Archivio degli articoli con tag: relazioni

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Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Quella dopo

Davvero mi ha nominato la sua ex?

Perché al mattino mi sembra tutto confuso, mentre ci arrangiamo col pane del giorno prima e nessuno di noi due vuole farsi sei piani per portarne di fresco. La colazione insieme non era prevista, così come non era previsto che lui, ore prima, mi informasse ridendo che avevo i pori del viso dilatati. Ho abbozzato: grazie per l’informazione! Da qualche parte, David Cameron era davvero sul punto di gridare che bastava così, che potevamo iniziare a sfracellarci contro l’iceberg.

L’iceberg è stato la Bella Stronza. Bruno l’ha rievocata durante certi equilibrismi che con lei erano più facili, visto che era alta. In tempi non sospetti mi aveva mandato delle foto, e io avevo pensato che forse non era fotogenica. In fondo l’ho capito subito, che ero “quella dopo”: una di passaggio che serviva a farlo tornare in carreggiata. L’ho capito e ci ho riso su, eppure… Quando ho sentito nominare la Bella Stronza mi sono accasciata su un lato. Davvero stavo piangendo? Mentre ci decidiamo a uscire di casa, ripenso alle parole della psicologa, la Petulante: il tuo corpo sa le cose prima di te. Maledetta.

Ci salutiamo sulla Rambla. Abbiamo entrambi cose da fare, posti in cui stare. La nostra vita continua. Mi avvicino al suo giubbino troppo leggero per sussurrare:

“È stato bellissimo”.

“Anch’io” risponde.

Quella sera, in chat, mi chiede cosa succede adesso. Può andare anche con altre, vero? Ormai ha “rotto il ghiaccio” dopo la Bella Stronza, e avrebbe un altro paio di occasioni… Me l’aspettavo, ma non così. Come un automa rispondo che non c’è obbligo, ma se ci fosse un’altra vorrei saperlo. In quel caso mi ritirerei in buon ordine, ma non glielo dico. Almeno comincio a capire cos’è che non voglio. Detesto gli almeno.

“A Natale la chiudiamo, okay?”.

Glielo propongo nel buio, la volta dopo. Resta zitto mentre spiego che non so gestire queste cose, che poi finisco per inn… innam… quella cosa lì.

Forse a unirci è stato il momento. È stata la mia disoccupazione e anche la sua, di cui parla poco perché c’è poco da dire: dopo anni non gli hanno rinnovato il contratto, punto. E poi c’è stata la volta che mi volevano assumere part-time a 500 al mese, spuntati dopo una trattativa feroce, ma solo se potevano spacciarlo per un praticantato. Non potevano. Forse a unirci davvero, in questa stanzetta rubata a un terrazzo condominiale, è l’incertezza perfetta di ciò che avverrà.

Ed è troppo poco per unirci.

Bruno rompe il silenzio: in casi come il nostro, anche lui finisce per inn… innam… Quella cosa là. Decido che non è un esempio generico, che parla di me, e sono più contenta di quanto vorrei.

Con quel pensiero in testa, il Natale non mi sazia. In paese non riconosco più le strade, né le rare persone che mi salutano. In compenso riscopro una bella canzone in napoletano: il titolo significa “Uccidimi”. Bruno è incuriosito dal napoletano, ma in quei giorni non si fa sentire. Che fine hanno fatto le nostre conversazioni virtuali? Sono sparite, ma lui no. Lui riappare quando inizia proprio a mancarmi.

E quando ci sentiamo per gli auguri di buon anno, capiamo entrambi che torneremo a vederci.

A lunedì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

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Se resto

Alla fine un’ora è poco.

È un’altra gag di Bruno arrivare tardi, ammesso che arrivi: un’ora è il minimo, scherzano a volte i suoi amici dello Spazio.

Il mio, di Amico, mi chiede in collegamento da Napoli chi me lo fa fare. E dire che da un po’ rigavo dritto! Avevo preso casa da sola, e mollato il mondo accademico appena avevano smesso di pagarmi. Avevo lavorato il tempo sufficiente a beccarmi un sussidio. Se li invitassi a pranzo, quei due o tre matti che mi vengono dietro non si presenterebbero certo con un’ora di ritardo! Cos’altro voglio?

Sentire, rispondo. “Rigando dritto” ho rimediato un licenziamento improvviso, un vicino che distrugge le antenne, e amici che desiderano, sopra ogni cosa, installarsi un ascensore. Con Bruno è assurdo che ci capiamo in tutto, ma è così. Vorrei non sentire ciò che sento, ma ciò che sento è lì. E sono stanca di avere paura. Di cosa, chiede l’Amico. Rispondo: di scoprire ciò che voglio.

L’Amico mi informa che sembro la sorella scema di Laura Pausini. Poi si arrende, tanto Bruno ha appena suonato al citofono.

Una volta che ha divorato il pranzo, il mio ospite difende con ferocia il suo diritto a pensarla a modo suo, ad “avere dei gusti”, a fare ciò che gli pare. E allora lo dicesse, mi ostino: dicesse che c’è qualcosa che va al di là delle sue hit parade, dei suoi schemini così ordinati! Quando l’ho messo proprio alle strette, lo sento sbottare:

“Vuoi sentirmi dire che ti stenderei? Come se avessi problemi ad ammetterlo!”.

Lo urla come se litigasse con sé stesso, poi se la prende con me: sono contenta, adesso? Forse è solo imbarazzato, forse non sapeva dirlo in altro modo. Nel mio salotto cala un silenzio che non so riempire, perché non so cosa voglio. Così è lui a rompere gli indugi.

Accostando la sedia mi abbraccia come se stesse affondando, e volesse aggrapparsi alla mia schiena. Sembriamo controfigure in Titanic: due passeggeri che non hanno raggiunto in tempo la scialuppa. A un certo punto mi aspetto davvero che una voce fuori campo gridi: “Stop! E ora, rifatela meglio”.

Almeno le sue labbra sono piacevoli da mordere. Dio, quanto detesto gli almeno.

Dopo mi chiede se può restare a dormire. Mi giro verso il libro che tenevo già pronto sul comodino: un’edizione economica, con immagini tratte dal film. È la storia famosissima di una coppia che si forma solo quando tutti e due sono disposti a cambiare.

“Ti spiace se resto, allora?”.

Dalla copertina, Keira Knightley mi sorride con gli occhi altrove.

A venerdì per il seguito!

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Ti avevo avvertito

La mia è una rabbia ipocrita.

Di ciò che vomito a Bruno in chat penso ogni parola: gli sembra normale catapultarmi in quella sua classifica campata in aria? Scommetto che alle donne dà anche i voti da uno a dieci!

Ma ciò che mi ferisce di più è che, per lui, non sono neanche un sette.

Bruno mi oppone una logica stringente: eppure me l’aveva premesso! Lui non sa mai cosa dire e cosa no, cos’è che il mondo è disposto a sentire. Sembra convinto che mettere le mani avanti lo assolva da tutto. Io ti avevo avvertito.

Anche l’uomo col mastino mi aveva avvertito. Eravamo quasi amici: l’italiana dell’attico e il tipo che era cresciuto nel palazzo, restandoci grazie a un antico calmiere sugli affitti. Si censurava quando voleva prendersela coi guiris, stranieri bianchi come me: ci chiamava turistas. Aveva incassato impassibile il mio “No, grazie” quando, dopo una birretta dietro l’angolo, mi aveva invitato a prendere un bicchiere da lui. Prima mi aveva mostrato scherzando gli addominali scolpiti, e mi aveva pure spiegato che, da bambino, giocava a calcio dove adesso c’era il mio terrazzo. Quella era casa sua, mi aveva avvertito. Eppure non poteva più abitarla a suo piacimento: il mio terrazzo era chiuso da un muricciolo, e quello attiguo, accessibile all’intero condominio, era invaso “dalle antenne dei filippini”. Adesso come faceva lui, a prendere il sole nudo?

Aveva tagliato i cavi delle antenne senza sapere che tra quelle c’era anche la mia. Pensava che gli dessi ragione lo stesso: tanto ce l’aveva coi filippini, io a casa sua potevo restare! Poi aveva scoperto cheç, in fin dei conti, non gli ero tanto solidale. Era stato poco prima che si procurasse il mastino.

Anche adesso sento rumori, ma è troppo presto. Da quando ha cambiato il lucchetto del terrazzo condominiale, l’uomo col mastino sale soltanto di notte. Ma il piccolo tonfo sul mio terrazzo mi spaventa un istante solo: è la gatta dei vicini. La vita non fa poi così paura.

Bruno in chat continua a fare quello ragionevole: vatti a fidare di una che fa l’amicona, quella con cui si può parlare di tutto!

La gatta tigrata mi fissa, in attesa delle crocchette. La osservo e digito:

“Ti va di parlarne dal vivo? Vieni a pranzo da me sabato prossimo”.

A mercoledì per il seguito!

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Hit Parade

E quindi?

Tutto ciò che ho scoperto dalla “confessione” notturna è che lui magari mi avrebbe baciata, come avrebbe fatto con altre mille. Devo approfondire.

Il sabato successivo siamo di nuovo insieme, di notte, diretti alla metro sulla Rambla.

È stata una di quelle giornate per cui benedico Barcellona: festa di beneficenza allo Spazio, vini fruttati e incursioni proibite sul tetto del palazzo, ad ammirare le guglie di Santa Maria del Mar. Non ho pensato neanche un momento all’uomo col mastino. I Morti di Figo hanno fatto salire certe turiste a brindare con noi, e un cantautore simpatico, un amico di Bruno in visita, ha intonato qualche canzone in dialetto. L’amico cantautore si era già defilato con una, mentre Bruno e io vincevamo il quiz. Gli altri della squadra hanno preteso che ritirassi io il premio: me l’ero guadagnato, dicevano. Solo Bruno non ha fatto commenti. Era sempre sicuro delle sue risposte, e spesso le sbagliava. Ora che siamo soli, e la Rambla è a due passi, come una bambina cerco di estorcergli un complimento qualsiasi.

Eccomi accontentata.

“Non so mai se dire queste cose o no. Però tu…”.

“Io?”.

“Tu sei una via di mezzo tra una ragazza carina e una simpatica. Certo che ce ne sono, di più fighe di te, ma magari sono insopportabili!”.

Perfetto. Barcellona scompare insieme alla giornata allegra, e io torno al bellella.

L’aspetto fisico mi ha condizionato la vita, come succede un po’ a tutte. A Barcellona, città generosa e un po’ cecata, sono stata definita guapa, bonica, o anche buena, da uomini e donne che si divertivano del mio stupore. Non sapevano che in Italia c’era dibattito.

“Pe’ me è bellella!” ripeteva un bambino al parco quando avevo già vent’anni, e il compagno di giochi rispondeva con un secco “Ma statte zitto!”. Certi uomini invece scherzavano a bassa voce, ignari del mio udito bionico: quello che apprezzava “il mio tipo di donna” veniva sfottuto dai paladini della bellezza mediterranea.

Bruno non ha avuto bisogno di deliberare. Mentre cammina è come se le sue dita disegnassero in aria una classifica generale: una “hit parade” di donne, piuttosto che di canzoni. Le nordiche tormentate sembrano schizzare fin sopra i palazzi, e una catalana più minuta e formosa si ferma a un metro dal suolo. Peccato che non sia più carina, dichiara lui, ci si troverebbe bene.

Non riesco a replicare: il premio del quiz era un liquore italiano, e sono brilla. Mi immagino a occupare un posticino giusto al centro di quella classifica “campata in aria”, più o meno in corrispondenza del suo stomaco: sono una merendina stantia, da scartare solo quando non si ha nient’altro da mettere sotto i denti.

Come mai uno brillante, pieno di umorismo e generosità, può diventare così con le donne? Può catalogarle, valutarle in base alla lunghezza della coscia o all’ago della bilancia… Su questo argomento c’è come una moratoria, qualche connazionale mi direbbe persino che lui, “almeno”, è stato sincero.

Io detesto gli almeno.

Il giorno dopo, la sbronza cede il passo alla rabbia. È con quella, e un mal di testa epocale, che decido di affrontarlo una volta per tutte.

A lunedì per il seguito!

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Dove l’hai pescato

Mi alzo sulle punte per baciarlo.

Per un istante il movimento gli deve apparire brusco, come se io non sapessi dove andare a parare. Quando sono vicina al suo volto, ricordo: una volta l’avevo visto cadere dalla sedia.

“E questo dove l’hai pescato?” aveva riso un’amica.

Era per lei che Bruno era caduto dalla sedia: per i suoi occhi blu e i lineamenti affilati. Il tempo di vederla seduta nel bar e aveva iniziato a esagerare i gesti, fino a rovinare a terra.

L’amica Occhiblù faceva parte di un gruppo italo-spagnolo che avevo provato a unire io, con grande entusiasmo dei ragazzi. Le ragazze si erano conosciute a “danza Bollywood”, si annoiavano quando l’insegnante spiegava la storia dei passi. Uno dei ragazzi mi aveva tenuto una sera intera a spiegarmi l’aspirazione del momento: convincere i vicini del palazzo a installare l’ascensore! Anche io volevo diventare così: quella che sognava l’ascensore. Non una che passava la notte a parlare fitto con Bruno.

Alla fine gli scocco un bacio per guancia e corro via. Sulle scale, tutto è silenzio.

Il sabato successivo, a una festa allo Spazio, una ragazza un po’ alticcia si rifugia tra le braccia di Bruno. La tampinavano due della claque del Figo, che io ho ribattezzato “i Morti di Figo”. Bruno di solito incassa con benevolenza i loro sfottò, ma stavolta insorge. Con dolcezza dissuade i Morti e tranquillizza la ragazza, e all’improvviso me lo immagino a salvarmi dall’uomo col mastino. Alla faccia dell’indipendenza, del sapermela cavare da sola.

Quella notte stessa, il mio eroe si lamenta in chat perché non batte chiodo.

Sulle app d’incontri non si spiega l’insuccesso di messaggi suoi tipo: io sono un disagiato, e tu mi deluderai. Gli confesso che a volte mi sembra quasi compiaciuto di non combinare nulla, e lui protesta: certe sere, quando parla con una, spera davvero che ci scappi un bacio. Ma la tizia di turno non la pensa uguale.

Allora trattengo il fiato e digito:

“Io ti avrei baciato, l’altra notte”.

Per un po’ devo spiare lo schermo vuoto, poi lo vedo scrivere.

In effetti, ammette, quella notte si era creata un’atmosfera strana.

A venerdì per il seguito!

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E invece va pubblicato sul blog. Non è un romanzo, come credevo. È al blog che appartiene il resoconto della mia relazione più “tossica”: al blog che l’ha seguita in diretta e mi ha aiutato a tirarmene fuori.

A partire da oggi, primo giorno di primavera, pubblicherò un estratto dal mio manoscritto Fame. Lo farò ogni lunedì, mercoledì e venerdì.

Sì, ok, lo stica**i ci sta tutto. Ma se vi va di onorarmi della vostra presenza, qua sto!

Storia di un incontro

Per prima cosa, respira.

Lascia perdere la musica, lascia che ti invada. Tanto lo farà comunque.

She’s touching his chest now

He takes off her dress now

L’importante è che l’immagine ti trovi pronta. Sì, lei gli ha toccato il petto a un certo punto, e lui le avrà di certo tolto il vestito, anche se dalle foto che hai spiato su Facebook lei sembrava molto in fissa coi multitasche anni ’90…

Vabbè, mica sei qui per giudicare. Sei qui per avere un attacco di panico.

Jealousy turning saints into the sea

Adesso fai un respiro, e torna a casa. La canzone è un ricordo. Lui è un ricordo.

E insieme a lui e al pozzo in cui ti ha ficcata hai trovato anche la strada per arrivare fin qua.

Questa non è la storia dell’incontro con lui.

Questo è l’incontro con la parte di te che sa la strada.

A mercoledì per il seguito!

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Una frase che mi è piaciuta di Niente di vero è: “Le coppie – di qualunque cosa si tratti – smettono di esistere, le persone no”.

Mia madre potrebbe rilanciare con una massima risolutiva che mi sparò al telefono quasi dieci anni fa: “Se uno non ti vuole, che te ne frega se vede un’altra o entra in convento? Resta il fatto che non vuole te”.

Oggi il “muso ispiratore” di Sam è tornato nei boschi aveva un appuntamento. Gli ho chiesto di avvisarmi, perché sarebbe successo: l’ha fatto. Gli ho detto che probabilmente l’avrei presa bene: l’ho fatto.

È da dicembre che ci siamo detti che proprio non andava. Lui per sua ammissione ha avuto per me la classica cotta adolescenziale, con quindici anni di ritardo: il genere di sentimento che evapora appena ti accorgi che dopo i briiividiii l’amore è, soprattutto, lavoro. Io, più che altro, sono stanca, e questo a volte è più risolutivo di un cambio di sentimenti.

Mi dispiace di non essere cresciuta in un’epoca in cui il poliamore fosse un’alternativa da prendere in considerazione. Pure io che a suo tempo ho fatto disperare più di un “fidanzatino” con le mie idee liberali, non concepivo l’opzione di portare avanti più relazioni amorose allo stesso tempo. Non credevo fosse possibile. Ora so che è possibilissimo, e pure che non fa per me.

Però ho capito una cosa: l’importante è la relazione che instauri con una persona. I sentimenti non si scelgono, i legami sì.

Questo ho detto al mio ex mentre mi parlava della nuova fiamma: io e lui ci siamo ritrovati a convivere costretti dalla pandemia, dopo che la nostra, di “flambata”, si era infranta contro i suoi compiti arretrati con l’età adulta. È stato da lì che abbiamo costruito il vero rapporto: più lontano dai suoi entusiasmi adolescenziali e più vicino al sovrumano compito, come dice Sam nel libro, di imparare a rivolgermi la parola al mattino.

Perché i sentimenti non si scelgono, i legami sì.

È per questo che, nella mia famiglia allargata, ci sono persone che per alcuni amici di Napoli non dovrei vedere mai più: mi dovrei offendere per il fatto che prima erano pazzi di me, e ora no. Ora mi vogliono bene.

Forse dovremmo capire che basare la nostra esistenza su un sentimento estemporaneo, spesso mutevole, è squalificante per il lavoro che impieghiamo nel costruire i rapporti.

L’unica eccezione che concedo a questo mio postulato è una sana e divertente cazzimma, alla Tony Tammaro.

Allora, visto che oggi piove, dedico questa al mio Sam con tanti auguri per l’appuntamento!

Comprar Red Flags

Ma non quelle che pensate voi.

Non vi stupirà scoprire (se non lo sapevate ancora) che le red flags inglesi hanno poco a che vedere con la politica. Come le bandiere rosse del divieto di balneazione, sono i segnali che ci svettano nella testolina quando una persona va evitata: tipo “una frase sciocca, un volgare doppio senso”, o almeno così cantava uno. Di solito l’espressione si riferisce alle relazioni in fieri, ma io la uso pure per scegliermi l’idraulico.

Le “bandiere rosse” rivelano il nostro strano rapporto con passato e futuro. Ci flagelliamo su ciò che abbiamo fatto male, ma non ci beiamo dei fossi scansati. Adesso direte: che ne sappiamo di come sarebbe andata? Qui vi volevo! Ci sembra intelligente il catastrofismo irrazionale, ma non una valutazione ottimista sui disastri che abbiamo evitato.

L’altro giorno mi ha scritto un amico da Milano: sai chi ho in azienda, come nuova arrivata? Il nome non mi diceva niente, poi ho ricordato: l’alloro in bocca! Due anni fa, una tizia atterrata da poco a Barcellona mi aveva chiesto consigli su come muoversi. L’avevo inserita in un gruppo di cucina italiana, e lei aveva montato una polemica con una poveraccia, rea di non mettere l’alloro in non so che piatto. “Noi della Campania Felix troviamo alloro un po’ dappertutto”. Come no: in Campania il mattino ha l’alloro in bocca. Scusate, eh: cent’anni fa, nel mio paesone, circolavano i tram.

Ma non è tutto alloro quello che luccica (ok, la smetto): c’è anche l’olio. I suoi nonni, si beava la tipa, avevano un frantoio secolare. Ce l’avete, voi, il frantoio secolare? Non siete nessuno. La tipa mi aveva chiesto di prenderci un caffè. Uno autentico, ovviamente. Purtroppo, proprio quella sera, dovevo asciugare gli scogli della Barceloneta. No, sul serio: mi mancava proprio l’energia per conoscere una che, per sentirsi più sicura come straniera, avesse bisogno di avvolgersi nella bandiera col giglio borbonico.

Non ero andata troppo lontano dalla realtà.

“È un personaggio particolare” ha esitato l’amico che la teneva in ufficio. In pratica, era una verruca sul popò. “Sai? Credo sia indipendentista.”

“Catalana?”

“No. Delle due Sicilie.”

“Auguri.”

Perché io coi neoborbonici ci parlo, specie se partiamo dal punto comune che la storia, così come veniva insegnata fino a pochi anni fa, vada decostruita. Poi fuggo a gambe levate dall’ingegnere paesano che mi chiede il numero dopo un nanosecondo e vuole insegnare la storia a me, che ho la laurea specialistica (ma “il mondo accademico è complice nell’inganno”). Ed è uno che ho incontrato per caso. Figuriamoci se frequento apposta una che sembra la versione non divertente di Casa Surace (dunque, sembra Casa Surace).

Sì, i miei sono pregiudizi. Ed esperienza, anche. Una volta mi sono fatta entrare in casa (letteralmente) una tizia francese che prometteva grane, ma mi ero data della paranoica per pensarlo. Questa fingeva di capire come collegarsi a Internet (non c’era ancora il wifi) e poi mi esauriva il credito. Faceva irruzione nel cesso di casa e richiedeva un’ambulanza: quando si faceva le canne diventava paranoica. Se n’è andata con tre mesi di ritardo, facendo scappare potenziali inquilini. Avevo previsto tutto: mi mancavano solo i dettagli.

Sono sicura che vi è successo lo stesso. E sono sicura che anche voi sapete scostarvi il prosciutto dagli occhi, per riconoscere le “bandiere rosse”.

A volte, non sempre ma a volte, conviene fidarci di noi.

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Ieri ho deciso di passare una domenica diversa, sopra le righe, una botta di vita: sono andata a prendermi il caffè al bar.

Ovviamente, la domenica che decido io di uscire alle dieci del mattino, si svegliano tutti con la stessa idea. Sarà che i locali notturni, per ovvi motivi, non sono ancora a pieno regime…

Vabbè, a quel punto mi sono spinta un po’ più lontano, e sono tornata sul luogo del delitto. Sarà successo anche a voi, adesso che i vaccini avanzano, di tornare in un posto che amavate prima della pandemia, e non riconoscerlo più.

Il bar in cui trascorrevo le mie domeniche, tra bozze di romanzo ed esercizi psicologici, appartiene a una catena che riesce a farsi odiare più delle altre, pure se è stata la prima a offrirmi un vero e proprio panino vegano: segno che è qui per restare.

Senza il gruppo di scrittura, senza il guru che ci usava come cavie per vedere se gli conveniva studiare psicologia (e sì, ora è in Inghilterra proprio per questo), senza neanche le signore filippine che si incontravano lì con tremila bambini al seguito, il “solito bar” è diventato un locale qualsiasi. Davanti a me c’erano solo due giovanotti al primo appuntamento, uno dei quali chiedeva una cannuccia nel suo ice latte, e commentava qualcosa sui risvoltini dell’altro. Un qualunque bar hipster a Barcellona, insomma.

A quel punto, però, non ho resistito. Intanto che mi preparavano il panino, mi sono allungata nella sala interna, alla ricerca di Xavi.

Mi sa che è arrivato il momento di ricordarvi anche che, ahem, il compagno di quarantena l’ho conosciuto proprio in quel bar. Ma facesse poco lo splendido, perché all’inizio ero indecisa tra lui e questo tipo (Xavi, appunto), che per sua fortuna ignorava le mie mire e somigliava molto alla buonanima di Jarabe de Palo, codino incluso. Di Xavi mi colpiva la gentilezza che era in grado di profondere in quelle due parole che ci scambiavano in spagnolo (ricordate bene questo dettaglio!): per esempio, si accorgeva di quando al nostro gruppo mancavano sedie, e offriva quelle del suo tavolo. Una volta, al contrario dell’hipster di cui sopra, aveva rifiutato apposta la cannuccia in un succo, e io avevo voluto interpretarlo come un gesto ecologista, anche se la cannuccia era già nel bicchiere e alla cameriera non era rimasto che buttarla.

Magari Xavi non voleva una cannuccia, e basta! È facile inventarsi storie su persone e situazioni che non conosciamo. E a volte si verifica l’effetto Sliding Doors: un dettaglio solo, una deviazione dalla storia, che finisce per cambiarci la vita.

Xavi ebbe un momento di fortuna sfacciata, di cui non sarà mai al corrente, quando lo depennai all’istante dalla mia personale lista “Apperò”. Lo incontrai per caso nella Plaça Universitat occupata da giovani studenti, nel solito autunno caldo indipendentista. Passava di lì, mi vide e si avvicinò apposta.

Ai em glad ai hev a cianz tu mit iu” esordì, in un inglese molto precario: felice di conoscerti, finalmente.

Tutt’a un tratto, ero io a non essere più tanto felice. Ma come? Dopo mesi a scambiarci convenevoli in spagnolo, mi parli inglese? Intuirete che, a Barcellona, l’idioma usato è una questione importante, e l’inglese di solito è la lingua delle distanze, del “tanto siamo diversi”. Forse lo eravamo davvero: vivere tra più posti ha il vizio di volerti far conoscere gente affine, un po’ sperduta come te, illusa di poter maneggiare le varie culture a cui è stata esposta. Non sempre è facile interagire con chi ha la fortuna di trovarsi a suo agio nella propria.

Quindi, a pelle, ho archiviato la pratica con un “NO” scritto sopra, e graziato così il povero Xavi, che magari ha vissuto in venti paesi e quella sera in strada, semplicemente, mi aveva associata agli altri del gruppo di scrittura, che di fatto parlavano tra loro in inglese: a ben vedere, dunque, non mi aveva neanche notata poi tanto, e avevo fatto tutto io!

Ve l’ho detto: la mente ama unire i punti quando non ha informazioni precise. I punti che ho tracciato quella sera mi hanno portato dritti al compagno di quarantena, e ai due romanzi (uno in bozza, un altro già inviato in giro) che ho scritto sulla nostra esperienza, ehm, allucinogena.

Questa domenica volevo sopperire almeno alla mancanza d’informazioni. Perché, in un momento in cui tutto ciò che avveniva prima sembra solenne e unico, lo diventa anche un nuovo incontro con Xavi.

E invece no: il tavolone centrale dove si riuniva il mio gruppo era sgombero, e lo era pure il tavolino accanto, senza nessuno disposto a offrirmi una sedia.

Adesso unisco i punti ancora una volta, e decido che Xavi sta bene.

Soprattutto: spero proprio che le mie attenzioni siano la minaccia più pericolosa a cui è scampato.

(Nel fermo immagine: Xavi e io, uguali sputati, in una ricostruzione attendibile di come sarebbe stata la nostra storia).

Polyamory Is Growing—And We Need To Get Serious About It – Quillette

Ah, ma non vi ho detto tutto, di quella volta.

Quando vi ho raccontato della prima fiera vegana dall’inizio della pandemia, sono stata imprecisa: il gruppo che mi aspettava lì non era esattamente una comitiva.

C’era il mio ex, e fin qui tutto bene. Andare d’accordo con l’ex comincia a non essere una rarità perfino in Italia.

C’era anche una nuova compagna del mio ex, e anche qui, andare d’accordo con l’ex passa pure per accettare le sue nuove relazioni.

Con loro c’era, però, la convivente della compagna del mio ex. Non la coinquilina: la convivente. Questa convivente e il mio ex non sono gli unici vincoli affettivi della compagna del mio ex. D’altronde, il mio ex non ha solo quella compagna. Se state pensando a scenari da harem e ammucchiate senza fine, ricredetevi: i vincoli in questione sono in rapporto 1:1, così come ve li ho descritti, e da monogama di fatto trovo pure che sia una faticaccia mantenerli, come spiego in questa serie di post sul poliamore.

Perché vi dico tutto questo, adesso? Perché, in quel momento, non capivo che quella situazione (un gruppo di persone adulte che scherzavano tra loro a una fiera), sarebbe stata quantomeno curiosa nel posto in cui sono nata. Anche se le cose stanno cambiando perfino lì.

Che tutto ciò potesse essere “strano”, me ne sono ricordata solo quando è arrivata l’ora di salutarci per andare a casa: a quel punto, mentre il mio ex e la compagna erano tutti picci picci, e occhi a cuoricino, la timidezza della convivente nel chiacchierare con me mi ha ricordato quelle festicciole al liceo, in cui io e un’altra malcapitata reggevamo il moccolo a una qualche coppietta formatasi da poco. Quella situazione così familiare e aneddotica mi aveva ricordato, per contrasto, la singolarità di quest’altra situazione.

In realtà, all’inizio ero scettica anch’io sui risvolti del poliamore. Poi li ho visti coi miei occhi, e sembrano la cosa più tranquilla del mondo.

Ecco, ho la sensazione che succeda con tutto. Perfino l’italica ostilità per i vegani diventa più ragionevole quando, invece di pensare a un fantomatico tizio che mangia erba e “impone agli altri le sue scelte” (ma dove?) i miei amici ricordano me che, da ‘O cerriglio a Piazza Dante, chiedo se la pizza fritta me la possono fare solo con le scarole. E allora il pizzaiolo scopre che si sottovalutava, perché il risultato è divino, e il resto della comitiva si mette pure ad assaggiare!

E non finisce qui! Questo video spiega che il “matrimonio gay”, negli USA, era considerato un tabù finché non si era passati dal discutere un’idea astratta al vedere in TV, e in giro, sempre più coppie LGBTQIA+. Così la sensibilità delle persone era cambiata in tempi record.

Quando un’idea che ci sembra campata in aria assume fattezze umane, e anzi, adotta un volto familiare, ci è tutto più chiaro. Non importa se quel tipo di relazione, quella filosofia di vita ci riguardi o meno in prima persona: ci è molto più difficile respingerla a priori come se fosse una stronzata megagalattica. Viene meno l’elemento più importante perché il pregiudizio resti in piedi: l’ignoranza dei fatti.

Scongiurata quella, il resto è una passeggiata alla fiera.

(Questa canzone è strepitosa!)

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