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Risultati immagini per felafel  C’era una napoletana, un pugliese e un marchigiano al ristorante.

No, niente barzellette, ma ero stata invitata coi due di cui sopra da una coppia di amici settentrionali (entrambi coi genitori di giù) che avevano aperto un locale e ci avevano lanciato il fatidico: “Veniteci a trovare, questo sabato!”.

Senza scomodare i divertenti cliché del Terrone fuori sede, il pugliese e io ci saremmo aspettati almeno uno sconto sulla cuenta, o qualche degustazione omaggio.

Invece avevamo dovuto sborsare l’esatto importo delle ordinazioni, a parte un chupito di quelli che a volte offrono perfino gli autoctoni.

Il “centroitalico” non capiva di che ci lamentassimo: pretendevamo che la gente lavorasse gratis per noi? Noi ammettevamo che la logica “io ti regalo la cena, così torni e mi fai pubblicità” nasconda uno scambio d’interessi reso più accettabile dall’assenza di denaro.

Nel dubbio, ripetevo che nessuno fosse mai morto di gentilezza.

Se al nostro dibattito antropologico si fosse aggiunto qualche spagnolo, sapete che avrebbe fatto? Con ogni probabilità, avrebbe sfottuto gli italianini e ricondotto il tutto al luogo comune più gettonato tra gli iberici: “State sempre a parlare di cibo”.

Non lo smentirò, perché ora cambio scenario ma non argomento. L’altra sera, infatti, spinta da una pioggia impossibile sulla Ronda di Sant Pau, mi ero finalmente addentrata in una tavola calda araba che mi aveva sempre incuriosito.

La vetrinetta che mi aveva accolto all’interno sembrava piuttosto incongruente con le foto dell’insegna, comunque ci avevo provato.

– Avete felafel?

– No – mi aveva spiegato un signore gentile. – Qui facciamo cucina algerina.

Ok. Felafel: non algerini.

– Allora vorrei del mutabbal [crema di melanzane simile alla melitzanosalata greca].

– No, no – aveva insistito il signore sorridente. – Qui facciamo cucina algerina.

– Scusi, ma il mutabbal lo sponsorizzate nell’insegna.

– Ah, no, quella era l’altra gestione.

A parte il fatto che non ci vuole niente a rimuovere un’insegna messa giusto sullo stipite, e ad altezza mia, ho dovuto riconsiderare le mie nozioni sulla cucina araba. E adesso vi coinvolgerò nella mia figura di merda.

Perché, come uno spagnolo ci chiamerebbe tutti italianini, e liquiderebbe le nostre differenze culturali con il comune parlare di cibo, spesso noialtri non abbiamo problemi a credere che gli algerini siano uguali ai libanesi, uguali a loro volta ai siriani e, già che ci siamo, ai turchi. Tutti costoro sono identici, che ve lo dico a fare, a pakistani e bengalesi, che possono essere musulmani tutta la vita senza mai aver visto un arabo o provato un felafel (infatti i più scadenti, per me, li offrono loro, assaggiate invece il naan). E liquideremmo le loro enormi differenze culturali con un “Sempre a parlare di religione, voi!”.

Allora perché siamo così pronti a sproloquiare sulle nostre differenze, su quelli del sud e del nord, e poi non capiamo che sono molto diversi anche gli altri? Lo sono anche gli “occidentali”, che andiamo mischiando tutti nello stesso calderone.

Vorrei presentarvi quella brasiliana che a una festa dichiarò: “Voi europee non sapete muovere i fianchi”. Parlava a me, a un’olandese, una svedese e una rumena. Europee a chi? (Comunque preferisco l’ondeggiare leggero della tammurriata allo scuotimento ossessivo di chiappe, ma so’ gusti).

Ma no, noi vediamo un solo Oriente, che a stento distinguiamo da un unico mondo arabo. Vediamo un solo velo, parola unica che descrive una ventina di modi di chiamarlo, con altrettante fogge e un diverso modo di usarlo (a proposito di “imposizioni”, lo sugaring che ci fanno pagare oro altro non è che una ceretta araba millenaria).

La varietà esiste solo tra Milano, Roma e Napoli, non tra Beirut, Tunisi e Karachi.

“Tutti uguali, voi italianini, sempre a parlare di cibo!”.

Ma come generalizzano, gli altri, quando gli stranieri siamo noi.

 

 

 

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Immaginate di giurarvi: da oggi in poi faccio solo quello che dico io.

Non ci sarà tentazione che tenga, attività ben remunerata che rischi di darmi anche prestigio (come se le due cose insieme non fossero conciliabili), non ci sarà senso del dovere o senso di colpa che mi allontani da quello che davvero mi rende felice, che “mi fa brillare gli occhi”, come recitano i meme più melensi.

E poi arriva il messaggio.

Ex collega di 5 anni fa.

Ciao, quanto tempo!

Sì. Non ci vediamo da quando provasti a insegnarmi come si fa il caffè.

Senti, nella mia azienda cercano personale di madrelingua italiana, come te.

Ok.

Che sappia scrivere bene in inglese almeno quanto te.

Ok.

La paga iniziale è 2300 al mese.

Adesso, so che per voi “l’estero” è l’Eldorado, ma a Barcellona se ti offrono più di 1200 netti stai già ballando la macarena sulla Rambla.

È molto flessibile. Dopo tre mesi puoi lavorare soprattutto da casa.

Vabbe’, allora portami direttamente sul Getsemani e mostrami lo zoccolo caprino.

Mezz’ora dopo torno dai miei, che riposano nel mio soggiorno barcellonese esausti per la passeggiata.

– Ragazzi, ho tante novità!

Primo problema: loro non concepiscono che una che sia scesa da sola a prendersi un caffè (o qualche intruglio hipster spumoso), possa tornare con delle novità. Potenza di facebook.

Racconto la proposta, aspetto che facciano gli occhi a cuoricino e dichiaro:

– Ho chiesto se hanno il part-time, se no la rigiro ai miei amici.

Non si arrabbiano manco più. Sono abituati. Adesso la buona notizia:

– Invece, mi sta andando in porto il corso di dolci senza ingredienti animali! Avrei una clientela più specifica rispetto alle lezioni d’italiano che offrono i miei colleghi. E mi resterebbe tempo per scrivere. Adesso scusate, ma avviso dell’offerta i miei amici con le pezze a culo.

– Ma aspetta che ti dica se c’è il part-time! – prova mamma.

Considero la sua obiezione, poi spiego:

– Sì, ma tra me che già ho un po’ d’entrate e degli amici che cercano disperatamente, forse questi ultimi avrebbero diritto a una chance.

– Scusa – sempre mamma. – Ma come fai ad avvisarne più di uno? Poi il lavoro chi se lo piglia?

Butto gli occhi al cielo.

– Ragazzi, qui funziona così. Facciamo rete, ci aiutiamo tra noi. Esce un lavoro che non ci interessa? Avvertiamo tutti gli amici che potrebbero apprezzare e chi se lo aggiudica, auguri.

Non dovrebbero neanche stupirsi, penso. In paese non è insolito che una “sensale” porti contemporaneamente due aspiranti badanti, per non farle litigare. L’imbarazzata famiglia italiana le valuta in mezz’ora e quella scartata è pure triste di non lavorare sottopagata 24 ore su 24, con pausa domenicale a farsi fischiare dietro dai vecchietti nel parco.

Nella civile Barcellona, allontanandomi, sento mio padre dire:

– Ti rendi conto che tra mia madre e mia figlia è cambiato il mondo? E senza che la nostra generazione l’abbia vissuto.

Già. Dalla maestra che era la nonna mia omonima, di ruolo dopo il diploma, sposata a 20 anni, tre figli e una morte precoce oggi almeno posticipabile, si passa alla nipote che vive a due ore d’aereo e già sa che nessuno le pagherà la pensione, ma non si preoccupa troppo perché tanto stiamo tutti nella merda.

E nella merda ci aiutiamo. Forse proprio questa nonna che non ho mai conosciuto sarebbe insorta a ricordare che, se ci si è aiutati tra bombardati e sfollati, se ci si è rifatti una vita dalle macerie, con tutte le contraddizioni e le italiche passioni per ambiguità e ipocrisie, a maggior ragione si può mostrare solidarietà nella generazione dell’iPhone 7.

E rinunciare perfino all’ambita sicurezza, per la gioia di non aver sprecato la giornata.

Comunque non avevano il part-time.

https://www.youtube.com/watch?v=zBFhFtFEM18

Così ho ribattezzato l’occasionale spedizione al mare che faccio a Barcellona. Occasionale perché in spiaggia non ci vado quasi mai, e quasi mai in modo programmato. Preferirei finirci dopo le lezioni pomeridiane che do accanto alla Barceloneta, ma ammetto di non aver assecondato granché questo proposito.

Allora, quando mi sono resa conto che erano due anni che non facessi un tuffo, mi sono detta ma sì, una giornata alla Mar Bella (la spiaggia, non la città!) non farebbe male.

E allora è sorto il problema: dove minchia ho messo il mio costume. No, perché a Barcellona il topless è così diffuso da diventare la prassi e si fa molto nudismo. Con queste opportunità, infilarmi quei due pezzettini di nylon infiammabile, col pezzo di sopra che mi mangia la schiena, diventa l’eccezione.

L’ultima volta, due anni fa appunto, mi ero data appuntamento con un amico dell’associazione in quella stessa spiaggia, e avevo perso mezz’ora a rovistare tra vecchi mobili per trovare almeno un costume dei due-tre non schiantati dal tempo. Avevo rimediato il pezzo di sotto, che tanto sopra capirete, ‘na canottina 012 mi andrebbe larga, scapole da quarterback a parte.

Be’, quando ero approdata finalmente alla spiaggia il mio amico non si trovava da nessuna parte. Cerco e ricerco e… Dove stava? Dietro la collinetta dei nudisti! “Ma vaffanculo!”, gli ho detto ridendo.

Insomma, la trova costume è l’unica sfida che concedo all’estate, e per motivi pratici: se riusciamo a trovare posto nella spiaggia nudista, possiamo scegliere cosa fare. I nudisti, che spesso sono splendidi ragazzi gay che non mi cacano proprio, sono più democratici dei costumisti: che tu ti metta nuda o in burkini, per loro sticazzi. Anzi, a me il burkini fa piacere per quelle pakistane che si buttavano a mare con tanto di velo, hai capito così che fastidi risparmiano?

Peraltro, su quella stessa spiaggia il mio ex pakistano, fresco di permesso di soggiorno, mi aveva chiesto il favore di “rimanere vestita, perché ho detto ai miei amici che tu sei una brava ragazza, il costume non te lo metti”. Cioè, questo a starsene rintanato nel Raval per sfuggire alla polizia non aveva neanche acquisito l’informazione che la cosa anormale fosse andare vestiti, in spiaggia, consuetudine che alternavo al nudismo senza mezze misure (o senza misure di mezzo). Per sua fortuna, quando me l’ha chiesto era una giornata di vento. Vedete? A volte è proprio questione di disinformazione.

Nel caso della mia visita balneare della settimana scorsa, ho ritrovato addirittura il pezzo di sopra: era nello scatolone dei reggiseni che non uso più, perché preferisco respirare. Avete notato che le taglie italiane sono un bluff? Nel resto del mondo un numero solo non basta, abbiamo schiena e volume zinne e non tutte sono disposte a soffocare in uno solo di questi parametri.

Comunque ero lieta del mio ritrovamento archeologico e ho voluto provarmi il reperto.

Ci credereste? Finché ero come mamma mi ha fatta, tutto ok. Ero io, mi presentavo in tutto il mio splendore di depilazioni approssimative e smagliature di battaglia, testimoni di periodi sentimentalmente meno felici. Ero io e la mia storia. Appena mi sono messa il bikini… Eccallà! Il brasiliano mi si è incassato tra fessure remote, suscitando confronti non richiesti con le foto ossute degli annunci pubblicitari. Allora mi sono dovuta ricordare che tra culetto e pastasciutta, se proprio dev’essere un aut aut, mi tengo la seconda. E il reggiseno imbottito ad arte da Philippe Matignon mi ha rimproverato per non aver provveduto geneticamente a ottenere quell’effetto. Se avessi avuto abbastanza materiale per la forza di gravità, mi avrebbe rimproverato l’ostinazione a seguirne le inesorabili leggi.

Insomma, finché era in corso la trova bikini a cercare ero io, senz’altre complicazioni. Col bikini addosso, ecco che le case produttrici di costumi, come quella della garota de Ipanema, e gli stilisti che odiano il corpo delle donne, e i cinque anni di inserti di Cioè su come “minimizzare i difetti” (che ai tempi erano tutto quello che non ci facesse somigliare a Claudia Schiffer) mi sono apparsi davanti dopo anni di cordiale freddezza reciproca, armati di palette coi voti sopra, chiedendomi sornioni: “Be’, la vogliamo fare, questa prova costume?”.

Anche no, ho risposto. Mi sono infilata il vestitino di una crisi amorosa fa, ormai ridotto a copricostume, i sandali eleganti ma usurati che avrei finito di strappare in spiaggia, e mi sono avviata col mio ragazzo combinato più o meno come me.

Ora, è stato divertente ingannare a ora di pranzo il proprietario del libanese sulla Rambla del Poblenou, che dai sorrisoni che mi faceva si dimostrava convinto che avessi le tette (“Non ci torniamo più”, ha tuonato il mio ragazzo, ma per una storia di felafel surgelati).

Però è stato ancora più simpatico scoprirmi e ricoprirmi a seconda del posto e della praticità, degli spazi liberi nell’area nudista, prima della pausa pranzo e della necessità di passare in zona costume.

Insomma, la trova costume mi sembra più divertente e sostenibile della prova costume.

Ma è quello che succede con la moda, col consumismo, con tutto ciò che si permetta di darci delle lezioni su cosa dovremmo essere e come.

Finché siamo nudi, siamo perfetti, nel senso latino di compiuti, interi: siamo noi.

Appena cominciamo a metterci cose superflue, cominciano anche i problemi: il costume ci ricorda che c’è uno standard e non lo stiamo rispettando.

Dando per scontato che dovremmo.

Il trucco è prendere il postulato per le corna e rispedirlo al mittente. Tornare a essere noi. In costume o senza. In bikini o burkini. O nude.

Siamo sempre noi che dovremmo decidere ogni volta cosa vogliamo essere e come.

Infatti, all’ennesimo post della clinica spagnola di chirurgia estetica (intitolata a un’eroina locale) che consiglia quale costume si adatti meglio al nostro corpo, potete trovare il mio commento: “El nudismo es la solución”.

E ho preso pure qualche like.

Risultati immagini per barcelona paella sangria  Eccomi qua. Mi aggiro per le stanze, cercando di riconoscerle. Camere in affitto vs camere dell’infanzia, lasciate da poche ore insieme alla famiglia radunata in corridoio per abbracciarmi.

Scendendo all’una di notte dalla navetta dell’aeroporto a Plaça Espanya, lo zaino che mi ballava sulla schiena, ho stretto il braccio al mio ragazzo:

– Siamo tornati a casa.

Lui ha guardato i gradoni bui di Montjuïc, odorosi di un’erba che non avvertivo (ho un raffreddore da cavallo) e ha specificato:

– Siamo tornati a casa, da casa.

È il paradosso nostro, e dei tanti come noi.

Che in aereo ascoltano come noi gli scherzi facili dei connazionali che volano a Barcellona per turismo, e possono ancora fare giochi di parole sulle indicazioni che non capiscono: “Estamos llegando a nuestro destino” diventa “È l’ora del nostro destino”, che rende ancora più inquietante un atterraggio che noi non siamo più tentati di applaudire, visto che viaggiamo spesso e atterriamo sempre.

E allora, davanti a questi ragazzi che chiamano vacanza quello che per noi è vita quotidiana, con la differenza che per noi non è tutta mojitos e fiesta en la playa, davanti a loro sorgono domande esistenziali tipo:

– Ti ricordi quando eravamo italiani?

Intendiamo quegli italiani, quelli che non devono restare, solo godersi questa cartolina turistica e ripartire, al massimo scrivere sulla pagina Gli italiani a Barcellona per chiedere “info sul lavoro lì”, subito bersagliati dagli insulti di chi è restato e lotta ogni giorno con la precarietà.

Già, perché restare non è che ti migliora la vita, o non è così ovvio. È il paradosso che cito sempre del libro di Claudia Cucchiarato, Vivo altrove: chi parte non è che si mette a posto, eh, anzi. Magari non vive coi suoi a 30 anni, ma spesso condivide con due semisconosciuti un appartamento che mantiene lavorando in un call center, con l’unico lusso di non prendersi Erasmus in casa: troppo rumorosi, troppo sporchi, troppo entusiasti per chi ha avuto la malaugurata idea di trasformare in casa il teatro di una vacanza sempre più lontana nel tempo.

Ma chi resta perché lo sa, non corre questo rischio. Parlo di chi sa che tornerà sempre a casa, da casa. Perché ha imparato a caricarsi nello zaino tutto quello che gli serve e ci starà bene dappertutto, e ha smesso di chiedersi “come l’accoglierà questo nuovo posto”, capendo che i posti non accolgono, gli vai incontro tu e vedi se ti ci puoi adattare.

Io per la verità ho trovato il ripostiglio allagato, segno che questa casa comincia a non accogliere me come un tempo. Che la padrona di casa sarà anche gentile, ma lotta da anni con la vecchiaia di un piso ereditato forse da un padre coi calli alle mani e poca pazienza con le autorizzazioni, come tanti padri costruttori del mio “nuovo” quartiere.

Le macerie della mia vecchia vita, vecchia di una settimana fa, mi accolgono tali e quali a come mi hanno cacciata: i soldi rovesciati a terra nella fretta di trovare il caricabatterie, la finestra che incornicia una fetta di tetti e di mare, solcati dall’occasionale sventolio della busta appesa ai fili del bucato, per spaventare i piccioni. Oggi sembra svolazzare al ritmo dei pianti del solito neonato, che purtroppo no, in questi sette giorni d’assenza non si è svezzato, laureato e sposato, come auspicavo (ho scoperto che svezzarsi esiste, come riflessivo: vuol dire togliersi un vizio, e questo l’abitudine di piangere a tutte le ore proprio non l’abbandona).

Il mortaio è ancora nella bustina di cellophane, sul tavolo in soggiorno: l’avevo portato alla lezione pre-vacanze al mio alunno più bravo, un americano volenteroso che studiava italiano per comunicare con su pareja.

Il giorno prima di partire mi avevano mandato le foto della pasta fatta col pesto ricavato dalla lezione, il risultato più concreto che abbia mai ottenuto insegnando italiano.

Si sono lasciati mentre ero via, lui mi ha messaggiato per “sospendere” le lezioni, almeno finché non trova casa.

È quello che succede a parlare una lingua stupenda, ma pleonastica, nell’economia mondiale.

Speriamo riprenda. È proprio bravo.

la finestra di fronteUn pomeriggio degli anni ’60, in un paese vicino Napoli che si atteggiava un po’ a città, una bambina aspettava seminascosta sulla soglia del suo portone. Era una bimba sana e bruna, sarebbe diventata una bella ragazza, avrebbe sposato un uomo buono e un po’ eccentrico e avrebbe fatto tutto bene nella vita, tranne sua figlia. Era educata e tranquilla, con le sue curiosità di bimba, ma senza conoscere l’inglese, che ai tempi a scuola si studiava il francese, sapeva che curiosity killed the cat.

Quel pomeriggio, però, aspettava curiosa. Aspettava le vicine.

Erano signorine, un modo educato ai tempi per non dire zite. Già che vivessero senza un uomo vicino era strano. Ma la cosa più strana non era quella. Era un dettaglio impensabile che faceva girare la gente per strada, una cosa mai vista, forse qualche volta in televisione, ma nel mondo a colori mai.

Portavano i pantaloni.

E la bambina a volte si nascondeva apposta per osservare il prodigio.

Un pomeriggio degli anni ’10, ma del millennio successivo, sua figlia passava per una strada di una grande città europea, molto lontana dal paese. Era troppo bionda per essere sua figlia, ma somigliava troppo all’uomo buono ed eccentrico per non esserlo, quindi concludevate che si tingeva un po’ i capelli. Era “signorina” anche lei, per scelta, a volte sua e a volte di altri. Ma non amava i pantaloni, infatti aveva la gonna.

Passando tra un nugolo di ragazzini in monopattino, un po’ di fretta perché era diretta al cinema, riconobbe il suo piccolo vicino, quello che ogni tanto litigava con la mamma in una lingua tutta aspirata, ma poi parlava spagnolo come lei non avrebbe mai potuto. Il ragazzino la vide da lontano e le corse incontro, chiamandola per nome e mostrandosi orgoglioso di conoscerlo. Lei non fece in tempo a chiedersi come lo sapesse (non si erano mai presentati) che si ritrovò l’attenzione dei bambini.

– Sei italiana, vero? – fece una che già andava per i dodici e le aveva bussato una volta per chiederle le chiavi del terrazzo comune. – E ti chiami… – ripeté il nome.

– Sì, e tu?

– Rosa – fece la piccola marocchina, bella figliola.

Un bimbo filippino all’angolo fermò il monopattino.

– Sei italiana, quindi?
– Sì.
Buongiorno.

E lei allora ricordò come sapevano il suo nome. Degli ospiti, sulle scale, avevano chiesto di lei al bambino, che ci aveva messo un po’ e poi aveva detto “Ah, l’italiana!”.

Così scoprì di essere diventata l’italiana.

Si chiese allora se il bambino araboeuropeo lo incontrasse per caso, a volte, sulle scale, o si appostasse anche lui a osservare la vicina italiana che viveva senza un uomo in soffitta, vicino a un terrazzo di cui non aveva le chiavi.

Si chiese anche, a questo punto, se le chiavi non se le fosse procurate lui, le notti che sussultava spaventata nel sentire la porta del terrazzo aprirsi e nessuno entrare. E si domandò se non la sentisse pure emettere quei suoni strani che lui non doveva fare più da molti anni, da quando la mamma aveva cominciato a dirgli che era troppo un ometto per frignare come una signorina.

Se lo chiese un’ultima volta, curiosa, prima di entrare nel cinema.

Ma il film che vide, in inglese sottotitolato, non conteneva in nessun momento la frase curiosity killed the cat.

(un’italiana che vale gli appostamenti)
http://www.youtube.com/watch?v=imFb2BsdSeU

finestra sole Quando ho visto la casa da cui vi scrivo, sono rimasta folgorata.

Letteralmente, perché la prima cosa che ho visto, dall’ingresso angusto su cui gli ospiti alti lasciano sempre un po’ del loro senno, è stato l’angolo di parete bianca che ho lasciato tale e quale, sguarnito ad accogliere l’abbondante sole del terrazzo. Per il resto, l’appartamento era uno sputo, il bagno sarebbe stato stretto per la mia casa di Barbie, in paese, e l’affitto, trattandosi del primo buco che fosse tutto per me, era inquietantemente alto, per una che aveva finito la borsa di dottorato da novembre e faceva un part-time in un ufficio.

Ma quando appunto, dopo la visita, mi sono recata al lavoro, ho detto subito alla mia collega che avrei smesso di cercare, habemus casam.

È stato per due sensazioni, simultanee e differenti, che forse avrò già descritto.

La prima, l’odore di pane abbrustolito. Che ovviamente non proveniva dal cucinino a due fornelli malamente collegato a una bombola arancione, ma da qualche parte della mia testa che era rimasta a Capri, alla casa che i miei zii si erano comprati in preda a un colpo di fulmine simile, tutta in salita e tutta da rifare, coi loro stipendi statali. Ma poi ci avevano costruito alcuni dei momenti più luminosi della mia prima adolescenza, accompagnati spesso da pane abbrustolito e marmellata d’arance fatta in casa.

La seconda, La Bohème. Io e Mimì non abbiamo proprio niente da spartire, in realtà, ma quando sta facendo ancora la civetta con Rodolfo, disegnando ghirigori nell’aria con la gelida manina, dice di vivere sola soletta, là in una bianca cameretta, tra i tetti e il cielo… Sì, proprio asteco e cielo, come dice mio padre sconsolato al pensiero del freddo che devo sentire in inverno. Ma poi, l’orchestra tace, e questa grisette smorfiosa diventa immensa e dichiara:

Ma quando vien lo sgelo
Il primo sole è mio
Il primo bacio dell’aprile è mio

E qui, che volete, scatta la lacrimuccia e lo spirito d’emulazione. Perché la mia dissimulata selvaticità mi porta a starmene spesso sola soletta, ma schiattate, il primo bacio dell’aprile, se permettete, lo voglio. Schiattate, o venite a farvi baciare pure voi, che dice che a non usare a lungo la Bialetti si rovina.

E adesso che cerco una casa da comprare e sono meno selvatica e la Bialetti la uso più spesso, cerco ancora il primo bacio dell’aprile. In termini più prosaici, cerco un attico.

Ma il colpo di fulmine non c’è ancora stato. C’è stata una curiosa coincidenza, la visita a un appartamento che stava proprio sopra al mio, il primo occupato nel Raval, in un palazzo a cui torno sempre per un motivo o per un altro, seguendo i fili di una lunga telenovela. A sentire chi crede in un ordine universale, se ci sono tante coincidenze un motivo ci sarà, o no?

Fatto sta che non c’è il colpo di fulmine. E mi manca, con l’irrazionalità che lo accompagna e mi fa amare ancora questa casa nonostante la mal dissimulata fatiscenza, e gli eventi spiacevoli a cui ha assistito ultimamente.

Poi, però, penso agli amori lenti. Quelli che non mi aspettavo e non ci speravo, verso cose e persone che prima mi suscitavano paura o insofferenza.

Il Raval, ad esempio. Quando dal Mercat de Sant Antoni mi sono spostata più verso l’interno, a Joaquín Costa, era uno scarto di 5 minuti, abbastanza da spaventarmi. Mi ero sempre trovata zone di confine, o addirittura un po’ anonime, per avere l’illusoria sensazione di poter provare tutti i volti di Barcellona. Il Raval aveva troppo di tutto, troppa personalità, troppa prevalenza d’immigrati, troppa sporcizia, troppi turisti. Abituata a una Barcellona insapore, ero assalita da odori forti, curry e urina, il pollo dei girarrosto, la menta che profuma tutto un tratto di strada, quando i fruttivendoli fanno provviste. Erano più rassicuranti i cinesi di Tetuan, gli anziani catalani che sindacavano su come buttassi la spazzatura, con quelli al massimo hola. Poteva mai, il Raval, diventare il mio barrio?

E tu fa’ che lo diventi, suggerì un’amica. E infatti l’amore per il Raval sopravvive a quello per questa casa, che pur mi appresto ad abbandonare. Ho provato a cercare in altre zone, ma no, al massimo la fine torno vicino al Mercat de Sant Antoni, che se attraversi sei nell’Eixample (…), ma sempre Raval è.

Se ci penso, infatti, gli amori lenti sono quelli che mi sono rimasti dentro, davvero. Credo che paragonare un uomo a una casa sia il più bel servizio che si possa fare, altro che mercificazione. D’altronde i rari casi di folgorazione che ho avuto si sono persi nel disperato tentativo di giustificarli, che le case le arredi come vuoi e crei una profezia che si autoavvera, mentre gli umani vengono già arredati di abitudini e manie. E c’è una clausola che impone di accettarle, o non ti ridanno la cauzione. Se gli amanti del colpo di fulmine avessero il tempo di provarne le effimere conseguenze, credo se ne accorgerebbero nella maggior parte dei casi.

Gli amori lenti, invece, si appiccicano addosso piano piano come l’odore di menta, come l’afa scongiurata da quest’aria di pioggia che mi fa scrutare ogni tanto l’amaca in terrazza, per vedere se si sta bagnando. Ti invadono la vita piano, per osmosi, come l’uovo al sapore di tè con cui fa colazione un’amica cinese, e quando se ne vanno è difficile farne a meno perché dovresti strapparti il guscio intero.

Il problema è che non puoi saperlo in anticipo, che lo diventeranno. Amori lenti, dico. Lo sapessi, ti prepareresti.

Da quando ho visto questa casa sopra la mia vecchia ne ho un ricordo come affettuoso, di un posto in cui sono stata, e vorrei tornare.

Quanti giorni di pioggia, scontri coi vicini, pomeriggi di sole, quante notti di lacrime o di sonno profondo, quante visite improvvise e sorprese preannunciate dovrei vivere, prima di sapere?

Magari non ci sarà neanche bisogno di aspettare tanto. Prima o poi, magari mentre starò a fare tutt’altro, saprò.

http://www.youtube.com/watch?v=DAhtAf2NMrE

stanliollioIo gliel’avevo detto, col cavolo che arrivava alle 18.30.

Ma in uno slancio d’ottimismo sono andata lo stesso quasi puntuale al terminale della Grimaldi Lines (che poi, a parte anziani e famiglie con l’auto, chi arriva più in nave a Barcellona? Ah, già, io, la prima volta).

Così ho aspettato un’ora, tra allegre famiglie con bambini che mi hanno ricordato che per queste faccende, figliare e prendere la Grimaldi Lines per andarsene in vacanza (ma anche no), ci vogliono cose tipo disciplina e costanza.

Cose che a un’italiana all’estero potrebbero mancare, vuoi per il precariato, vuoi perché c’è questa asincronia con chi è rimasto in paese a crescere più o meno come si era sempre fatto, mentre tu ti devi inventare un nuovo modo di farlo, senza passare direttamente a invecchiare.

Poi, quando l’ospite finalmente sbarca, col valigione enorme per i 10 giorni che deve coprire, capisci che a un italiano all’estero, spesso, manca un altro ingrediente fondamentale: l’amore incondizionato. Così diverso dalle amicizie bilingui con gente che non sai quanto tempo ancora resterà, o se ha uno spazio per te in agenda.

L’amore incondizionato, si diceva, che nasce in un’epoca molto precoce e si sviluppa nonostante il tempo, nonostante gli esami, che diventano pochi e deludenti colloqui di lavoro, nonostante le partenze e i ritorni, nonostante le morti, nonostante la vita.

Quello che ti fa amare “per quello che sei”, come dicono le canzoni, per cui sei sempre sciupato, ma mangi?, e non sei mai brutto, al massimo buffo.

E allora dividi grata con questo ospite la pasta di Gragnano presa al volo dal pako del Parlament, insieme a tutte le schifezze d’insaccati che non mangi più (“E ja’, piglia ‘nu poco ‘e salamino, nun l’hanno acciso, è muorto ‘e solitudine”). E riscopri tutti quei rituali del pudore della tua vecchia vita, che hai voglia a infiorarli e dire che il nudo è un dono e la donna un mistero ecc. ecc., ma ti sembrano sempre più ipocriti, deiezioni di una civiltà sessuofoba e triste che ha reso il corpo sacro perché non riesce a renderlo vero.

Ma un attimo prima di maledire questa cultura che malgrado tutto vi unisce, dall’altra parte del mare, scopri ridendo che il sarcasmo che accompagna le tue piccole sconfitte private, quello che a domanda “Come passi la giornata?”, ti fa rispondere “Be’, al mattino lavoro al libro e la sera mi taglio le vene”, è lo stesso degli amici rimasti , quelli non riamati o scaricati su cui vi ritrovate a ‘nciuciare:

“Che fai stasera?”, “Me votto ‘a copp’ ‘o ponte ‘e Arzano”.

“No, nun sto male, solo che si venesse quaccheduno e m’affogasse ‘int’ ‘o suonno, buono facesse”.

E allora ridi col sollievo di sapere che la persona che t’immagini vicino quando proprio non riesci a dormire, per una volta al risveglio ci sarà davvero.

PENTAX ImageNo, sentite, Beethoven oggi venderebbe cervezabeer a Barceloneta.

Non c’è più pathos, Sturm und Drang, poesia nel mondo. Una non può andare appena albeggia al porto di Barcellona, sparse le trecce morbide sull’affannoso petto, occhi rossi e gonfi e sguardo perso nel vuoto, che si ritrova tutto lo staff dei Mondiali di nuoto a seminare enormi cavi per tutto il molo? Con tanto di atroce versione in inglese di Aicha sparata a tutto volume dagli altoparlanti. Non puoi manco dire addio al mondo crudele e buttarti a mare, che sta l’intera Croce Rossa catalana in gommone a pattugliare non so cosa.

Accadeva un paio di settimane fa, con l’effetto di persuadermi definitivamente che di questi tempi la tragedia, oltre che inutile, è ridicola.

Venendo a più miti consigli, quindi, sono andata a Barceloneta. Tanto la traduzione dall’italiano al catalano non se ne scende granché, ad agosto, e allora mambo.

Anzi, no, pizzica. Era da un po’ che non ci pensavo, che secondo me si evoca col cuore leggero, ma poi ho pensato che in fondo generazioni di donne l’hanno usata, si dice, per cacciare pensieri pesanti il doppio dei miei. E poi c’erano queste onde ficcanaso e spumose, che si mangiavano la spiaggia artificiale all’ombra dell’Hotel Vela, che insomma, ho scartato i pochi nudisti e mi sono messa a battere pensosamente il piede nell’acqua.

Lu rusciu te lu mare è multu forte / la figlia te lu re si ta la morte.

Al che guardo l’enorme macchia grigiastra che minaccia le uniche due ragazze col pezzo di sopra (io l’unica vestita) e mi dico anche no, almeno a Capri, da piccola non mi spaventavano i fantasmi di Krupp, Fersen, Norman Douglas? Noblesse oblige.

E poi i versi seguenti, con la figlia te lu re che si marita, li vedo poco probabili, a meno che non acceda alla richiesta di Baba Ji che cerca moglie per farsi il permesso di soggiorno. Secondo il cameriere della pizzeria preferita, che racconta a destra e a manca di aver spuntato 5000 euro dalla sua russa (“due consumazioni obbligatorie a settimana”, o era al mese? spero al mese), io potrei aspirare a un bel po’. Dovrei sentirmi lusingata?

La figlia te lu re sta va a la Spagna.

Ma se lo sanno tutti, che Catalonia is not Spain! E se ce lo siamo scordati, ce lo ricorderanno tra un mesetto, l’11 settembre, quando i lavoratori di TV3 faranno sciopero e i nazionalisti catalani si indigneranno: non la festa nazionale, con l’indipendenza o stai a favore, o contro. Le stesse argomentazioni del 1918, giuro, quelle delle citazioni che almeno non devo tradurre in catalano.

Su la figlia te lu re, la zita mia, uno dei due nudisti può ammirare l’unica donna vestita in spiaggia volteggiare tra la spuma, che manco Venere uscita dalle acque e fatta tricheco.

Ok, meglio ritirarsi in buon ordine.

… e vola vola vola, palomma mia
ca jeu lu core meu
te l’aggiu dare.

Di questi tempi avere un cuore da dare già è un lusso.

iomammapapà2 Tempo di cambiamenti che non ho scelto. Il più fesso, figurarsi gli altri, è quello della casa. È stata la mia tana per due anni e ora non la sento più sicura. Magari siamo tutti paranoici da quando è morta la gatta, ma l’altra notte ho sentito qualcuno camminarmi sul tetto. Passi precisi e regolari, con incluso trasporto di oggetto inanimato (qualcosa che rotolava). Difficile pensare a un gabbiano sovrappeso. Quando ho sentito anche una specie di tonfo, come se qualcuno si calasse su qualche balcone, sono uscita di casa (alle 3 di notte) senza saper bene cosa fare.

Poi rinunce, a cose molto belle.

Così belle che ho pensato che per provare minimamente a compensarle ci vuole qualcosa di bello assai. Così non spreco manco energie. Come ho detto a un’amica di qua: “Tanto amor sin que nadie lo aproveche…”. Mio padre mi ha insegnato a non buttare niente.

Sto consultando pagine di volontariato. E nel Raval, stereotipi a parte, ce ne sono, di cose da fare. Fortuna che la gente è solidale, tra compaesani e correligionari sono l’altruismo personificato. Però ci sono i problemi dei poveri, famiglie disagiate senza soldi per coprire la loro vergogna, bambini da tenere a bada mentre entrambi i genitori lavorano… Mal che vada organizzo un corso intensivo di napoletano, così imparano la sottile arte del chitemmuorto.

Ok, per gli altri stiamo a posto. O meglio, per me che fingo di farlo per gli altri.

E per me, proprio me stessa medesima in persona?

Pensavo a una casa. E non coi soldi dei miei, che mi rassegnavo a invocare a 32 anni suonati, quando dai 18 ho chiesto un solo intervento per bollette impreviste. Un mutuo equivalente all’affitto che sto pagando, con loro che garantiscano per me, se me lo fanno fare. Così non mi metto scuorno di chiedere troppo e non volo basso con le case. In fondo 30 anni di speranza di vita che li ho, vado pure in palestra 4 volte a settimana. A pensarci bene la crisi ne ha fatto la mia unica risorsa costante.

All’affitto ci sono sempre arrivata, non vedo perché spendere i soldi a vuoto. E se sto con l’acqua alla gola, mi rassegno a vivere con altri. A 30 anni, col residuo della borsa di dottorato e i primi soldi del lavoro d’impiegata mi regalai un appartamento senza coinquilini. Basta appartamento spagnolo, Erasmus, la Bohème. Mi sembrava un indice di maturità.

Ora ho capito che vivere al di sopra delle tue possiblità può essere piuttosto un segno d’infantilismo.

Ho capito anche un’altra cosa, forse, un’ovvietà di quelle a cui arrivo sempre tardi. La controversa questione del sorridere anche in tempi avversi. Una forzatura disumana, sottolineava un amico su facebook. Non per me, che lo facevo costantemente per due motivi altrettanto sbagliati: o perché confondevo lo “star bene” col “fare cose”, o non riuscivo mai del tutto a star male, che è grave come quelle malattie per cui perdi la sensibilità e ti pugnalano senza che te ne accorga.

Ora ho capito, forse, che la questione è star male e imparare a sorridere “nonostante”.

Ve l’avevo detto, che era una banalità.

PS: L’ho scritto qualche giorno fa. Intanto ho scoperto che l’avallo può fartelo pure Bill Gates, ma finché non porti una busta paga col tuo nome nisba (lo so, sono di un’ingenuità spaventosa, ma sono in buona compagnia). E De Gregori non aveva ancora fatto l’intervista che manco ho letto, perché di lui ormai ascolto poche canzoni, tra cui questa.

requiemperunagattaNon aveva neanche un nome, questa cosa fondamentale per la mia specie, che per la sua si risolve con un grido riconoscibile. Il mio partiva sulla soglia della mia stanza, quando provava a sgattaiolarci dentro perché me la ritrovassi improvvisamente sotto al letto, a giocare con strani palloncini di cui m’ero scordata l’esistenza.

Ma era lei che possedeva me, nonostante il collarino che i “legittimi proprietari”, altro equivoco della mia specie, le avevano imposto da qualche tempo.

Veniva ogni tanto, poi spariva, poi tornava improvvisamente e non se ne andava più. È stata presa in braccio dal vincitore del Gaudí di quest’anno, un ex militante antifranchista che per lei era solo un pantalone nero su cui strofinarsi lasciando peli grigi.

E peli grigi si lascia dietro, insieme ad altri resti quantomai prosaici.

– Guarda là – mi fa il proprietario, sul terrazzo comune dell’edificio – io non ci credo che sia volata sei piani per un incidente. Evidentemente, mentre la uccidevano se l’è fatta addosso.

Ci sono versioni diverse. La signora del primo piano dice che era sfracellata al suolo, hanno dovuto chiamare quelli del comune a portarla via. I “legittimi proprietari” spiegano che è stata messa davanti alla loro porta, agonizzante, alle 7 del mattino. Pure il bambino del piano di sotto, quello che parla perfettamente spagnolo e arabo, sapeva che era morta, forse l’ha vista. È lo stesso che mi ha detto “Quello che comanda in questo palazzo ha cambiato la serratura del terrazzo comune e le chiavi le ha solo lui”.

Siamo al sicuro, bambino del terzo piano? E tu non dormi solo, come me, accanto a questo terrazzo comune che si scavalca con un salto.

Ma si parlava della gatta.

Che anche nelle mie notti da Llorona dei suoi ultimi 40 giorni mi guardava a distanza, col rispetto degli animali che sanno che uno di un’altra specie che non sta bene va lasciato in pace. Ai miei suoni sopiti e laceranti ricambiava coi suoi, a tutte le ore sotto la mia finestra, un lamentoso fammi entrare a cui non rispondevo neanche più nella sua lingua, ma nella mia imprestata: “Basta ya, calla!“.

Lei stava zitta solo sotto la mia amaca, che ogni tanto mi sembrava puzzare di piscio, mentre leggevo gli eterni libri di psicologia, antropologia e divulgazione d’accatto che prendo per capire un po’ chi sono e che farci con la mia vita. Senza accorgermi che le risposte erano tutte là sotto, nei suoi occhi grigi che mi osservavano ironici mangiare cose che non si sarebbe mai sognata di assaggiare, passare le ore davanti a una scatoletta nera non commestibile col sole che c’era, accoppiarmi con difficoltà e patemi d’animo e senza mai procreare.

E quella forza che secondo psicanalisti, antropologi, sensitivi, scienziati, ci guida istintivamente con sapienza ancestrale, conoscendo il cammino o intuendolo con facilità, quello che si chiama istinto o anima a seconda del grado di poesia, per me aveva ormai i suoi occhi.

Ed è tutto quello che le posso dare, e che lei mi può dare ancora.

Ho deciso che, per quanto sta in me, io sarò la gatta. La que sabe, quella che non sta zitta, che prende notte e giorno come vengono e finché c’è da mangiare non si lamenta mai.

Quella che sa che tutte queste cose sono molto più importanti di un nome.

Nomina nuda tenemus.

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