Archivio degli articoli con tag: cambiare

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Da healthshots.com

Prima del silenzio

“Uno fa degli errori, ma poi si può anche correggere”.

Lo dice con un mezzo sorriso, ma ha gli occhi bassi. Lo dice perché mentre tirava un predicozzo dei suoi contro l’amore mordi e fuggi, e i corpi usati come passatempo, ho piantato i miei stivali sulla sedia (indosso di nuovo i jeans) e ho mormorato: “Come sei nobile”.

È l’unico momento di imbarazzo tra me e Bruno, alla festa di arrivederci a Già: il mio ragazzo starà via diversi mesi, per le ricerche relative al dottorato che sta finendo. Dopo, però, verrà a vivere con me, o magari ci troveremo un posto meno gelido e più grande, senza lutti a impregnarne le pareti.

A Già ho mostrato i quadri, i divani in penombra e i gatti stesi sui davanzali dipinti a olio. Gli ho detto che adesso ho fame di quelli, della serenità che mi trasmettono. Gli ho detto anche di Bruno, e del fatto che non so se mi riprenderò. Ma ce la metterò tutta, nell’ultimo anno non ho fatto altro che provarci. Anche questo mi sembra un tradimento, il più strano di tutti: cedo a Bruno la dignità di amante abbandonato, la palma di martire truffato dalla vita.

“Uno fa degli errori, ma poi si può anche correggere” mormora Bruno senza alzare gli occhi.

Siamo diventati l’uno l’errore dell’altra.

Alla fine un po’ ci riesco, a cambiargli la vita. Lo faccio quando ho smesso di provarci, e convivo con Già in una bella casa che, rispetto all’attico gelido, era giusto dietro l’angolo, come tante cose che cercavo invano. Dopo tutti i miei sforzi inutili, per cambiare la vita di Bruno mi basta girargli un’offerta di lavoro, che avevo rifiutato perché ormai ero insegnante. Stavolta quello di segnalargli offerte era un favore che aveva chiesto lui, una cosa che voleva, e a me ritornano in mente le parole che avevo sibilato a mio padre prima di quella assurda risonanza elettromagnetica: possiamo aiutare solo chi lo desidera.

A me ci pensa Già, che mi adora. E comunque non ha bisogno di farlo, per trattarmi bene. Nei mesi trascorsi lontano da Barcellona ha ascoltato spesso una canzone dei 24 Grana, gli stessi che cantavano “Uccidimi”. Questa di Già però era una canzone buffa, quasi allegra: da che neanche mi piaceva, è diventata pure mia. 

A un certo punto mi giunge voce che per Bruno c’è stata un’altra ragazza, dopo la Biondissima. Ma è finita presto, e con gran sorpresa dell’amico dello “scoop” (sempre lo stesso!) completo io il racconto: Bruno trovava che le mancasse qualcosa, e in ogni caso non poteva vederla spesso perché “aveva da fare”.

Ormai ho imparato che è inutile prenderla sul personale, chi ci ferisce non lo fa solo con noi. Non siamo “speciali” neanche in quello, ed è meglio così.

Questa storia finisce quando ritorno a sorpresa allo Spazio. Ho rinunciato da tempo a quell’incarico di rappresentanza e temo di non conoscere più nessuno, così ho chiesto a Già di accompagnarmi al concerto programmato per la serata. Con lui mi sono assegnata un progetto speciale: creare un rapporto così bello che, anche se finisse in malo modo (come succederà), vorremmo continuare a esserci nelle rispettive vite (come succederà).  

Tenendoci la mano salutiamo Bruno, intrappolato in una conversazione con una sconosciuta che gli piace, ma che trova noiosa. Mi accorgo all’istante di entrambe le cose, e mi ritrovo a lanciargli un’occhiata ironica, di quelle che ti aspetteresti dalla fidanzata di un amico. Mo’ ti arrangi, testone.

Bruno si svincola solo quando inizia il concerto del suo amico cantautore, lo stesso che era in visita la prima volta che lui mi ha spiegato che non ero niente di che. Un giorno scoprirò che dopo il concerto il cantautore, ignaro del fatto che nessuno sapesse, aveva detto di me: “È l’unica con cui ho visto Bruno star bene. Solo che con lei non ci voleva stare”.

Intanto, però, l’artista chiama Bruno dall’angolo che fa da palco: loro due, annuncia al pubblico, hanno scritto qualcosa insieme.

L’interpellato rifiuta di accostarsi al microfono, ma dall’angolino in cui me ne resto con Già lo vedo incurvare la schiena e capisco, mentre la canzone comincia.

Prima che inizi il silenzio, ho una cosa da chiederti.

La canzone parla di Bruno, e anche di me. Parla del suo dolore per la Biondissima, e del mio per lui. Non può farci niente, in quella canzone ci sono anch’io. C’è la sequenza del lutto che abbiamo provato entrambi in stanze separate, ugualmente buie e lontane: abbandono, incredulità, e una solitudine che verso la terza strofa diventa la tentazione oscena di andare avanti.

Prima che inizi il silenzio, tu vattene via.

Ogni nota mi risuona nel ventre che si contrae un momento, poi si distende insieme a me che già canto.

È qui che finisce la storia. Finisce col dolore di Bruno che è anche il mio, e finisce con la speranza che, per una volta, pure ci unisce. Ormai so che la nostra canzone non esiste, ma non importa.

Finalmente ho trovato una canzone per noi.

Grazie per aver letto Fame!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

I will survive

Va a finire che rimando sempre.

Non vado mai da Bruno a prendere i libri per l’esame di omologazione: ogni giorno sfido me stessa a non contattarlo, e comunque sono troppo occupata a litigare con la coordinatrice del corsetto online, che avrei dovuto iniziare quando era cominciata la crisi. A quanto pare sarei stata offensiva nei toni con cui ho criticato una delle letture obbligatorie: l’accusa non mi è arrivata in privato, ma è stata postata nel forum virtuale condiviso con gli altri alunni. La coordinatrice è una dottoranda senza titoli per insegnare. La sua professoressa, una figura carismatica nel mondo delle lettere catalane, finirà nei guai per il suo ruolo nell’organizzazione del referendum indipendentista. Intanto dalla segreteria mi fanno sapere che non riavrò neanche un centesimo, se mi ritiro ora che il corso volge al termine.

Anche l’estate sta per finire. L’Amico per eccellenza mi ha raggiunta a Barcellona, ma invece di cercare lavoro come si proponeva se ne sta perlopiù tappato in camera, spaventato all’idea di parlare male lo spagnolo. Ogni tanto perdo le staffe anche con lui.

La parte più odiosa di quando provi a cambiare vita è scoprire che questo non cancella le vite precedenti, e soprattutto le loro conseguenze, che ti accolli come se fossero minori a carico. Resta una punta di rancore verso questa te che prima te le ha affibbiate, poi si dilegua a poco a poco. D’altronde, neanche lei sparirà dalla sera alla mattina.

A un certo punto mi scrive la Divina, quella troppo bella perché Bruno la aggiungesse subito a Facebook: mi racconta di essere venuta alla festa del Poble-sec, il mio nuovo quartiere, e che tra le persone che la accompagnavano c’era Bruno. Peccato non esserci viste, credeva che lui mi avesse avvisata! Forse è stato dopo quel messaggio che ho inviato la critica “offensiva” al corso virtuale.

Ne sa qualcosa anche l’Amico, specie quando lo lascio tre minuti a governare una pasta risottata che mi sto sudando da mezz’ora, e lui la fa scuocere. Mi trattiene a stento dall’afferrare la borsa e piombare fuori, in cerca di una pizzeria da asporto. Io quella roba non la voglio, dichiaro: d’ora in avanti non manderò giù mai niente che non mi piaccia sul serio! Poi finisco per decidere che la pasta non è poi così scotta.

La rabbia è buona, mi ripeto, basta saperla usare. E poi se ce l’ho è perché non ci sto: non trovo più normali delle situazioni che, prima, mi lasciavo scorrere addosso.

Così cerco attività che mi facciano bene. Nelle pause studio sto passeggiando molto per i parchi, e prendo lezioni di lingue negli istituti comunali: in metro, mentre scappo al corso di francese, vedo dei ragazzi francesi andare in spiaggia e penso che vorrei essere loro, conoscere già la loro lingua per saltare il corso, andare a farmi un bagno… Ma non so più affidarmi alla gioia, ai piccoli piaceri imprevisti: mi fa paura l’idea che non dureranno, che all’improvviso mi si ritorceranno contro. Così risolvo prima le incombenze noiose.

La Casa degli spiriti è stata affittata con un contratto regolare, e con un forte sconto perché l’inquilino soprassedesse sulle condizioni disastrate. Non sento troppo l’esigenza di uscire, dunque rientro sempre nelle spese, anche se non arrivo a risparmiare niente. Sono così pallida che sembro anemica, studio tutto il giorno e rimando sempre il momento di sentire Bruno: i pochi contatti con lui non sono stati incoraggianti.

L’ho visto allo Spazio, a una proiezione di inizio estate: il Figo, che ormai spadroneggiava senza me a fargli concorrenza, ha buttato tutto in caciara, con tanto di DJ set finale. Io mi sono ritrovata accanto alla borsa un bigliettino anonimo, che si è rivelato un invito a ballare, e per scoprirne l’autore è partita una caccia all’uomo che ha finito per divertirmi. Bruno non partecipava: attendeva sul ciglio della pista improvvisata che finisse l’ennesimo tripudio swing, messo su a beneficio degli invitati catalani. Quando è scattata l’immancabile I will survive mi sono unita alle danze, iniziando a cantare a pieni polmoni. Ci ho messo un po’ ad accorgermi che non ero l’unica: alle mie spalle, con voce più potente della mia, Bruno masticava le parole di Gloria Gaynor con una furia che non gli conoscevo. Anche in una festicciola scema, l’unica cosa che ci univa era il dolore.

Allora ho abbandonato la pista, e mi sono accorta della coppia.

Si sarebbero sposati di lì a poco, per questo lui non frequentava lo Spazio come prima: lei lo aveva coinvolto nei corsi di danza così in voga tra le ragazze barcellonesi, e lui dichiarava ridendo che, se non ci andava, poteva dire addio alle nozze. Ma ora eccoli che danzavano insieme, trasformando I will survive in una canzone swing. La musica che ballavano, la sentivano solo loro.

Tornando a casa non ho fatto girare subito la chiave nel portone: mi sono allungata sul vicino Passeig de l’Exposició, tra gli alberi che ondeggiavano e le ultime cicale. La voglio anch’io quella danza, mi sono detta, Bruno e io siamo buoni solo a gridare schiena contro schiena, giurando a noi stessi che sopravviveremo.

Solo allora ho ripensato sul serio alla donnina in camicia da notte, che urlava al di là del cancello. L’avevo sorpresa a tentare la fuga dall’ospizio il giorno in cui la storia con Bruno doveva iniziare davvero. Avevo promesso di farle visita.

Quando trovo il numero della casa di riposo, non mi risponde nessuno.

Ci penso un intero pomeriggio prima di scrivere a Bruno: magari può bussare lui un attimo? È ridicolo estendere al di là di ogni logica la mia lotta quotidiana per non scrivergli! Un messaggino veloce mi risparmierebbe il viaggio fino alla strada di casa sua, e pure l’ansia nell’intraprenderlo dopo tanto tempo (ma questo non glielo dico). Lui risponde quasi subito, gentilissimo, e si impegna ad aiutarmi: mi assicura che non gli costa niente.

Quando svanisce nel nulla lo sollecito solo una volta, poi aspetto altri giorni. Infine scovo un numero alternativo, poi un altro, finché la figlia della donnina in camicia da notte non mi informa personalmente, e con molta diffidenza, che a giorni trasferirà la madre in un istituto migliore, appena fuori città. Meglio non destabilizzarla con la visita di una sconosciuta.

Riattacco avvilita da quella mia promessa non mantenuta, e al rimorso si unisce una rabbia improvvisa verso Bruno: perché impegnarsi ad aiutarmi, per poi farmi perdere altro tempo? Alle mie accuse in chat, lui reagisce attaccando.

“La tua era una scusa” sostiene con una sicurezza che mi manda in bestia. “Cercavi solo un pretesto per parlare con me. Lo so perché sto passando anche io per un’esperienza simile”.

Non trovo la forza per rispondere. Dopo settimane trascorse ad annegare nei libri, e a passeggiare con l’Amico, e a lottare con l’ansia pur di non chiamare lui, per una volta che faccio uno strappo alla regola e chiedo un favore (entrambe operazioni che mi costano tantissimo), scopro che non ho neanche diritto a un dolore che sia mio! Ma già, l’unico a soffrire al mondo è lui, per una che ci ha messo trenta secondi a lasciarlo perdere… Ah, beata lei! Stavolta la rabbia ci mette un po’ a trasformarsi in singhiozzi.

L’Amico si rassegna a entrare in camera senza bussare, sapendo di trovarmi rannicchiata sul tatami che già marcisce per l’umidità. Mi accarezza la fronte come se fossi una bambina malata.

“Perché ti accanisci, cazzo?”.

Non so spiegarglielo: forse voglio una prova che con Bruno non sia stato tutto vano, uno schifo che mi abbia sottratto solo tempo e salute mentale.

Ma queste prove si trovano solo in fondo a certe sabbie mobili: ti danno l’illusione di potertici aggrappare, e invece ti rendono così pesante che cadi ancora più giù.

Adesso so che facevo bene a evitare contatti, che voglio restare nel mio mondo sicuro, coi parchi vicini e l’Amico che si occupa di me.

Quando mi sarò rimessa un altro po’, andrò a prendermi i maledetti libri.

A lunedì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Il Mondo

L’amico scuote l’aureola.

“No!” grido.

L’ho stupito: osserva meglio la madonna di legno che sta torturando.

“Vuoi dire che questo cerchio non serve ad appendere la statuetta?”.

Sorrido. Ormai dovrei sapere che ciò che è sacro per qualcuno è ridicolo per qualcun altro. L’amico è un ex vicino del Raval, ha partecipato anche lui alla mia mudanza col carrello da spesa che ha parcheggiato nell’androne: gli cedo gratis le madonnine kitsch e i quadretti che tre mesi prima, al mio compleanno, mi avevano raccomandato di provare a vendere. Ma io voglio sgomberare la casa prima possibile.

“E questa cos’è?” interroga l’amico.

Non vedo subito l’oggetto che mi ha indicato: sto controllando di nuovo il cellulare. Un tempo aspettavo i messaggi di Bruno, adesso a farsi desiderare è il proprietario dell’attico gelido, che a quanto pare è ancora in affitto. Ma sono tenace: ho trascorso il pomeriggio di Pasqua nei pressi del palazzo dove si trova l’attico, in un parchetto del Poble-sec dalle pergole ricoperte di glicini. A vivere da quelle parti, mi rimetterei più in fretta. Ho ripensato a mia nonna, che si rammaricava da Skype perché non ero da lei per Pasqua, ma uscendo dal parco ho sorpassato palazzetti bassi dai colori pastello, e gli edifici moderni del Passeig de l’Exposició, coi balconi di lamiera colorati da qualche bandiera indipendentista. La mia sorpresa mi ha divertito: un quartiere di Barcellona che fosse ancora abitato da barcellonesi? Qualcuno in quelle case sperava in un futuro migliore, e in quello, almeno, volevo credere anch’io.  

“Vabbè, questa roba te la lascio”.

Finalmente mi giro, sorprendendo l’amico nell’atto di cacciarsi un Gesù Bambino nella sporta già piena: l’oggetto che mi indicava prima era la mangiatoia.

“Con ‘questa roba’ il bambinello vale di più” gli assicuro.

“Allora è una culla? Anche se è piena di paglia?”.

“Serviva a nutrire un bue”.

Quello crolla il capo. Forse si chiede a che prezzo possa vendere quella paccottiglia incomprensibile.

Anche io ho tante domande su ciò che farò: il trasloco, il mezzo tirocinio che mi inizia allo Spazio… E poi la Petulante mi ha già bocciato il progetto principale.

“Mettiamo pure che trasformi casa tua in un AirBnb: di tutte le persone che te lo potevano gestire, hai scelto proprio…?”.

Non è come pensa, mi ripeto salutando l’amico che si allontana col carrello pieno. Non so ancora niente di licenze turistiche, di permessi e lotte alla gentrificazione, ma sono sicura di una cosa: con Bruno non ci sarebbero contatti. Se accetta la proposta di gestirmi la casa, ci sarà un solo incontro, per un rapido scambio di chiavi, e il resto saranno comunicazioni di servizio e versamenti bancari. Bruno ha bisogno di soldi, e io ora so che, semmai fosse possibile, dovrebbe tornare lui da me e non viceversa. Rinunciare a lui non significa smettere di volerlo aiutare.

È anche per questo che sgombero casa: l’amico agente immobiliare ha già portato degli studenti a vederla, ma nessuno la vuole, è troppo vecchia e lugubre.

Dopo che ho inviato a Bruno la “proposta indecente”, sono così tesa che uscendo dimentico la penna. Me ne accorgo che ormai sono a un passo dalla biblioteca, in una zona senza cartolerie, e per non darmi della cretina mi appello a quei manuali fumosi che sto leggendo sulla sincronicità junghiana: che la mia sbadataggine porti con sé una lezione?

Forse devo accettare con umiltà i miei errori più scemi, oppure devo imparare a chiedere quando ho bisogno di qualcosa, fosse anche una penna in prestito! Ma no, perché? Per una volta mi godrò le letture junghiane senza l’ossessione di prendere appunti…

Entro in biblioteca e, proprio accanto ai tornelli, la vedo.

Chiedo un po’ in giro ma no, non appartiene a nessuno; una penna in biblioteca, che coincidenza incredibile! Il bello è che, rapita dai miei pensieri, quasi non la notavo: forse questa è l’unica lezione possibile.

L’ho appena raccattata, quando mi telefona Bruno.

***

Mentre mi parla inizio a camminare.

Sto avanzando verso la Rambla del Raval, ma stavolta non seguo la strada del mare. Sono solo affari, ricordo, e lui è un po’ impacciato ma gentile: prima di discutere del progetto deve darmi una notizia che “forse già conosco”. Si sposa, decido. La Biondissima è incinta e si trasferiranno nel suo paese, dove lui insegnerà italiano e saranno felici, e…

“Parto”.

Guardo davanti a me la strada sozza, e penso subito a un tarocco che nei mesi più bui pescavo spesso, se mi interrogavo su Bruno: il Mondo. Spesso indica un viaggio. Che scema che ero: Bruno non parte mai. Minaccia sempre di farlo, poi resta. Almeno so per certo che con la Biondissima è finita: dal tono di lui è evidente che quella partenza è una fuga.

All’improvviso c’è qualcosa di nuovo a unirmi a questo Bruno sconosciuto. È una sorta di pietà, forse reciproca: un’umanità di amanti sconfitti, distrutti dai propri sbagli.

Lui invece non afferra i miei accenni ad analisi mediche, alle compresse che ancora prendo per assicurarmi di non produrre latte… In che senso, vuole sapere. Forse gli verrebbe più facile credere di avermi messa incinta, piuttosto che immaginarmi insonne e inappetente (e piena di latte!) per qualcosa che lo riguardi in prima persona.

Quando riattacco non so ancora che Bruno farà il prezioso per un po’, poi respingerà la mia offerta. È facile da immaginare, ma sono troppo distratta dalla scoperta che il mondo è uguale a prima. In fondo, alla Biondissima avevo dato tre mesi, e poi mi viene in mente una frase lapidaria di mamma al telefono, nel caos dei primi tempi senza mangiare.

Che lui stia con un’altra o entri in convento, a te che importa? L’unica questione che ti riguarda è che non vuole stare con te.

Il bello è che stavolta non gli servirei neanche per consolarsi: è chiaro che a questo dolore qua non vuole rinunciare. E io?

Io sono occupata a nutrire questa forza che non mi molla più, che dopo anni di abbandono pretende tutta la mia attenzione.

Il mio corpo, adesso, è aperto solo a lei.

A lunedì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

A lunedì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Per un momento

Da es.paperblog.com

Il corpo non sente ragioni.

Un mattino di aprile lo sento prendere forma sotto le lenzuola: rifiuta l’assenza a cui l’ho costretto, reclama il suo spazio. Affondando la mano sotto al lenzuolo riconosco i percorsi che piacevano a lui. E io, dov’ero? Dove sono ora? Devo ritrovare la strada per raggiungere me, solo me. Per un po’ ci riesco, poi succede. Mi balena davanti l’immagine di lui.

Allora balzo fuori dal letto. Non sento più il corpo, non so perché sta correndo in corridoio, a piedi nudi, vestito a metà. So solo che non ci riesco. Non riesco a tradire Bruno con me stessa, e allora mi vedo spalancare la porta del balcone. È quello su cui una notte ero rimasta intrappolata, costretta a osservare la mia vita da fuori. Tra la ringhiera e la pianta dalle radici pensili mi aspetta la strada. È l’istante peggiore. Il mio corpo è staccato da me, per un momento non so cosa sta per fare.

È in quel momento che viene lei. Non la avverto subito, ma sento di nuovo la maniglia sotto le dita e, scivolando a terra, mi ci aggrappo il tempo necessario a riconoscere quella cosa senza nome, la Forza che per salvarmi dalla strada mi butta a terra, sul pavimento.

Stavolta però è diverso. Stavolta ho visto ciò che rischio di fare quando la mia mente insegue i suoi fantasmi, e il corpo deve salvarsi da solo. Devo farli incontrare di nuovo, mente e corpo: unirli come è giusto che sia.

Se c’è un momento, è questo. Non è il crollo improvviso del mio castello di carta, non è la fuga verso il mare, o la mia voce che rompe il silenzio davanti a cento persone. Non è il terremoto, non è il giorno in cui imparo a mettere alla porta un uomo che mi vuole ingannare.

Eccolo il momento, eccomi. Per muovere quei passi in corridoio, per infrangermi contro i vetri di un balcone, ho iniziato a camminare una notte di novembre con un ragazzo che mi faceva ridere, e il mio cammino si arresta ora, davanti a queste radici pensili che si aggrappano oscene alla vita. Anche io scelgo quella, più di tutto. Più di lui.

Dio, devo fare tante cose.

Devo uscire dalla Casa degli Spiriti, dalle pareti ancora sfrangiate sotto la mano di pittura. Devo vedere quell’attico gelido, confidando nella primavera. Devo studiare cose che ho rimandato troppo a lungo.

E devo imparare a camminare: tutte le volte che servono.

Ma in quel momento non serve neanche quello. Mi basta piantare i piedi sul tappeto polveroso che lambisce la porta del balcone, e fare un ultimo appello alle gambe: ci sono. Fredde, indolenzite, ma ci sono.

Così la mia presa sulla maniglia del balcone si fa di nuovo forte, poi si allenta.

Finalmente mi sono rialzata.

A lunedì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Pronto intervento

La prima riunione tocca a me.

Ho tutto pronto per la coordinazione: mi presenterò in anticipo allo Spazio, e sarò professionale. In fondo è il primo incontro dell’anno.

L’attacco di panico in palestra era impossibile da prevedere. Per rimediare ho ascoltato all’infinito Mr. Brightside: a farlo di mia volontà non ho problemi, ma una volta non ho chiuso bene YouTube, e la canzone mi è stata sparata nelle orecchie appena ho riacceso il computer. Ho dovuto trattenere un conato di vomito: gli imprevisti, anche piccoli, restano il mio tallone d’Achille.  

La sera prima della riunione sono angosciata. Non sono più abituata a vedere tante persone, tutte insieme. Spero che Bruno non venga, o che la sua presenza non mi turbi troppo. Sono in salone, rannicchiata sul divano damascato con una coperta di pile che quasi si scioglie al contatto con la stufa alogena. Per fortuna è uno schifo di stufa, buona solo a illuminare la stanza di una lucetta arancione. Mi accorgo di sfiorarla con la coperta ogni volta che sento odore di plastica bruciata. Il film che sto guardando è un drammone storico, pieno di fughe e colpi di pistola, ma l’ennesima sparatoria è coperta da grida improvvise, che sopraggiungono dalla strada. Chi si lamenta in questo modo?

Esco dal balcone più vicino: quello che Bruno fissava mentre mi diceva addio. Per paura che entri la tramontana mi chiudo la porta scorrevole alle spalle, e intanto spio al di là della pianta dalle radici pensili. Il ragazzo non urla più: piange, chiuso nell’angolo tra la strada principale e il vicolo su cui affaccia il balcone. Piange come se stesse da solo in cameretta, e invece è circondato da poliziotti, che lo tengono immobilizzato contro il muro. Una volante, porte aperte e luci accese, sbarra l’ingresso del vicolo. Il ragazzo sta chiedendo perdono a Dio per una situazione che non afferro: è un ladruncolo, un piccolo spacciatore? Sembra inconsolabile, vorrei fare qualcosa, ma… Schiacciata dall’impotenza, accenno a rientrare.

Non ci riesco.

Che succede? La mia mano spinge un po’ la maniglia, poi la scuote. Niente. Ho le dita doloranti e la porta scorrevole non si è mossa di un millimetro.

Attraverso il vetro osservo la coperta, che alzandomi ho lasciato cadere sul tappeto, e l’impronta del mio corpo sul divano. Il film va avanti anche senza che io lo guardi, intenta come sono a osservare la mia vita dalla parte sbagliata del vetro. Un lembo di collo lasciato scoperto dalla felpa rabbrividisce sotto una folata di vento. Le voci alle mie spalle sono cessate: gli sportelli della volante si chiudono tutti insieme.

Resto a lottare un altro po’, poi mi arrendo.

Il poliziotto che chiamo dal balcone soffoca una risata, come se fossi una bambina che si sporge dalla ringhiera. Anche il suo collega reprime un moto di incredulità: forse sarò io, e non il ragazzo arrestato, l’aneddoto da raccontare a fine turno.

Le risatine diventano sguardi perplessi quando esibisco uno sgabello arrugginito, scovato tra le radici pensili della pianta.

“Che faccio, provo a rompere il vetro?”.

Gli agenti si affrettano a chiamare i pompieri.

Per mezz’ora posso solo studiare il riflesso della sirena sull’altro balcone della stanza, che dà sulla facciata dell’edificio. Scorgo prima una sagoma appesa a quella ringhiera lontana, poi un elmetto illuminato da una torcia. Atterrato sul balcone, l’uomo resta accovacciato per un minuto scarso, alle prese con l’altra porta scorrevole: apriti sesamo.

L’intruso sfoggia un’abbronzatura artificiale che lo rende ancora più scuro, sotto i riflessi arancioni della stufa, ma mi sfodera un sorriso da pubblicità mentre attraversa il salone come se in quella casa ci abitasse. Sono io l’ospite a cui, bontà sua, sta procedendo ad aprire la porta. Così vengo riammessa d’ufficio nella mia vita.

Non è che i pompieri potrebbero salvarmi anche dalla riunione? A quanto pare, è già tanto se non mi fanno pagare l’intervento!

“Ti sei spaventata, eh?” scherza all’ingresso uno dei poliziotti, salito sul pianerottolo insieme ai pompieri.

Anche il mio vicino si è affacciato, in vestaglia: il pompiere che mi ha aperto la porta ha usato il suo balcone per arrivare al mio. Il vicino è rosso in viso, l’influenza lo costringeva a letto e suo marito è in viaggio per lavoro. Guardandolo capisco che stiamo pensando la stessa cosa: è raro vedere tanti uomini così belli, tutti insieme. Me ne accorgo perfino io, che ho gli ormoni in sciopero.

È una visione anche il capo dei pompieri, un uomo atletico e brizzolato che mi insegna cosa fare se mi, ehm, distraggo di nuovo nell’usare la porta scorrevole: l’anta va sollevata dal basso. La prossima volta sarò in grado di salvarmi da sola, mi incoraggia, e guarda ironico il povero sgabello che intendevo brandire contro la mia sorte. Intanto, conclude, ho fatto bene a chiedere aiuto.

La sera dopo racconto l’aneddoto all’inizio della riunione, contenta di avere qualcosa a cui aggrappare la mia ansia.

Manco a dirlo, Bruno arriva per ultimo, facendosi precedere da un attacco di tosse. Il senso che ho affinato per i suoi malesseri si attiva prima che possa frenarlo: non sta bene. Dopo il primo momento di allarme mi guizza in testa una speranza indecente.

“Dai, Bruno, scrivi tu il verbale!” applaudono intanto i Morti di Figo.

Forse la Biondissima si è già eclissata, penso cedendogli il taccuino. Una volta ridevo anch’io dei suoi verbali epici.

I primi a lasciare la riunione sono i quarantenni: hanno figli da prelevare in palestra o al conservatorio, e magari la cena da preparare, specie se la loro compagna non è italiana. Restiamo noi trentenni spiantati. Forse nei paeselli d’origine avremmo già tirato su una famiglia col nostro primo amore, o almeno con “lu secondo”, più bello ancora. Forse, dopo qualche anno di matrimonio, avremmo dato lavoro agli alberghi a ore che costeggiano le nostre strade verso il mare: le stesse che avremmo percorso poi in estate, con la station wagon sormontata da un canotto gonfiabile a forma di cigno. Invece siamo in questa città strana, a vivere telenovele idiote con gente persa nel mondo.

Intanto il mio l’ho fatto. Per andar via non mi resta che riprendermi il taccuino. Senza guardarlo in faccia, indico a Bruno la sua scrittura irregolare: strappasse pure le sue pagine, appena me le manda riassunte provvederò a inoltrare il verbale.

Devo guardarlo per forza, perché ha iniziato a sbuffare: questo “favore” me lo può fare al massimo tra una settimana, che adesso ha da fare. Sento montare una rabbia che non ricordavo: quella delle piccole cose, dei momenti di esasperazione che era in grado di regalarmi quest’uomo. Quando me ne toccava uno al giorno, quasi non li vedevo. Adesso ho perso l’abitudine, e con quella la pazienza.

“Vabbè, Bruno, al tuo buon cuore!”.

La frase esplode in tutto il suo sarcasmo prima che me ne renda conto. Ne resto turbata, mentre mi dileguo: ho una voglia improvvisa di finire l’hamburger vegetale iniziato la sera prima. Ormai termino i pasti in due giorni, invece che in tre.

Prima di coricarmi controllo per inerzia la posta elettronica: c’è una nuova mail. Non riconosco subito il nome del destinatario, non sono più abituata a leggerlo. È il verbale della riunione. Lo accompagna una frase che sottolinea la fretta con cui è stato stilato: nel linguaggio di Bruno, è la cosa più vicina a una richiesta di scuse.

Cristo. Me ne sono accorta da subito, da quando lui era solo uno che si lamentava con me su Facebook: trattarlo appena un po’ male era la soluzione migliore per fargli fare le cose.

Ed era l’unica cosa di cui non ero capace.

A venerdì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Risonanze

La bara è lunga e fa un rumore strano.

Lì dentro ho tutto il tempo di ripensare alla sera dell’evento di beneficenza, e a quando poi sono riuscita a mangiare.

L’ho fatto a casa, lontano da Bruno che ho lasciato a lamentarsi con una delle fumatrici sotto il palazzo: una che non gli piaceva, ho valutato odiandomi. Lui spiegava alla fumatrice che per poco non si perdeva l’evento, con tutte le cose che aveva da fare, e nel vetro della porta illuminato da un lampione l’avevo sorpreso a scrutarmi le calze. O magari me l’ero sognato. Magari aveva notato anche stavolta qualche smagliatura nella trama.

Papà invece mi ha squadrato le gambette ossute nei leggings, mentre metteva la mia valigia nel portabagagli, e mi ha subito annunciato che detestava i tarocchi: era un uomo di scienza, lui! “Santa Madre scienza”, l’ho sfottuto.

Da allora lui storpia il nome dell’I-Ching, e conia massime in napoletano contro Jung. Soprattutto detesta il mio corpo, com’è adesso: alla vigilia ho mangiato solo broccoli e lui ha paura, è convinto che io abbia qualche male fisico. Le analisi mediche che mi ha subito inflitto sembrano confermare la sua teoria.

Così sono finita in questa bara oblunga e buia, ad ascoltare rumori strani. I miei livelli di prolattina sono molto alti: da che avevo il ciclo ritardato, adesso potrei addirittura star producendo latte! Interpellata a distanza per gli auguri di Natale, la psicologa junghiana si è premurata di annunciarmi che “mi sto partorendo”.

E invece mio padre mi ha seppellita qui dentro: giorni fa, andando in cucina, ho capito dai sorrisi dei miei familiari che quella era un’imboscata. Avevano già prenotato in clinica, tutto quello che dovevo fare io era sottopormi alla risonanza, e ricordarmi che l’avevano fatto per me. Una volta in clinica, quel distratto cronico di mio padre pretendeva pure che trovassi io il reparto, con la solita notte insonne alle spalle. A quel punto gli ho soffiato in faccia: “Guarda che possiamo aiutare solo chi lo desidera”.

Nel sarcofago divento cintura nera di meditazione: trascorro i venti minuti della risonanza in un viaggio astrale, o qualcosa del genere. Tanto il mio stomaco è talmente vacante che potrei pure vedere la Madonna.

Ovvio che la risonanza non rileva niente di irregolare. In compenso, mi rivela una volta per tutte che ne ho abbastanza. Cristo, sono diventata una lagna! Dai bassifondi della mia mente riaffiora un briciolo di ironia.

Una sera di quelle anonime tra Natale e Capodanno, gioco con due amici su Facebook a storpiare i nomi dei quartieri di Barcellona, associandoli a libri e film famosi: vince a man bassa “Il diario di Hostafrancs”. Rido come una scema, poi me ne accorgo. È questo che voglio per me.

Voglio divertirmi come sto facendo con questi scherzi idioti, e come facevo con Bruno la prima notte passata a ridere, a dirci scemenze fino alle quattro. Quelle risate le ho pagate abbastanza, le rivoglio.

Anche quest’anno mi capita di riascoltare quella canzone napoletana che tradotta si chiama “Uccidimi“, e non andava mica presa alla lettera, ma ormai è andata così.

Prima di capodanno, arriva il terremoto. Il mio istinto di sopravvivenza funziona abbastanza da catapultarmi fuori dal bagno senza scaricare.

In corridoio trovo mia madre appoggiata allo stipite della cucina, come se in quel gesto reggesse tutta la casa. Allora mi appoggio anch’io a una porta a vetri troppo fragile per non tremare tutta. È come se quella fragilità fosse l’unica cosa da salvare.

Ci guardiamo, mamma e io, come vestali assorte in un rito strano, finché le oscillazioni non si fermano. Allora fanno capolino anche gli uomini di casa, che erano rimasti chiusi nelle stanze ad aspettare. Mio padre si mette a cercare su Google, in tutte le lingue, come si dice “È passato il terremoto”.

A quel punto me ne rendo conto: la prima cosa che ho pensato, subito dopo la mia fuga dal bagno, è stata che mi toccava sprofondare in un vortice di detriti senza salutare Bruno. Senza dirgli che lo amavo, e che in fin dei conti non mi dispiaceva, pensarlo felice.

Adesso, però, voglio esserlo anch’io.

A lunedì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

La ragazza sul balcone

Da rare-gallery.com

È stato l’urlo a svegliarmi.

Lo seguono passi veloci, interruttori che scattano.

Forse era successo altre volte, ma non me ne accorgevo, quando crollavo stesa da un’ora di pianto. Ormai ho provato a uscire dal mio angolino buio di corridoio, e sono fissa nella camera da letto a fiori azzurri, che ha un armadio vero e un balcone. Era accanto all’armadio che avevo trovato la bambola, tutta nuda e altera sulla sedia di velluto.

Quando l’urlo si smorza c’è uno scroscio prolungato, come di una vasca che si riempie. La mia scarsa cultura horror rievoca storie di reclusioni domestiche, e spaventosi bagni “ristoratori”.

La matta di casa. La matta dell’attico. Sopra il mio appartamento non c’è l’attico, ma ora so che c’è qualcuno che soffre.

Il giorno dopo chiedo lumi al vicino di sotto: un inquilino napoletano che affitta camere a gente di passaggio, attirandosi l’ostilità delle vecchie catalane che vivono nel palazzo. Il vicino mi coltiva come potenziale alleata alle riunioni condominiali, ma davanti alle mie domande nicchia un po’: al piano di sopra si rifugiano perlopiù dei migranti clandestini, che incontri una volta per le scale e non vedi mai più. Impossibile dire chi di loro avesse urlato l’altra notte. Dall’attico, invece… Ma a quel punto il vicino si interrompe. “Dall’attico…?” lo incoraggio.

Dall’attico è precipitata una ragazza.

È successo un anno prima che arrivassi io. Era una giovane americana, prosegue il vicino, venuta in Europa col marito per la luna di miele. L’avevano trovata su uno dei miei balconi: quello della stanza con la carta da parati a fiori azzurri. Mica è lì che dormo, vero? Ah! Ma chissà, forse è andata finire bene: nessuno conosce la sorte di quella ragazza. Certo, quando l’hanno trovata aveva le gambe spezzate, era stata chiamata un’ambulanza. Mentre ascolto, ho la sensazione che quell’uomo ancora giovane muoia dalla voglia di farsi un segno di croce, prima di concludere la sua storia.

Il marito della vittima, americano pure lui, aveva spiegato in uno spagnolo caricaturale che i due stavano litigando, che alzavano la voce. A un certo punto lei era rimasta in silenzio e si era buttata giù, senza una parola. Il marito sembrava disperato: la sua sposa aveva tentato il suicidio per uno stupido litigio… Ma il vicino, quando pronuncia la parola “suicidio”, mi fa un cenno d’intesa tutto partenopeo. Seh, seh.

Neanche del marito sa nulla. Pareva sparito insieme all’ambulanza, come se avesse la valigia pronta o non gli importasse di recuperare le sue cose.

Alla fine era un extracomunitario pure lui, riflette il vicino, e si era dileguato come i clandestini del piano sopra al mio. Però quelli erano colpevoli solo di esistere. L’americano, invece…

Quella notte chiudo bene la serranda sul balcone, e capisco: presto me ne andrò dalla Casa degli spiriti.

Il mio privilegio me l’ha gettata tra le mani, ma è come se la casa stessa mi dicesse che non va bene, che non mi vuole, che devo andar via.

O forse devo ricominciare a mangiare sul serio, per farla finita con ‘sti deliri.

A venerdì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

La ruota non gira più

E io che pensavo di aver fregato i tarocchi!

Invece mi esce di nuovo la Ruota della Fortuna, ed è la seconda volta. Un tempo pensavo pure che non mi sarei mai ritrovata su un tatami a consultare dei tarocchi, ma tant’è.

È stato Jung a spiegarmi tutto.

O così mi è parso un giorno che ero in biblioteca, alle prese con un manualetto di psicologia analitica e con un cappotto troppo stretto, che non si chiudeva bene sulla tuta che da un po’ usavo come pigiama.

Nel rincoglionimento da insonnia prolungata, l’allievo spurio di Freud sembrava dirmi cose tipo: ti sei barricata nella stanza del dolore, hai messo sottochiave una parte di te che non ti ha fatto niente. Era una parte creativa, spesso caotica, che aveva fame, ma forse non piaceva a chi all’inizio ti dava da mangiare. Ho ripensato agli gnocchi sfatti che mio nonno adorava, alle donne di casa che glieli preparavano apposta così.

Con Jung sono arrivati nuovi libri: presi in prestito, comprati, divorati in ogni angolo della mia Casa degli spiriti. Una terapeuta junghiana offriva un colloquio gratuito, e l’ho presa a bordo a patto di vederla di rado. A metà della prima seduta si è interrotta per fissare qualcosa alle mie spalle. Nella stanza del tatami è successo qualcosa di doloroso, mi ha spiegato, e gli spettri non si possono cacciare. Però vanno tenuti occupati! A quel punto mi ha prescritto un rito molto “casalingo”, che prevedeva acqua, candeggina e una preghiera a piacere. Era fondamentale svuotare il secchio in strada. 

Ormai mi era chiaro che in tutta questa roba dovevo cercare la metafora, la pulizia interna di cui avevo bisogno. E poi una lavatina al pavimento non guastava! Gli spettri andassero pure a giocare da un’altra parte.

Una notte che ero già a letto, accostando il libro al lume ho ritrovato un salmo che conoscevo solo grazie a un’atroce canzone da discoteca. Anche se dovessi camminare in una valle oscura non temerei alcun male, perché tu sei con me. il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.

A chi rivolgere questa preghiera?

Il giorno dopo, in biblioteca, Marie-Louise von Franz mi ha impartito da un volumetto quasi intonso una lezione sull’I-Ching: gli oracoli non servono a prevedere il futuro, spiegava l’allieva di Jung, ma a dialogare con l’inconscio. Solo questo, doveva dirmi! Di tutti i testi consultabili a riguardo, l’unico disponibile per il servizio di prestito era un’edizione tascabile di Jodorowsky, sui tarocchi. Anche Jodorowsky non si beveva la storia di predire il futuro: si trattava di interpretare simboli, per risvegliare risorse psichiche che già possedevamo.

Poco dopo, visitando la Fnac, mi sono ritrovata tarocchi e I-Ching sullo stesso scaffale: che coincidenza, per degli articoli con la stessa funzione!

Così eccomi qua a sperimentare i tarocchi, e l’intossicante sensazione di controllo che già mi danno. 

Ho cominciato con delle domande cretine. Cosa mangerò per cena? L’Appeso. Nel senso che mangerò del caciocavallo…? Poi ho tirato fuori gli argomenti che mi interessavano.

Bruno tornerà? La Ruota della Fortuna.

Dormirò stasera? L’eremita. Sì, di recente non ho tutta ‘sta vita sociale…

Bruno adesso sta con la Biondissima? La Ruota della Fortuna.

Riprovo con la croce a cinque carte (livello avanzato!), e quando chiedo di Bruno… Ecco di nuovo La Ruota della Fortuna: la sua posizione nella tirata indica il passato. Che minchia vuol dire? Sfoglio il libretto delle istruzioni come farei per un mobile IKEA: la Ruota della Fortuna indica un cambiamento che non dipende da noi, e che non controlliamo in nessun modo.

Il giorno dopo mi accorgo che la Casa degli spiriti sembra lo sfondo di un tarocco vittoriano, di quelli disegnati verso la fine dell’Ottocento. In un angolo del balcone in salotto, una pianta è cresciuta tanto da traboccare dal vaso: le sue radici puntano fameliche al balcone di sotto, e mi scopro a odiare la loro corsa oscena per la sopravvivenza.

Eppure mi faccio una promessa: se esco indenne da questa casa, da questi digiuni, aiuterò chiunque si senta come me adesso, e voglia starmi a sentire. Così tutto questo sarà servito a qualcosa.

Ma la frenesia arriva col libro di Jung e Pauli sulla sincronicità: inizio a trovare coincidenze dappertutto, e la mia ansia si placa un po’.

Una mattina entro in metro pensando a un frequentatore dello Spazio, tra i pochi a cui Bruno ha raccontato di noi due. Riparte per l’Italia tra qualche giorno, con la moglie e due figli piccoli. Dopo un paio di fermate mi accorgo che qualcuno sta gridando al telefono: è lui, l’amico in partenza! Beccato per caso nella metro di Barcellona, nell’ora di punta, sulla linea più trafficata… Ma niente accade per caso, cavolo. Presa da un ottimismo incosciente propongo:

“Volete fare una festa di addio questa domenica, a casa mia?”.

Ma sì, sono forte ormai: ogni tanto dormo perfino un’oretta in più, e le fette di pane e tortilla sono diventate due… Insomma, potrò ben sopportare la presenza di Bruno nel mio salone.

“Bruno viene accompagnato?” mi chiede al telefono una collega dello Spazio. Vuole portare un dolce e deve sapere quanti siamo. Trattengo il respiro.

“Non lo so. Bruno è sparito”.

“Bruno è innamorato” mi corregge lei. Indovino che sta sorridendo. Mancano dodici ore alla festa.

I conati arrivano alle quattro del mattino.

Che vomito a fare? Bruno non si azzarderà mai a portare la Biondissima a casa mia! Vero? Come se fosse necessario, poi: a farmi star male mi basterebbero i Morti di Figo che scherzano sulla sua nuova fiamma, intanto che io offro i salatini. Dopo mezz’ora passata ad attendere invano il vomito, scrivo in mailing list: festa rimandata, mi dispiace, mi sento male. Proprio non riesco.

Mi alzo dal letto che sono le cinque di una domenica pomeriggio, ed è già buio. La festa si è spostata dalla ragazza che si era offerta di portare il dolce. I festeggiati hanno provato a chiamarmi, per ringraziarmi comunque dell’iniziativa: in fondo è per merito mio che sono tutti lì, insieme.

Manco solo io.

A lunedì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Precotta

Da recetasveganas.pro

“E adesso parlagli”.

Squadro la sedia vuota che l’amico mi ha sbattuto davanti. Cosa avrei da raccontare a una poltroncina di velluto rosso?

“Eccolo qua, Bruno!” insiste l’amico. “All’improvviso non hai niente da dirgli?”.

Sì. Tipo che, adesso che non gli serve più, il mio corpo si dissolve.

Della mia brutta casa senza fine occupo solo l’ultimo tratto: l’angolo tra cucina e bagno, e la cameretta in cui ho fatto gettare il tatami. La Petulante ha un bel dire che mi sono rinchiusa da sola in una tana, nella vastità della Casa degli spiriti. È che tutto quello spazio mi sembra ostile, mentre un angolo lo so controllare. E poi lì il dolore mi trova subito, e prima mi trova, prima mi lascia dormire.

Mi sto perdendo tutto il corsetto online, ma che importa? Sono al sicuro nella mia tana, in fondo alla casa che non finisce più. A pranzo mangio una tortilla precotta, che mi dura svariati giorni. A volte la accompagno a una fetta di pane. Accanto al comodino troppo alto per il tatami ho piazzato un panettone al cioccolato: tra poco è Natale. Ci ho conficcato dentro un coltello, che però non uso mai. È con le dita che pesco la cioccolata: lo faccio tra le quattro e le cinque del mattino, quando mi sveglio per piangere. Mi riaddormento dopo un’altra oretta, e a quel punto potrei risvegliarmi che è già pomeriggio. Spesso, in quei casi, mi accoglie il buio.

Dov’è finita la mia spavalderia al telefono con Bruno, mentre percorrevo la Rambla? “Non sono il secondo piatto di nessuno”. Col cazzo. Non mi importa più dell’altra, non mi importa di come mi ha trattata lui. Voglio solo che torni e metta fine a tutto questo.

E invece una parte di me resiste, non riesce a rimuovere l’istante di sollievo di quando ho saputo della Biondissima. Non saprei più fingere di abitare quel castello di carta, che ora non c’è più.

Tanto lui è sparito davvero nel nulla.

L’ho contattato solo quando mi è arrivata una notizia dal mio vecchio palazzo: hanno sfrattato l’uomo col mastino. In un messaggio vocale, la coppia che viveva con la gatta mi ha descritto la scena quasi all’unisono, compreso l’intervento della polizia. La statura modesta dell’uomo lo faceva sparire tra i ragazzoni in divisa scura, che lo portavano via. Alla fine è stato sloggiato perché non pagava da un pezzo il suo affitto calmierato. Forse quella cifra irrisoria era davvero l’unica cosa rimasta della sua infanzia.

Nessuno sa che fine abbia fatto il mastino, né la donna (la Iside bionda) che risaliva le scale con gli zatteroni ai piedi e le buste della spesa.

In chat, Bruno ha accolto la notizia con una solidarietà un po’ ironica: e io che avevo comprato casa per sfuggire a quello lì! Neanche il tempo di trasferirmi e sono andati a sfrattarlo. Non ha scritto altro, e io ho disattivato da un po’ le notifiche al suo profilo, ma di lì a qualche giorno, prima che potessi impedirlo, mi è balenato davanti il post di un suo amico. Era uno che un tempo sapeva “una mezza cosa” di me, e adesso linkava a Bruno con nonchalance un articolo sul paese della Biondissima. Mica una roba qualsiasi: una curiosità su come allevavano lì i bambini. Il primo commento, in perfetto italiano, era della Biondissima in persona. Anche Bruno ha replicato con fare da esperto, dando lezioni nella lingua di lei che stava imparando così bene. In quella stessa lingua stavo guardando a spezzoni un thriller sottotitolato, ma da quel momento in poi l’ho lasciato a metà. Da allora, e per quasi un anno, sarei riuscita a seguire solo distopie e saghe fantasy.

Adesso che l’amico agente immobiliare mi ha riaccompagnato a casa, dopo che mi ha visto lasciare la mia pizza a metà, ho osservato attraverso i suoi occhi il mio tatami, mezzo sfatto e puzzolente di candele alla ciliegia. Da bravo milanese, l’amico ha polverizzato con lo sguardo anche il panettone al cioccolato, che ormai pugnalo solo quando mi scoccio di scavare con le dita.

“Stai sparendo” ha constatato, esasperato dall’ostinazione con cui ignoravo la mia fortuna, la casa nuova che mi aveva spuntato a un prezzo ridicolo.

È stato a quel punto che mi ha trascinato in salotto e mi ha schiaffato su una poltrona rivestita di velluto, piazzandomi davanti questa sedia altrettanto brutta.

“Bruno è seduto qui” mi ripete un’ultima volta, poi ordina: “Digli tutto ciò che devi. Ora”.

Dev’essere qualcosa che sta studiando per diventare terapeuta, e io sono troppo debole per opporre resistenza, così finisco per dire un sacco di cose a quella sedia che non è Bruno.

Gli dico che un conto è non amarmi, e un altro è mettermi da parte appena non gli servo più.

Gli dico che siamo stati due scemi. Che quella canzone napoletana che ho scoperto a Natale scorso, “Uccidimi”, non andava certo presa alla lettera.

Soprattutto gli svelo la scoperta che ancora non mi perdono: la mia sopravvivenza è più importante di lui. Gli dico tutto questo.

Per tutto il tempo, però, non dimentico mai di star parlando a una sedia.

A venerdì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

La vita fa sempre il bis

Da errenskitchen.com

Prima viene l’acqua.

Stringo le gambe al petto come per sottrarle alla corrente, e i muscoli dello stomaco si contraggono per la posizione innaturale, che è la più naturale di tutte. Sento i crampi, sento le ginocchia affondate in angoli dello sterno che sono diventati una filigrana per le ossa. Non piango più, e smetto presto anche di urlare. Mi graffiano la gola versi che non conosco, che non ho mai sentito, ma che forse (idea assurda) ha sentito mia madre, mentre galleggiavo nel suo grembo in attesa di vivere.

Apro gli occhi e ritrovo il buio della stanza. Li richiudo, e sono in alto.

Sono sull’acquascivolo, a quindici anni. Accanto a me c’è l’amica che mi ha trascinato lì sopra. Odio l’acqua in faccia, so già che affogherò. Non sono fatta per le sensazioni intense, rischio davvero di annegarci dentro, ma l’amichetta non lo sa: lei aspetta solo il segnale del bagnino, poi si butta con lo stesso sorriso che sfodererebbe davanti a un cono gelato. Io la imito solo perché non saprei tornare indietro. L’unica è buttarsi.

Così soffoco. Ho l’acqua in faccia, a un certo punto la respiro ma è acqua, mi fa tossire e non finisce mai, mentre io ho finito il tempo. Non arriverò mai alla fine di questo scivolo. Mentre mi rassegno alla mia morte a quindici anni, la schiena che scendeva in picchiata arresta la sua corsa obliqua, e il corpo si ferma. L’acqua scompare.

Sono arrivata alla fine dello scivolo. Sono a terra, sono viva. Ho la vita davanti.

Con la vita davanti mi sollevo dal tatami che puzza di resina e candele alla ciliegia. Ho vinto il dolore lasciandolo entrare. Il dolore non lo vinci, lo accogli. È solo allora che puoi fare tutto il resto.

Questa scoperta è la svolta vera: quando smetto di resistere al dolore lo accolgo nei suoi capricci, nelle esigenze che ha. È da lì che la mia vita peggiora sul serio, e corre anche il rischio di migliorare.

Una sera, smanettando al pc, mi sciroppo una versione hollywoodiana di Biancaneve: il cacciatore si allea con la protagonista, per sconfiggere la matrigna. Guardo abbastanza a lungo da affezionarmi all’atletico cacciatore, e all’interesse sfacciato che nutre per la sua alleata… Mi sto divertendo sul serio, finché non entra in scena il principe.

Ecco qua, la favola terminerà come al solito. Perché le storie devono finire sempre allo stesso modo? Cosa c’è di sbagliato nei finali che mi invento io? Accolgo la scena del bacio con un conato di vomito, ma Biancaneve non si sveglia. Apre gli occhi solo dopo che a baciarla è il cacciatore. In realtà il finale è aperto, posso addirittura sperare che questa Biancaneve qui si sia svegliata da sola. Basta che non sia la solita storia.

Sì, ho quasi trentatré anni e spacco il capello a una favola.

È che la razionalità mi ha rotto. Invece di contattare la Strategica per altre baracconate, invito a cena un amico che di mestiere fa letteralmente il guru, e forse per questo non naviga nell’oro. Così lo trascino nel mio melodramma al prezzo di una zuppa cinese. Ho intuito che seguire il mio corpo, qualsiasi cosa significhi, vuol dire anche circondarsi di gente che sappia ascoltare. Siamo nello stesso ristorante in cui ho celebrato il compleanno, e ho visto Bruno pendere dalle labbra dell’amica Occhiblù. L’amico guru capisce subito due cose: una è che gli toccherà finire anche il mio piatto (il che non gli dispiace), e l’altra è che il tipo “brillante e bizzarro” di cui gli sto parlando è Bruno. L’ha visto una volta sola, e gli è bastata a indovinare.

“Quello che mi sento di dirti” borbotta il guru a bocca piena, “è che il tempo è dalla tua parte”. E pesca un altro tagliolino dalla zuppa vegetariana. “Bruno adesso crede di aver trovato una che gli risolva i problemi, ma i problemi che ha con sé stesso non si risolvono così. Affioreranno, e avveleneranno la nuova storia”.

A quel punto glielo confesso: nei rari momenti di lucidità, alla Biondissima do al massimo tre mesi. “Solo io” potevo restare di più. Ne faccio ancora un merito, una capacità acquisita di cui non voglio liberarmi.

L’amico accetta questa mia debolezza insieme al riso che non riesco a finire. Prima di spazzolarlo, sentenzia:

“Se non impariamo una lezione, la vita ce la ripete”.

E sfodera un sorriso che vorrebbe essere illuminato.

A me, però, risulta solo un po’ sadico.

A mercoledì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Progetta un sito come questo con WordPress.com
Comincia ora