Archivio degli articoli con tag: amore

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Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Fiori da un’amica

Ottocento è troppo, seicento è giusto.

Ma un fesso disposto a cacciare mille euro sarebbe facile da trovare, per il bell’uomo brizzolato che mi mostra l’attico gelido. È una casa che funziona per esclusione. L’unica stanza degna di questo nome va adibita per forza a camera da letto, trasformando così in salotto lo spazio che la unisce a una sorta di insenatura oblunga: la cucina. Da quella, tre gradini portano a una piattaforma spoglia che è stata sottratta al terrazzo condominiale, insieme a un terrazzino delimitato da una staccionata a rombi. Al di là della staccionata intravedo piantine di marijuana, e la bandiera indipendentista che, mentre arrancavo sulla strada in salita, ho visto svettare sulla facciata color bianco sporco. Le pareti sembrano fatte di carta velina: sentirò tutto ciò che dicono e fanno i vicini. A quanto pare sono pochi, e quasi tutti musicisti, il che non mi rassicura sui rumori molesti… Ma sarà una convivenza pacifica, mi promette il proprietario, e capisco che è cresciuto lì dentro come l’uomo col mastino era cresciuto nel palazzo che reclamava come suo. Solo che questo bell’uomo brizzolato, che nel profilo gmail sta facendo yoga, possiede il suo palazzo per davvero, l’ha ereditato dal padre. Forse è per questo che sfodera un sorriso zen, quando gli chiedo il prezzo e mi preparo a trattare: ottocento è troppo, seicento è giusto.

“Voglio solo quattrocentosettanta euro” annuncia lui.

Ho la faccia di culo di chiedergli uno sconto.

Ovviamente respinge la richiesta, ma si vede che gli sto simpatica. Quello che non sa è che, due ore prima del nostro incontro, mia madre mi ha chiamato per annunciarmi che la nonna era morta. Poche settimane prima, a Pasqua, nonna mi aveva rimproverato benevola perché non ero andata da lei.

La reazione immediata alla notizia è stata quella di “fare cose”: dopo una ricerca folle quanto vana per partire quella notte stessa, ho acquistato il biglietto aereo per presenziare almeno al funerale. Poi mi sono sciacquata il viso: non potevo permettermi di aspettare oltre, dovevo aggiudicarmi l’attico prima di partire.

Salutato il mio nuovo padrone di casa, per omaggiare la nonna visito tutte le chiese che trovo: mi incuriosiscono le madonne sugli altari. Quella del Carme quasi si dimentica di reggere il bambino, che sembra schiaffato lì a giustificare la presenza di una donna su un altare cristiano. La Grande Madre è ancora tra noi, direbbe la junghiana.

Mia nonna era la grande madre della “famiglia degli gnocchi sfatti“. La sua, di madre, l’aveva messa a balia quando era ancora più piccola di quel bambino sull’altare, e la balia era come una madre per lei. Quando la famiglia di sangue se l’era “ripresa”, lei aveva pianto molto. Ti riportiamo a casa, le avevano promesso. Chissà se nonna si sentì mai a casa da qualche parte.  

È come uno strappo che nella mia famiglia, saltando qualche generazione, si trasmette di donna in donna: la separazione da una casa reale o immaginaria, che resta lontana anche quando ci siamo dentro.

Gli uomini che ci procuriamo “noi dello strappo” sembrano più brillanti, più interessanti di noi, ma è così evidente che siamo noi a sostenerli che mi chiedo come il particolare sfugga ai più. Mentre accenno un inchino alla madonna del Carme, mi rendo conto che da quando sono adulta mi deve ancora succedere, che uno sostenga me.

***

Chi vive fuori arriva sempre tardi.

Ammesso che fai in tempo per l’addio, non sei stata lì fin dalle prime ore. Sei eternamente in difetto con chi resta.

Io sostengo mia madre nella camminata rituale dietro al feretro: vedere mamma struccata in mezzo a tanta gente mi dà la misura del suo dolore, dello scompiglio portato da un lutto. Stringo mani, mi faccio strada tra volti che non riconosco più, mentre cerco una risposta adeguata alle condoglianze.

Quando mamma annuncia al cimitero che le ossa del nonno riposeranno insieme alla moglie, senza pensarci commento: “Certo che lui sarà entusiasta!”. Lo dico perché coi cugini, passeggiando tra i viali costeggiati da lapidi, abbiamo appena rievocato i litigi un po’ comici di quella coppia d’altri tempi. Anche mamma risponde con uno scherzo, ma si vede che c’è rimasta un po’ male.

“Too much” commenterebbe forse Bruno. Penso a lui solo in quel momento, e penso pure allo Spazio. Devo ripartire la mattina presto per quella sorta di tirocinio che inizia proprio l’indomani: perché l’omologazione funzioni, la frequenza dev’essere obbligatoria. Mia madre è livida al pensiero che io riparta già, ma le ho promesso che tornerò.

Penso a tutto questo mentre vedo la nicchia richiudersi sulla mia infanzia, sui nonni e sui loro litigi davanti agli gnocchi che si sfrangiavano nel cucchiaio. A riscuotermi è una voce che ricordavo giovane. Girandomi mi trovo davanti un uomo distinto, dai capelli bianchi.

“Questa signorina da piccola era splendida, e adesso è solo bellissima!”.

Ci metto un po’ a riconoscere il mio “primo amore”: così lo chiamavano ridendo, in famiglia, quando a quattro anni lo invocavo per giocarci insieme. Lui di anni ne aveva una ventina, e mi trovava molto buffa, e adesso che ha una moglie della mia età è tra quelli che ancora mi ricordano come “una delle più belle bambine mai incontrate”.  

“E poi cos’è successo?” provo a sorridere.

Ma lui me l’ha appena detto con adulazione affettuosa: da bambina ero meravigliosa, adesso sono “solo” bellissima. Tra me e me lo correggo: più che altro sono “solo” io, io e basta.  

Prima di lasciare il cimitero, un fratello di mio padre ha sottratto dei fiori freschi alla nicchia appena chiusa: li ha portati alla mia nonna paterna, che non ho mai conosciuto. Le mie due nonne erano colleghe a scuola, ed erano cresciute insieme come sorelle. Lo zio è soddisfatto del suo furto innocente:

“A mamma ho detto: ‘Te li manda l’amica tua’”.

Il giorno dopo, mentre scendo dall’aereo che mi ha ricondotta a Barcellona, mi accorgo che non sono tornata da sola: mi sono portata dietro tutte le donne della mia famiglia.

D’ora in avanti camminano tutte insieme a me.

A mercoledì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

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Il Mondo

L’amico scuote l’aureola.

“No!” grido.

L’ho stupito: osserva meglio la madonna di legno che sta torturando.

“Vuoi dire che questo cerchio non serve ad appendere la statuetta?”.

Sorrido. Ormai dovrei sapere che ciò che è sacro per qualcuno è ridicolo per qualcun altro. L’amico è un ex vicino del Raval, ha partecipato anche lui alla mia mudanza col carrello da spesa che ha parcheggiato nell’androne: gli cedo gratis le madonnine kitsch e i quadretti che tre mesi prima, al mio compleanno, mi avevano raccomandato di provare a vendere. Ma io voglio sgomberare la casa prima possibile.

“E questa cos’è?” interroga l’amico.

Non vedo subito l’oggetto che mi ha indicato: sto controllando di nuovo il cellulare. Un tempo aspettavo i messaggi di Bruno, adesso a farsi desiderare è il proprietario dell’attico gelido, che a quanto pare è ancora in affitto. Ma sono tenace: ho trascorso il pomeriggio di Pasqua nei pressi del palazzo dove si trova l’attico, in un parchetto del Poble-sec dalle pergole ricoperte di glicini. A vivere da quelle parti, mi rimetterei più in fretta. Ho ripensato a mia nonna, che si rammaricava da Skype perché non ero da lei per Pasqua, ma uscendo dal parco ho sorpassato palazzetti bassi dai colori pastello, e gli edifici moderni del Passeig de l’Exposició, coi balconi di lamiera colorati da qualche bandiera indipendentista. La mia sorpresa mi ha divertito: un quartiere di Barcellona che fosse ancora abitato da barcellonesi? Qualcuno in quelle case sperava in un futuro migliore, e in quello, almeno, volevo credere anch’io.  

“Vabbè, questa roba te la lascio”.

Finalmente mi giro, sorprendendo l’amico nell’atto di cacciarsi un Gesù Bambino nella sporta già piena: l’oggetto che mi indicava prima era la mangiatoia.

“Con ‘questa roba’ il bambinello vale di più” gli assicuro.

“Allora è una culla? Anche se è piena di paglia?”.

“Serviva a nutrire un bue”.

Quello crolla il capo. Forse si chiede a che prezzo possa vendere quella paccottiglia incomprensibile.

Anche io ho tante domande su ciò che farò: il trasloco, il mezzo tirocinio che mi inizia allo Spazio… E poi la Petulante mi ha già bocciato il progetto principale.

“Mettiamo pure che trasformi casa tua in un AirBnb: di tutte le persone che te lo potevano gestire, hai scelto proprio…?”.

Non è come pensa, mi ripeto salutando l’amico che si allontana col carrello pieno. Non so ancora niente di licenze turistiche, di permessi e lotte alla gentrificazione, ma sono sicura di una cosa: con Bruno non ci sarebbero contatti. Se accetta la proposta di gestirmi la casa, ci sarà un solo incontro, per un rapido scambio di chiavi, e il resto saranno comunicazioni di servizio e versamenti bancari. Bruno ha bisogno di soldi, e io ora so che, semmai fosse possibile, dovrebbe tornare lui da me e non viceversa. Rinunciare a lui non significa smettere di volerlo aiutare.

È anche per questo che sgombero casa: l’amico agente immobiliare ha già portato degli studenti a vederla, ma nessuno la vuole, è troppo vecchia e lugubre.

Dopo che ho inviato a Bruno la “proposta indecente”, sono così tesa che uscendo dimentico la penna. Me ne accorgo che ormai sono a un passo dalla biblioteca, in una zona senza cartolerie, e per non darmi della cretina mi appello a quei manuali fumosi che sto leggendo sulla sincronicità junghiana: che la mia sbadataggine porti con sé una lezione?

Forse devo accettare con umiltà i miei errori più scemi, oppure devo imparare a chiedere quando ho bisogno di qualcosa, fosse anche una penna in prestito! Ma no, perché? Per una volta mi godrò le letture junghiane senza l’ossessione di prendere appunti…

Entro in biblioteca e, proprio accanto ai tornelli, la vedo.

Chiedo un po’ in giro ma no, non appartiene a nessuno; una penna in biblioteca, che coincidenza incredibile! Il bello è che, rapita dai miei pensieri, quasi non la notavo: forse questa è l’unica lezione possibile.

L’ho appena raccattata, quando mi telefona Bruno.

***

Mentre mi parla inizio a camminare.

Sto avanzando verso la Rambla del Raval, ma stavolta non seguo la strada del mare. Sono solo affari, ricordo, e lui è un po’ impacciato ma gentile: prima di discutere del progetto deve darmi una notizia che “forse già conosco”. Si sposa, decido. La Biondissima è incinta e si trasferiranno nel suo paese, dove lui insegnerà italiano e saranno felici, e…

“Parto”.

Guardo davanti a me la strada sozza, e penso subito a un tarocco che nei mesi più bui pescavo spesso, se mi interrogavo su Bruno: il Mondo. Spesso indica un viaggio. Che scema che ero: Bruno non parte mai. Minaccia sempre di farlo, poi resta. Almeno so per certo che con la Biondissima è finita: dal tono di lui è evidente che quella partenza è una fuga.

All’improvviso c’è qualcosa di nuovo a unirmi a questo Bruno sconosciuto. È una sorta di pietà, forse reciproca: un’umanità di amanti sconfitti, distrutti dai propri sbagli.

Lui invece non afferra i miei accenni ad analisi mediche, alle compresse che ancora prendo per assicurarmi di non produrre latte… In che senso, vuole sapere. Forse gli verrebbe più facile credere di avermi messa incinta, piuttosto che immaginarmi insonne e inappetente (e piena di latte!) per qualcosa che lo riguardi in prima persona.

Quando riattacco non so ancora che Bruno farà il prezioso per un po’, poi respingerà la mia offerta. È facile da immaginare, ma sono troppo distratta dalla scoperta che il mondo è uguale a prima. In fondo, alla Biondissima avevo dato tre mesi, e poi mi viene in mente una frase lapidaria di mamma al telefono, nel caos dei primi tempi senza mangiare.

Che lui stia con un’altra o entri in convento, a te che importa? L’unica questione che ti riguarda è che non vuole stare con te.

Il bello è che stavolta non gli servirei neanche per consolarsi: è chiaro che a questo dolore qua non vuole rinunciare. E io?

Io sono occupata a nutrire questa forza che non mi molla più, che dopo anni di abbandono pretende tutta la mia attenzione.

Il mio corpo, adesso, è aperto solo a lei.

A lunedì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

A lunedì per il seguito!

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Presenze

Da cosedinapoli.com

Non mancano i volti buoni.

Nella Casa degli spiriti approdano due amici di passaggio per Barcellona, reduci entrambi da una rottura sentimentale. Uno dei due, napoletano, non fa che ripetere che “noi donne” siamo questo e quest’altro, al punto che resto zitta solo perché non ho le forze per replicare. L’altro, madrileno, l’ha presa così bene che il tempo di posare la valigia e sta già chiacchierando su Skype con l’ex. Alla fine ci tornerà insieme e avranno due bambini, ma intanto ci indottrina: si no puede ser, no puede ser. Perché noi italiani la facciamo così tragica? Tutta colpa del Vaticano! Io e l’altro napoletano dovremmo dare uno schiaffo morale al papa e coricarci insieme: almeno ci facciamo compagnia…

“Perché non ci dormi tu, con me?” lo sfotto, strizzando l’occhio al napoletano. “Voi spagnoli parlate tanto, ma poi…”.

Lo vediamo filare nella stanza degli ospiti, e ne ridiamo. Quella volta non mi sveglio alle cinque del mattino per piangere.

Viene anche mia madre, per “aiutarmi coi lavori in casa”: forse quello è il primo viaggio che fa da sola. Mi hanno sempre affascinato le donne della mia vita, coi loro gnocchi sfatti e le scelte così diverse dalle mie. Mamma mi porta tante cose da mangiare, e La Settimana enigmistica, che diventa il suo passatempo barcellonese insieme alla lettura delle notizie: al contrario di me non ama uscire, e adora la casa che io detesto.

Non saprò mai in che lingua riesca a litigare col capomastro, un giovedì che rincaso tardi per ritirare della paella da asporto. Dai monosillabi di lui capisco che mamma si è “permessa” di suggerire un colore diverso da quello concordato per tinteggiare le stanze, e lui non può prendere ordini da due clienti diverse. O da due donne? Non glielo chiedo. È ormai evidente che si era accollato la tinteggiatura solo per aggiudicarsi l’impianto elettrico (per il quale poi non mi rilascerà l’apposito bollino). Anche stavolta il mio corpo agisce prima di me, e mentre accompagno alla porta il furfante sto già chiamando un imbianchino suggerito da un altro frequentatore dello Spazio: un artista che pretenderà subito le chiavi, per poter dare priorità ad altri incarichi, e dopo un mese di tinteggiature notturne e capatine alla dispensa non mi praticherà lo sconto promesso.

Se i lavori in casa sono un inferno, quelli a Barcellona lo sono di più.

L’artista-imbianchino si farà aiutare proprio dall’amico che me l’aveva consigliato (altra coincidenza strabiliante!), e che mi saluterà ironico al mattino, quando mi vedrà uscire dalla stanza a mezzogiorno passato.

Non gli spiegherò che a volte piango fino all’alba, quindi mi addormento tardissimo, e comunque mi tengo il computer sul comodino, in caso sia abbastanza lucida per seguire il corsetto online. A tinteggiatura finita, sotto la mano di pittura fresca scorgerò ancora brandelli di parato.

Poco prima che mia madre riparta, un’attrice napoletana viene a propormi un progetto artistico che non andrà in porto, e a darmi una dritta: nel suo palazzo al Poble-sec si sta liberando un atticuccio piccolo e gelido, e a buon mercato. Aspetto che mamma prenda l’aereo per contattare il proprietario. La Casa degli spiriti sfida ogni mio tentativo di sentirmici bene.

Per qualche giorno mi fa visita pure una madre che mi sono scelta io: la professoressa che mi ha iniziata al femminismo accademico, e che tutta entusiasta farà avanti e indietro con dépliant di musei e bigiotteria da mercatino, chiedendosi perché io sia così refrattaria a divertirmi.

In suo onore invito gente dello Spazio, armata di bombolette e striscioni intonsi: parteciperemo al corteo dell’8 marzo! In mailing list ho scherzato sul fatto che stavolta non griderò lo slogan “La taglia 38 mi stringe la patata!”, e un’attivista queer si è prodigata in una filippica sull’uso dell’ironia nella lotta al patriarcato. Ho capito, replico, ma ormai la 38 non mi stringe un bel niente. Dovrei forse restare a casa?

No. Mentre prepariamo gli striscioni, qualcuno chiede notizie di Bruno: a quanto pare non frequenta lo Spazio da un po’ (come me, d’altronde), e non si trova in un periodo felice. Prima che gli altri possano replicare, scappo a preparare altro caffè.

Alla manifestazione mi diverto, grido slogan, mi commuovo. Un video dei The Jackal mi ha confermato che l’8 marzo in Italia significa ancora mimose e spogliarelli, e questa cosa a quanto pare farebbe molto ridere. A Barcellona, mentre il corteo si prende tutto il centro, la vetrina di un negozio italiano di intimo viene bombardata di scritte, con sommo scandalo della figlia di un Guardia Civil, trascinata alla manifestazione da una collega che bazzica lo Spazio. Io fisso come ipnotizzata quei reggiseni di pizzo dozzinale, imbottiti pure se vestono una terza abbondante. A seppellirli è bastato un colpo di bomboletta: “Stop alla pressione estetica!”. È la prima volta che mi imbatto in quell’espressione.

“Noi uomini pretendiamo troppo da voi” aveva ammesso Bruno una volta. La frase mi aveva infastidito anche così: qualsiasi pretesa era troppo, non importava se fosse grande o piccola…

Scaccio via il ricordo e agito di più lo striscione.

Qualsiasi cosa pretenda Bruno, non è più affar mio.

A mercoledì per il seguito!

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L’unico invitato

Da Decopompoms, su Etsy

Ma sì, proviamo.

Ormai mangio almeno due pasti al giorno, e dormo più di cinque ore. E poi quand’è che ricompio gli anni di Cristo? Inoltro l’invito a tutte le mailing list, e poi chi viene viene.

Gli psicodrammi mi invadono casa prima ancora che la festa inizi. Il tipo che mesi prima mi aveva chiesto di mediare con la ex mi chiama ora per sapere se può portarsi dietro “un’amica”. Avvisata della richiesta, la ex annuncia che non parteciperà più, anche se il tipo intanto ha deciso a sua volta di rinunciare al suo “+1”. Alla fine il tipo si presenterà da solo, verificherà l’assenza della ex e telefonerà all’amica per farsi raggiungere. Continua la saga dei trentenni con vite sentimentali da scuola dell’obbligo, e io non posso fare la morale a nessuno.

Per mediare invano tra le parti in causa, arrivo un po’ in ritardo all’appuntamento con la parrucchiera: voglio rimuovermi dai capelli il biondo giallastro che mi rendeva un incrocio tra Shakira e Lady Gaga, e ritrovare il mio colore naturale, anche se tutto ciò che posso fare è avvicinarmici con un’ulteriore tinta, un’altra finzione. Tempo al tempo, mi consiglia questa latina di Miami che nella mia vita ha sostituito le catene di parrucchieri, con le apprendiste che mi facevano troppo bionda e si dileguavano in cerca di un lavoro migliore. Questa qui, invece, promette di rimanere.

A casa recupero ombretti e pennelli, ma il correttore non mi riesce a nascondere le occhiaie, e sul volto smunto il mio naso sembra enorme, la bocca larghissima. Il vestito è nero e stretto, con l’orlo di pizzo sulle coppe preformate: fasciata in quello, sembro ancora più magra.

Per l’occasione Bruno è tra i primi ad arrivare. A meno di non contattarlo apposta, mi era impossibile verificare se venisse, né sapevo cosa sperare. C’è come uno scollamento tra il pensiero costante di lui e la visione di quest’uomo coi capelli più lunghi, che come regalo mi ha portato anche quest’anno qualcosa da mangiare. È in bolletta e non trova lavoro, o così gli sento spiegare, in inglese, a una donna alle spalle del buffet. Quando mi giro a vedere chi sia la sua interlocutrice soffoco un’imprecazione: a lei non avevo pensato. Mi ero preparata alla possibilità che Bruno passasse il mio compleanno a sdilinquirsi, come l’anno scorso, davanti all’amica Occhiblù, che si è presentata subito dopo il lavoro facendomi sentire un verme, per il diradarsi dei nostri contatti.

Invece non avevo pensato a questa ex collega dell’azienda che mi aveva licenziata: è proprio il suo tipo, magra e squadrata, gli occhi verdi spalancati in un’espressiome di eterna meraviglia. E la Biondissima, allora? Non devo chiedermelo, devo badare agli altri invitati. Una ragazza che mi ha regalato una crema profumata si lamenta: e la torta? Non ci avevo neanche pensato, né a quella né alle candeline… Avrei avuto paura a esprimere il desiderio.

Il mio stato d’allarme dura poco: Bruno finisce per isolarsi da tutti, gli occhi puntati sul cellulare. Mi tocca tornare a rispondere alla gente che mi dice che sto benissimo in quel vestito, ma cavoli, tanti chili persi saranno salutari?

Verso mezzanotte, i pochi invitati rimasti si stanno organizzando per andare in un bar, a prendere il bicchiere della staffa. Incapace di accompagnarli mi piazzo sulla porta di casa, per il rituale dei saluti.

Ancora auguri, grazie per la festa. Grazie a te.

Ciao, auguri, alla prossima. A presto.

Solo Bruno mi passa davanti in silenzio, gli occhi incollati al telefonino. Riesce a scendersi mezza rampa di scale prima che qualcuno lo rimproveri: che fa, non saluta la festeggiata?

Allora alza la testa tutto confuso, come quando dormivamo abbracciati e si risvegliava troppo presto, svegliando anche me. Stavolta sembra sorpreso di trovarsi su quelle scale, e per un istante deve strizzare gli occhi per mettermi a fuoco.

“Ah, sì, ciao” mugugna, tracciando un gesto nell’aria. E torna al telefonino.

Un giorno mi accennerà che associa la Casa degli spiriti a un brutto ricordo, una brutta notizia ricevuta proprio alla mia festa. Non ho voluto approfondire finché non ho iniziato a scrivere queste pagine, e d’altronde non era necessario. La Casa degli spiriti, teatro delle mie ore più cupe, era per lui associata al ricordo di un’altra. Dell’altra.

Ma sul momento ignoro tutto questo. So soltanto che un unico invitato, tra tutti gli amici e i conoscenti e gli imbucati senza preavviso, un unico invitato se ne stava andando senza salutare, senza neanche riuscire a scorgermi mentre lo guardavo desolata.

Così concludo la serata tra il divano e il balcone, distesa a piangere su un tappeto rosso su cui qualcuno ha fatto cadere dello champagne.

A lunedì per il seguito!

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Pronto intervento

La prima riunione tocca a me.

Ho tutto pronto per la coordinazione: mi presenterò in anticipo allo Spazio, e sarò professionale. In fondo è il primo incontro dell’anno.

L’attacco di panico in palestra era impossibile da prevedere. Per rimediare ho ascoltato all’infinito Mr. Brightside: a farlo di mia volontà non ho problemi, ma una volta non ho chiuso bene YouTube, e la canzone mi è stata sparata nelle orecchie appena ho riacceso il computer. Ho dovuto trattenere un conato di vomito: gli imprevisti, anche piccoli, restano il mio tallone d’Achille.  

La sera prima della riunione sono angosciata. Non sono più abituata a vedere tante persone, tutte insieme. Spero che Bruno non venga, o che la sua presenza non mi turbi troppo. Sono in salone, rannicchiata sul divano damascato con una coperta di pile che quasi si scioglie al contatto con la stufa alogena. Per fortuna è uno schifo di stufa, buona solo a illuminare la stanza di una lucetta arancione. Mi accorgo di sfiorarla con la coperta ogni volta che sento odore di plastica bruciata. Il film che sto guardando è un drammone storico, pieno di fughe e colpi di pistola, ma l’ennesima sparatoria è coperta da grida improvvise, che sopraggiungono dalla strada. Chi si lamenta in questo modo?

Esco dal balcone più vicino: quello che Bruno fissava mentre mi diceva addio. Per paura che entri la tramontana mi chiudo la porta scorrevole alle spalle, e intanto spio al di là della pianta dalle radici pensili. Il ragazzo non urla più: piange, chiuso nell’angolo tra la strada principale e il vicolo su cui affaccia il balcone. Piange come se stesse da solo in cameretta, e invece è circondato da poliziotti, che lo tengono immobilizzato contro il muro. Una volante, porte aperte e luci accese, sbarra l’ingresso del vicolo. Il ragazzo sta chiedendo perdono a Dio per una situazione che non afferro: è un ladruncolo, un piccolo spacciatore? Sembra inconsolabile, vorrei fare qualcosa, ma… Schiacciata dall’impotenza, accenno a rientrare.

Non ci riesco.

Che succede? La mia mano spinge un po’ la maniglia, poi la scuote. Niente. Ho le dita doloranti e la porta scorrevole non si è mossa di un millimetro.

Attraverso il vetro osservo la coperta, che alzandomi ho lasciato cadere sul tappeto, e l’impronta del mio corpo sul divano. Il film va avanti anche senza che io lo guardi, intenta come sono a osservare la mia vita dalla parte sbagliata del vetro. Un lembo di collo lasciato scoperto dalla felpa rabbrividisce sotto una folata di vento. Le voci alle mie spalle sono cessate: gli sportelli della volante si chiudono tutti insieme.

Resto a lottare un altro po’, poi mi arrendo.

Il poliziotto che chiamo dal balcone soffoca una risata, come se fossi una bambina che si sporge dalla ringhiera. Anche il suo collega reprime un moto di incredulità: forse sarò io, e non il ragazzo arrestato, l’aneddoto da raccontare a fine turno.

Le risatine diventano sguardi perplessi quando esibisco uno sgabello arrugginito, scovato tra le radici pensili della pianta.

“Che faccio, provo a rompere il vetro?”.

Gli agenti si affrettano a chiamare i pompieri.

Per mezz’ora posso solo studiare il riflesso della sirena sull’altro balcone della stanza, che dà sulla facciata dell’edificio. Scorgo prima una sagoma appesa a quella ringhiera lontana, poi un elmetto illuminato da una torcia. Atterrato sul balcone, l’uomo resta accovacciato per un minuto scarso, alle prese con l’altra porta scorrevole: apriti sesamo.

L’intruso sfoggia un’abbronzatura artificiale che lo rende ancora più scuro, sotto i riflessi arancioni della stufa, ma mi sfodera un sorriso da pubblicità mentre attraversa il salone come se in quella casa ci abitasse. Sono io l’ospite a cui, bontà sua, sta procedendo ad aprire la porta. Così vengo riammessa d’ufficio nella mia vita.

Non è che i pompieri potrebbero salvarmi anche dalla riunione? A quanto pare, è già tanto se non mi fanno pagare l’intervento!

“Ti sei spaventata, eh?” scherza all’ingresso uno dei poliziotti, salito sul pianerottolo insieme ai pompieri.

Anche il mio vicino si è affacciato, in vestaglia: il pompiere che mi ha aperto la porta ha usato il suo balcone per arrivare al mio. Il vicino è rosso in viso, l’influenza lo costringeva a letto e suo marito è in viaggio per lavoro. Guardandolo capisco che stiamo pensando la stessa cosa: è raro vedere tanti uomini così belli, tutti insieme. Me ne accorgo perfino io, che ho gli ormoni in sciopero.

È una visione anche il capo dei pompieri, un uomo atletico e brizzolato che mi insegna cosa fare se mi, ehm, distraggo di nuovo nell’usare la porta scorrevole: l’anta va sollevata dal basso. La prossima volta sarò in grado di salvarmi da sola, mi incoraggia, e guarda ironico il povero sgabello che intendevo brandire contro la mia sorte. Intanto, conclude, ho fatto bene a chiedere aiuto.

La sera dopo racconto l’aneddoto all’inizio della riunione, contenta di avere qualcosa a cui aggrappare la mia ansia.

Manco a dirlo, Bruno arriva per ultimo, facendosi precedere da un attacco di tosse. Il senso che ho affinato per i suoi malesseri si attiva prima che possa frenarlo: non sta bene. Dopo il primo momento di allarme mi guizza in testa una speranza indecente.

“Dai, Bruno, scrivi tu il verbale!” applaudono intanto i Morti di Figo.

Forse la Biondissima si è già eclissata, penso cedendogli il taccuino. Una volta ridevo anch’io dei suoi verbali epici.

I primi a lasciare la riunione sono i quarantenni: hanno figli da prelevare in palestra o al conservatorio, e magari la cena da preparare, specie se la loro compagna non è italiana. Restiamo noi trentenni spiantati. Forse nei paeselli d’origine avremmo già tirato su una famiglia col nostro primo amore, o almeno con “lu secondo”, più bello ancora. Forse, dopo qualche anno di matrimonio, avremmo dato lavoro agli alberghi a ore che costeggiano le nostre strade verso il mare: le stesse che avremmo percorso poi in estate, con la station wagon sormontata da un canotto gonfiabile a forma di cigno. Invece siamo in questa città strana, a vivere telenovele idiote con gente persa nel mondo.

Intanto il mio l’ho fatto. Per andar via non mi resta che riprendermi il taccuino. Senza guardarlo in faccia, indico a Bruno la sua scrittura irregolare: strappasse pure le sue pagine, appena me le manda riassunte provvederò a inoltrare il verbale.

Devo guardarlo per forza, perché ha iniziato a sbuffare: questo “favore” me lo può fare al massimo tra una settimana, che adesso ha da fare. Sento montare una rabbia che non ricordavo: quella delle piccole cose, dei momenti di esasperazione che era in grado di regalarmi quest’uomo. Quando me ne toccava uno al giorno, quasi non li vedevo. Adesso ho perso l’abitudine, e con quella la pazienza.

“Vabbè, Bruno, al tuo buon cuore!”.

La frase esplode in tutto il suo sarcasmo prima che me ne renda conto. Ne resto turbata, mentre mi dileguo: ho una voglia improvvisa di finire l’hamburger vegetale iniziato la sera prima. Ormai termino i pasti in due giorni, invece che in tre.

Prima di coricarmi controllo per inerzia la posta elettronica: c’è una nuova mail. Non riconosco subito il nome del destinatario, non sono più abituata a leggerlo. È il verbale della riunione. Lo accompagna una frase che sottolinea la fretta con cui è stato stilato: nel linguaggio di Bruno, è la cosa più vicina a una richiesta di scuse.

Cristo. Me ne sono accorta da subito, da quando lui era solo uno che si lamentava con me su Facebook: trattarlo appena un po’ male era la soluzione migliore per fargli fare le cose.

Ed era l’unica cosa di cui non ero capace.

A venerdì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Mr. Brightside

Ballatoio della palestra Can Ricart, in una foto di TimeOut

Perché no?

Dall’Italia sono partita con qualche etto in più, e con la rinnovata usanza di mangiare tre volte al giorno (anche se lascio il piatto a metà). D’altronde l’I-Ching mi dava spesso come responso l’esagramma 27, “Gli angoli della bocca”. Dovevo mangiare. Ma l’oracolo definitivo era stato mia nonna: se me lo ordinava lei, recuperare l’appetito era un obbligo!

A questo punto, perché non tornare in palestra? Se mi sento troppo debole, mollo dopo un quarto d’ora e torno a casa.

Mentre mi immergo nel riscaldamento (venti minuti di cyclette) considero che anche l’Amico per eccellenza mi ha fatto bene, con la sua presenza muta e solidale nella mia cameretta di bambina. Sta parlando di “venirmi a trovare” a Barcellona, ed è un’ottima idea: così lui si trova un lavoro decente, o migliore di quelli che becca in paese, e io mi godo il suo sostegno. L’isolamento in cui sono caduta è un problema.

Approfittando di questi passetti da formica, sto provando a rendere abitabile la mia Casa degli spiriti: c’è da rifare l’impianto elettrico, altrimenti il pericolo per me non saranno certo i fantasmi… Comincia a premermi la mia incolumità, ed era ora, dopo quattro mesi passati in quello scenario da horror. Il capomastro mi è stato consigliato all’unisono dal Figo e dai suoi Morti: che sia un loro compagno di bevute? Con una certa spavalderia, quell’uomo latino coi capelli già bianchi mi ha annunciato che, per mille euro in più, potrebbe perfino tinteggiarmi le pareti ingiallite… Ma a incarico ottenuto ha cominciato subito a pentirsi dell’azzardo.

Mentre accelero la pedalata sto scegliendo il colore da dare alle stanze, e intanto mi guardo intorno: non sono l’unica a fare progetti! Il ballatoio degli esercizi cardio è cambiato, come pure la sala attrezzi al piano di sotto. Da quanto tempo manco? Quella fabbrica riqualificata dal comune inizia a prendersi sul serio. I pannelli che ho visto esposti all’ingresso mostravano la sua trasformazione in club sportivo a vocazione multietnica. Forse era per questo che l’uomo col mastino detestava l’“ambientaccio”, e i giovani immigrati che lo popolavano. Ma l’uomo col mastino è finito chissà dove, dopo il suo sfratto senza gloria, e io sono ancora lì, a rimettermi in sesto insieme alla palestra multietnica.

Fortuna che ho scovato l’unica cyclette libera sul ballatoio. Continuo a pedalare a velocità moderata, con gli occhi rivolti ai monitor accesi lungo la parete di fronte. La tuta mi scende troppo sui fianchi e rimango subito col fiatone, ma mi perdono anche quello. Comincio a perdonarmi un bel po’ di cose.

Ho abbassato gli occhi un momento per risollevarmi i pantaloni, ma li ripianto sul monitor, ipnotizzata da un giro di chitarra che mi pare angosciante. Quello lì è il cantante dei The Killers? Sì, e la canzone dev’essere vecchiotta, ma il video sembra recente: una ragazza dalla pelle di latte è contesa tra un attore famoso e il cantante stesso, che appare angosciato sul serio mentre vede flirtare la fidanzata col rivale… Oddio, i pedali. Dove sono finiti?

But she’s touching his chest now

He takes off her dress now

Let me go…

I miei piedi rallentano senza riuscire a frenare. I raggi della bicicietta seguono un ritmo loro.

I just can’t look it’s killing me

They’re taking control

Ed eccoli, su tutti gli schermi: Bruno e la Biondissima. A reti unificate i loro capelli si confondono sullo stesso cuscino. Il mio.

Jealousy

Turning saints into the sea

Qualcuno spenga i monitor, o inizio a urlare.

But it’s just the price I pay

Destiny is calling me

I miei piedi si devono riabituare al suolo prima che mi giri troppo la testa. Tanto la mia pedalata non portava in nessun posto. E poi la Petulante me lo raccomanda sempre.

Open up my eager eyes

Quando sono imprigionata nella mia testa, dice la Petulante, devo premere i piedi sul pavimento…

Cause I’m Mr. Brightside.

Così me lo ricordo subito.

I never… I never…

Così ricordo subito che il mio presente è qui.

A mercoledì per il seguito!

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Implacabile

Sul palco mi assale il silenzio.

L’unico faretto rosso è puntato sul mio abito corto, sulle calze traforate, e sul trucco che all’improvviso, più che gli Hunger Games, mi sembra richiamare Jem e le Holograms.

Allora mi passa davanti tutta la vita, o almeno l’ultima settimana.

Lunedì c’è stata la delusione della Strategica: come mi permettevo di essere ancora in quelle condizioni? Come se il suo metodo fosse fuffa…! Almeno, per l’evento di beneficenza che preparavo da mesi, dovevo presentarmi tutta fiera e ben vestita, come se dovessi andare sul “red carpet”. Invece, due ore prima di salire su questo palco ero ancora sul letto, in pigiama e calzini di spugna, col mio lauto pranzo (una tazza di tè con due fette biscottate) e una copia di The Hunger Games.

Martedì l’amico omeopata mi ha accostato le mani alla parte alta del petto, senza toccarmi, e tornando dal suo studio ho starnutito un muco denso e nero. L’amico, avvisato via messaggio, ha dichiarato di aver avvertito una sorta di vuoto all’altezza dei miei polmoni.

“Che fortunato!” ha sbraitato mio padre mercoledì, su Skype. “Io sono medico e, se non tocco un paziente con tutte e due le mani, non ‘avverto’ nessun linfonodo. E il paziente muore”.

Mi aspetta al varco, papà, col suo arsenale di gocce per dormire, vitamine e pastiglie assortite. Io non capisco: una pastiglia di ferro impedirebbe forse a Bruno di presentarsi qui allo Spazio con la Biondissima, adesso che mi tocca stare sul palco a fare gli onori di casa? A quanto pare, non ho i lineamenti abbastanza affilati da impedirlo.

Per non vomitare, ho letto tutto il giorno. Non Jung, ma romanzi di fantascienza, o fantasy. Non riesco più ad abitare la realtà, che mi pende di dosso come le tute che ormai uso per tutto. Il giorno prima, un giovedì, ho ceduto i miei vestiti più belli a una ragazza che è venuta a pulire la mia casa ingestibile, e che forse (ma non me l’ha confessato) metterà in vendita gli abiti di Guess, a parte uno che le sta benissimo.

Mi è rimasto un completo nero: una maglia con un taglietto centrale lì dove dovrei avere il seno, e una gonna asimmetrica che adesso avrebbe bisogno di una cintura. A quel pensiero ho disertato i preparativi per l’evento, mentre continuavo a leggere The Hunger Games come un’adolescente. Nel secondo volume la protagonista viene buttata di nuovo nell’arena, dove sfila su una biga infuocata. Prima, però, si è fatta applicare del trucco rosso fiamma. Vuole apparire subito ai suoi carnefici per com’è adesso: unforgiving. Implacabile.

Ripetevo la parola come un mantra due ore fa, mentre stavo per cadere nel sonno e non facevo niente per impedirlo: avevo proprio bisogno di una pennica pomeridiana… Ma all’improvviso le mie dita hanno serrato il libro che già scivolava di mano, e ho capito: era tornata.

Era la stessa Forza che quando ho saputo della Biondissima si è impossessata delle mie gambe, portandomi fino al mare, e che una notte mi ha insegnato a inabissarmi nelle acque più nere. Adesso si era assunta il compito improvviso, e all’apparenza semplice, di buttarmi sotto la doccia. Dopo, avvolta in una nuvola di vapore, mi sono scoperta a scegliere certi ombretti bordeaux e vinaccia che non avevo mai osato indossare: ammesso che li notasse, lui non avrebbe apprezzato.

Ma io sì.   

In strada le mie gambe, fasciate in calze color ruggine che sembrano fatte a uncinetto, hanno bruciato le poche centinaia di metri che mi separavano dallo Spazio. I Morti di Figo implicati nell’organizzazione sembravano accontentarsi del mio ruolo da bella statuina, finché…

“Come si dice ‘beneficenza’ in catalano?”.

Me lo ha chiesto mezz’ora fa l’anziano patron dello Spazio: un veterano della comunità italiana che sgancia offerte generose, dunque si è aggiudicato il compito di fare il discorsetto di chiusura dell’evento. Dio santo, perché voleva rivolgersi in catalano a un pubblico italiano?

“Non vorrai mica parlare spagnolo, tu!” si è scandalizzato il tipo quando gliel’ho fatto notare, e solo allora ho ricordato che era un indipendentista sardo.

Ho registrato anche il fatto che avrei parlato, che il Figo si era già messo d’accordo con l’addetto ai microfoni, e ho frenato a stento la tentazione di stanarlo, il Figo, di ricordargli chi comandava lì… Ma con che faccia lo avrei fatto? L’ho lasciato a organizzare tutto mentre ero in casa a leggere un romanzo per ragazzine. Vabbè, non posso neanche stare male, adesso?

Eccomi quindi su questo palco, coi riflettori puntati addosso e la voce che non si decide a tornarmi. Per fortuna Bruno sta battendo il record dei ritardi, così non dovrà allontanarsi in cerca di qualsiasi attività che non sia quella di starmi a sentire.

Il primo suono che emetto sembra il principio di un attacco d’asma. Poi schiarisco la voce in un saluto rauco. Che fine ha fatto la Forza che mi ha sbattuta dal letto alla doccia, e davanti allo specchio? Non finisco il pensiero che le mie labbra si schiudono di nuovo: quando comincio a parlare, riconosco nella mia voce incerta i suoni del catalano.  

Non dura neanche il minuto che auspicavo. Grazie per essere qui, sganciate i soldi per l’iniziativa benefica, visitate il nostro sito, buona serata. Ah, ricordatevi di mangiare qualcosa al buffet.

Finalmente posso tacere di nuovo, mentre assaporo con un principio di panico il silenzio che segue alle mie parole. Poi scoppia l’applauso.

Lo so che non è ammirazione, ma sollievo. Rispetto all’infaticabile oratore di prima sono stata a dir poco concisa! Sono così soddisfatta che potrei addirittura mangiare qualcosina anch’io…

Ma prima scendo a prendere un po’ d’aria, tra le ragazze che fumano fuori al portone e mi fanno festa: che belle calze, dicono, e mi scopro a sorridere mentre ricordo piano piano com’è che si chiacchiera… All’improvviso il capannello di fumatrici si apre in un movimento che mi ricorda la coreografia di un musical. Poi osservo il nuovo arrivato.

Per fortuna è venuto da solo.

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La ragazza sul balcone

Da rare-gallery.com

È stato l’urlo a svegliarmi.

Lo seguono passi veloci, interruttori che scattano.

Forse era successo altre volte, ma non me ne accorgevo, quando crollavo stesa da un’ora di pianto. Ormai ho provato a uscire dal mio angolino buio di corridoio, e sono fissa nella camera da letto a fiori azzurri, che ha un armadio vero e un balcone. Era accanto all’armadio che avevo trovato la bambola, tutta nuda e altera sulla sedia di velluto.

Quando l’urlo si smorza c’è uno scroscio prolungato, come di una vasca che si riempie. La mia scarsa cultura horror rievoca storie di reclusioni domestiche, e spaventosi bagni “ristoratori”.

La matta di casa. La matta dell’attico. Sopra il mio appartamento non c’è l’attico, ma ora so che c’è qualcuno che soffre.

Il giorno dopo chiedo lumi al vicino di sotto: un inquilino napoletano che affitta camere a gente di passaggio, attirandosi l’ostilità delle vecchie catalane che vivono nel palazzo. Il vicino mi coltiva come potenziale alleata alle riunioni condominiali, ma davanti alle mie domande nicchia un po’: al piano di sopra si rifugiano perlopiù dei migranti clandestini, che incontri una volta per le scale e non vedi mai più. Impossibile dire chi di loro avesse urlato l’altra notte. Dall’attico, invece… Ma a quel punto il vicino si interrompe. “Dall’attico…?” lo incoraggio.

Dall’attico è precipitata una ragazza.

È successo un anno prima che arrivassi io. Era una giovane americana, prosegue il vicino, venuta in Europa col marito per la luna di miele. L’avevano trovata su uno dei miei balconi: quello della stanza con la carta da parati a fiori azzurri. Mica è lì che dormo, vero? Ah! Ma chissà, forse è andata finire bene: nessuno conosce la sorte di quella ragazza. Certo, quando l’hanno trovata aveva le gambe spezzate, era stata chiamata un’ambulanza. Mentre ascolto, ho la sensazione che quell’uomo ancora giovane muoia dalla voglia di farsi un segno di croce, prima di concludere la sua storia.

Il marito della vittima, americano pure lui, aveva spiegato in uno spagnolo caricaturale che i due stavano litigando, che alzavano la voce. A un certo punto lei era rimasta in silenzio e si era buttata giù, senza una parola. Il marito sembrava disperato: la sua sposa aveva tentato il suicidio per uno stupido litigio… Ma il vicino, quando pronuncia la parola “suicidio”, mi fa un cenno d’intesa tutto partenopeo. Seh, seh.

Neanche del marito sa nulla. Pareva sparito insieme all’ambulanza, come se avesse la valigia pronta o non gli importasse di recuperare le sue cose.

Alla fine era un extracomunitario pure lui, riflette il vicino, e si era dileguato come i clandestini del piano sopra al mio. Però quelli erano colpevoli solo di esistere. L’americano, invece…

Quella notte chiudo bene la serranda sul balcone, e capisco: presto me ne andrò dalla Casa degli spiriti.

Il mio privilegio me l’ha gettata tra le mani, ma è come se la casa stessa mi dicesse che non va bene, che non mi vuole, che devo andar via.

O forse devo ricominciare a mangiare sul serio, per farla finita con ‘sti deliri.

A venerdì per il seguito!

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La ruota non gira più

E io che pensavo di aver fregato i tarocchi!

Invece mi esce di nuovo la Ruota della Fortuna, ed è la seconda volta. Un tempo pensavo pure che non mi sarei mai ritrovata su un tatami a consultare dei tarocchi, ma tant’è.

È stato Jung a spiegarmi tutto.

O così mi è parso un giorno che ero in biblioteca, alle prese con un manualetto di psicologia analitica e con un cappotto troppo stretto, che non si chiudeva bene sulla tuta che da un po’ usavo come pigiama.

Nel rincoglionimento da insonnia prolungata, l’allievo spurio di Freud sembrava dirmi cose tipo: ti sei barricata nella stanza del dolore, hai messo sottochiave una parte di te che non ti ha fatto niente. Era una parte creativa, spesso caotica, che aveva fame, ma forse non piaceva a chi all’inizio ti dava da mangiare. Ho ripensato agli gnocchi sfatti che mio nonno adorava, alle donne di casa che glieli preparavano apposta così.

Con Jung sono arrivati nuovi libri: presi in prestito, comprati, divorati in ogni angolo della mia Casa degli spiriti. Una terapeuta junghiana offriva un colloquio gratuito, e l’ho presa a bordo a patto di vederla di rado. A metà della prima seduta si è interrotta per fissare qualcosa alle mie spalle. Nella stanza del tatami è successo qualcosa di doloroso, mi ha spiegato, e gli spettri non si possono cacciare. Però vanno tenuti occupati! A quel punto mi ha prescritto un rito molto “casalingo”, che prevedeva acqua, candeggina e una preghiera a piacere. Era fondamentale svuotare il secchio in strada. 

Ormai mi era chiaro che in tutta questa roba dovevo cercare la metafora, la pulizia interna di cui avevo bisogno. E poi una lavatina al pavimento non guastava! Gli spettri andassero pure a giocare da un’altra parte.

Una notte che ero già a letto, accostando il libro al lume ho ritrovato un salmo che conoscevo solo grazie a un’atroce canzone da discoteca. Anche se dovessi camminare in una valle oscura non temerei alcun male, perché tu sei con me. il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.

A chi rivolgere questa preghiera?

Il giorno dopo, in biblioteca, Marie-Louise von Franz mi ha impartito da un volumetto quasi intonso una lezione sull’I-Ching: gli oracoli non servono a prevedere il futuro, spiegava l’allieva di Jung, ma a dialogare con l’inconscio. Solo questo, doveva dirmi! Di tutti i testi consultabili a riguardo, l’unico disponibile per il servizio di prestito era un’edizione tascabile di Jodorowsky, sui tarocchi. Anche Jodorowsky non si beveva la storia di predire il futuro: si trattava di interpretare simboli, per risvegliare risorse psichiche che già possedevamo.

Poco dopo, visitando la Fnac, mi sono ritrovata tarocchi e I-Ching sullo stesso scaffale: che coincidenza, per degli articoli con la stessa funzione!

Così eccomi qua a sperimentare i tarocchi, e l’intossicante sensazione di controllo che già mi danno. 

Ho cominciato con delle domande cretine. Cosa mangerò per cena? L’Appeso. Nel senso che mangerò del caciocavallo…? Poi ho tirato fuori gli argomenti che mi interessavano.

Bruno tornerà? La Ruota della Fortuna.

Dormirò stasera? L’eremita. Sì, di recente non ho tutta ‘sta vita sociale…

Bruno adesso sta con la Biondissima? La Ruota della Fortuna.

Riprovo con la croce a cinque carte (livello avanzato!), e quando chiedo di Bruno… Ecco di nuovo La Ruota della Fortuna: la sua posizione nella tirata indica il passato. Che minchia vuol dire? Sfoglio il libretto delle istruzioni come farei per un mobile IKEA: la Ruota della Fortuna indica un cambiamento che non dipende da noi, e che non controlliamo in nessun modo.

Il giorno dopo mi accorgo che la Casa degli spiriti sembra lo sfondo di un tarocco vittoriano, di quelli disegnati verso la fine dell’Ottocento. In un angolo del balcone in salotto, una pianta è cresciuta tanto da traboccare dal vaso: le sue radici puntano fameliche al balcone di sotto, e mi scopro a odiare la loro corsa oscena per la sopravvivenza.

Eppure mi faccio una promessa: se esco indenne da questa casa, da questi digiuni, aiuterò chiunque si senta come me adesso, e voglia starmi a sentire. Così tutto questo sarà servito a qualcosa.

Ma la frenesia arriva col libro di Jung e Pauli sulla sincronicità: inizio a trovare coincidenze dappertutto, e la mia ansia si placa un po’.

Una mattina entro in metro pensando a un frequentatore dello Spazio, tra i pochi a cui Bruno ha raccontato di noi due. Riparte per l’Italia tra qualche giorno, con la moglie e due figli piccoli. Dopo un paio di fermate mi accorgo che qualcuno sta gridando al telefono: è lui, l’amico in partenza! Beccato per caso nella metro di Barcellona, nell’ora di punta, sulla linea più trafficata… Ma niente accade per caso, cavolo. Presa da un ottimismo incosciente propongo:

“Volete fare una festa di addio questa domenica, a casa mia?”.

Ma sì, sono forte ormai: ogni tanto dormo perfino un’oretta in più, e le fette di pane e tortilla sono diventate due… Insomma, potrò ben sopportare la presenza di Bruno nel mio salone.

“Bruno viene accompagnato?” mi chiede al telefono una collega dello Spazio. Vuole portare un dolce e deve sapere quanti siamo. Trattengo il respiro.

“Non lo so. Bruno è sparito”.

“Bruno è innamorato” mi corregge lei. Indovino che sta sorridendo. Mancano dodici ore alla festa.

I conati arrivano alle quattro del mattino.

Che vomito a fare? Bruno non si azzarderà mai a portare la Biondissima a casa mia! Vero? Come se fosse necessario, poi: a farmi star male mi basterebbero i Morti di Figo che scherzano sulla sua nuova fiamma, intanto che io offro i salatini. Dopo mezz’ora passata ad attendere invano il vomito, scrivo in mailing list: festa rimandata, mi dispiace, mi sento male. Proprio non riesco.

Mi alzo dal letto che sono le cinque di una domenica pomeriggio, ed è già buio. La festa si è spostata dalla ragazza che si era offerta di portare il dolce. I festeggiati hanno provato a chiamarmi, per ringraziarmi comunque dell’iniziativa: in fondo è per merito mio che sono tutti lì, insieme.

Manco solo io.

A lunedì per il seguito!

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Precotta

Da recetasveganas.pro

“E adesso parlagli”.

Squadro la sedia vuota che l’amico mi ha sbattuto davanti. Cosa avrei da raccontare a una poltroncina di velluto rosso?

“Eccolo qua, Bruno!” insiste l’amico. “All’improvviso non hai niente da dirgli?”.

Sì. Tipo che, adesso che non gli serve più, il mio corpo si dissolve.

Della mia brutta casa senza fine occupo solo l’ultimo tratto: l’angolo tra cucina e bagno, e la cameretta in cui ho fatto gettare il tatami. La Petulante ha un bel dire che mi sono rinchiusa da sola in una tana, nella vastità della Casa degli spiriti. È che tutto quello spazio mi sembra ostile, mentre un angolo lo so controllare. E poi lì il dolore mi trova subito, e prima mi trova, prima mi lascia dormire.

Mi sto perdendo tutto il corsetto online, ma che importa? Sono al sicuro nella mia tana, in fondo alla casa che non finisce più. A pranzo mangio una tortilla precotta, che mi dura svariati giorni. A volte la accompagno a una fetta di pane. Accanto al comodino troppo alto per il tatami ho piazzato un panettone al cioccolato: tra poco è Natale. Ci ho conficcato dentro un coltello, che però non uso mai. È con le dita che pesco la cioccolata: lo faccio tra le quattro e le cinque del mattino, quando mi sveglio per piangere. Mi riaddormento dopo un’altra oretta, e a quel punto potrei risvegliarmi che è già pomeriggio. Spesso, in quei casi, mi accoglie il buio.

Dov’è finita la mia spavalderia al telefono con Bruno, mentre percorrevo la Rambla? “Non sono il secondo piatto di nessuno”. Col cazzo. Non mi importa più dell’altra, non mi importa di come mi ha trattata lui. Voglio solo che torni e metta fine a tutto questo.

E invece una parte di me resiste, non riesce a rimuovere l’istante di sollievo di quando ho saputo della Biondissima. Non saprei più fingere di abitare quel castello di carta, che ora non c’è più.

Tanto lui è sparito davvero nel nulla.

L’ho contattato solo quando mi è arrivata una notizia dal mio vecchio palazzo: hanno sfrattato l’uomo col mastino. In un messaggio vocale, la coppia che viveva con la gatta mi ha descritto la scena quasi all’unisono, compreso l’intervento della polizia. La statura modesta dell’uomo lo faceva sparire tra i ragazzoni in divisa scura, che lo portavano via. Alla fine è stato sloggiato perché non pagava da un pezzo il suo affitto calmierato. Forse quella cifra irrisoria era davvero l’unica cosa rimasta della sua infanzia.

Nessuno sa che fine abbia fatto il mastino, né la donna (la Iside bionda) che risaliva le scale con gli zatteroni ai piedi e le buste della spesa.

In chat, Bruno ha accolto la notizia con una solidarietà un po’ ironica: e io che avevo comprato casa per sfuggire a quello lì! Neanche il tempo di trasferirmi e sono andati a sfrattarlo. Non ha scritto altro, e io ho disattivato da un po’ le notifiche al suo profilo, ma di lì a qualche giorno, prima che potessi impedirlo, mi è balenato davanti il post di un suo amico. Era uno che un tempo sapeva “una mezza cosa” di me, e adesso linkava a Bruno con nonchalance un articolo sul paese della Biondissima. Mica una roba qualsiasi: una curiosità su come allevavano lì i bambini. Il primo commento, in perfetto italiano, era della Biondissima in persona. Anche Bruno ha replicato con fare da esperto, dando lezioni nella lingua di lei che stava imparando così bene. In quella stessa lingua stavo guardando a spezzoni un thriller sottotitolato, ma da quel momento in poi l’ho lasciato a metà. Da allora, e per quasi un anno, sarei riuscita a seguire solo distopie e saghe fantasy.

Adesso che l’amico agente immobiliare mi ha riaccompagnato a casa, dopo che mi ha visto lasciare la mia pizza a metà, ho osservato attraverso i suoi occhi il mio tatami, mezzo sfatto e puzzolente di candele alla ciliegia. Da bravo milanese, l’amico ha polverizzato con lo sguardo anche il panettone al cioccolato, che ormai pugnalo solo quando mi scoccio di scavare con le dita.

“Stai sparendo” ha constatato, esasperato dall’ostinazione con cui ignoravo la mia fortuna, la casa nuova che mi aveva spuntato a un prezzo ridicolo.

È stato a quel punto che mi ha trascinato in salotto e mi ha schiaffato su una poltrona rivestita di velluto, piazzandomi davanti questa sedia altrettanto brutta.

“Bruno è seduto qui” mi ripete un’ultima volta, poi ordina: “Digli tutto ciò che devi. Ora”.

Dev’essere qualcosa che sta studiando per diventare terapeuta, e io sono troppo debole per opporre resistenza, così finisco per dire un sacco di cose a quella sedia che non è Bruno.

Gli dico che un conto è non amarmi, e un altro è mettermi da parte appena non gli servo più.

Gli dico che siamo stati due scemi. Che quella canzone napoletana che ho scoperto a Natale scorso, “Uccidimi”, non andava certo presa alla lettera.

Soprattutto gli svelo la scoperta che ancora non mi perdono: la mia sopravvivenza è più importante di lui. Gli dico tutto questo.

Per tutto il tempo, però, non dimentico mai di star parlando a una sedia.

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