Archivio degli articoli con tag: napoletani a Barcellona

starrynightLo incontro per caso, in mezzo alla strada.

Mi aveva mandato un invito per una rimpatriata al Manchester Bar del Gotico, ma no, dovevo ritrovarmelo davanti proprio mentre andavo a correre in pantaloni neri, scarpe blu e felpona grigia del 1998.

Lo invito al compleanno e ricambia con una paella, salvo scoprire che da Romesco non accettano carte di credito e chiedermi 20 euro (che mi restituisce al primo Bancomat).

In questo non cambia mai, è quello del culo olandés. A chi gli chiedeva, 3 anni fa, perché non ballasse nei vari locali che frequentava quasi ogni notte, tanto al lavoro aveva il turno pomeridiano, rispondeva serio: “Mi spiace, soffro di una malattia congenita che si chiama sindrome del culo olandese, non posso muovere i fianchi”.

Da allora sono passati un trasferimento in un altro paese e un figlio di due anni, fatto con la “ragazza interessante” che aveva incontrato una sera allo Sugar Bar. Conosco almeno 3 coppie sposate e/o con figli che si siano conosciute tra lo Sugar e il locale accanto. A lui, però, è andata male, “la puttana” si è trasferita fuori città e il bambino lo può vedere due giorni a settimana. Se non fosse per lui, mi sa, tornerebbe a Barcellona.

Perché quello che più mi colpisce, del mio amico, è che lui la vita che facevamo la rimpiange.

Quella che fanno tanti stranieri nei loro primi mesi a Barcellona. Di bar in bar, a ubriacarsi con gente interessante che dura lo spazio di una notte, di una crociera, a sentirsi giovani e belli e senza pensieri. Qualcuno dice “questo non sono io”, lo considera una parentesi prima di tornare a una vita noiosa e reale. Qualcun altro non smetterebbe mai di farlo.

Poi c’è il post-sbronza, che in spagnolo e in inglese un nome ce l’ha, hangover, resaca. Più hangover, mi sa, perché questa Barcellona parla soprattutto inglese. La puoi vivere e bere tutta per anni, lo spagnolo lo impari poco e male. Il catalano? A che serve.

E lui era il più accanito, quello che non si stancava mai, additato come caso curioso dai pochi amici autoctoni che avevo.

Io, invece, un giorno mi ero svegliata con la testa che mi scoppiava, i capelli che puzzavano di sigaretta (ancora si fumava nei locali) e mi ero resa conto di vivere il vuoto. Uno sfavillante nulla innaffiato di birra e cicchetti di tequila e cervezabeer 1 euro, amigo, in cui gli “amici” si ricordano di te solo il fine settimana, e il francesino giovanissimo che ti tieni si tiene un’altra in un locale a pochi metri.

E me n’ero chiamata fuori.

Ora scopro che anche il nulla evolve, si sviluppa, invecchia. Che delle altre coppie etiliche una si è trasferita a Edinburgo, la città di lui, e lei che è colombiana si sta deprimendo, e un’altra si è sposata da poco e pensa alla patria di lei, il Messico.

– Quello che mi colpisce – spiego all’amico sulla Rambla del Mar, dopo la sua pisciatina di rito sotto al ponte – è che nessuno di voi ha pensato nemmeno un momento che Barcellona fosse un buon posto per crescere un figlio.

E non per la crisi, ‘sta gente lavora e non sempre torna in paesi che se la passino meglio. No. Semplicemente conoscono solo la Barcellona che ho descritto, l’altra non la sospettano nemmeno o la credono una noiosa chimera per catalani.

Io stessa stento a conoscerla, anche se ci provo. So per certo che la Barcellona che mi ha vista crescere con quest’amico balzano e dolcissimo, nel caos interno che si porta sempre dietro, quella Barcellona che lui rimpiange io non la rivorrei mai e poi mai.

Gliel’ho lasciata sulla Rambla, coi due baci di rito, e sono tornata a casa.

007 Innanzitutto uscire.

Quando stai così, mettiti i jeans, che li odi ma li hai comprati apposta per queste improvvisate, e fanculo alla palestra, vai dritta alla Rambla del Mar.

L’ora delle decisioni irrevocabili è giunta, come diceva quel capellone, ma non subito. Intanto siediti e guarda il mare. Ti ha sempre rilassato, il mare visto dal ponte di legno. Non quello principale, ma il pontile a destra, con le panchine.

Ti è piaciuto fin dalla prima volta, al buio, coi fari del Port Vell in lontananza e i tacchetti fini che s’impigliavano ogni due assi: che ne sapevi che era di legno, sta rambla, e poi avevi un braccio a sostenerti. L’hai pure ritrovato, quel braccio, anche se lontano e virtuale.

Però la Rambla del Mar ha due inconvenienti.

Uno è che si apre. Per la gioia dei turisti, che prima si chiedono il perché dello strepito della sirena, e poi vedono il ponte dividersi in due parti, che scivolano lentamente sui lati per far passare una barca.

L’altro è che c’è sempre gente, pure a quest’ora di domenica. E allora non ti sorprende che accanto a te si sieda un signore con un enorme blocco di fogli (un pittore?) e cominci a canticchiare canzoni che sembrano antiche.

Ma è abbastanza lontano perché il tuo cappuccio, alzato per evitare il sole, t’impedisca d’interagire.

Finché il nuovo venuto non ti chiede in catalano:

– Posso farti il ritratto?

Non capisci e te lo ripete in spagnolo. Dici no, e non fa in tempo a precisare che è gratis, è per lui, che già ti stai irritando perché sia passato allo spagnolo. Con tutto il tempo e il denaro che hai dedicato al catalano!

Dice che le italiane di solito parlano spagnolo, lì (ma a quel punto vi siete già scambiati i posti, che la luce è migliore dal lato suo), e capisci quanto sei fortunata a conoscere italiani sensibili, colti o semplicemente abbastanza paraculi da capire che il catalano serve eccome.

E niente, inizia questa conversazione. La sua vita a Parigi, la tua a Barcellona, il tuo libro e il suo studio di pittore, e poi il porto e le sue storie, quelle che tu hai studiato sui libri e che lui s’è bevuto insieme al latte.

Quando dice che le donne sono considerate artiste pacate, prudenti, pensi a Lluïsa Vidal, ai suoi bambini e alle signore vestite di tutto punto, e a Donya Carme che la difendeva dicendo che nudi non ne poteva dipingere, perché non poteva guardarne, e se fosse stata un uomo l’avrebbero portata in palmo di mano.

Ah, conosce pure Donya Carme! Temevi che perché non girasse con la A di Anarchia sul corsetto la considerassero ancora una Dama de Estropajosa, come le scrissero una volta (e lei sul giornale definì gli insulti alguna fibladeta. Che classe. Tu avresti detto chitemmuort’).

Intanto il ritratto procede. Tre tratti rapidi, e ti sembra troppo generoso. Specie il naso.

Te lo vuole pure offrire, ma dici di no. In italiano spieghi che non è il giorno più bello della tua vita e lui ti ha regalato un sorriso, ed è molto. È incredibile quanti luoghi comuni ci escano di bocca, quando parliamo tra stranieri. Ed è strano notare che a volte non servono altre parole.

Chi ha visto il ritratto dice che sarà anche bello, ma non ti ci riconoscerebbe, non potrebbe mai dire che sei tu.

Tu sì. Ha preso una parte di te che hai sempre sospettato. Che era lì, persa da qualche parte, e che nessuno specchio o foto ti aveva mai restituito.

Si vede che c’era.

breast-feeding-statueÈ quando alzo gli occhi dal piatto, distrutta dall’immensità della razione di riso, che lo vedo.

Scende incerto le scale tra il bancone e i tavoli, le scarpe minuscole come gli occhietti che sembrano graffi, ma allegri, sul nasino che è quanto un pollice.

Lo riconosco subito, ed è strano.

La prima volta che l’ho visto non era ancora nato.

E io andavo di fretta. Nell’appartamento che avevo lasciato di corsa, precipitandomi nel ristorante cinese di sua mamma, si stava consumando una piccola tragedia gastronomica. Di quelle che succedono quando dei sardi di buona volontà hanno il gentile pensiero di invitare ANCHE il tuo ragazzo.

– Ma lui è musulmano, ragazzi. Sicuri che…?
– Ma certo, figurati!

Appena arrivati ci era venuta addosso la padrona di casa, il cappotto infilato a metà:

– Scendo un attimo, ci siamo scordati di comprare l’acqua!

In tavola solo vino e birra. Al ritorno della gentile donzella, un altro dubbio per il cuoco:

– Ma il ragù con che carne l’hai fatto?
– Di maiale.

Panico.

– Tranqulli – avevo fatto io, sbirciando l’amato bene seduto sul divano – il secondo piatto basterà. Vedo una pentola di zucchine e gamberetti, no?

– Ah, meno male – aveva risposto il cuoco, versando mezza bottiglia di vino nella wok indicata.

Ed eccomi qui, al ristorante cinese, a ordinare riso alle verdure SENZA carne. Stupita perché la graziosa cameriera che mi serviva, che sembrava poco più di una bambina, aveva un pancione più grande di lei. Quanti anni poteva avere? E il pancione la rendeva più bella, o era sempre così?

Avevo ignorato i commenti del signore ubriaco, che in seguito avrei sempre trovato lì, a guardare la televisione e spiare le clienti, ed ero corsa via col prezioso fardello, da unire ai tortelli improvvisati sul momento.

Anche adesso pago direttamente alla cassa.

– Quanto tempo ha, il piccolo? – chiedo alla mamma che gli sistema le maniche.

Ormai mi conosce così bene che quando mi vede dice subito pasta de aLLoz sin caLne. Ma il fagotto intravisto una volta sola in una culla, in cima a delle scale, era sparito insieme al pancione.

– Un anno e mezzo – risponde contenta, come se le avessi fatto un complimento.

Già.

E in quest’anno e mezzo abbiamo imparato tutti e due a camminare.

Lui piano, cadendo in continuazione, piangendo o magari osservandosi stupito avere fame e sete e sonno, senza sapere che i suoi occhi a virgola sono diversi dai miei che ora lo ammirano più grandi del solito.

Io… Pure. Incespicando tra certezze instabili e solide precarietà, sbagliando le scorciatoie e infilando tutte le strade che allungano il percorso.

Chissà se per lui sarà così. Se dovrà imparare anche lui a camminare più e più volte.

Quante volte…?, mi chiedo ogni tanto, esasperata.

Finché qualcuno non mi ha risposto:

– Tutte quelle necessarie.

Amen.

sissi nabuccoC’è questo momento dell’inaffondabile trilogia di Sissi in cui la nostra eroina, alla Scala di Milano, viene accolta col Va’ pensiero (malamente tagliato in questo link, ma l’alternativa era una pagina leghista).

Ecco, quando oggi mi sono precipitata fuori casa bestemmiando contro gli Smartphone, che tutto fanno tranne chiamare e mettere la sveglia (infatti quest’ultima non era suonata, e nella corsa non riuscivo a chiamare l’amica che mi aspettava), mai a pensare che mi sarebbe venuto in mente lui, il direttore d’orchestra dissidente che alla fine viene pure applaudito dall’inaffondabile Sissi.

Anche perché l’Auditori di Barcellona, che NON mi avrebbe aspettata per il concerto della banda e orchestra del Conservatori Municipal , con la Scala ha ben poco a che vedere. Inaugurato nel 1999, presenta una facciata modernissima e poco attraente, e un accogliente interno in legno, fatto apposta per garantire la migliore acustica. “Sì, ma non è che prendiamo fuoco?”, chiedo con la consueta paranoia di famiglia.

In realtà sull’acustica, mi spiega l’amica porgendomi i biglietti (il concerto è gratuito, ma bisogna procurarsi i biglietti per tempo), qualche melomane ha qualcosa da ridire. Io avrei da dire solo che ho fame, ma la banda del conservatorio entra appena ci siamo sistemati nel galliner, che è la versione catalana della piccionaia. Fortuna che qui è come il Camp Nou, vedresti bene pure se sali sul riflettore. E che le vecchiette catalane che cercano di silenziare i cellulari dell’anteguerra sembrano più simpatiche e deliziosamente sprovvedute delle nostre signore impernacchiate.

E sprovvedute applaudono, nel religioso silenzio degli intenditori, negli intervalli tra le Danze scozzesi di Arnold.

Oh, ma che volete, io sono rimasta tra i paesaggi dell’Oregon di Jacob de Haan.

E prima di dare il cambio all’orchestra sinfonica, la banda suona pure una di quelle marcette che nessuno ricorda mai, ma tutti sanno fischiare, infatti è un concerto per musica e fischi (del pubblico contento). È tutto molto rustico, e infinitamente scanzonato.

E l’Intermezzo della Cavalleria Rusticana (dall’Oregon alla Sicilia, non ci facciamo mancare niente) ci sta leggero e sognante come i paesaggi etnei che mi evoca. E Verdi lo segue in versione un po’ zumpappà (qualcuno dicesse a chi ha stampato il programma che “Traviatta” sarà sua nonna!).

sardana Ma hai voglia di dire amami Alfredo, quello arriva giusto in tempo per salutare Violetta e ballare il bis: perché un esile suono di flauto, seguito da un applauso scrosciante (e varie braccia sollevate in aria che vorrebbero intrecciarsi), annuncia l’inevitabile sardana, ballo popolare catalano che suscita qualche sbadiglio tra gli stranieri e molto entusiasmo tra gli anziani, che lo saltellano davanti alla Catedral alla faccia di Franco, che l’aveva proibita. Sarebbe contento Baldomero Pallé, legionario catalano (forse maiorchino) nella Grande Guerra, che in una polverosa lettera da Saida di 100 anni fa giurava che “en mitx del desert si han cantat sardanas Estimat Plá era en Baldomero que sa cantava”. Va per tu, Baldomero che ancora non riesco a portare sulla carta stampata come vorrei.

E sempre per la gioia di Baldomero, e di chi l’ha preceduto e seguito, alla fine della sardana succede. Negli applausi generali, alcuni musicisti cacciano fuori l’estelada, la bandiera indipendentista catalana. La sventolano, l’appendono agli spartiti, e diventa un’ovazione.

Ormai è questione di secondi. Credo parta dall’ala destra, dai palchi, ma il grido cadenzato si propaga come un fuoco, quello che temevo riducesse in cenere il teatro.

I-inde-independènci-a!

Gridano tutti, pure i genitori della mia amica. Pure lei, che di solito dice ok, paghiamo più tasse e vorremmo più autonomia, ma da qui a separarci dalla Spagna…

I-inde-independènci-a!

E io, che almeno non sono l’austriaca della situazione, faccio come l’inaffondabile Sissi: applaudo. Per il bel concerto gratis, e il finale che non sarà spettacolare come il Nabucco cantato dai cuochi alla Scala, ma il Risorgimento 2.0 è frutto di un’altra epoca.

http://www.youtube.com/watch?v=G_gmtO6JnRs

Francisco Goncalves Photo

Francisco Goncalves Photo

E poi quella mano di rosa spalmata sul muro del terrazzo (che sarà un colabrodo, ma è di un bel color crema), ti fa capire che ti stai perdendo un capolavoro.

E allora esci sul terrazzo e puoi fare due cose.

Una è pensare.

Che le giornate si sono allungate, e la primavera non è vicina, ma altre due settimane e la sentirai nell’aria, annunciarsi discreta come una vera signora.

Che sul cobalto ci sta benissimo, il rosa fosforito (come lo chiamerebbe la tua amica andalusa). Specie se ogni tanto lo attraversano sagome nere più esuli di te.

Che le antenne sul terrazzo accanto, quello in comune, sono ancora là, inutili, coi fili tagliati dal vicino fin troppo gentile. Quello che ti ha fatto lavoretti in casa, quello che si affacciava troppo spesso a chiamarti e chiedeva al tuo ex “A che piano vai?”, perché non gli piacevano la sua pelle e la tuta del mercato (e manco le labbra carnose e allegre rispetto alle sue, sempre asciutte). Quello che magari ha pure ragione, ci sarà, questa normativa che prevede una sola antenna, per fargli stendere i panni in santa pace. Ma che è passato dalla parte del torto tagliando i fili perché credeva fossero “tutte antenne dei filippini, Maria, una di loro mi ha risposto male, come si permette di vacilarme?”. E sai che è un false friend, ma vacilarme ti sembra sempre il termine più adatto per questo spagnolo piccolo piccolo, con ragione da vendere e la macchinetta del caffè per una persona sola.

Puoi pure pensare che la vita continua e per continuare, come dice la canzone, ogni tanto ti fa morire un po’. E quando ti chiedi se ne vale la pena, a vivere, dovendo morire sempre un po’, il cobalto e il rosa fosforito sono qui per questo.

Puoi pensare tutte queste cose.

Oppure non pensare.

Guardare e basta.

Uno di quei tramonti che sembrano albe, tra i gabbiani scostumati e le antenne del Raval.

tofuLo so che non state più nella pelle perché si avvicina Sanremo.

E allora prendo spunto da una delle canzoni per cui ho più tifato in questa kermesse così originale e innovativa (ovviamente arrivata sedicesima):

Ho sempre pensato
Quando avrò questo sarò saziato
Ma poi avevo questo …ed era lo stesso
Ho sempre pensato
Troverò il mare e sarò bagnato
Il mare ho trovato… ma nulla è cambiato… nulla

Vabbe’, ma quell’anno hanno vinto Lola Ponce e Anna Tatangelo, contestualizzate! La canzone mi è venuta in mente perché pensavo a una ragazza conosciuta in paese, che aveva il volto deturpato da una specie di cicatrice, non ho mai capito bene che fosse. Allora ero giovincella, e lei era ancora più giovane di me, quindi viveva in questo mondo di fiabe in cui, secondo lei, con un volto diverso la sua vita non è che sarebbe migliorata. Sarebbe stata perfetta.

Già si vedeva Johnny Depp sotto casa con un mazzo di fiori, il tempo di rispondere via sms a Bill Gates che sì, accettava quel lavoro milionario di compositrice di musichette Windows per l’accendimento e spegnimento del computer.

Era in buona compagnia. Pensavo a lei proprio perché facevo il conto di tutte le cicatrici, virtuali o reali, senza le quali le cose ci andrebbero benissimo.

L’amore di gioventù, impareggiabile, e tutto il resto è noia. Un problema di balbuzie. ‘Nu milione, o aneme d’ ‘o Priatorio. Poi si sa, se Steve Jobs fosse nato a Napoli

E nel mio caso, ovviamente, una mente complicaaata, così complessa e stramba che Freud alla terza seduta si sarebbe dato all’ippica (a meno che non somigliasse veramente a Viggo Mortensen, nel qual caso sarei guarita subito).

Ma ogni cicatrice è buona. Anzi, a un certo punto se sei a corto di problemi, circostanza rara, quasi quasi te li inventi, perché non riesci a immaginarti senza. Sono sicura che Viggo Freud, qui sopra, avrebbe la definizione perfetta di ciò che succede quando il tuo io si riconosce solo nel caos e nella precarietà, e quando glieli tolgono è come se gli mancasse il terreno sotto i piedi.

Io nel mio piccolo lo chiamo mondo tofu.

E spero che la ragazza della cicatrice, ovunque lei sia, abbia trovato il mago del bisturi capace di rimuovergliela. Non sono di quelli che “meglio così, altrimenti ci rimane male”. No. Che esca dalla clinica e scopra col suo nuovo volto che il mondo non è rosa.

È generalmente insapore, come un pezzo di tofu.

E come mi ha spiegato un amico vegano, il tofu di per sé non sa di niente, sei tu che devi insaporirlo, cucinandolo bene. Purtroppo, altro che Carlo Cracco! C’è da lavorare molto e, soprattutto, con costanza. È la costanza che ammazza. Il passettino al giorno, quando va bene, per anni interi. Se Voltaire avesse mai preso la zappa in mano si sarebbe reso conto di cosa significasse coltivare il proprio orto.

Mo’ è inutile che io faccia la sborona, che la zappa l’avrò presa tre volte e non scriverò mai Candide. In compenso ho scoperto che sta storia del mondo tofu la sospettiamo, ma preferiamo tenerci le cicatrici anche quando scompaiono.

Eppure… Immaginate se qualcun altro, finalmente, decidesse di lasciare la sapiente arte d’intossicarsi la vita, che la vita per quello non ha bisogno d’aiuto, e sapesse già che là fuori, anche coi denti dritti o i soldi in tasca (benché aiutino), non è esattamente l’Eldorado.

Magari, dopo il primo momento di panico, e diversi fegati nuovi più tardi (che quelli non sono mai troppi), le cose potrebbero cominciare perfino ad andargli bene.

Altrimenti c’è sempre Sanremo.

almodovarOk, ultimamente faccio assai pipponi su ammore e responsabbilità, che scritto così sembra la nuova canzone di Antonio Ottaiano, con un bacione a tutti gli ammalati per una presta guarigione e a tutti i carcerati per una presta libbertà.

Ma che ci volete fare, a volte la vita è tragicomica.

Ho accompagnato un’amica spagnola a un concerto, suonava un tizio che le piaceva. La mia amica frequenta uno che non si capisce bene che intenzioni abbia, e un po’ perché è stufa, un po’ per dimostrarsi che è ancora libera e felice come una farfalla, ha colto al volo un invito su facebook per rispolverare questa conoscenza iniziata davanti a una pizza.

Alla fine del concerto, ovviamente, noi lì nel backstage pezzotto, modello groupie con 15 anni in meno. Ma lui ha fatto il suo miglior sorriso finto, ha ringraziato per i complimenti ed è andato a baciare una tizia dall’altra parte della stanza.

L’amica era allibita. La pizza risaliva a qualche mese prima, ok, però cavolo, lei da altrettanto frequentava il tipo indeciso e in pubblico a stento un bacetto per guancia.

Fortuna che per rompere il gelo ci raggiungeva una “nordica” più giovane che vive qua fin da bambina. La spagnola stava zitta e pensosa finché, a un semaforo, sulla strada del bar in cui ci aspettava altra gente, abbiamo visto attraversare lui. L’amigo con derecho della nordica. In realtà uno dei due e manco il preferito, ma so’ dettagli.
Con una bruna esattamente della sua taglia.

E lì per evitare conversazioni imbarazzanti ho fatto un capolavoro. Ho accelerato il passo per fingere che avessimo fretta (le altre non capivano che succedesse) e, non potendo ignorare il tizio in questione, gli ho sventolato la mano quando ormai eravamo a due kilometri. Ha risposto col secondo sorriso ipocrita della serata. D’altronde, se ci fossimo fermate, che gli dici al tuo secondo amante se lo vedi con un’altra?

Fatto sta che quelle zitte e pensierose adesso erano due. Fortuna che il bar era là vicino. E la nostra amica catalana ci aspettava con varie persone.

Come previsto, si è messa a parlare del suo non compagno. Cioè, di un amico argentino che lo sappiamo tutti, che stanno insieme, ma loro fanno finta di niente da anni, perché non vogliono impegni. Ma stanno sempre, sempre, sempre insieme.

Uscendo ho sbuffato:

– Il mondo si complica la vita.
– Meglio una vita movimentata, ti suicidi più tardi – ha commentato la nordica.
– Sì, ma alla fine – e mi metto in mode pippone – tutte queste persone semplicemente non si assumono le proprie responsabilità. L’indeciso che fa ‘o scemo per nun ghi’ ‘a guerra, l’altra che lo sopporta per paura che la lasci, voi che “libero amore” ecc. e poi se è libero davvero fate le facce strane, e questi che dell’amore godono solo a metà, come Pina Sinalefe. Foste almeno felici…
– Chi può dire di essere felice? E chi può definire cosa sia una coppia? Finché la cosa funziona, va bene.
– È tutto molto logico, sensato e relativista, per la gioia di Paparatzi. Ma… Parole, parole, parole. Continuo a sospettare che la gente per non volere complicazioni se ne crei il doppio.

Ok, parlo io che fino a poco tempo fa sembravo quello di Nuovo Cinema Paradiso, senza il successo e i soldi, ovviamente.

Però il sospetto mi rimane. Un’amica psicologa mi faceva notare che l’essere umano ha quest’assurdità: credendo di fare il proprio bene e risparmiarsi grane, segue dei modelli di comportamento che le grane gliele portano.

Ma sono parole anche queste

Credo che il tutto si riassuma così:

(Maledetta stronza, che non muore mai mentre io vorrei dormire)

desigualE poi ci sono quei pomeriggi.

Quelli in cui la traduzione del giorno è nel suo file, il bando l’hai letto, le nuove critiche al libro stanno lì a macerare, come fiori per un profumo, e tu hai la stessa tranquillità e pace interiore di Virginia Woolf (senza peraltro un briciolo del suo talento). Anzi, rispetto a te Virginia Woolf ha la tranquillità e pace interiore di un impiegato del catasto con l’hobby della filatelia.

In questi casi, prima di ricordare che vivi al quinto piano, è meglio uscire per saldi, che, senza fare la Sex and the City della situazione, un cappottino nero non ci starebbe male, così non appezzotti sempre la trapuntina-beige-che-sta-bene-su-tutto.

Allora, benvenuti al tutorial dei saldi del basilico! Volete sapere il trucco dei trucchi, quel posticino che sa solo chi ci vive, in una città? Ebbene, vi svelo il mio piccolo segreto. Rullo di tamburi…

Il Corte Inglés!

E manco quello dell’Hard Rock Cafè, o di Portal de l’Àngel. No, proprio quello di Plaça Catalunya. Sì, lo so, non ringraziatemi. Se non ve l’avessi detto io, non l’avreste neanche notato, sobrio com’è.

Sono giunta a quest’importante filosofia di vita dopo aver provato di tutto: gli outlet vicino Plaça Tetuan, i negozietti fricchettoni del Gotico, e perfino i cinesi di Sant Antoni. Niente da fare. Al Corte Inglés la maggior parte della roba esposta in saldi è per la serie “devi dare tu i soldi a me per mettermelo”, ma hanno tanta di quella stoffa a marcire nei magazzini, che ogni tanto trovi delle ex promozioni (leggi “scarti degli scarti”) al 50 e 70%. E se avete gusti diametralmente opposti alla maggioranza della popolazione (e un busto che per le magliette potreste andare ancora da Prenatal), vi siete fatti il guardaroba di Pasqua, Natale e Capodanno alla faccia di Manolo Blahnik.

Intendiamoci, le canotte a costine Ralph Lauren a 20 euro, che le trovi uguali a 5 di Sfera (la linea economica del magazzino), stanno bene dove stanno. Ogni tanto, però, rimedi cose buone, pure nell’intimo: in saldi trovi certe marche “che durano” al prezzo intero di quei completi italiani (non fatemi nominare la catena) che prima ti scuciono 20-30 euro, poi si scuciono il tempo di portarli fuori dal negozio.

In genere, poi, durante i saldi gli stranieri non residenti a Barcellona hanno uno sconto del 10%, presentando un documento d’identità all’ingresso. Le mie amiche catalane, sapendolo, hanno fatto tante di quelle storie che non ho il coraggio di presentarmi lì con le “s” a fine parola e dichiarare di essere appenas arrivatas. Anche perché, con la gente che frequento ora, magari mi uscirebbe in catalano, e non sarei credibile.

Comunque ribadisco, non è che si trovi granché. Infatti l’amica sarda ex residente, ora in visita fino a domenica, la incontro coi reggiseni a metà prezzo infilati in borsa e le mani vuote. Le sue, invece, sono occupate a scattare varie foto a una turista che voleva mettersi in posa sulla Rambla del Mar, con un venticello scherzoso che la bora in confronto è un ventilatore rotto.

Tanto noi andiamo al cinema, al Maremagnum. Per una volta che vogliamo vedere lo stesso film, The Hobbit, e prima che me ne penta, sbrighiamoci a comprare i biglietti (e l’osservazione che alla stessa ora ci sia anche Lincoln, amica mia, è proprio un colpo basso, vade retro Satana).

Per fortuna o purtroppo, nonostante la zona turistica al massimo, il film è in spagnolo. E voglio stare pure a discutere, per poi uscire comunque dal cinema, sui pregi del doppiaggio italiano, ma in spagnolo davvero non si può sentire .

Ma la simpaticona alla cassa è disposta a restituirci i soldi, non prima di aver sbuffato e fatto una predica alle due italianinis sul fatto che “in Spagna” i film siano doppiati in spagnolo, a meno che non sia specificato altrimenti.

Muy amable, eh, sibilo, ma lei traduce correttamente neh vrenzola, i favori si fanno o no, senza brontolare, credevo che in questa munnezza di centro commerciale fosse tutto per turisti e comunque, vivendo tu a Barcellona, la Spagna che ci vuoi insegnare l’avrà vista al massimo nonneta. E per sua fortuna non dice niente.

L’unica cosa certa è che devo una serie di birre all’amica allibita. Sarà la pace interiore di cui sopra.

pastisE al Pastís, inaspettatamente, c’è un delizioso concertino. Casi el mejor trío del mundo: banjo, trombone e clarinetto. Musica tipo swing, da orchestrine anni ’30, con tanto di vocione simil-nero del banjo, che in realtà pare slavo. La “trombona”, invece, è catalana.

Avventori simpatici, internazionali, dai francesini al tizio col pantalone a zompafuosso, che decidiamo esser fresco di ostello.

– Meglio che il cinema! – ammette l’amica.
– Mi piace quello di fronte a te – rispondo.
– Sì, non è male.
– Oddio, siamo d’accordo su un uomo!

Non succedeva dalla trobada de becaris, quando un collega dottorando si girò un momento e nella catalanissima aula dell’Ateneu Barcelonès risuonò un grido in sardo: “Abbiamo pensato la stessa cosa!”.

Ma dura poco. Fino al momento in cui la mia follia pomeridiana è affogata in un delizioso Don’t Worry Be Happy versione swing. E ci mettiamo tutti a fare i cretini appresso al terzetto.

Tutti, tranne lui.

– Complimenti, Maria. Sei riuscita ancora una volta a notare l’unico che non sorride mai. E non balla, non va a tempo…

Lo so, sono campionessa mondiale. Ho fatto di meglio, eh. L’ho sgamato anche una domenica sera al Big Bang, nel momento di massimo sovraffollamento.

Stavolta sono pure fiera di me, perché per notarlo non mi ci è voluta un’altezza straordinaria, o degli occhi azzurri che brillano nel buio. Solo un nasino all’insù sotto un paio di occhiali rétro, e scarpe da ginnastica con l’immancabile calzino bianco. Vorrei solo capire quale tipologia ha captato stasera il mio radar, che in genere, come Paganini, non ripete. Apatico cronico? Celo. Innamorato dell’ex? Celo. Religioso sessuofobo? Celo.

Per una volta, resterò col dubbio. E con una borsa piena di mutande al 50%.

ramboImmaginate la scena.

Siete a Barcellona a una bella festa, soddisfatti ma stanchissimi. Le canzoni demenziali hanno appena ceduto il posto a Marisol, c’è così tanta gente che non si respira e la vostra amica continua a non credere che il cugino bello di Rambo, davanti a lei, sia gay.

A quel punto, tutto ciò che vorreste fare è tornare a casa, al massimo fare una capatina al baretto all’angolo per commentare il Barça coi vicini…

Quando chiama lei.

L’amica straniera della tua amica. Quella che non sa un cazzo delle strade del Raval, perché ad andarci sola Dio scampi, ma vuole proprio raggiungervi.

Solo che ha degli amici al seguito. Connazionali in visita, carichi di gingilli del Barça e foto della Sagrada Família.

E, udite udite, vogliono mangiare paella. Alle 20 di domenica sera.

Il vostro istinto di conservazione vi dice solo fuje sempe tu. Gli occhioni da cerbiatta della vostra amica dicono “Mica mi lasci sola, vero?”.

Così proponete:

– Vabbe’, ti accompagno dai tuoi amici e poi vado a casa. Dove stanno?

– In questo momento, in Plaça Catalunya con Raval.

Perfetto. Sorvoliamo sulle indicazioni spagnole senza traverse, senza preposizioni (epic win: “ci vediamo nell’Arc de Triomf”, e stavano a 10 metri di distanza dall’arco). Ma Plaça Catalunya, facendo mente locale, è circondata sempre e solo da Gotico ed Eixample. Staranno nel Pelayo?

– Non so – rettifica l’amica – dice che ora stanno nella prima strada del Raval a destra.

La prima… No, questo concetto ve lo dovete segnare. Anche l’amica che propone “Boh, andiamogli incontro, prima o poi li troviamo”. E ripensate a Peppino che in Piazza Duomo a Milano propone: “È la piazza principale? Sediamoci qui, quella qua passa“.

Ma quando già state su Joaquim Costa arriva un altro Whatsapp: “siamo in c. Hospital“.

Ora, a meno che non volino su scope di saggina o abbiano inventato il teletrasporto, all’hospital ce li mandereste voi.

Ma volete aver fiducia nel prossimo, quindi riuscite a portare l’amica nel punto indicato, ancor prima del messaggio “Ora siamo fuori al Macba“. Ok. Sono i Cullen di Twilight.

– Senti, si fermassero lì e non si muovessero, se no succede.

Peccato che in spagnolo “succede”, senza soggetto, non rende l’idea. Ma eccoli lì, i nostri eroi, in attesa tra gli skater di Plaça dels Àngels, che purtroppo continuano a scansarli.

Ora fate un respiro profondo, dite om shanti e spiegate che la paella di domenica sera, a Barcellona, solo surgelata può essere.

A meno che…

– Scusi – chiedono 10 minuti dopo al cameriere della Xaica – El Bastió Blaugrana – la vostra paella è surgelata?

– No. Infatti per mangiarla dovrete aspettare 30 minuti.

Che diventano 40 perché la turista si deve far tradurre tutto il menù, due volte. In inglese e in turco. Il compagno fa lo stesso, ma lo fa dietro la vostra schiena perché vi siede accanto per guardarsi il Barça, lasciandovi lontani dall’amica e letteralmente presi dai turchi.

Che bello, almeno si guarda la partita!

No, si deve anche parlare. Sempre in turco. E la turista vuole la password di Internet per l’iPad, ma la cameriera non collabora perché troppo presa a dimenticarsi dei vostri piatti, che arrivano freddi.

La turca “stanziale” si fa scaldare il suo, e l’amico le diagnostica un ricovero per quello che ci finirà dentro nel processo. La turista richiama la cameriera: password a parte, la coca cola è scaduta.

Adesso. Tutti hanno diritto a bere coca cola non scaduta, ovviamente. Ma, benedetta figliola, come ti è venuto di alzare la lattina di Diet Coke e leggervi la data di scadenza? Sei il mio mito di tutti i tempi.

Intanto l’amica andalusa vi informa che tiferà Sevilla perché Messi ha la cara de mongolo . Cent’anni di diritti dei disabili buttati nella spazzatura insieme alla paella.

Perché ovviamente, quando arriva, la turca ‘nzista ne assaggia giusto due cucchiai.

– Non la voglio. C’è il coniglio.
– Embe’?
– Io non mangio coniglio. Io adoro i conigli.

Già, perché invece mucche e gallinelle le hanno fatto qualcosa.

Fortuna che il Barça vince abbondantemente e siete troppo impegnati a chiedervi per quale arcano motivo il centrocampista del Sevilla faccia di cognome Buonanotte, per accorgervi che, dopo la crema catalana di rito, la cameriera pensa bene di mettervi davanti del liquore alla mela, omaggio della casa. Scordandosi i bicchierini.

Buonanotte è già diventato Va’ te cocca, prima che si rimedi alla svista e la vostra amica spagnola scopra risollevata che non è ancora ora di andare al lavoro.

Voi invece scoprite, prima del canto del gallo, che Buonanotte è argentino. E di nome fa Diego.

Forse, se invece di cedere agli occhioni della vostra amica imparate voi a dire “buonanotte” e filare a casa, la prossima volta andrà meglio.

Io l’imparo pure in turco, non si sa mai.

santagataSul mio comodino si tengono lezioni di cucina che MasterChef se le sogna. Proprio in cima alla pila di libri che mi sono portata dall’Italia, resistendo tutte le feste e cedendo proprio alla Feltrinelli di Capodichino, a due passi dall’aereo.

Nell’angolo tra il lume di plastica verde e la parete bianca, che già comincia a scrostarsi, Agatina e sua nonna fanno le minne di sant’Agata. Impastano la ricotta e la farina che si trasformeranno in un seno bianco e sensuale, con una ciliegina candita sopra. E poi le contano. Devono essere due per ogni donna della famiglia, se no la Santuzza si offende. Stanno a Palermo, ma nonna Agata, ovviamente, è di Catania. E, salvando la bimba da genitori un po’ caotici, le insegna la cucina e le cose del mondo.

umeboshiUn paio di centimentri (e vari strati di polvere) più sotto, in Giappone, la giovane Ringo e sua nonna vegliano le umeboshi perché non ammuffiscano. Anche la nonna di Ringo rimedia agli errori di una mamma un po’ scombinata, e piano piano, più con gli assaggi che con le parole, insegna alla nipotina quello che sarà il suo mestiere. Il mestiere che le salverà la vita quando il fidanzato indiano si porterà via il suo profumo di spezie assieme ai mobili, costringendola a tornare in paese e inventarsi una nuova vita. E le minne entrano in scena anche qui, perché ora Ringo, con in bocca l’ultimo umeboshi al sapore di nonna, già intravede dal minibus il Monte delle Tette, in realtà due monti vicini che fanno da sfondo al suo villaggio.

Separate dallo spazio e dal tempo (e pure dalle Feltrinelli, perché Agatina era stata l’unica mia concessione a Piazza Garibaldi), Agata e Ringo, con nonne e minne al seguito, non potevano che incontrarsi per puro caso, su un comodino preso in un magazzino di mobili buttati.

A qualche centimetro da entrambe, nel lettone IKEA mezzo vuoto e mezzo pieno, ci sono io. Che pure ho avuto a che fare con con un fidanzato profumato di spezie, solo che lui l’India la schifava, i mobili me li aveva dati e non tolti, e questa è un’altra storia.

Nonne, minne e cucina, invece, mi accompagnano da sempre all’insegna dell’assenza.

Nonna la cucina non me l’ha insegnata, perché nessuno l’ha insegnata a lei. Se non fosse per mio fratello, fan di tale Carlo Cracco, questa lacuna in famiglia non verrebbe mai colmata. La nonna che non ho mai conosciuto, invece, mi ha lasciato in eredità il nome, l’amore del figlio e, a quanto pare, le minne. Nel senso di:

– Papà, tu che sei medico, perché le tette non mi crescono? Ho già 15 anni!
– Eh, avrai ereditato quelle di nonna, piccole ed eleganti.
– Eleganti un ca… Ehm, mamma, com’è morta, la nonna?
– Eh, di un tumore al seno, purtroppo.

Terrore a parte, invidio sia le minne di Sant’Agata (e solo quelle, malpensanti) che gli umeboshi. Ma mi tengo Barcellona, il lettone IKEA, il comodino d’occasione, e le ricette giappocatanesi che mi fanno ingoiare i sogni di gennaio.

(uno per la Santuzza)

(ancora Giappone in trasferta)

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