a trasformarsi in singhiozzi.

L’Amico si rassegna a entrare in camera senza bussare, sapendo di trovarmi rannicchiata sul tatami che già marcisce per l’umidità. Mi accarezza la fronte come se fossi una bambina malata.

“Perché ti accanisci, cazzo?”.

Non so spiegarglielo: forse voglio una prova che con Bruno non sia stato tutto vano, uno schifo che mi abbia sottratto solo tempo e salute mentale.

Ma queste prove si trovano solo in fondo a certe sabbie mobili: ti danno l’illusione di potertici aggrappare, e invece ti rendono così pesante che cadi ancora più giù.

Adesso so che facevo bene a evitare contatti, che voglio restare nel mio mondo sicuro, coi parchi vicini e l’Amico che si occupa di me.

Quando mi sarò rimessa un altro po’, andrò a prendermi i maledetti libri.

A lunedì per il seguito!

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Il Mondo

L’amico scuote l’aureola.

“No!” grido.

L’ho stupito: osserva meglio la madonna di legno che sta torturando.

“Vuoi dire che questo cerchio non serve ad appendere la statuetta?”.

Sorrido. Ormai dovrei sapere che ciò che è sacro per qualcuno è ridicolo per qualcun altro. L’amico è un ex vicino del Raval, ha partecipato anche lui alla mia mudanza col carrello da spesa che ha parcheggiato nell’androne: gli cedo gratis le madonnine kitsch e i quadretti che tre mesi prima, al mio compleanno, mi avevano raccomandato di provare a vendere. Ma io voglio sgomberare la casa prima possibile.

“E questa cos’è?” interroga l’amico.

Non vedo subito l’oggetto che mi ha indicato: sto controllando di nuovo il cellulare. Un tempo aspettavo i messaggi di Bruno, adesso a farsi desiderare è il proprietario dell’attico gelido, che a quanto pare è ancora in affitto. Ma sono tenace: ho trascorso il pomeriggio di Pasqua nei pressi del palazzo dove si trova l’attico, in un parchetto del Poble-sec dalle pergole ricoperte di glicini. A vivere da quelle parti, mi rimetterei più in fretta. Ho ripensato a mia nonna, che si rammaricava da Skype perché non ero da lei per Pasqua, ma uscendo dal parco ho sorpassato palazzetti bassi dai colori pastello, e gli edifici moderni del Passeig de l’Exposició, coi balconi di lamiera colorati da qualche bandiera indipendentista. La mia sorpresa mi ha divertito: un quartiere di Barcellona che fosse ancora abitato da barcellonesi? Qualcuno in quelle case sperava in un futuro migliore, e in quello, almeno, volevo credere anch’io.  

“Vabbè, questa roba te la lascio”.

Finalmente mi giro, sorprendendo l’amico nell’atto di cacciarsi un Gesù Bambino nella sporta già piena: l’oggetto che mi indicava prima era la mangiatoia.

“Con ‘questa roba’ il bambinello vale di più” gli assicuro.

“Allora è una culla? Anche se è piena di paglia?”.

“Serviva a nutrire un bue”.

Quello crolla il capo. Forse si chiede a che prezzo possa vendere quella paccottiglia incomprensibile.

Anche io ho tante domande su ciò che farò: il trasloco, il mezzo tirocinio che mi inizia allo Spazio… E poi la Petulante mi ha già bocciato il progetto principale.

“Mettiamo pure che trasformi casa tua in un AirBnb: di tutte le persone che te lo potevano gestire, hai scelto proprio…?”.

Non è come pensa, mi ripeto salutando l’amico che si allontana col carrello pieno. Non so ancora niente di licenze turistiche, di permessi e lotte alla gentrificazione, ma sono sicura di una cosa: con Bruno non ci sarebbero contatti. Se accetta la proposta di gestirmi la casa, ci sarà un solo incontro, per un rapido scambio di chiavi, e il resto saranno comunicazioni di servizio e versamenti bancari. Bruno ha bisogno di soldi, e io ora so che, semmai fosse possibile, dovrebbe tornare lui da me e non viceversa. Rinunciare a lui non significa smettere di volerlo aiutare.

È anche per questo che sgombero casa: l’amico agente immobiliare ha già portato degli studenti a vederla, ma nessuno la vuole, è troppo vecchia e lugubre.

Dopo che ho inviato a Bruno la “proposta indecente”, sono così tesa che uscendo dimentico la penna. Me ne accorgo che ormai sono a un passo dalla biblioteca, in una zona senza cartolerie, e per non darmi della cretina mi appello a quei manuali fumosi che sto leggendo sulla sincronicità junghiana: che la mia sbadataggine porti con sé una lezione?

Forse devo accettare con umiltà i miei errori più scemi, oppure devo imparare a chiedere quando ho bisogno di qualcosa, fosse anche una penna in prestito! Ma no, perché? Per una volta mi godrò le letture junghiane senza l’ossessione di prendere appunti…

Entro in biblioteca e, proprio accanto ai tornelli, la vedo.

Chiedo un po’ in giro ma no, non appartiene a nessuno; una penna in biblioteca, che coincidenza incredibile! Il bello è che, rapita dai miei pensieri, quasi non la notavo: forse questa è l’unica lezione possibile.

L’ho appena raccattata, quando mi telefona Bruno.

***

Mentre mi parla inizio a camminare.

Sto avanzando verso la Rambla del Raval, ma stavolta non seguo la strada del mare. Sono solo affari, ricordo, e lui è un po’ impacciato ma gentile: prima di discutere del progetto deve darmi una notizia che “forse già conosco”. Si sposa, decido. La Biondissima è incinta e si trasferiranno nel suo paese, dove lui insegnerà italiano e saranno felici, e…

“Parto”.

Guardo davanti a me la strada sozza, e penso subito a un tarocco che nei mesi più bui pescavo spesso, se mi interrogavo su Bruno: il Mondo. Spesso indica un viaggio. Che scema che ero: Bruno non parte mai. Minaccia sempre di farlo, poi resta. Almeno so per certo che con la Biondissima è finita: dal tono di lui è evidente che quella partenza è una fuga.

All’improvviso c’è qualcosa di nuovo a unirmi a questo Bruno sconosciuto. È una sorta di pietà, forse reciproca: un’umanità di amanti sconfitti, distrutti dai propri sbagli.

Lui invece non afferra i miei accenni ad analisi mediche, alle compresse che ancora prendo per assicurarmi di non produrre latte… In che senso, vuole sapere. Forse gli verrebbe più facile credere di avermi messa incinta, piuttosto che immaginarmi insonne e inappetente (e piena di latte!) per qualcosa che lo riguardi in prima persona.

Quando riattacco non so ancora che Bruno farà il prezioso per un po’, poi respingerà la mia offerta. È facile da immaginare, ma sono troppo distratta dalla scoperta che il mondo è uguale a prima. In fondo, alla Biondissima avevo dato tre mesi, e poi mi viene in mente una frase lapidaria di mamma al telefono, nel caos dei primi tempi senza mangiare.

Che lui stia con un’altra o entri in convento, a te che importa? L’unica questione che ti riguarda è che non vuole stare con te.

Il bello è che stavolta non gli servirei neanche per consolarsi: è chiaro che a questo dolore qua non vuole rinunciare. E io?

Io sono occupata a nutrire questa forza che non mi molla più, che dopo anni di abbandono pretende tutta la mia attenzione.

Il mio corpo, adesso, è aperto solo a lei.

A lunedì per il seguito!

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A lunedì per il seguito!

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L’unico invitato

Da Decopompoms, su Etsy

Ma sì, proviamo.

Ormai mangio almeno due pasti al giorno, e dormo più di cinque ore. E poi quand’è che ricompio gli anni di Cristo? Inoltro l’invito a tutte le mailing list, e poi chi viene viene.

Gli psicodrammi mi invadono casa prima ancora che la festa inizi. Il tipo che mesi prima mi aveva chiesto di mediare con la ex mi chiama ora per sapere se può portarsi dietro “un’amica”. Avvisata della richiesta, la ex annuncia che non parteciperà più, anche se il tipo intanto ha deciso a sua volta di rinunciare al suo “+1”. Alla fine il tipo si presenterà da solo, verificherà l’assenza della ex e telefonerà all’amica per farsi raggiungere. Continua la saga dei trentenni con vite sentimentali da scuola dell’obbligo, e io non posso fare la morale a nessuno.

Per mediare invano tra le parti in causa, arrivo un po’ in ritardo all’appuntamento con la parrucchiera: voglio rimuovermi dai capelli il biondo giallastro che mi rendeva un incrocio tra Shakira e Lady Gaga, e ritrovare il mio colore naturale, anche se tutto ciò che posso fare è avvicinarmici con un’ulteriore tinta, un’altra finzione. Tempo al tempo, mi consiglia questa latina di Miami che nella mia vita ha sostituito le catene di parrucchieri, con le apprendiste che mi facevano troppo bionda e si dileguavano in cerca di un lavoro migliore. Questa qui, invece, promette di rimanere.

A casa recupero ombretti e pennelli, ma il correttore non mi riesce a nascondere le occhiaie, e sul volto smunto il mio naso sembra enorme, la bocca larghissima. Il vestito è nero e stretto, con l’orlo di pizzo sulle coppe preformate: fasciata in quello, sembro ancora più magra.

Per l’occasione Bruno è tra i primi ad arrivare. A meno di non contattarlo apposta, mi era impossibile verificare se venisse, né sapevo cosa sperare. C’è come uno scollamento tra il pensiero costante di lui e la visione di quest’uomo coi capelli più lunghi, che come regalo mi ha portato anche quest’anno qualcosa da mangiare. È in bolletta e non trova lavoro, o così gli sento spiegare, in inglese, a una donna alle spalle del buffet. Quando mi giro a vedere chi sia la sua interlocutrice soffoco un’imprecazione: a lei non avevo pensato. Mi ero preparata alla possibilità che Bruno passasse il mio compleanno a sdilinquirsi, come l’anno scorso, davanti all’amica Occhiblù, che si è presentata subito dopo il lavoro facendomi sentire un verme, per il diradarsi dei nostri contatti.

Invece non avevo pensato a questa ex collega dell’azienda che mi aveva licenziata: è proprio il suo tipo, magra e squadrata, gli occhi verdi spalancati in un’espressiome di eterna meraviglia. E la Biondissima, allora? Non devo chiedermelo, devo badare agli altri invitati. Una ragazza che mi ha regalato una crema profumata si lamenta: e la torta? Non ci avevo neanche pensato, né a quella né alle candeline… Avrei avuto paura a esprimere il desiderio.

Il mio stato d’allarme dura poco: Bruno finisce per isolarsi da tutti, gli occhi puntati sul cellulare. Mi tocca tornare a rispondere alla gente che mi dice che sto benissimo in quel vestito, ma cavoli, tanti chili persi saranno salutari?

Verso mezzanotte, i pochi invitati rimasti si stanno organizzando per andare in un bar, a prendere il bicchiere della staffa. Incapace di accompagnarli mi piazzo sulla porta di casa, per il rituale dei saluti.

Ancora auguri, grazie per la festa. Grazie a te.

Ciao, auguri, alla prossima. A presto.

Solo Bruno mi passa davanti in silenzio, gli occhi incollati al telefonino. Riesce a scendersi mezza rampa di scale prima che qualcuno lo rimproveri: che fa, non saluta la festeggiata?

Allora alza la testa tutto confuso, come quando dormivamo abbracciati e si risvegliava troppo presto, svegliando anche me. Stavolta sembra sorpreso di trovarsi su quelle scale, e per un istante deve strizzare gli occhi per mettermi a fuoco.

“Ah, sì, ciao” mugugna, tracciando un gesto nell’aria. E torna al telefonino.

Un giorno mi accennerà che associa la Casa degli spiriti a un brutto ricordo, una brutta notizia ricevuta proprio alla mia festa. Non ho voluto approfondire finché non ho iniziato a scrivere queste pagine, e d’altronde non era necessario. La Casa degli spiriti, teatro delle mie ore più cupe, era per lui associata al ricordo di un’altra. Dell’altra.

Ma sul momento ignoro tutto questo. So soltanto che un unico invitato, tra tutti gli amici e i conoscenti e gli imbucati senza preavviso, un unico invitato se ne stava andando senza salutare, senza neanche riuscire a scorgermi mentre lo guardavo desolata.

Così concludo la serata tra il divano e il balcone, distesa a piangere su un tappeto rosso su cui qualcuno ha fatto cadere dello champagne.

A lunedì per il seguito!

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Pronto intervento

La prima riunione tocca a me.

Ho tutto pronto per la coordinazione: mi presenterò in anticipo allo Spazio, e sarò professionale. In fondo è il primo incontro dell’anno.

L’attacco di panico in palestra era impossibile da prevedere. Per rimediare ho ascoltato all’infinito Mr. Brightside: a farlo di mia volontà non ho problemi, ma una volta non ho chiuso bene YouTube, e la canzone mi è stata sparata nelle orecchie appena ho riacceso il computer. Ho dovuto trattenere un conato di vomito: gli imprevisti, anche piccoli, restano il mio tallone d’Achille.  

La sera prima della riunione sono angosciata. Non sono più abituata a vedere tante persone, tutte insieme. Spero che Bruno non venga, o che la sua presenza non mi turbi troppo. Sono in salone, rannicchiata sul divano damascato con una coperta di pile che quasi si scioglie al contatto con la stufa alogena. Per fortuna è uno schifo di stufa, buona solo a illuminare la stanza di una lucetta arancione. Mi accorgo di sfiorarla con la coperta ogni volta che sento odore di plastica bruciata. Il film che sto guardando è un drammone storico, pieno di fughe e colpi di pistola, ma l’ennesima sparatoria è coperta da grida improvvise, che sopraggiungono dalla strada. Chi si lamenta in questo modo?

Esco dal balcone più vicino: quello che Bruno fissava mentre mi diceva addio. Per paura che entri la tramontana mi chiudo la porta scorrevole alle spalle, e intanto spio al di là della pianta dalle radici pensili. Il ragazzo non urla più: piange, chiuso nell’angolo tra la strada principale e il vicolo su cui affaccia il balcone. Piange come se stesse da solo in cameretta, e invece è circondato da poliziotti, che lo tengono immobilizzato contro il muro. Una volante, porte aperte e luci accese, sbarra l’ingresso del vicolo. Il ragazzo sta chiedendo perdono a Dio per una situazione che non afferro: è un ladruncolo, un piccolo spacciatore? Sembra inconsolabile, vorrei fare qualcosa, ma… Schiacciata dall’impotenza, accenno a rientrare.

Non ci riesco.

Che succede? La mia mano spinge un po’ la maniglia, poi la scuote. Niente. Ho le dita doloranti e la porta scorrevole non si è mossa di un millimetro.

Attraverso il vetro osservo la coperta, che alzandomi ho lasciato cadere sul tappeto, e l’impronta del mio corpo sul divano. Il film va avanti anche senza che io lo guardi, intenta come sono a osservare la mia vita dalla parte sbagliata del vetro. Un lembo di collo lasciato scoperto dalla felpa rabbrividisce sotto una folata di vento. Le voci alle mie spalle sono cessate: gli sportelli della volante si chiudono tutti insieme.

Resto a lottare un altro po’, poi mi arrendo.

Il poliziotto che chiamo dal balcone soffoca una risata, come se fossi una bambina che si sporge dalla ringhiera. Anche il suo collega reprime un moto di incredulità: forse sarò io, e non il ragazzo arrestato, l’aneddoto da raccontare a fine turno.

Le risatine diventano sguardi perplessi quando esibisco uno sgabello arrugginito, scovato tra le radici pensili della pianta.

“Che faccio, provo a rompere il vetro?”.

Gli agenti si affrettano a chiamare i pompieri.

Per mezz’ora posso solo studiare il riflesso della sirena sull’altro balcone della stanza, che dà sulla facciata dell’edificio. Scorgo prima una sagoma appesa a quella ringhiera lontana, poi un elmetto illuminato da una torcia. Atterrato sul balcone, l’uomo resta accovacciato per un minuto scarso, alle prese con l’altra porta scorrevole: apriti sesamo.

L’intruso sfoggia un’abbronzatura artificiale che lo rende ancora più scuro, sotto i riflessi arancioni della stufa, ma mi sfodera un sorriso da pubblicità mentre attraversa il salone come se in quella casa ci abitasse. Sono io l’ospite a cui, bontà sua, sta procedendo ad aprire la porta. Così vengo riammessa d’ufficio nella mia vita.

Non è che i pompieri potrebbero salvarmi anche dalla riunione? A quanto pare, è già tanto se non mi fanno pagare l’intervento!

“Ti sei spaventata, eh?” scherza all’ingresso uno dei poliziotti, salito sul pianerottolo insieme ai pompieri.

Anche il mio vicino si è affacciato, in vestaglia: il pompiere che mi ha aperto la porta ha usato il suo balcone per arrivare al mio. Il vicino è rosso in viso, l’influenza lo costringeva a letto e suo marito è in viaggio per lavoro. Guardandolo capisco che stiamo pensando la stessa cosa: è raro vedere tanti uomini così belli, tutti insieme. Me ne accorgo perfino io, che ho gli ormoni in sciopero.

È una visione anche il capo dei pompieri, un uomo atletico e brizzolato che mi insegna cosa fare se mi, ehm, distraggo di nuovo nell’usare la porta scorrevole: l’anta va sollevata dal basso. La prossima volta sarò in grado di salvarmi da sola, mi incoraggia, e guarda ironico il povero sgabello che intendevo brandire contro la mia sorte. Intanto, conclude, ho fatto bene a chiedere aiuto.

La sera dopo racconto l’aneddoto all’inizio della riunione, contenta di avere qualcosa a cui aggrappare la mia ansia.

Manco a dirlo, Bruno arriva per ultimo, facendosi precedere da un attacco di tosse. Il senso che ho affinato per i suoi malesseri si attiva prima che possa frenarlo: non sta bene. Dopo il primo momento di allarme mi guizza in testa una speranza indecente.

“Dai, Bruno, scrivi tu il verbale!” applaudono intanto i Morti di Figo.

Forse la Biondissima si è già eclissata, penso cedendogli il taccuino. Una volta ridevo anch’io dei suoi verbali epici.

I primi a lasciare la riunione sono i quarantenni: hanno figli da prelevare in palestra o al conservatorio, e magari la cena da preparare, specie se la loro compagna non è italiana. Restiamo noi trentenni spiantati. Forse nei paeselli d’origine avremmo già tirato su una famiglia col nostro primo amore, o almeno con “lu secondo”, più bello ancora. Forse, dopo qualche anno di matrimonio, avremmo dato lavoro agli alberghi a ore che costeggiano le nostre strade verso il mare: le stesse che avremmo percorso poi in estate, con la station wagon sormontata da un canotto gonfiabile a forma di cigno. Invece siamo in questa città strana, a vivere telenovele idiote con gente persa nel mondo.

Intanto il mio l’ho fatto. Per andar via non mi resta che riprendermi il taccuino. Senza guardarlo in faccia, indico a Bruno la sua scrittura irregolare: strappasse pure le sue pagine, appena me le manda riassunte provvederò a inoltrare il verbale.

Devo guardarlo per forza, perché ha iniziato a sbuffare: questo “favore” me lo può fare al massimo tra una settimana, che adesso ha da fare. Sento montare una rabbia che non ricordavo: quella delle piccole cose, dei momenti di esasperazione che era in grado di regalarmi quest’uomo. Quando me ne toccava uno al giorno, quasi non li vedevo. Adesso ho perso l’abitudine, e con quella la pazienza.

“Vabbè, Bruno, al tuo buon cuore!”.

La frase esplode in tutto il suo sarcasmo prima che me ne renda conto. Ne resto turbata, mentre mi dileguo: ho una voglia improvvisa di finire l’hamburger vegetale iniziato la sera prima. Ormai termino i pasti in due giorni, invece che in tre.

Prima di coricarmi controllo per inerzia la posta elettronica: c’è una nuova mail. Non riconosco subito il nome del destinatario, non sono più abituata a leggerlo. È il verbale della riunione. Lo accompagna una frase che sottolinea la fretta con cui è stato stilato: nel linguaggio di Bruno, è la cosa più vicina a una richiesta di scuse.

Cristo. Me ne sono accorta da subito, da quando lui era solo uno che si lamentava con me su Facebook: trattarlo appena un po’ male era la soluzione migliore per fargli fare le cose.

Ed era l’unica cosa di cui non ero capace.

A venerdì per il seguito!

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Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Mr. Brightside

Ballatoio della palestra Can Ricart, in una foto di TimeOut

Perché no?

Dall’Italia sono partita con qualche etto in più, e con la rinnovata usanza di mangiare tre volte al giorno (anche se lascio il piatto a metà). D’altronde l’I-Ching mi dava spesso come responso l’esagramma 27, “Gli angoli della bocca”. Dovevo mangiare. Ma l’oracolo definitivo era stato mia nonna: se me lo ordinava lei, recuperare l’appetito era un obbligo!

A questo punto, perché non tornare in palestra? Se mi sento troppo debole, mollo dopo un quarto d’ora e torno a casa.

Mentre mi immergo nel riscaldamento (venti minuti di cyclette) considero che anche l’Amico per eccellenza mi ha fatto bene, con la sua presenza muta e solidale nella mia cameretta di bambina. Sta parlando di “venirmi a trovare” a Barcellona, ed è un’ottima idea: così lui si trova un lavoro decente, o migliore di quelli che becca in paese, e io mi godo il suo sostegno. L’isolamento in cui sono caduta è un problema.

Approfittando di questi passetti da formica, sto provando a rendere abitabile la mia Casa degli spiriti: c’è da rifare l’impianto elettrico, altrimenti il pericolo per me non saranno certo i fantasmi… Comincia a premermi la mia incolumità, ed era ora, dopo quattro mesi passati in quello scenario da horror. Il capomastro mi è stato consigliato all’unisono dal Figo e dai suoi Morti: che sia un loro compagno di bevute? Con una certa spavalderia, quell’uomo latino coi capelli già bianchi mi ha annunciato che, per mille euro in più, potrebbe perfino tinteggiarmi le pareti ingiallite… Ma a incarico ottenuto ha cominciato subito a pentirsi dell’azzardo.

Mentre accelero la pedalata sto scegliendo il colore da dare alle stanze, e intanto mi guardo intorno: non sono l’unica a fare progetti! Il ballatoio degli esercizi cardio è cambiato, come pure la sala attrezzi al piano di sotto. Da quanto tempo manco? Quella fabbrica riqualificata dal comune inizia a prendersi sul serio. I pannelli che ho visto esposti all’ingresso mostravano la sua trasformazione in club sportivo a vocazione multietnica. Forse era per questo che l’uomo col mastino detestava l’“ambientaccio”, e i giovani immigrati che lo popolavano. Ma l’uomo col mastino è finito chissà dove, dopo il suo sfratto senza gloria, e io sono ancora lì, a rimettermi in sesto insieme alla palestra multietnica.

Fortuna che ho scovato l’unica cyclette libera sul ballatoio. Continuo a pedalare a velocità moderata, con gli occhi rivolti ai monitor accesi lungo la parete di fronte. La tuta mi scende troppo sui fianchi e rimango subito col fiatone, ma mi perdono anche quello. Comincio a perdonarmi un bel po’ di cose.

Ho abbassato gli occhi un momento per risollevarmi i pantaloni, ma li ripianto sul monitor, ipnotizzata da un giro di chitarra che mi pare angosciante. Quello lì è il cantante dei The Killers? Sì, e la canzone dev’essere vecchiotta, ma il video sembra recente: una ragazza dalla pelle di latte è contesa tra un attore famoso e il cantante stesso, che appare angosciato sul serio mentre vede flirtare la fidanzata col rivale… Oddio, i pedali. Dove sono finiti?

But she’s touching his chest now

He takes off her dress now

Let me go…

I miei piedi rallentano senza riuscire a frenare. I raggi della bicicietta seguono un ritmo loro.

I just can’t look it’s killing me

They’re taking control

Ed eccoli, su tutti gli schermi: Bruno e la Biondissima. A reti unificate i loro capelli si confondono sullo stesso cuscino. Il mio.

Jealousy

Turning saints into the sea

Qualcuno spenga i monitor, o inizio a urlare.

But it’s just the price I pay

Destiny is calling me

I miei piedi si devono riabituare al suolo prima che mi giri troppo la testa. Tanto la mia pedalata non portava in nessun posto. E poi la Petulante me lo raccomanda sempre.

Open up my eager eyes

Quando sono imprigionata nella mia testa, dice la Petulante, devo premere i piedi sul pavimento…

Cause I’m Mr. Brightside.

Così me lo ricordo subito.

I never… I never…

Così ricordo subito che il mio presente è qui.

A mercoledì per il seguito!

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La ragazza sul balcone

Da rare-gallery.com

È stato l’urlo a svegliarmi.

Lo seguono passi veloci, interruttori che scattano.

Forse era successo altre volte, ma non me ne accorgevo, quando crollavo stesa da un’ora di pianto. Ormai ho provato a uscire dal mio angolino buio di corridoio, e sono fissa nella camera da letto a fiori azzurri, che ha un armadio vero e un balcone. Era accanto all’armadio che avevo trovato la bambola, tutta nuda e altera sulla sedia di velluto.

Quando l’urlo si smorza c’è uno scroscio prolungato, come di una vasca che si riempie. La mia scarsa cultura horror rievoca storie di reclusioni domestiche, e spaventosi bagni “ristoratori”.

La matta di casa. La matta dell’attico. Sopra il mio appartamento non c’è l’attico, ma ora so che c’è qualcuno che soffre.

Il giorno dopo chiedo lumi al vicino di sotto: un inquilino napoletano che affitta camere a gente di passaggio, attirandosi l’ostilità delle vecchie catalane che vivono nel palazzo. Il vicino mi coltiva come potenziale alleata alle riunioni condominiali, ma davanti alle mie domande nicchia un po’: al piano di sopra si rifugiano perlopiù dei migranti clandestini, che incontri una volta per le scale e non vedi mai più. Impossibile dire chi di loro avesse urlato l’altra notte. Dall’attico, invece… Ma a quel punto il vicino si interrompe. “Dall’attico…?” lo incoraggio.

Dall’attico è precipitata una ragazza.

È successo un anno prima che arrivassi io. Era una giovane americana, prosegue il vicino, venuta in Europa col marito per la luna di miele. L’avevano trovata su uno dei miei balconi: quello della stanza con la carta da parati a fiori azzurri. Mica è lì che dormo, vero? Ah! Ma chissà, forse è andata finire bene: nessuno conosce la sorte di quella ragazza. Certo, quando l’hanno trovata aveva le gambe spezzate, era stata chiamata un’ambulanza. Mentre ascolto, ho la sensazione che quell’uomo ancora giovane muoia dalla voglia di farsi un segno di croce, prima di concludere la sua storia.

Il marito della vittima, americano pure lui, aveva spiegato in uno spagnolo caricaturale che i due stavano litigando, che alzavano la voce. A un certo punto lei era rimasta in silenzio e si era buttata giù, senza una parola. Il marito sembrava disperato: la sua sposa aveva tentato il suicidio per uno stupido litigio… Ma il vicino, quando pronuncia la parola “suicidio”, mi fa un cenno d’intesa tutto partenopeo. Seh, seh.

Neanche del marito sa nulla. Pareva sparito insieme all’ambulanza, come se avesse la valigia pronta o non gli importasse di recuperare le sue cose.

Alla fine era un extracomunitario pure lui, riflette il vicino, e si era dileguato come i clandestini del piano sopra al mio. Però quelli erano colpevoli solo di esistere. L’americano, invece…

Quella notte chiudo bene la serranda sul balcone, e capisco: presto me ne andrò dalla Casa degli spiriti.

Il mio privilegio me l’ha gettata tra le mani, ma è come se la casa stessa mi dicesse che non va bene, che non mi vuole, che devo andar via.

O forse devo ricominciare a mangiare sul serio, per farla finita con ‘sti deliri.

A venerdì per il seguito!

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Quelle che servono

 

Da plumens.com

Non è lui. Lui è un sintomo.

Avevo fame e ho trovato lui, e invece dovevo saziarmi di me.

Dopo l’ultima frase a effetto, la Petulante poggia la penna sul taccuino. Resta sempre un po’ stronza, ma ha ragione. Un giorno darò della stronza a me stessa, per quell’ostilità cocciuta verso la mia terapeuta. A conti fatti ha sbagliato solo due cose, una più grave e una meno.

La meno grave è stata farmi sentire come una crostatina del Mulino Bianco, col suo discorso su come non fossi proprio “da dieci”. Ma ora so cosa voleva dire: a Bruno le donne piacevano fatte in un certo modo (“affilate”, a quanto pareva), mentre io ero fatta in un altro. Quel dettaglio non mi aggiungeva e non mi toglieva niente.

La cosa più grave è stata il suo martellare perché lo lasciassi perdere. Un giorno sentirò delle esperte in rapporti di coppia (e violenza di genere) affermare che l’ultima cosa da dire in certi casi è: “Devi lasciarlo”. Come se la tizia in questione non lo sapesse già.

Per il resto, la Petulante aveva ragione: il mio corpo è stato l’unica guida mentre la testa svariava. Il ventre contratto mi ha fatto da bussola in quei giorni di finta estate, di strategie surreali e di ciclo bloccato, che in un anticlimax mi va tornando man mano che smetto di cercarmi le cose in valigia e “prendo possesso” della casa, o almeno ci provo.

Questo linguaggio del corpo segue un percorso a me ignoto, diverso dai miei soliti schemi mentali.

“I segnali che ti mandava il corpo ci sono sempre stati” sorride la Petulante. “La differenza è che adesso impari anche a notarli”.

Magnifico: io non vedevo i segnali, e Bruno non vedeva me. Nei suoi occhi ho trovato solo le mie paure.

“Avevi perso i punti fermi” chiosa la Petulante. “Risentivi della condizione di straniera, del licenziamento, dell’università che non ti pagava neanche l’assegno di ricerca promesso…”.

Insomma, a un certo punto pensavo di non valere niente, e mi sono trovata qualcuno che fosse d’accordo con me. E siccome ritenevo impossibile cambiare la mia vita, ho provato a cambiare lui.

Dio santo. Quello che mi spiazza di più è che pensavo di avere le cose sotto controllo, e invece ero del tutto fuori strada. Mi perdonerò mai per questo? La Petulante infierisce.

“Vedi cosa succede a non essere in contatto con le proprie necessità? Credevi di aver comprato la casa ideale, anche se piaceva solo ai tuoi. Credevi di aver trovato il corso che ti avrebbe riportato all’università, anche se il titolo che rilasciava era carta straccia…”.

Annuisco. Soprattutto, conclude lei, pensavo che un tipo con difficoltà evidenti a innamorarsi (o almeno, a innamorarsi di me) fosse ormai “tornato sul serio”, solo perché in quel momento gli serviva una spalla su cui piangere.

Mica solo una spalla, faccio per dire, ma sono troppo annichilita per scherzare, e la Petulante preme perché ammetta una cosa: l’intuizione, o almeno la capacità di capire cosa voglio, è importante almeno quanto la logica. E sì, passa per le sensazioni del corpo.

“Pensa a quante strategie hai elaborato per tenerti Bruno: com’è andata? Al primo soffio è crollato tutto il castello di carte”.

Castello di carte? No. Di carta, semmai. È bastato un imprevisto idiota, uno scambio linguistico con la bionda sbagliata (o quella giusta, magari…), e l’illusione che tutto volgesse al meglio è andata distrutta. Anche gli “esercizi” della Strategica erano trucchetti da baraccone, ma almeno mi hanno fatto capire una cosa: è ora di cambiare strategia. Sul serio.

Voglio trovare la forza di tradire Bruno con me. Anche se in questo momento sono l’ultimo dei suoi pensieri, ho ancora questa sensazione: progettare una vita senza di lui è un tradimento. Ed è anche l’unica scelta che ho.

Se per qualche tempo devo affondare in un pozzo nero, voglio che almeno mi serva a cambiare, una volta per tutte. Questo qui è un “almeno” che potrei amare. La Petulante solleva la testa dal taccuino:

“Sarà un po’ come imparare di nuovo a camminare”.

Sgrano gli occhi:

“Quante cazzo di volte bisogna imparare a camminare?”.

La Petulante mi sorride:

“Tutte quelle che servono”. 

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Scoop!

Mi rivedo nell’atto di ridere, mentre scelgo un’oliva.

L’amico invece sgranocchia delle patatine, già stanco delle mie lagne.

L’ho reclutato all’ultimo momento per festeggiare la fine del trasloco, che è durato quasi tre giorni. I vicini pakistani che caricavano gli scatoloni sui loro carrelli mi rivolgevano le stesse tre frasi in inglese o in spagnolo, mentre io in urdu sapevo dire tipo “ti amo” e “lenticchie”: come risultato dell’esperimento linguistico, dopo aver già pagato i duecento euro pattuiti mi sono ritrovata il ripostiglio ancora ingombro. I vicini e i carrelli erano spariti, e il giorno dopo dovevo riconsegnare le chiavi, o addio caparra.

Mentre risalivo a prendere le ultime cianfrusaglie, sulle scale mi ha seguita una donna tarchiata, coi capelli ondulati color biondo platino e le zeppe di sughero molto alte. Non era la prima volta che la vedevo: a parte i capelli mi ricordava Iside, la prostituta dal cuore d’oro di Brutti, sporchi e cattivi. Le ho dato la precedenza perché reggeva due buste della spesa, e sono riuscita così a coglierla mentre si fermava davanti a una certa porta, armeggiando con un mazzo di chiavi dall’aria antica. L’uomo col mastino deve aver sentito il frastuono, perché si è affrettato ad aprire.

Così l’ultima immagine che mi rimane di lui è quella di un’ombra al di là di una porta socchiusa. 

“Ancora non riesco a usare la chiave” ha ridacchiato Iside, accentuando un’inettitudine che di solito non deve avere. Avrà già capito quanto piaccia, a lui, salvare le donne che trova maldestre.

Stavolta ho sorriso anch’io: uno che cambiava serrature ogni giorno non faceva niente per riparare la sua! Magari pure quella era un ricordo d’infanzia…

Poi è stato il mio turno di chiudere a chiave, per l’ultima volta: niente piagnistei, dovevo cercare un Internet point che mi stampasse i documenti per il corsetto online, il cui inizio è imminente. Giorni prima un’impiegata del Consolato mi ha messo in guardia, il titolo finale mi verrà riconosciuto solo nell’università che impartisce il corso. I dubbi su quella faccenda mi erano venuti da un po’, ma ormai la retta era pagata.

Quando già stringevo in pugno i documenti, incerta se tornare addirittura a casa per riporli in un luogo sicuro, ho deciso in extremis di chiamare l’amico, che vive a cinquanta metri dalla Rambla del Raval e a duecento dalla mia nuova casa. È uno dei pochi con cui ho legato allo Spazio, e so che frequenta pure il bar in cui Bruno ha lo scambio linguistico con quella tizia biondissima.

Sono quasi le otto di sera ed è domenica, al centro della Rambla del Raval c’è la “tenda berbera”: un bar tutto drappeggi e tavolini bassi che viene montato solo il fine settimana. I proprietari magrebini non servono alcool, ma frullati e tè alla menta, qualche bibita gassata e tante olive.

Fino a poco tempo prima non sputavo i noccioli: mi faceva schifo vederli nel piatto mezzi rosicchiati, piuttosto preferivo il mal di pancia! L’amico ride della mia rivelazione, lieto di interrompere i discorsi sul triangolo svogliato che lui porta avanti, e sul tizio misterioso che mi tiene “in sospeso” da un anno. Anche stavolta non faccio nomi, ma brandisco uno stuzzicadenti come se fosse una spada: “Se quello lì non torna presto, non mi trova più”. E infilzo un’altra oliva.

L’amico approva la decisione senza fare ulteriori commenti. Il suo volto già si illumina di un sorriso più frivolo:

“Sai lo scoop?”.

Ma sì, spettegoliamo un po’!  Almeno diamo un senso alla serata. L’amico fa una pausa teatrale, poi aggiunge:

“Il nostro Bruno si è innamorato…”.

Nell’istante in cui esita ho il tempo di pensare che Bruno l’ha fatto di nuovo: ha parlato a qualcuno della nostra “frequentazione” senza nominarmi. Poi l’amico prosegue:

“Si è innamorato di una con cui ha lo scambio linguistico, in quel bar che…”.

“Una tizia biondissima?”.

L’amico affoga la delusione in un sorso di tè.

“Ah, allora già lo sapevi! Vabbè, ormai lo sanno tutti”.

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Luce

Adesso gli è tutto più facile.

Me lo spiega tranquillo, mentre chiacchieriamo tra le lenzuola sfatte. Una volta si rallegrava perché con me era riuscito ad abbassare gli standard. Adesso che quasi diventavo pelle e ossa, deve riconoscere che è più semplice andare con una ragazza che “gli piace pure”.

Mi si mozza il respiro, come ai vecchi tempi. Non commentare, mi ripeto. Lui dice tante boiate, ma poi finisce per fare la cosa giusta.

Me lo ripeto anche allo Spazio, mentre pianifichiamo la serata di beneficenza che sarà l’evento principale dell’autunno. A un certo punto, a Bruno viene chiesto in tono un po’ irridente se “in questo momento” lui stia con qualcuna, e lo sento esitare un istante solo prima di rispondere a bassa voce: “No”.

Sciocchezze, per una volta la situazione è sotto controllo! Sto meglio, sto comprando casa, è tornato Bruno. La Petulante non mi incanterà con le sue storie sull’ascolto del corpo, anche se ho questo formicolio alla pancia e il mio ciclo è bloccato. Finisce che ho un ritardo di due settimane, e so di non essere incinta: Bruno è ancora più maniacale di me nell’evitare rischi. Di certo sono i nervi per la casa, e per le scartoffie di un titoletto universitario che, nei miei piani, mi farà rientrare in sordina nel mondo accademico. Ho ingaggiato a mia insaputa un falso traduttore giurato, e quando ho scoperto l’inghippo ho dovuto far ricorso a un’agenzia online. È ufficiale, l’Europa unita è una baracconata anche per chi ha il passaporto giusto: omologare un titolo di studio è un’esperienza massacrante, e pure costosa.

Ma chi se ne frega di queste minuzie! Dopo la nuova frenesia che ci ha presi, Bruno “passa” meno spesso, ma a intervalli costanti. È una cosa buona, vero? Darsi una calmata, crearsi una routine. È quello che fanno le coppie normali, come… come noi. All’improvviso non sono più un’ospite occasionale a casa sua, e una mattina, in bagno, sto per recuperare lo spazzolino dalla tazza sbreccata che ne contiene vari, poi la mia mano si ferma. Se lo lascio lì è più comodo, no? Mi chiedo pure se dirglielo o no, poi mi rispondo che certe cose è meglio farle e basta, che a ragionarci su si fa peggio.

Anche il suo modo di parlarmi delle ragazze è cambiato: non si dilunga troppo negli apprezzamenti, oppure evita proprio. Ridiamo insieme del fatto che la passione ritrovata abbia, come risultato inedito, quello di farci aguzzare la vista: anche io noto di più i bei ragazzi in strada! Un pomeriggio lui mi spiega che in un bar vicino casa sua, che organizza spesso eventi e scambi linguistici, ha conosciuto una ragazza pallida e biondissima che vuole imparare l’italiano. Bruno mastica qualche parola nella lingua della ragazza, ma vorrebbe approfondire, così loro due si sono dati appuntamento nel bar al prossimo evento. La mia testa sul suo petto si irrigidisce, ma lui non se ne accorge. È soddisfatto dell’opportunità, e non ha fatto apprezzamenti sull’aspetto fisico della ragazza biondissima: quando mai me ne ha risparmiati, su una che gli piaceva? E poi, non ho più niente di cui preoccuparmi.

È domenica e il sole inonda il letto stropicciato. In quella luce perfetta lo scopro a osservarmi: le sue iridi hanno una sfumatura dolce che non gli ho mai visto.

“È un piacere guardarti” confessa.

E allora mi godo la luce sulla pelle umida, e gli occhi di Bruno. Mi nutrirei solo di quelli, di lui.

A venerdì per il seguito!

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