Archivio degli articoli con tag: Jung

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

La ruota non gira più

E io che pensavo di aver fregato i tarocchi!

Invece mi esce di nuovo la Ruota della Fortuna, ed è la seconda volta. Un tempo pensavo pure che non mi sarei mai ritrovata su un tatami a consultare dei tarocchi, ma tant’è.

È stato Jung a spiegarmi tutto.

O così mi è parso un giorno che ero in biblioteca, alle prese con un manualetto di psicologia analitica e con un cappotto troppo stretto, che non si chiudeva bene sulla tuta che da un po’ usavo come pigiama.

Nel rincoglionimento da insonnia prolungata, l’allievo spurio di Freud sembrava dirmi cose tipo: ti sei barricata nella stanza del dolore, hai messo sottochiave una parte di te che non ti ha fatto niente. Era una parte creativa, spesso caotica, che aveva fame, ma forse non piaceva a chi all’inizio ti dava da mangiare. Ho ripensato agli gnocchi sfatti che mio nonno adorava, alle donne di casa che glieli preparavano apposta così.

Con Jung sono arrivati nuovi libri: presi in prestito, comprati, divorati in ogni angolo della mia Casa degli spiriti. Una terapeuta junghiana offriva un colloquio gratuito, e l’ho presa a bordo a patto di vederla di rado. A metà della prima seduta si è interrotta per fissare qualcosa alle mie spalle. Nella stanza del tatami è successo qualcosa di doloroso, mi ha spiegato, e gli spettri non si possono cacciare. Però vanno tenuti occupati! A quel punto mi ha prescritto un rito molto “casalingo”, che prevedeva acqua, candeggina e una preghiera a piacere. Era fondamentale svuotare il secchio in strada. 

Ormai mi era chiaro che in tutta questa roba dovevo cercare la metafora, la pulizia interna di cui avevo bisogno. E poi una lavatina al pavimento non guastava! Gli spettri andassero pure a giocare da un’altra parte.

Una notte che ero già a letto, accostando il libro al lume ho ritrovato un salmo che conoscevo solo grazie a un’atroce canzone da discoteca. Anche se dovessi camminare in una valle oscura non temerei alcun male, perché tu sei con me. il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.

A chi rivolgere questa preghiera?

Il giorno dopo, in biblioteca, Marie-Louise von Franz mi ha impartito da un volumetto quasi intonso una lezione sull’I-Ching: gli oracoli non servono a prevedere il futuro, spiegava l’allieva di Jung, ma a dialogare con l’inconscio. Solo questo, doveva dirmi! Di tutti i testi consultabili a riguardo, l’unico disponibile per il servizio di prestito era un’edizione tascabile di Jodorowsky, sui tarocchi. Anche Jodorowsky non si beveva la storia di predire il futuro: si trattava di interpretare simboli, per risvegliare risorse psichiche che già possedevamo.

Poco dopo, visitando la Fnac, mi sono ritrovata tarocchi e I-Ching sullo stesso scaffale: che coincidenza, per degli articoli con la stessa funzione!

Così eccomi qua a sperimentare i tarocchi, e l’intossicante sensazione di controllo che già mi danno. 

Ho cominciato con delle domande cretine. Cosa mangerò per cena? L’Appeso. Nel senso che mangerò del caciocavallo…? Poi ho tirato fuori gli argomenti che mi interessavano.

Bruno tornerà? La Ruota della Fortuna.

Dormirò stasera? L’eremita. Sì, di recente non ho tutta ‘sta vita sociale…

Bruno adesso sta con la Biondissima? La Ruota della Fortuna.

Riprovo con la croce a cinque carte (livello avanzato!), e quando chiedo di Bruno… Ecco di nuovo La Ruota della Fortuna: la sua posizione nella tirata indica il passato. Che minchia vuol dire? Sfoglio il libretto delle istruzioni come farei per un mobile IKEA: la Ruota della Fortuna indica un cambiamento che non dipende da noi, e che non controlliamo in nessun modo.

Il giorno dopo mi accorgo che la Casa degli spiriti sembra lo sfondo di un tarocco vittoriano, di quelli disegnati verso la fine dell’Ottocento. In un angolo del balcone in salotto, una pianta è cresciuta tanto da traboccare dal vaso: le sue radici puntano fameliche al balcone di sotto, e mi scopro a odiare la loro corsa oscena per la sopravvivenza.

Eppure mi faccio una promessa: se esco indenne da questa casa, da questi digiuni, aiuterò chiunque si senta come me adesso, e voglia starmi a sentire. Così tutto questo sarà servito a qualcosa.

Ma la frenesia arriva col libro di Jung e Pauli sulla sincronicità: inizio a trovare coincidenze dappertutto, e la mia ansia si placa un po’.

Una mattina entro in metro pensando a un frequentatore dello Spazio, tra i pochi a cui Bruno ha raccontato di noi due. Riparte per l’Italia tra qualche giorno, con la moglie e due figli piccoli. Dopo un paio di fermate mi accorgo che qualcuno sta gridando al telefono: è lui, l’amico in partenza! Beccato per caso nella metro di Barcellona, nell’ora di punta, sulla linea più trafficata… Ma niente accade per caso, cavolo. Presa da un ottimismo incosciente propongo:

“Volete fare una festa di addio questa domenica, a casa mia?”.

Ma sì, sono forte ormai: ogni tanto dormo perfino un’oretta in più, e le fette di pane e tortilla sono diventate due… Insomma, potrò ben sopportare la presenza di Bruno nel mio salone.

“Bruno viene accompagnato?” mi chiede al telefono una collega dello Spazio. Vuole portare un dolce e deve sapere quanti siamo. Trattengo il respiro.

“Non lo so. Bruno è sparito”.

“Bruno è innamorato” mi corregge lei. Indovino che sta sorridendo. Mancano dodici ore alla festa.

I conati arrivano alle quattro del mattino.

Che vomito a fare? Bruno non si azzarderà mai a portare la Biondissima a casa mia! Vero? Come se fosse necessario, poi: a farmi star male mi basterebbero i Morti di Figo che scherzano sulla sua nuova fiamma, intanto che io offro i salatini. Dopo mezz’ora passata ad attendere invano il vomito, scrivo in mailing list: festa rimandata, mi dispiace, mi sento male. Proprio non riesco.

Mi alzo dal letto che sono le cinque di una domenica pomeriggio, ed è già buio. La festa si è spostata dalla ragazza che si era offerta di portare il dolce. I festeggiati hanno provato a chiamarmi, per ringraziarmi comunque dell’iniziativa: in fondo è per merito mio che sono tutti lì, insieme.

Manco solo io.

A lunedì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Anima and Animus | Anima, animus, Animus jung, Carl jung

Animus e Anima. Quando nonno Jung si dava all’arte!

Lo premetto io stessa, guardate: sto ancora a rosica’ perché sono stata esclusa dall’accademia junghiana spagnola.

Però devo anche chiedermi: che ci azzeccavo, io, nella stessa cricca che produce esternazioni come quelle di Raffaele Morelli? Perché voi, giustamente, leggevate nelle sue dichiarazioni il maschilismo di un settantenne italiano, ma io ci vedevo anche la punta dell’iceberg: del patriarcato, ovvio, ma anche di tutti i libri che ho letto sul metodo junghiano. Certo, non erano quasi mai testi dell’originale, cioè di quella creatura di un’altra dimensione che è stata Carl Gustav Jung (un particolare che, comprensibilmente, mi ha tolto cento punti con la commissione dell’accademia junghiana). Confesso tuttavia che mi interessava di più scoprire come le peculiarissime (diciamo così) teorie del maestro fossero state riprese dai suoi allievi. Dalle allieve, soprattutto.

Perché neanche nel momento più nero della crisi nerissima che mi ha fatto approdare a Jung ho preso sul serio l’universalità degli archetipi, che sarebbero inquilini innati di un presunto inconscio collettivo. Semmai ci ho scritto sopra un saggio di master, per la gioia di un professore di mitologia molto critico con l’intera questione: a lui ho indicato gli archetipi come risposte statisticamente rilevanti a problemi comuni all’umanità. Mi  spiego meglio. Secondo me non è che un paziente schizofrenico, quando afferma di vedere il pene del sole, stia richiamando in qualche modo un antico rituale persiano a lui sconosciuto: è che noi esseri umani conosciamo il sole, e nasciamo nella metà dei casi con un pene. Curiosamente, nella storia abbiamo associato spesso le due cose.

Perché, avete indovinato: il maschile sarebbe energia, e il femminile ricettività. Le donne hanno una componente maschile che si chiama Animus: nella sua forma negativa, quest’archetipo le allontanerebbe dalla gentilezza e dall’empatia, mentre in quella positiva costituirebbe, indovinate un po’, l’autorità e la ragionevolezza. In bocca al lupo con la scoperta di cosa sia l’Anima negli uomini! Jung, va da sé, la associa alla vita stessa, e per lui l’unico modo per non essere schiavi delle donne (e fa l’esempio più o meno scherzoso di un anziano che abbandona la famiglia per un’adolescente!) è sviluppare in autonomia il proprio “lato femminile”. Ma cos’è, invece, il femminile per le donne? Facciamocelo spiegare da Morelli in persona:

Tu puoi fare l’avvocato, il magistrato, avere tutti i soldi che vuoi, ma il femminile in una donna è la base su cui si siede tutto il processo. Prima di tutto sei femminile e il femminile è il luogo che suscita desiderio. Le donne lo sanno bene perché tutte le volte che escono di casa e hanno indosso un vestito con cui non si sentono a loro agio, tornano indietro a cambiarsi. Gli uomini non lo fanno, perché noi uomini non diamo così importanza alla forma. La donna è la regina della forma. La donna quando mette un vestito chiama il desiderio, guai se non fosse così.

Forse qualche altro terapeuta avrebbe specificato che il femminile è anche il luogo che suscita desiderio, ma è molte altre cose che, a quel punto, a me non interessa più scoprire. In ogni caso, lo psichiatra italiano non fa che ripetere, temo, i fondamenti della sua disciplina.

Niente paura, però! Già vedevo segni di ribellione a quest’andazzo ai tempi della mia infatuazione junghiana. Nel suo classicone che è diventato un’icona femminista (!), Clarissa Pinkola Estés scrive:

By classical Jungian definition, animus is the soul-force in women, and is considered masculine. However, many women psychoanalysts, including myself, have, through personal observation, come to refute the classical view and to assert instead that the revivifying source in women is not masculine and alien to her, but feminine and familiar.

Se proseguite con la lettura in questo link, vi accorgete che la stessa Pinkola Estés finisce per dare un valore importante alla rappresentazione dell’Animus come di una componente al maschile, ma la premessa che ho citato mi convinceva a suo tempo a dirmi: ok, si tratta solo di eliminare questo preconcetto per cui, nelle dicotomie dentro/fuori, dare/avere, la prima parte tocchi al femminile e la seconda al maschile. Anche la mia analista junghiana, che con me faceva quello che poteva, ammetteva che l’importante era distinguere questi fattori dell’animo umano: poi, che ciascuno traesse le conclusioni del caso sul “genere” dell’energia.

Se visitate le pagine junghiane su Facebook vedete però che è radicatissima l’idea della diversificazione per genere, che d’altronde era uno dei pilastri del maestro svizzero. Che rispetto a Freud, con cui com’è noto era uscito a pesci fetenti, non è stato edipicamente ammazzato a dovere dai suoi seguaci, anche perché, come padre, era per sua stessa ammissione piuttosto spurio: di solito si ammazza il patriarca, mica il figlio ribelle!

Pazienza se il ribelle aveva relazioni con le ex pazienti a transfert non proprio risoltissimo (ma lui non è che credesse tanto nel concetto…) e ha sfornato una delle scuse più belle mai lette in vita mia (purtroppo non trovo più la fonte) per avere un’amante fissa in una società monogama: Toni Wolff per lui era la donna-Anima, a non frequentarla le figlie gli sarebbero venute fuori con problemi mentali, per via del suo “maschile” represso. Viva il poliamore! Pacifico? Be’, non perdetevi le esternazioni della signora Jung (Emma) sulla figura dell’etera, peraltro teorizzata dalla stessa Toni come archetipo femminile: l’etera soffrirebbe per il fatto di non avere figli (Emma Jung, invece, ne aveva in abbondanza), ma ristora l’uomo in un modo che la madre non può uguagliare. Che paraculo ‘sto maschile, oh! Si organizza sempre tutto, “per natura”, in funzione sua.

Vabbe’, di stranezze rispetto ai miei anni junghiani ve ne posso raccontare a decine: la stessa analista junghiana di cui sopra si chiedeva cosa avessi fatto per attrarre ben quattro inseguimenti (tutti “al maschile”) durante il mio soggiorno a Parigi. Morelli sarebbe stato fiero del mio femminile! D’altronde, ricordo anche un autore di self-help che interpretava gli annunci pubblicitari zeppi di seni e fianchi di donne come un omaggio all’Eterno femminino. Vabbe’, nell’ambito del self-help s’è fatta strage di teorie junghiane, mescolate a caso con le filosofie orientali.

Per tutto questo, mentre leggevo del trattamento subito da Michela Murgia, nello psichiatra italiano vedevo soprattutto una sorta di predicatore di una chiesa molto speciale, in cui avevo tentato di entrare anch’io. È un mondo a parte, che mentre prova a reinventarsi continua anche a dare per scontate e universali le norme che lo governano. Solo che, per una volta, un esponente di quel mondo si è sentito dire: “Ma de che?”.

Ecco, magari diciamolo più spesso.

Risultati immagini per brigitte bardot bicycle Avete presente, nei film adolescenziali anni ’80, la scena in cui il protagonista ha un asso nella manica, un amuleto o una qualsiasi arma segreta che teoricamente lo renda invincibile? Ecco, in genere, proprio alla resa dei conti finale, l’arma segreta svanisce in malo modo.

Ma niente paura! A un certo punto spunta la sorellona saggia, o un’altra figura femminile maggiore in età e ed esperienza, che dice al malcapitato: “Sei capace di farcela anche senza! Conta solo su te stesso e vincerai!” (segue jingle avventuroso dell’epoca).

Ecco, ho avuto la fortuna di sperimentare questa scena, in versione leggermente modificata, direttamente nel mio giardino. E con mio nonno come coprotagonista.

Quando m’insegnava ad andare in bicicletta, aveva la pazienza di seguirmi con la mano appoggiata alla Graziella bianca che mi aveva regalato. Ogni tanto, però, la lasciava andare, e io, convinta di avere il suo sostegno alle mie spalle, pedalavo tutta contenta per ancora un bel pezzo. Poi mi accorgevo che in realtà il nonno mi veniva dietro a una certa distanza, e solo allora mi spaventavo, rischiando di cadere. Però, finché non sapevo di star contando solo sulle mie forze, pedalavo una meraviglia.

Adesso mi sposto con la pedicolare, con buona pace di quegli utenti del bicing di Barcellona che mi scansano all’ultimo momento (a proposito: attenti a NON spezzarvi le corna). Ma mi è rimasta quella sensazione.

Tra i vari modi di definirla che ho contemplato in questi anni, il mio preferito è della junghiana Esther Harding, che afferma che l’essere umano ha bisogno di idoli esterni per esplicitare le forze che ha dentro di sé.

Ora non chiedetemi che minchia significhi, che i rappresentanti di Jung in terra non mi hanno voluta nei loro ranghi. Ma credo che abbia molto a che vedere con la storia di mio nonno e della bicicletta. È molto probabile che un Dio come lo intendiamo noi (umano, troppo umano) non ci sia affatto, ma forse quello che ci serve davvero, di tutta questa storia, è quell’energia, comunque la chiamiamo.

È la consapevolezza che a impegnarci sul serio e avere il culo di non intoppare in fossi troppo grandi, ce la faremo ad arrivare senza spezzarci le corna. Che ci sia o no un braccio possente a sostenerci.

Adesso, potrei menarvela sul fatto che il braccio protettivo di mio nonno lo sento ancora, nei momenti più difficili del cammino.

Non lo farò. Ognuno crede in ciò che vuole.

Mi limito a sperare che il braccio mio, prima o poi, possa fare altrettanto bene.

Dalla copertina di Per dieci minuti, di Chiara Gamberale

Dalla copertina di Per dieci minuti, di Chiara Gamberale

Ecco, il fatto della sincronicità. Delle coincidenze “che non esistono”.

Come ve li spiego, pensavo, sia il fenomeno che l’opinione mia in merito? (Lo so, lo so, non aspettavate altro, oggi).

Magari la storia la sapete, i saggi che Jung scrive col fisico quantistico Pauli per provare “scientificamente” che le coincidenze possono non essere casuali, che ci sono dei meccanismi, il cui funzionamento ignoriamo, che si mettono in moto nello spazio e nel tempo, e spiegano cose come la telefonata dell’amico a cui avevamo appena pensato, o perché l’I Ching, nei primi mesi inappetenti della mia crisi, mi consigliasse costantemente di mangiare (“E ce vuleva l’I Ching!”, sentenzierebbe mio padre, armato di Dostinex). O perché, la prima volta che ho giocato coi tarocchi, ogni volta che chiedevo del mio amore perduto, su 22 Arcani Maggiori mi uscisse 3 volte di fila la Ruota della Fortuna. La fine o l’inizio di un ciclo. La fine, mi sa.

Potrei cercare di spiegarvi tutto questo.

O potrei argomentare perché non escludo affatto l’intepretazione di Watzlawick, per cui è la nostra mente a vedere delle coincidenze, e rilevanti, nell’infinità di cose che ci succedono ogni giorno. Potrei spiegare perché credo che quest’ipotesi non cambi il fatto che, se vedere coincidenze è utile, ben venga pure l’autoinganno, l’illusione di sincronicità.

Ma ho deciso che si capisce meglio con Per dieci minuti, di Chiara Gamberale.

Dieci minuti erano quelli che mi separavano effettivamente dalla chiamata per il mio volo, e avevo deciso di passarli alla Feltrinelli di Capodichino, a cercare l’ultimo romanzo di questa autrice, mia quasi-coetanea.

Mi accorgo solo in aereo che mi hanno dato il libro sbagliato. O meglio, che mi hanno dato quello che ho richiesto, “l’ultimo romanzo”, ma per le sfasature temporali tra Napoli e Barcellona il libro che cercavo io era già diventato il penultimo.

Prima di bestemmiare, comincio a leggere.

È la storia di una che alla fine di un trasloco difficile, in una zona che non le piace, viene lasciata dal compagno.

Guardo fuori dall’oblò, Napoli che si allontana.

Ok, obietterebbe chi conosce me e il libro, ma lei trasloca dalla sua casa di gioventù e viene lasciata dal marito, non da uno che, parafrasando l’autrice, è sempre rimasto sulla soglia a bloccare il traffico.

Va bene, va bene. Continuo a leggere.

La tizia entra in un buco nero e si scorda di mangiare e dormire.

Ok, succede a tutti. Proseguo.

Ogni giorno, per dieci minuti, deve fare qualcosa di nuovo, di mai fatto.

Ora, vi ho già parlato di Julia Cameron, delle pagine del mattino. Quello che non so proprio fare, delle prescrizioni dell’autrice, è l’appuntamento con l’artista. Andare a fare qualcosa di curioso, mai sperimentato prima, una volta a settimana. Non ne ho la voglia, semplicemente. Non sento curiosità, non ancora.

Come la protagonista. Che però, a differenza mia, per dieci minuti al giorno prova smalti fucsia, abbraccia vecchi amori mancati, si dà all’hip-hop e al ricamo.

E ai tarocchi. Sissignori. Ok, chiunque stia in un periodo nero cerca qualsiasi pretesto per recuperare il controllo sulle cose (vedi articolo corrispondente). E poi mica le esce la Ruota della Fortuna. Le esce il Matto. Che non vi dico chi rappresenta, per me, quando tiro le mie carte. Strano, perché per lei rappresenta tutto il contrario. Rappresenta il cambiamento.

Quello che, distogliendo un attimo gli occhi dal libro, leggo negli occhi verdi che, prima che il loro proprietario si sieda due file davanti a me, posto corridoio, insistono nell’incontrare i miei. Che allora scappano di nuovo tra le nuvole fuori all’oblò, impreparati.

Quella curiosità che ancora non mi viene, mentre invece mi arriva la primavera e lo stesso giorno di una ben triste notizia trovo curiosamente la casetta che avevo smesso di cercare, proprio per trovarla prima. Proprio perché noto, come la protagonista del libro, che “Da quando la mia vita è vuota non mi ero mai accorta che fosse così piena”. E che se invece di sbattersi, e sbattere le corna contro muri appena acquistati, dedichiamo a noi stessi almeno 10 minuti al giorno, le cose succedono da sole. Cioè, non da sole, perché le avremo preparate, e (contrariamente agli occhi verdi di cui sopra) ci siamo preparati a riceverle. Ma succedono proprio quelle cose che buttandoci il sangue non siamo riusciti a provocare.

Non tutte, eh, magari fossero tutte. O magari anche no.

E magari è un caso che mi sia imbattuta in questo libro, che trovo un po’ ingenuo in molti tratti e che ho scoperto essere una sorta di diario, tenuto dall’autrice proprio mentre scriveva il romanzo che avrei voluto leggere.

Ma nessuno venga a dirmi che in questo momento di cambiamenti, in cui ieri di corsa ho sentito gli accordi volgari di una lambada ambulante nel sottopassaggio di Gràcia e mi è venuta voglia di ballare, in cui allo specchio mi sono detta “Perché non ti dai una seconda opportunità?”, e ho giocato a tenermi i capelli su per 10 secondi (10 minuti era troppo) e mi sono scoperta a piangere, come si piange delle Cose Serie tipo nascite e morti, ed era quello che mi stava succedendo in quel momento, tutto insieme… Nessuno mi venga a dire che in questo momento, per combinazione, non fosse questo il libro utile da leggere. Non il più utile, magari, ma utile uguale. Nessuno me lo venga a dire.

Perché forse avrebbe ragione. Ma fa lo stesso.

ombraL’idea è: non sono psicologa, non sono ancora analista junghiana (anche se mi piacerebbe), non sono neanche Maga Rowena… Cacchio scrivo a fare di queste cose?

Be’, sono un’apprendista stregona, che non ha niente da insegnare a nessuno e tutto da imparare per sé, e procede a tentoni, per prove ed errori, in quello che spera sia un cambiamento proficuo e duraturo della sua vita. Come alcuni di voi. Siamo compagni di viaggio. Diciamo allora che faccio una specie di tutorial (a farne sugli smokey eyes vi lascerei con l’effetto panda) in cui sperimento i prodotti su me stessa e voi vedete se usarli o no. E accetto volentieri suggerimenti.

Di esperimenti su me stessa, con buona pace della LAV che farebbe meglio a farmi estinguere, ne ho fatti assai.

Qualche articolo fa parlavamo di Ombra, o meglio ne affidavo la descrizione a chi ne sapesse più di me. L’idea è che l’Ombra sarebbe una parte di noi che ci teniamo nascosta, per vari motivi. Non è sempre la parte negativa, anzi.

Prima di tutto, quello che consideriamo negativo potrebbe rivelarsi molto utile: la nostra ombra è ambiziosa? Sapete quanta energia potrebbe prestarci, per raggiungere obiettivi in cui ci identifichiamo di più?

E poi ci sono molti aspetti positivi, che di solito ammiriamo in altre persone. Il mio idolo di tutti i tempi sarebbe Gandhi (Johnny Depp non conta, vero?), ma non mi sono accorta di avere almeno un centesimo della sua capacità di negoziazione e di comandare senza viuuulenza finché non ho ricoperto io qualche posto di responsabilità, nelle attività a cui mi dedicavo. Magari non sarete mai grandiosi come la vostra icona, ma, se vi piace, forse avete delle caratteristiche in comune con lei che ignorate, o non avete il coraggio di sviluppare.

Faremmo meglio ad ascoltarle, invece: l’Ombra ci condiziona anche in amore.

Vi hanno mai idealizzato? A me sì, ricordo uno che lo faceva. In me cercava una donna che non ero, che ha poi ritrovato in coloro che mi hanno seguita e che ha idealizzato esattamente come me, almeno quelle che come me non lo amavano altrettanto. Non cercava noi, ma una visione tutta sua, che probabilmente si portava dentro ma che non aveva il coraggio di riconoscere. Se l’avesse fatto, avrebbe corso il rischio di vederci per quello che eravamo. E amarci per quello che eravamo.

Vi hanno mai disprezzato? A me sì, ricordo uno che lo faceva. Ammirava le cose di me che trovava più lontane da lui, e invece le aveva tutte dentro, ma non voleva vederle. E allora le disprezzava, anche. Per il vaso di Pandora che gli aprivo nelle ore di gioco che mi concedeva. Per l’amore che non mi poteva dare. Perché in me vedeva solo quello che credeva il peggio di sé. Così, direbbe uno bello che è morto, il giorno si pentiva di avermi incontrato e la notte mi veniva a cercare. Mi avrebbe messa da parte, per inseguire una da mettere su un piedistallo.

Così il cerchio si è chiuso, chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, e il karma è una zoccola che prima o poi riscuote la sua tariffa.

Perché, siatene certi, questi due uomini saranno perseguitati dalla donna del piedistallo e da quella che cercano la notte, che si muoveranno nelle loro viscere finché non saranno ascoltate, accettate e, solo allora, messe da parte.

E io, non ho mai giocato questo gioco di ombre? Certo. Non ho fatto altro. Ho cercato gli Altri. Come me. Gli outsiders, quelli che come me si erano emarginati dalla loro stessa vita, e che ora emarginavano me. Il gioco al massacro è stato quasi sempre convincerli a farmi entrare, anche se non erano sicuri, anche se non gli piacevo abbastanza. Cercare nel loro sguardo quello che possiamo darci solo noi: la conferma di valere qualcosa. E quando mi aprivano la porta, mi rendevo conto che non mi bastava la loro parola a non credermi più un’estranea. E allora li vedevo per quelli che erano, e non mi servivano più, e m’inventavo una serie di nobili scuse per andarmene.

A voi, invece, com’è andata? Avete amato persone reali, o la vostra immagine riflessa nei loro occhi?

Credo di essere stata molto crudele, senza neanche saperlo, e molto ferita da gente che neanche sapeva quanto fosse crudele.

Credo anche che, semmai aveste fatto la stessa cosa e continuaste a farla, non ci resti che un’opzione: ascoltarle, queste voci di dentro. Riconoscere le parti che temiamo, quelle che idealizziamo, caricarcele addosso, indossarle tipo zaino (vedi articolo precedente).

E allora, solo allora, possiamo vedere gli altri per quello che sono. E decidere se quello che vediamo ci piace o no.

https://www.youtube.com/watch?v=DAhtAf2NMrE

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