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Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Fiori da un’amica

Ottocento è troppo, seicento è giusto.

Ma un fesso disposto a cacciare mille euro sarebbe facile da trovare, per il bell’uomo brizzolato che mi mostra l’attico gelido. È una casa che funziona per esclusione. L’unica stanza degna di questo nome va adibita per forza a camera da letto, trasformando così in salotto lo spazio che la unisce a una sorta di insenatura oblunga: la cucina. Da quella, tre gradini portano a una piattaforma spoglia che è stata sottratta al terrazzo condominiale, insieme a un terrazzino delimitato da una staccionata a rombi. Al di là della staccionata intravedo piantine di marijuana, e la bandiera indipendentista che, mentre arrancavo sulla strada in salita, ho visto svettare sulla facciata color bianco sporco. Le pareti sembrano fatte di carta velina: sentirò tutto ciò che dicono e fanno i vicini. A quanto pare sono pochi, e quasi tutti musicisti, il che non mi rassicura sui rumori molesti… Ma sarà una convivenza pacifica, mi promette il proprietario, e capisco che è cresciuto lì dentro come l’uomo col mastino era cresciuto nel palazzo che reclamava come suo. Solo che questo bell’uomo brizzolato, che nel profilo gmail sta facendo yoga, possiede il suo palazzo per davvero, l’ha ereditato dal padre. Forse è per questo che sfodera un sorriso zen, quando gli chiedo il prezzo e mi preparo a trattare: ottocento è troppo, seicento è giusto.

“Voglio solo quattrocentosettanta euro” annuncia lui.

Ho la faccia di culo di chiedergli uno sconto.

Ovviamente respinge la richiesta, ma si vede che gli sto simpatica. Quello che non sa è che, due ore prima del nostro incontro, mia madre mi ha chiamato per annunciarmi che la nonna era morta. Poche settimane prima, a Pasqua, nonna mi aveva rimproverato benevola perché non ero andata da lei.

La reazione immediata alla notizia è stata quella di “fare cose”: dopo una ricerca folle quanto vana per partire quella notte stessa, ho acquistato il biglietto aereo per presenziare almeno al funerale. Poi mi sono sciacquata il viso: non potevo permettermi di aspettare oltre, dovevo aggiudicarmi l’attico prima di partire.

Salutato il mio nuovo padrone di casa, per omaggiare la nonna visito tutte le chiese che trovo: mi incuriosiscono le madonne sugli altari. Quella del Carme quasi si dimentica di reggere il bambino, che sembra schiaffato lì a giustificare la presenza di una donna su un altare cristiano. La Grande Madre è ancora tra noi, direbbe la junghiana.

Mia nonna era la grande madre della “famiglia degli gnocchi sfatti“. La sua, di madre, l’aveva messa a balia quando era ancora più piccola di quel bambino sull’altare, e la balia era come una madre per lei. Quando la famiglia di sangue se l’era “ripresa”, lei aveva pianto molto. Ti riportiamo a casa, le avevano promesso. Chissà se nonna si sentì mai a casa da qualche parte.  

È come uno strappo che nella mia famiglia, saltando qualche generazione, si trasmette di donna in donna: la separazione da una casa reale o immaginaria, che resta lontana anche quando ci siamo dentro.

Gli uomini che ci procuriamo “noi dello strappo” sembrano più brillanti, più interessanti di noi, ma è così evidente che siamo noi a sostenerli che mi chiedo come il particolare sfugga ai più. Mentre accenno un inchino alla madonna del Carme, mi rendo conto che da quando sono adulta mi deve ancora succedere, che uno sostenga me.

***

Chi vive fuori arriva sempre tardi.

Ammesso che fai in tempo per l’addio, non sei stata lì fin dalle prime ore. Sei eternamente in difetto con chi resta.

Io sostengo mia madre nella camminata rituale dietro al feretro: vedere mamma struccata in mezzo a tanta gente mi dà la misura del suo dolore, dello scompiglio portato da un lutto. Stringo mani, mi faccio strada tra volti che non riconosco più, mentre cerco una risposta adeguata alle condoglianze.

Quando mamma annuncia al cimitero che le ossa del nonno riposeranno insieme alla moglie, senza pensarci commento: “Certo che lui sarà entusiasta!”. Lo dico perché coi cugini, passeggiando tra i viali costeggiati da lapidi, abbiamo appena rievocato i litigi un po’ comici di quella coppia d’altri tempi. Anche mamma risponde con uno scherzo, ma si vede che c’è rimasta un po’ male.

“Too much” commenterebbe forse Bruno. Penso a lui solo in quel momento, e penso pure allo Spazio. Devo ripartire la mattina presto per quella sorta di tirocinio che inizia proprio l’indomani: perché l’omologazione funzioni, la frequenza dev’essere obbligatoria. Mia madre è livida al pensiero che io riparta già, ma le ho promesso che tornerò.

Penso a tutto questo mentre vedo la nicchia richiudersi sulla mia infanzia, sui nonni e sui loro litigi davanti agli gnocchi che si sfrangiavano nel cucchiaio. A riscuotermi è una voce che ricordavo giovane. Girandomi mi trovo davanti un uomo distinto, dai capelli bianchi.

“Questa signorina da piccola era splendida, e adesso è solo bellissima!”.

Ci metto un po’ a riconoscere il mio “primo amore”: così lo chiamavano ridendo, in famiglia, quando a quattro anni lo invocavo per giocarci insieme. Lui di anni ne aveva una ventina, e mi trovava molto buffa, e adesso che ha una moglie della mia età è tra quelli che ancora mi ricordano come “una delle più belle bambine mai incontrate”.  

“E poi cos’è successo?” provo a sorridere.

Ma lui me l’ha appena detto con adulazione affettuosa: da bambina ero meravigliosa, adesso sono “solo” bellissima. Tra me e me lo correggo: più che altro sono “solo” io, io e basta.  

Prima di lasciare il cimitero, un fratello di mio padre ha sottratto dei fiori freschi alla nicchia appena chiusa: li ha portati alla mia nonna paterna, che non ho mai conosciuto. Le mie due nonne erano colleghe a scuola, ed erano cresciute insieme come sorelle. Lo zio è soddisfatto del suo furto innocente:

“A mamma ho detto: ‘Te li manda l’amica tua’”.

Il giorno dopo, mentre scendo dall’aereo che mi ha ricondotta a Barcellona, mi accorgo che non sono tornata da sola: mi sono portata dietro tutte le donne della mia famiglia.

D’ora in avanti camminano tutte insieme a me.

A mercoledì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

SandwiChez se une a la revolución barista - Good2b lifestyle Barcelona &  Madrid

Ieri ho deciso di passare una domenica diversa, sopra le righe, una botta di vita: sono andata a prendermi il caffè al bar.

Ovviamente, la domenica che decido io di uscire alle dieci del mattino, si svegliano tutti con la stessa idea. Sarà che i locali notturni, per ovvi motivi, non sono ancora a pieno regime…

Vabbè, a quel punto mi sono spinta un po’ più lontano, e sono tornata sul luogo del delitto. Sarà successo anche a voi, adesso che i vaccini avanzano, di tornare in un posto che amavate prima della pandemia, e non riconoscerlo più.

Il bar in cui trascorrevo le mie domeniche, tra bozze di romanzo ed esercizi psicologici, appartiene a una catena che riesce a farsi odiare più delle altre, pure se è stata la prima a offrirmi un vero e proprio panino vegano: segno che è qui per restare.

Senza il gruppo di scrittura, senza il guru che ci usava come cavie per vedere se gli conveniva studiare psicologia (e sì, ora è in Inghilterra proprio per questo), senza neanche le signore filippine che si incontravano lì con tremila bambini al seguito, il “solito bar” è diventato un locale qualsiasi. Davanti a me c’erano solo due giovanotti al primo appuntamento, uno dei quali chiedeva una cannuccia nel suo ice latte, e commentava qualcosa sui risvoltini dell’altro. Un qualunque bar hipster a Barcellona, insomma.

A quel punto, però, non ho resistito. Intanto che mi preparavano il panino, mi sono allungata nella sala interna, alla ricerca di Xavi.

Mi sa che è arrivato il momento di ricordarvi anche che, ahem, il compagno di quarantena l’ho conosciuto proprio in quel bar. Ma facesse poco lo splendido, perché all’inizio ero indecisa tra lui e questo tipo (Xavi, appunto), che per sua fortuna ignorava le mie mire e somigliava molto alla buonanima di Jarabe de Palo, codino incluso. Di Xavi mi colpiva la gentilezza che era in grado di profondere in quelle due parole che ci scambiavano in spagnolo (ricordate bene questo dettaglio!): per esempio, si accorgeva di quando al nostro gruppo mancavano sedie, e offriva quelle del suo tavolo. Una volta, al contrario dell’hipster di cui sopra, aveva rifiutato apposta la cannuccia in un succo, e io avevo voluto interpretarlo come un gesto ecologista, anche se la cannuccia era già nel bicchiere e alla cameriera non era rimasto che buttarla.

Magari Xavi non voleva una cannuccia, e basta! È facile inventarsi storie su persone e situazioni che non conosciamo. E a volte si verifica l’effetto Sliding Doors: un dettaglio solo, una deviazione dalla storia, che finisce per cambiarci la vita.

Xavi ebbe un momento di fortuna sfacciata, di cui non sarà mai al corrente, quando lo depennai all’istante dalla mia personale lista “Apperò”. Lo incontrai per caso nella Plaça Universitat occupata da giovani studenti, nel solito autunno caldo indipendentista. Passava di lì, mi vide e si avvicinò apposta.

Ai em glad ai hev a cianz tu mit iu” esordì, in un inglese molto precario: felice di conoscerti, finalmente.

Tutt’a un tratto, ero io a non essere più tanto felice. Ma come? Dopo mesi a scambiarci convenevoli in spagnolo, mi parli inglese? Intuirete che, a Barcellona, l’idioma usato è una questione importante, e l’inglese di solito è la lingua delle distanze, del “tanto siamo diversi”. Forse lo eravamo davvero: vivere tra più posti ha il vizio di volerti far conoscere gente affine, un po’ sperduta come te, illusa di poter maneggiare le varie culture a cui è stata esposta. Non sempre è facile interagire con chi ha la fortuna di trovarsi a suo agio nella propria.

Quindi, a pelle, ho archiviato la pratica con un “NO” scritto sopra, e graziato così il povero Xavi, che magari ha vissuto in venti paesi e quella sera in strada, semplicemente, mi aveva associata agli altri del gruppo di scrittura, che di fatto parlavano tra loro in inglese: a ben vedere, dunque, non mi aveva neanche notata poi tanto, e avevo fatto tutto io!

Ve l’ho detto: la mente ama unire i punti quando non ha informazioni precise. I punti che ho tracciato quella sera mi hanno portato dritti al compagno di quarantena, e ai due romanzi (uno in bozza, un altro già inviato in giro) che ho scritto sulla nostra esperienza, ehm, allucinogena.

Questa domenica volevo sopperire almeno alla mancanza d’informazioni. Perché, in un momento in cui tutto ciò che avveniva prima sembra solenne e unico, lo diventa anche un nuovo incontro con Xavi.

E invece no: il tavolone centrale dove si riuniva il mio gruppo era sgombero, e lo era pure il tavolino accanto, senza nessuno disposto a offrirmi una sedia.

Adesso unisco i punti ancora una volta, e decido che Xavi sta bene.

Soprattutto: spero proprio che le mie attenzioni siano la minaccia più pericolosa a cui è scampato.

(Nel fermo immagine: Xavi e io, uguali sputati, in una ricostruzione attendibile di come sarebbe stata la nostra storia).

Ok, queste sono IKEA, ma è per dire

Dite a mia madre che ha fatto una gran cosa.

No, perché io ero troppo occupata a insistere che non ce n’era bisogno. A pensarci bene, ero troppo occupata e basta. E pensavo davvero che non ce ne fosse bisogno.

In fondo, quand’è che uso più camera mia in paese? Alle feste comandate, e a qualche improvvisata estiva. Un po’ poco, insistevo, per far montare le tende anche lì.

I vicini mi hanno sopportata in tutte le salse: ginnasta accanita, adolescente ai primi baci. Non ho mai capito cosa si vedesse attraverso i fori della persiana, e ormai non me lo chiedo più.

Così, quando sono andata a riporre il computer in camera – sloggiata da uno di quei tecnici di paese in costante ritardo, con il “don” davanti a indicarne l’età – avevo anche dimenticato che, per la prima volta in trent’anni, ci avrei trovato le tende.

Mi ha investita un velo di frescura: onde di lino immacolato, d’aspetto antico. Intendiamoci, le tende erano come appena acquistate, solo che erano fatte troppo bene per esserlo davvero.

Infatti, mi ha spiegato la committente di quel capolavoro, erano “le tende di nonna”.

Che per inciso ha lasciato questo mondo da quattro anni, e casa sua, sotto la nostra, mi pare un po’ un museo. La mia nuova vena immobiliarista mi spinge anzi a fare l’agente cinica, che sussurra che “con una parete divisoria e un po’ di lavori vengono su due quartini fantastici!”.

Lo scherzo viene accolto con rassegnate proteste, come una specie di sacrilegio verso un luogo che significa ricordi, anche ora che è spogliato dei suoi antichi abitanti e lasciato in balia delle cose: l’angolino ammaccato nel vecchio frigo che diventava un pesce, se il lampadario era acceso e inclinavo la testa nel modo giusto; io che in corridoio saltavo solo sulle mattonelle a fiori, e all’altezza del salone mi meravigliavo per un’improvvisa violazione di tanta simmetria. Ora capisco che qualche incidente domestico aveva giubilato un tratto di pavimentazione, sostituita poi con delle piastrelle disadorne. I misteri dell’infanzia hanno soluzioni facili.

Mi scopro a percorrere quelle antiche rotte anche adesso che approdo tra le stanze vuote solo per dare un’occhiata alla biblioteca del nonno, o assicurarmi che, nella cameretta di uno zio che ormai ha figli maggiorenni, ci sia l’acqua per il mio ragazzo in visita da Barcellona, se al piano di sopra siamo al completo.

M’intristisce sempre quella casa vuota, concepita per le famiglie numerose di un tempo, quasi come m’intristiva camera mia abbandonata ai suoi cimeli, a qualche regalo improbabile dimenticato su uno scaffale, ai libri ancora da leggere di cui non voglio ripassare la dedica.

È da un po’, però, che ho capito che il rimedio è uno solo: creare presente.

Parlo sul serio. Vedere cosa succede ora, quali amici rispondono all’appello, quali vestiti del liceo mi vanno ancora (più di quanti crediate!), e addirittura cosa c’è di nuovo, cosa si può cucinare ancora con gli avanzi delle mie vite precedenti, messi a bollire nell’acqua passata.

E quelle tende che neanche riconoscevo, così pulite ed esposte a un sole nuovo, me l’hanno ricordato.

Mi hanno ricordato che i miei ormai hanno una loro vita nella mia nuova città, che visitano spesso, e che io stessa, quando visito loro, ho nuovi posti in cui andare. E posti vecchi da evitare, se il locale che mi serviva la Ceres senza chiedermi la carta d’identità diventa una gendarmeria che mi sloggia dal tavolo per un commensale in ritardo!

Creare presente, ragazzi, è il miglior modo di disporre dei ricordi.

Ho amici sopravvissuti alle partenze, e ai ritorni (che si sopravvive pure a quelli), alle inevitabili delusioni tra amici, e altri che sembrano non avercela fatta, e che magari mi ritroverò davanti quando meno me l’aspetto.

Come queste tende che neanche ricordavo, restituite a nuova vita, e a nuovi, spero freschi, misteri.

Risultati immagini per maina gioia Nella breve storia allegra di fine feste parlavamo di ricordi d’infanzia, ugualmente magici anche se totalmente diversi tra loro, e riflettevamo su quanto questa nostalgia ci serva a camuffare il presente, renderlo abitabile come se di suo non avesse niente di bello.

Vi ho visti, sapete. Voi e Maina Gioia, il panettone più amaro che c’è. E gli scherzi su cosa non vada delle vostre vite, che spesso è lo stesso che non va della mia: l’incertezza del futuro. Lorenzone il Magnifico (mi si dice che ultimamente sia tornato di moda, in Italia) ha voglia a predicarcelo, che del doman non v’è certezza. Ci volevano una crisi economica e il trionfo di politiche scellerate per ricordarcelo costantemente. E invece di darci alla pazza gioia come il figlio di papà fiorentino, stiamo a tormentarci come se questo cambiasse le nostre sorti.

Capisco che ci sia anche poco da ridere, ma pensiamoci: se il passato ci sembra magico, e scopriamo che è così per tutti i passati, perché non guardare con occhi diversi il presente?

Insomma, l’amica precaria che visito ogni anno per le feste vive nell’Inghilterra della Brexit e da qualche anno affronta un caroviveri che anche io, nonostante i recenti exploit barcellonesi, mi sogno. Ma ci ho anche vissuto, in Inghilterra: è impagabile la libertà che si respira nonostante la storia recente, impagabili l’associazionismo, l’ambiente accademico…

Le vicine dell’amica, invece, hanno avuto l’opportunità di vivere fin dai vent’anni la vita concreta e piena d’affetti che volevano, che le ha fatte sentire appagate, benché lontano dal paesello. Hanno “coronato il loro sogno d’amore”, come si dice in certe favole, hanno dei figli che adorano e una “nuova” città che ormai sentono come loro, in cui hanno creato comunque una piccola colonia paesana. Le loro nonne al massimo hanno viaggiato in luna di miele, e magari non si sono allontanate troppo dalla Costiera Amalfitana.

Quindi va bene mitizzare il passato, ma proviamo a fare l’esercizio nerd/niuegge di scrivere cos’abbia di buono il presente. Arriviamo fino a 5, è un ordine. Dai che 5 cose le troviamo.

Ma ok, capisco, continuiamo a pensare a quelle che non vanno! E allora rispondiamo onestamente: quali possono almeno migliorare, a lavorarci un po’? Quali decisioni non stiamo prendendo per paura o incertezza sugli esiti? (Paura, insomma). Io ne posso elencare almeno tre.

Solo quando avremo fatto pace col nostro presente precario potremo idealizzare il passato. Scoprendo magari di non averne più bisogno.

I have a dream: che la mia amica e le sue vicine, nemiche d’infanzia, passino il `prossimo Natale tutte insieme. O almeno un pomeriggio a panettone e roccocò.

Si dice che quando facciamo pace col passato il presente è più bello.

Secondo me vale anche al contrario.

Immagine correlataCome ogni anno, sono andata a trovare un’amica di ritorno in paese per le festività. E come ogni anno ho avuto modo di salutare anche le sue dirimpettaie, un tempo “le figlie della vicina”, anche loro in visita da Milano per portare i loro bambini dai nonni.

Da piccole, la mia amica e io eravamo un po’ confuse da questa grande famiglia che ogni tanto incrociavamo sulle scale del palazzo: la raccomandazione della mamma di lei era quella di scambiarci giusto un saluto, “perché non parlavano bene”. Tradotto per chi non fosse della nostra zona: parlavano solo napoletano. Quelle bambine “proibite” ci consideravano a loro volta delle soggettone (sempre per come parlavamo), e quando giocavamo nel parco ci crivellavano di schizzi con la pistola ad acqua.

Inutile dire che adesso i figli di queste impresentabili (sono ironica) hanno un accento del Nord che, considerate le circostanze, mi provoca una certa ilarità.

E con la mia amica salutiamo volentieri queste ex ragazzine che in nostra presenza si sforzano di sfoggiare il miglior italiano possibile, mentre noi ne approfittiamo per tirar fuori tutto il napoletano che intanto abbiamo imparato per dispetto. Da questa babele inenarrabile abbiamo tratto una conclusione divertente: quando torniamo in paese siamo risucchiate dai ricordi.

La mia amica ripensa agli allegri ma un po’ ingessati Natali di famiglia, con le donne tutte ingioiellate tranne la padrona di casa, che si andava “a rinfrescare” solo quando era ormai cotto il capitone. Per i bambini era una festa del regalo (e del riciclo, ma doveva essere un segreto, Babbo Natale semplicemente amava il risparmio).

Le vicine ricordano i loro Natali caciaroni, con più tavole unite a contenere tutti i parenti, e il tavolo dei bambini che finiva sempre per rovesciarsi da un lato, essendo il più precario della casa. Rievocano la puzza di baccalà fritto che non si toglieva mai e gli immancabili botti, col cugino maschio più grande che si accaparrava per consuetudine, e omonimia col nonno patriarca, il Pallone di Maradona.

Io rido di questi racconti così differenti e mi lascio prendere da un dubbio esistenziale: se ciascuna di loro ricorda la sua infanzia come la migliore possibile, e aborre quelle delle altre come noiose o caotiche, come la mettiamo? Forse la nostra infanzia è stata irripetibile e perfetta solo perché così ci piace ricordarcela. E lo sarebbe stata anche se fossimo state totalmente diverse da come siamo. Fa parte del nostro mito di fondazione.

Qualsiasi esperienza non proprio orribile avessimo fatto agli albori della nostra vita, nella nostra fase più fragile e mutevole, sarebbe stata portata in palmo di mano e preferita alle altre. Quello che conta, ancora una volta, è la nostra percezione del passato.

Il che mi porta a chiedermi: e se interpretassimo in modo diverso anche il presente?

Continua.

 

Risultati immagini per a lieto fine Oddio, ho sbagliato tutto.

Stamattina mi sono svegliata con questa convinzione.

Avrei potuto svegliarmi con la combinazione vincente dell’Euro Million, ma mi è toccata questa illuminazione qua, comunque non disprezzabile.

Quale evento della vostra vita ha rappresentato la sconfitta più cocente? Un fallimento economico? Una rottura sentimentale? Lasciare l’università al quarto anno fuori corso?

Quando succedono queste cose, cadiamo prigionieri di strane narrative. Finiamo per celebrare le nostre sconfitte, invece delle vittorie.

Può succedere come a me, che tre anni fa, cadendo in preda a una grande crisi, ho deciso di ricavarci qualcosa di buono, “perché la sofferenza non sia stata invano”. Da qui la piega self-help de noantri che ha preso il blog. O la voglia di aiutare gli altri, cassata come “troppo entusiasmo” a qualche colloquio di formazione.

In questi casi c’è una reazione ancora più comune, lo so. Tendiamo a ricordare una particolare sconfitta come la più grande ingiustizia che ci abbia fatto la vita, e ci costruiamo su buona parte dell’esistenza a venire.

Così abbiamo lasciato l’università “per colpa dei professori”, o sposato una persona che non amavano più “perché ormai ci avevamo perso troppo tempo”. L’esempio più emblematico è il suocero di Bellavista, che, vistosi negare un milione per finanziarsi un progetto, entra in uno stato vegetativo da cui si risveglia solo per ricordare la sua disgrazia.

Decidiamo d’interpretare quella storia nel modo che più ci aiuta in quel momento, o così crediamo. Ma a un certo punto, quando la narrativa diventa stantia e la vita avanza, dobbiamo lasciar andare.

Celebrare le sconfitte, anche solo per trasformarle in vittorie, è comunque tenersele lì, come un cadavere in casa. Se ogni nuovo episodio diventa la chiusura di un cerchio, una giustizia tardiva e un po’ frastagliata, stiamo rinnovando in qualche modo l’antico dolore.

E qui viene il peggio: ogni novità finirà per marcire nell’operazione.

Come possiamo cercare un “lieto fine”, se la vita non è mai una fine? La vita non è mai stasi, chiusura, conclusione. È continuo movimento, o non è più vita.

E la nuova relazione non sopravviverà al pensiero che sia “la degna conclusione” dell’altra sbagliata. Perché avrà le sue crisi, i suoi periodi di secca, e se non la trattiamo come qualcosa di vivo e mutevole ci scivolerà via tra le mani prima ancora che ce ne accorgiamo.

E se non smettiamo di vedere la nostra nuova attività come un ripiego di quella precedente, non fiorirà mai sul serio.

Quindi va bene accettare quelle che noi chiamiamo sconfitte, gli episodi in cui la vita ha preso una direzione opposta a quella che ci aspettassimo, o auspicassimo. Va bene compensarle, va bene anche farci coccolare per un po’ e non pensare troppo alle nostre eventuali responsabilità.

Ma poi vanno lasciate andare. Dobbiamo capire che quello che viviamo adesso non è un prolungamento di quello che ci è successo, né tantomeno ne è unicamente la conseguenza. È una nuova storia, un nuovo giorno da interpretare nel modo che ci sia più favorevole.

Che non può fare niente per consolarci del nostro passato, se continuiamo a restarci attaccati.

Ma può fare tanto, tantissimo per quello che siamo noi, ora.

  Il mio ragazzo sta conoscendo gente del mio passato, e sta per giocarsi i numeri al lotto, alla napoletana, con tutti gli aneddoti curiosi che gli racconto su di loro.

Gli sembrano usciti da un cunto di Basile (non Garrone, Basile), che siano ambientati nella perfida Albione o in un appartamento condiviso in un quartiere fighetto di Barcellona. Quelli sono stati i momenti in cui mi sono più scatenata con le telenovelas. In cui ho cambiato casa più volte, conosciuto più gente di tutto il mondo, vissuto improbabili avventure con coinquilini pazzi ma educati, con vicini pazzi e basta.

A quei tempi i miei ex, per essere sicuri che andassi d’accordo con le loro nuove fiamme, si mettevano direttamente con le mie amiche. Che generosi!

O i vicini, per inscenare proteste efficaci contro l’amministrazione condominiale, spargevano cacca di cane per le scale. In qualche occasione, sospettiamo, defenestravano gatti.

Avevo amiche che dicevano che capitavano “tutte a me”.

Ora continuano a capitarmi cose, ma in genere belle o gestibili, a volte perfino noiose.

E il mio ragazzo stenta a riconoscere la me stessa delle storie passate, questa sua coetanea che faceva incontrare gente diversa, a volte la faceva innamorare, o solo unire per un viaggio, o litigare pesantemente per motivi estranei alla sua volontà (vedi la volta in cui ero “contesa” tra il pianista che mi piaceva e un bassista che faceva yoga, e che si ritirò in buon ordine senza eccessivi rimpianti).

È una vita che mi sembra lontana tre vite fa. E raccontandola, facendola rivivere a qualcun altro, mi sono chiesta se non mi mancasse, quella fase rocambolesca in cui prendevo le vite degli altri come tanti gomitoli di lana diversa, e le univo a caso in intricati sentieri senza trama.

Ora unisco solo gomitoli veri, mi sa. Però faccio altre cose. Trasformo amiche quadrate in crisi creativa in imparabili scrittrici in viaggio per il mondo, con la frase giusta. Per quello ci vuole culo, ma possiamo farlo tutti. Oppure concilio lavoro e studio, che scusate ma come miracolo a volte non è niente male.

Mi rendo conto, insomma, che la mia vita è meno avventurosa che in passato, il che mi porta meno colpi di scena ma molta più serenità, che non sempre diventa noia.

E voi la gestite bene, la tranquillità? O vi serve il caos, per funzionare? Quest’ultima evenienza non è per forza malaccio, eh. Basta non doverselo creare artificialmente, lì secondo me qualcosa non va.

Inscenare la vita di prima ora che ho cambiato gusti, abitudini, metabolismo (non digerisco più le situazioni troppo complicate), sarebbe come frustare per sempre una maionese già impazzita. Ormai è fatta, la prendi così o la trasformi in un’altra salsa.

Credo che sia questione di fare quello che ci è consono in questo momento, con le forze che abbiamo, coi desideri e i bisogni di adesso.

Scopriremo che come esistenza è perfettamente coerente con quello che siamo, è solo diversa.

Il manuale delle istruzioni, per una volta, non è scritto in turcomanno.

 

 

  Sì, la tentazione ce l’abbiamo tutti. O in tanti, almeno.

Guardiamo la casa dove passavamo le vacanze da bambini, e vorremmo tornare indietro nel tempo.

Osserviamo chi ha preso il nostro posto quando ci hanno licenziati in tronco, e vorremmo tornare lì anche se il capo è uno stronzo.

Scopriamo che il nostro ex è diventato un incrocio tra Mister Universo e il Galateo, e dimentichi di quello che ci ha fatto passare ci chiediamo all’improvviso perché sia finita.

Ecco, io, ripensando a tutte queste cose, mi sono accorta di un piccolo particolare. Tornare indietro non sempre è impossibile. La vera domanda è: ci conviene?

Ok, la storia di tornare all’infanzia è dura. Ma già il lavoro, a riconciliarci con il capo, non sempre è un’utopia: in quanti accetterebbero di fare quella schifezza ogni giorno, per così pochi soldi? E pure gli ex: perfino con quello che non s’innamorava di noi manco a farlo ipnotizzare da Maga Magò, non sappiamo cosa accadrà tra 10 anni, quando l’avranno buttato via tutte le ragazzette tormentate che preferisce a noi. Oh, ho detto “non sempre è impossibile”, mica ho specificato in quanto tempo!

Il punto è un altro: quello che è possibile, è anche auspicabile? No, perché a volte ci nascondiamo dietro sta storia dell’impossibilità.

La usiamo per vivere nel rimpianto di qualcosa, senza fare alcuno sforzo per riprendercelo. Ne facciamo una scusa per lamentarci di quello che abbiamo ora. È un metro di paragone ingiusto, passato idealizzato vs presente vivo e vegeto, con tutti i suoi problemi.

Così quello che non poteva tornare più ci prende alla sprovvista. La casa che volevamo affittare, ma ci hanno preceduti, torna libera proprio mentre ne avevamo trovato un’altra. E adesso scopriamo che scegliere non è facile come credevamo.

Oppure, mentre idealizzavamo quel pazzo dell’ex, che tanto è impegnato, scopriamo che è tornato libero ed è più che disposto a offrirci un caffè. E allora dobbiamo improvvisamente essere oneste con noi stesse: lo rimpiangevamo sul serio, o era tanto per disprezzare chi ci sopporta ora?

Eccoci di fronte a ciò che temiamo di più. Scegliere. Ciò che l’impossibilità esorcizzava. Scegliere.

E allora, a mali estremi estremi rimedi: scegliamo.

E parliamoci chiaro. Se la casa che volevamo affittare è davvero più conveniente del rimpiazzo, meno male che si è liberata! E a certe condizioni un ritorno di fiamma, come lo chiamano le riviste rosa, potrebbe anche farci bene.

Ma se pretendiamo di tornare al passato tale e quale a come l’abbiamo lasciato, abbiamo la memoria corta. O la vista, corta. Pensavamo che non avremmo trovato di meglio di quel lavoro, di quella casa, finché non l’abbiamo fatto. Del nostro ex ora vediamo solo il sorriso nuovo di zecca, ce lo scordiamo arrabbiato con noi, imbronciato, indolente.

Allora no, non abbiamo più alibi. Impossible is nothing, dice una pubblicità paracula. Ammettiamo che per una volta abbia ragione, e rispondiamo onestamente: se è possibile, lo vorremmo? E non è una domanda generica. Rispondere sì significa prendersi le responsabilità di tornare sui nostri passi, affrontare consapevoli le lune storte dell’ex, le sfuriate del capo, rivivere i motivi per cui quell’esperienza si è conclusa la prima volta.

E spesso lo faremo in nome non di un presente nuovo, che ci includa come siamo ora nel mondo che viviamo ora, ma di un passato che non può più tornare, perché non possiamo cancellare tutte le esperienze, positive e negative, tra come siamo diventati e come eravamo.

Vedete com’è facile dire “è impossibile”?

Allora, quando è possibile, non tiriamoci indietro. Scegliere, per quanto scocciante, è un privilegio.

Scegliamo bene.

super-glue Tipo l’attak, avete presente, quella volta che l’avete voluta usare al posto della coccoina, senza che mamma se ne accorgesse. Voi pensate di aver pulito il tutto prima di essere sgamati, invece resta con vostro sommo orrore una gocciolina trasparente, cristallizzata, sul dito, molto intenzionata a non togliersi mai di là.

Allora scatta il problema: la lavo via o me la tengo? Perché da bambini pure una goccia di passato cristallizzata è un’avventura. Da grandi un po’ meno.

Mi è capitata una rimpatriata involontaria con gente che non vedevo dal numero giusto di anni perché rimanessero curiosità irrisolte, sulle nostre vicende comuni. Roba da anche tu qua, fa caldo eh, oh sai chi ho visto, ah davvero io non la vedo da un secolo… E via dicendo. Allora senza volerlo (sul serio) scopriamo retroscena che ci fanno cambiare un po’ la polaroid che tenevamo in mente di un certo periodo, la foto in bianco e nero in cui avevamo assegnato a ciascuno il proprio posto, da fotografi esperti, e amen.

E qual è la nostra reazione a scoprire che qualcuno, invece, si è mosso? Che sono sfuggiti all’angolino in cui li relegavamo, intrecciando le loro vite in modi diversi?

Be’, ci arrabbiamo. Ci sentiamo oltraggiati, privati della narrazione di comodo che ci eravamo fatti di quel momento.

Perché è vischioso, appunto, il passato. Specie nei punti che ci hanno fatto male, ad andare a scoprire di nuovo piaghe e cicatrici il risultato a volte è questo. Ci sorprendiamo a contattare gente che non sentiamo da secoli, per interrogarla su cose che neanche più ricorda. E finché è una curiosità innocua, la voglia distratta di scrivere un sequel, ok. Il problema è quando ci rimuginiamo su, accorgendoci che ci portavamo ancora dietro la nostra goccina di attak, così discreta che l’avevamo scordata, ci andavamo a spasso, la nascondevamo sotto i guanti, i bracciali, i nuovi progetti.

Ecco, sono quelli a salvarci, o a risparmiarci un pomeriggio di amarcord. È una considerazione improvvisa che farebbe bene a venirci in mente: i nostri progetti di ora sono più importanti di quelli postumi.

Pare scontato, ma è la cosa più difficile da ricordare. I nostri progetti non sono ancora, la polaroid del passato era là bella che scattata, sembra sempre pesare di più.

E invece no, questo dobbiamo realizzare: perfino il viaggio per l’estate che stiamo pianificando è più importante di sapere perché quell’amica di tre anni fa ha smesso di vederci.

Siamo ancora quella tizia coi capelli più lunghi che si chiedeva cosa fosse successo, con l’ex dileguatosi nel bel mezzo di una festa, o il ragazzo improvvisamente messo da parte dai colleghi per dei giochi di potere in cui lui non c’entrava niente (e a scoprirlo prima…).

Ma siamo soprattutto i desideri che abbiamo ora, gli amici che abbiamo ora, specie se abbiamo perso il vizio di voler decidere anche della loro vita.

Insomma, il passato è vischioso, ma il presente è qualcosa di meglio: è gommapiuma, assume la forma che gli diamo. Adagiamoci fra le sue promesse ogni volta che ci sentiamo spinti all’indietro: non c’è attak che tenga davanti a una promessa di sorriso.

Ma stavolta, che sia a colori.

Fox and GrapesManco ‘e cane: espressione napoletana che designa qualcosa di estremamente sgradevole, tanto da non augurarlo neanche ai loppidi (le perdoniamo lo specismo per questioni di anzianità).

Il problema dei manco ‘e cane postumi, riferiti a situazioni che un tempo ci allettavano eccome, è di chiamare in causa un altro animale: la famosa volpe della favola di Esopo, quella troppo poco agile o semplicemente troppo scema per rendersi conto che l’uva tanto ambita si trovasse eccessivamente in alto per raggiungerla.

Come finisce la storia, già lo sappiamo: disprezzo per l’oggetto del desiderio e rapido dietro-front, verso frutti più accessibili. Che peraltro non si capisce perché debbano essere meno appetitosi di quelli così in alto. Non è che l’irraggiungibilità sia sempre sinonimo di buona qualità, eh.

Infatti stamane, mentre voi arrancavate con le ciabatte verso la macchinetta del caffè, io mi stavo ponendo il seguente quesito amletico: e se la volpe avesse ragione? Se l’uva fosse stata davvero acerba, ma da giù non si vedesse tanto?

Non conta, mi risponderete: la volpe critica ciò che non può ottenere, a prescindere dal suo stato di maturità. Se è per questo, lo desidera anche a prescindere da quello, perché francamente non ci credo, signor Esopo, che sto grappoletto situato più o meno sull’Everest fosse così visibile, da sotto.

Comunque, vi sottopongo tutto questo perché mi trovo nell’imbarazzante posizione di dire “Tanto è acerba” di un’uva postuma, in un postumo momento di lucidità.

La situazione l’ho già descritta qui, più o meno. Una visita alla mia antica università, e a un suo occupante a cui un tempo avevo tenuto molto, mi ha aperto gli occhi sulle mie aspirazioni di qualche anno fa. Allora puntavo a un magro assegno di ricerca per un argomento che manco m’interessasse molto, mi ci ero imbattuta per caso (e, come insegna Bourdieu, se ti devi puzzare di fame che sia almeno per qualcosa a cui tieni assai). E con eccessivo sforzo aspiravo all’attenzione distratta di un eterno indeciso, di quelli fin troppo propensi a regalare tutto il loro tempo a chi venga dopo di te.

Insomma, rivedo la mia vecchia facoltà, rivedo il mio non-ex e mi dico: “Ma che minchia facevo della mia vita, ai tempi?”. Il fatto che sia una dichiarazione col senno di poi la rende così sospetta? Cioè, dico ancora che l’uva è acerba perché non sono riuscita a papparmela?

Non posso essermi proprio accorta, per la gioia di chi “me l’aveva detto”, che fosse indigesta? È che dopo lo sfumare di entrambe le aspirazioni (borsa e uaglione), intanto che mi leccavo le ferite e saziavo la fame mi abituavo a qualcosa di nuovo, qualcosa da cui non si torna peggio che dal tunnel della droga: a fare ciò che volessi. O meglio, giacché non sempre vogliamo la felicità, ad aspirare esattamente a ciò che mi facesse sentir bene. Senza pretendere di ottenerlo, ma almeno provandoci.

Niente borsa da due soldi per un argomento che non m’interessa, a questo punto meglio vendere percoche (per dire) e tornare a ciò che mi piaccia davvero, sperando che prima o poi non sia gratis.

Niente amanti distratti da cercare finché abbia fame: questo tipo di amore ricorda un po’ questo, una fame eterna, come quella degli expat che si comprano al Lidl i prodotti finto-italiani. Ma una volta abituatami a cercare solo l’attenzione che voglio, e quindi a ottenerla, difficile tornare a dialogare con uno che si faccia pregare solo per prenderci un caffè. A questo punto, il “Ma come facevo, a sopportarlo?” non sembra una domanda peregrina.

La risposta è semplice: non conoscevo nient’altro. Credevo che tutto andasse conquistato a balzi e sbuffate e ignoravo che le cose indispensabili stanno alla nostra altezza.

Quindi, senno di poi o meno, rivendico il diritto della volpe a essere presa in considerazione, nella sua conclusione finale. Magari era solo una gran paracula, magari ha capito tutto senza saperlo.

Era proprio acerba. Meno male che i filari d’uva non sempre sono così bastardi.

E non tutte le volpi sono masochiste.