Archivio degli articoli con tag: affrontare le paure

Future-thresholdÈ da un po’ che sento amici che vogliono andarsene da Barcellona, o cambiare casa e lavoro, o lasciare l’Italia. Ma non ci provano sul serio.

Non ci riuscirebbero sicuro neanche se ci provassero, figurarsi a starsene lì, titubanti, sulla soglia di una vita che immaginano solo, senza avere il coraggio di inseguirla.

Anche io ho deciso di dedicare il mio tempo a scrivere, ma c’è sempre qualche altra cosa a distrarmi: un esame per ottenere qualche diploma, un’emergenza sedie alla sagra della Caciotta Fetecchia, un amico in difficoltà che deve proprio sfogarsi con me…

L’importante, sembra, è restare sempre sulla soglia di quello che si vuole fare, sospesi tra due mondi. Tra questo che non abbiamo ancora lasciato, e di questo passo non abbandoneremo mai, e un altro che però non rincorriamo sul serio. Ci limitiamo a renderci impossibile la vita di tutti i giorni, a rifiutare qualsiasi lavoro serio perché “tanto tra poco parto”. E non partire mai perché “non lavoro e non ho abbastanza soldi”.

Il peggio forse è quando dal nostro conflitto interno dipendono in qualche modo le scelte di altri, della fidanzata che vorrebbe sapere se partiamo o restiamo, dell’amico che ci propone di aprire il famoso bar sulla spiaggia, e intanto che ci decidiamo perde soci realmente interessati. E l’elenco proseguirebbe all’infinito.

Cosa otteniamo, restandocene sulla soglia? La certezza di non fallire. Affidando i nostri desideri alla botta di culo: il posto che si libera a Dresda o il Grande Amore della Nostra Vita che ci costringe a restare in loco per tutti i cinque minuti che durerà.

E se aspettiamo la botta di culo, siamo certi di non sbagliare mai: potrebbe venire come no, e intanto si vivacchia con questa mezza speranza, come i vecchietti al banco lotto catalano, che aspettano di vincere da quando erano giovani e capaci di cambiarsi la vita da soli.

E se invece di giocare con la sorte ci rispettassimo? Facciamoci la fatidica domanda: “Se fallissi, sarebbe questo grande problema?“.

No. Se falliamo facciamo un’altra cosa. O torniamo indietro e ricominciamo. Perfino quello sarebbe meglio di quest’inattività travestita da movimento.

Muoviamoci davvero. In una direzione o nell’altra.

Quando sentiamo di doverci muovere, non importa neanche quale strada prendiamo. Se siamo così indecisi, o le strade si equivalgono, o ce n’è una che abbiamo paura a prendere.

Ma anche prendendo quella sbagliata, prima o poi ci arriveremo.

L’importante è non restare sulla soglia.

https://www.youtube.com/watch?v=G3Ac3Pc8etA

funny-haircuts-facebook-styleCon la mia parrucchiera mi faccio un sacco di risate. È una ragazza di Miami, originaria della Costa Rica, che quindi parla uno spagnolo eccellente ma con l’accento di Stanlio e Ollio. Scherzi a parte, è proprio brava, immune a quel taglio anni ’80 che qua a Barcellona continua a essere l’ultima sensazione.

Lei, poi, ci tiene tanto, al suo lavoro. Si studia il taglio che vuoi (se le parli dell’acconciatura di un film se la cerca su Internet) e ti racconta per filo e per segno che modifiche gli farà per adattarlo alla tua testa. Soprattutto, veniamo alle dolenti note, ti spiega cosa devi fare tu per mantenerlo bello e ben pettinato.

Messo così, un salone di parrucchiere diventa un posto niente male, per imparare a campare: la gente arriva con certi tagli in mente, che ti smascelli dalle risate. Ragazze con due peli in testa vogliono la criniera afro, che so, oppure sono di origine cinese e vogliono dei ricci fittissimi, che si mantengano intatti fino alla prossima messa in piega.

E poi, d’estate, impossibile prendere appuntamento: tutti lì a farsi qualche taglio sexy che li faccia sentire il re o la regina della Costa Brava!

Dalla mia parrucchiera imparo la differenza tra le aspettative della gente e quello che possono ottenere. Soprattutto, scopro quanto sia difficile per le persone capire che devono lavorare, per mantenersi certe cose. Pensano di comprarsi tutto il pacchetto, tutto il mese, a prezzo di una tinta e una piega.

Ma la cosa più buffa l’ho appresa qualche giorno fa, quando mi ha spiegato:

– Ci crederesti? Non sai quanta gente viene qui a dirmi: voglio fare un cambio radicale ai capelli, ma voglio solo tagliarmi le punte. Glielo devo spiegare io, che è una contraddizione in termini?

Già, è una cosa che va spiegata. È quello che dicevo a proposito del vittimismo del “capitano tutte a me”, riferito alle disgrazie, o dell’opposto “a me non succede mai”, ovviamente in riferimento alle cose belle.

Perché, in fondo, quando vogliamo fare un cambiamento, anche in qualcosa di frivolo come un taglio di capelli, si tratta di due cose: capire quanto siamo disposti a lavorarci (non ci crederete, ma la tipa della foto col taglio che ci piace, 9 su 10 ha un parrucchiere personale), e soprattutto accettare che non puoi cambiare radicalmente se non sei disposta a farlo, se non accetti di vederti diversa per un po’, se non corri il rischio di scoprire come staresti con la frangia, o con la tinta più scura, o, come ho fatto io una volta, di entrare con la chioma giallo paglierino che ti eri autoimposta per soddisfare certi standard, e uscirtene in carré, col colore che avevi abbandonato per inseguire una che non sei tu.

Insomma, la mia parrucchiera m’insegna molto di più che la prof. di filosofia del liceo. Per cambiare sul serio dobbiamo:

1) lavorarci su

2) correre rischi

3) accettare che i miracoli succedono raramente

4) nell’attesa del miracolo, metterci in gioco.

Che la panacea di tutti i mali non è sempre darci un taglio.

ansiaParlavamo di un mondo libero dall’ansia (per quanto ci si possa liberare da questa vecchia amica petulante) e di quanto ci sembri alieno, i primi tempi, tanto che quasi quasi torniamo alla vita di prima.

Ecco, questa parte che vuole tornare indietro, che anela l’ansia come primo motore, non sottovalutiamola. No, non dico di assecondarla, anzi. Ma stiamola a sentire. Ha le sue ragioni e ha energia da vendere. Sicuramente la noia è l’ultimo dei suoi problemi, mentre è il primo nel nuovo mondo ansia-free che ci aspetta. Non che sia veramente noioso, eh, è che, dopo che andavamo in panico per dire buongiorno a qualcuno, tutto il resto è noia per definizione.

Insomma, pensavamo che scattasse il “vissero felici e contenti”, invece il racconto comincia solo adesso. E allora non facciamo l’errore di reprimere l’ansia, come una ex che fingiamo di non amare più e poi ci torniamo in ginocchio. Se eravamo ansiosi, era per un motivo preciso: funzionavamo, seppure in modo contorto, meglio che altrimenti, risolvevamo così problemi che ci sembravano insormontabili.

Ora che sappiamo che non lo sono, accogliamola come una parte di noi, come l’amica pazzerella che non sappiamo bene dove ci voglia portare, ma ogni giorno ha un’idea nuova.

Non mi va di fare la tipa moderna nevrotica che si fa prendere dall’ansia come fosse una moda. Mi va di considerarla, quando abbia imparato a maneggiarla, come una risorsa in più, un’inedita fonte di creatività che mi aiuta, occasionalmente, a mettere un po’ di pepe nel mio nuovo mondo così tranquillo, così noioso.

Finché non capisco che anche questo mondo è tutt’altro che monotono, è una sfida, è tutto da esplorare, con curiosità.

E la curiosità, rispetto all’ansia, è pure simpatica.

https://www.youtube.com/watch?v=OfJRX-8SXOs

paracaduteQuesta la scrivo così come me l’hanno spiegata, e mi scuso con chi capisce di aerei se non è accurata. La metafora mi serve proprio come me l’hanno detta.

Dice che quando un aereo precipita, c’è la fase di stallo. L’aereo ha due possibilità: buttarsi giù in picchiata nella speranza di riprendere quota; buttarsi giù in picchiata e schiantarsi.

Comunque vada, l’aereo deve precipitare, sperando non sia per sempre.

Credo che questo ci succeda spesso, quando affrontiamo una crisi. Ci dicono “fatti coraggio” e fanno peggio, con le migliori intenzioni. Se neghiamo la crisi, quella ci sarà lo stesso. Se fingeremo di star bene, idem. Se riusciamo davvero a reagire bene fin dall’inizio (e attenzione all’iperattivismo, a volte è solo un modo per fingere che vada tutto bene), meno male, ma forse per un po’ dobbiamo assecondare la tendenza a precipitare, senza fare molto altro.

Temiamo che così non prenderemo mai più quota? Dobbiamo provarci. A volte non abbiamo altra scelta.

A volte, a cercare di lottare con le correnti avverse fingendo che non stiamo precipitando, precipitiamo prima e peggio, senza atterraggio di fortuna.

Allora, pensiamo a noi. Pensiamo a star bene.

Precipitiamo per un po’. Prima lo facciamo, prima torneremo su.

calimeroSì, lo so che lo pensiamo spesso, su tutti i fronti. A noi non succede “mainaggioia”, gli altri trovano lavoro e-noi-no. Gli altri vanno d’accordo con la famiglia e-noi-no. Gli altri si innamorano (corrisposti, dico) e noi… Che ve lo dico a fare?

Secondo me: 1) è proprio questo pensiero a impedirci la minima possibilità che ci succeda (non che a non avercelo accada tutto automaticamente, ma eliminarlo aiuta assai); 2) preferiamo il pessimismo all’incertezza, perché almeno ci fa sentire sicuri.

Ok, provo a spiegarmi.

Primo punto: se pensiamo che a noi non capita mai d’innamorarci, bocciamo a priori qualsiasi possibilità che succeda. Ho un amico che ogni tanto conosce donne interessanti, ma alla minima contrarietà (che so, la ragazza per una sera che la invita a una festa deve lavorare) pensa “lo sapevo, è stato bello crederci ma non mi si fila”. Chi glielo dice che non si sia trattato di un episodio estemporaneo? Soprattutto, perché togliersi così presto la speranza? Ovvio, perché a lui “queste cose non succedono mai”.

Non sarà che per certe cose ci vuole una botta di culo che già di per sé è complicata a darsi? Immaginati se la respingiamo a priori e non la riconosciamo quando si presenta.

E qui arrivo al punto due: gli esseri umani sono una barzelletta vivente. Sono così affamati di certezze, così contenti di crearsi schemi in cui riconoscersi (vedi le abitudini e quanto siano difficili da debellare, anche quando sono nocive), che a volte preferiscono quelli alla possibilità che succeda qualcosa di bello. O meglio, ovvio che le belle novità siano più che benvenute, ma devono avvenire col minimo sforzo per gestirle e senza il minimo stravolgimento della vita quotidiana. Come dice una mia amica romana, citando evidentemente Prévert: ‘na fetta de culo?

Allora, parliamoci chiaro: trovare un lavoro decente non dipende mai del tutto da noi. Ovvio che aiuta tanto mandare tonnellate di curriculum, ma quante volte ci è stata più utile l’amica che ci ha chiamato dicendo che nella sua azienda cercavano personale? O la prof. che ci proponesse di fare il database del gruppo di ricerca? Sono circostanze fortuite che, ahimè, funzionano più spesso della bravura (anche se l’esperienza mia e altrui mi dice che quest’ultima, come motivo di assunzione, è sottovalutata).

Anche innamorarci, non dipende da noi. Noi dobbiamo aprirci alla possibilità, ma non possiamo prevedere quando succeda. E come. E, nell’illusione di controllare anche l’incontrollabile, diciamo “a me non succede”. Dovremmo essere onesti e dire “A me non so quando succede”, che è un po’ il destino di tutti. Ma ci piacciono le frasi a effetto.

Insomma, certe cose ci capitano quando il caso o chi per lui decide così, e noi siamo pronti per lasciarle entrare nella nostra vita. L’unica cosa che possiamo controllare del processo è: decidere se essere pronti o no, a lasciarlo succedere. Capire se lo vogliamo al punto di accettare che la nostra vita cambi.

Se in fondo non lo vogliamo, non ci resta che continuare così: credere per sempre che certe cose a noi non succedono, fino a scoprire che avevamo proprio ragione, perché ci siamo creati un tale vuoto attorno che non può succederci più niente.

Vogliamo essere cattivi profeti, o esseri umani che imparano a vivere?

A noi la scelta.

E, per una volta che ci è dato scegliere, facciamolo bene.

https://www.youtube.com/watch?v=TEC4nZ-yga8

Truce.E poi non ci arrendiamo. Non ci consegniamo in pace e senza condizioni a questa nuova vita, o a questo nuovo aspetto che ci cambia tutto il quadro.

Perché? Perché al dolore un po’ ci si affeziona. O a ciò che lo provocava, nonostante tutto. E poi, ormai avevamo imparato a percorrere quella strada, al mattino, tra casa nostra e il vecchio lavoro, tra i nostri pensieri e le cose che non potevamo desiderare.

E allora facciamo resistenza. La nuova storia fa fatica a decollare, la persona che è entrata nella nostra vita aspetta benevola che le lasciamo più spazio. Un nuovo datore di lavoro può non avere la stessa pazienza, e infatti vedo più gente perdere un posto nuovo, dopo averlo finalmente trovato, che uccelli in cielo.

Ma qui viene il paradosso, qui ci sono le sabbie mobili: prima ci arrendiamo alla nostra nuova vita, prima questa comincia e acquista significato.

Prima lasciamo andare il passato che volevamo risolvere in un altro modo e in altri tempi, prima ci arrendiamo all’evidenza che il nostro presente ha un altro nome, e altri colori, diversi da quelli che avevamo immaginato, infinitamente più funzionali. E anche dolci, se gliene diamo l’occasione.

“Ma allora devo rinunciare a quello che volevo!”. No, il segreto non è quello. Non è decidere che l’azienda che ormai era come una piccola famiglia non ci chiamerà più, che quella borsa all’università è andata via per sempre e non ci saranno altri modi per reinserirci, anche con stipendio ridotto. Non è concludere che quella persona che abbiamo inseguito per un anno non ci guarderà mai, e ci “tocca” la bella storia nuova che sta iniziando ora.

È una questione di attenzione: cosa mi sta succedendo, ora? Ora ho trovato lavoro alla cassa sotto casa, proposta buttata lì mentre facevo la spesa, così posso permettermi di mandare avanti quel progetto all’università; ora ho conosciuto questa ragazza a questa festa e ci stiamo scambiando dei messaggi.

Domani chissà.

Il nostro problema è che ci anticipiamo agli eventi, o ripercorriamo quelli passati sperando che questa volta il finale sia diverso, come se non avessimo visto quel film mille volte.

Non ci rendiamo conto che solo una parte della trama, circa un terzo, dipende da noi, Il resto è vedere cosa ne pensano gli altri e come si mette la situazione.

E allora, spostiamo la nostra attenzione su ciò che ci sta succedendo ora, invece che su quello che dovrebbe succedere, o quello che non è successo.

Forse, facendolo, potremmo perfino aprire la strada a un finale diverso, un finale che paradossalmente si avvicini a quello che volevamo noi.

Il segreto, come in tante cose, è rinunciare a pretenderlo.

Tatuaggio-fiori-di-ciliegio-con-farfalle-immagine-e1401707583855Sì, ogni tanto faccio ancora i dialoghi con quello che un ateo convinto chiama “Il mio amico immaginario” e io da agnostica strana chiamo in mille modi diversi, quasi sempre in napoletano. E quasi sempre urlando:

– Senti, si dice in giro che hai un piano per me, ma il mio ti faceva proprio schifo? [Già sentita in Dogma]

Oppure:

– Lo so, lo so che muori dalla voglia di presentarmi qualcuno che mi faccia felice (sei solo timido), ma che ne dici di lasciarmi essere infelice a vita con chi dico io?

Alla prima domanda forse ho trovato risposta, ammesso che ci sia. Al mio piano mancava una cosa fondamentale: informazioni. Preziose. Tipo, come si vive bene se ci si rassegna alla possibilità di essere felici.

Ricordate quando vi raccomando di provare a fare una piccola cosa al giorno per trattarvi bene, e cose così?

Non sto a dirvi che basta solo quello, perché ci vuole un po’ di culo, anche, sfruttare venti favorevoli e incontri giusti, ma vi giuro che è una figata. Come si può evincere dal gergo particolarmente bimbominkia, sono un’altra. Sono tornata al tirocinio dopo un mese d’inattività e temevo un’ecatombe… Invece eccomi lì a scherzare con gli alunni, perfino davanti a questioni emozionanti come la concordanza del possessivo col sostantivo nei nomi di parentela.

Insomma, non ho fatto niente di troppo diverso rispetto al mese scorso, a parte darmi un po’ di permessi: di lasciar andare cose che non funzionano, di consentirmi un po’ di divertimento ogni tanto. Di uscire con amici intelligenti, di proporre io incontri, progetti nuovi. Perfino di farmi corteggiare. Nel senso che quando mi fanno un complimento non rispondo subito schermendomi in sanscrito e accusando l’interlocutore di scarso discernimento.

A volte basta questo. Non a risolvere tutto, che ogni tanto il piano B ancora provo a propinarglielo, all’ “amico immaginario” di cui sopra, che fa sempre orecchi da mercante. Ma mi sto aprendo ad alternative, magari alle uniche possibili, e devo dire che tutto cambia da così a così. E cambiamo anche noi.

Insomma, vi sto trasmettendo la mia allegria? Se a questo punto della lettura volete già abbattermi, ce l’ho fatta.

La vostra missione, per una volta, sarà fare lo stesso. Fare come me.

Per una volta, permettetevi di essere tutto quello che siete quando non siete ossessionati da ciò che vorreste essere. Per una volta sola.

So che la paura di finire delusi è forte, che temete di perdere sia il futuro che non osate sognare che il passato a cui vi aggrappavate.

Ma statemi a sentire, fate questo salto, o che sia almeno un passettino, uno alla volta.

Datevi una possibilità. Potreste scoprire che non siete così indegni di fiducia come pensavate. Che magari un poco per volta, e a piccole dosi, potete fidarvi di voi.

Maryland Renaissance FestivalIl momento dopo aver fatto una cazzata è in fondo simile a quello dopo una bella notizia, o dopo che il cameriere ha portato il tuo piatto dopo mezz’ora d’attesa.

In effetti è un momento di vuoto perfetto, il vuoto prima di realizzare che ti aspetta un pranzo luculliano, o una notte insonne, per un buon motivo o per uno molto cattivo.

Attenzione, perché è anche un momento rivelatore. Quando ho avuto la certezza di aver perso l’amore, un amore che forse non avevo mai avuto, la prima cosa che ho avvertito nelle viscere man mano che perdevo il respiro è stata sollievo. Ok, allora era questo. Ok, adesso si risolve, in un modo o nell’altro si risolve. Poi ci sarebbe stato il dolore, la discesa agli inferi da cui sei torni hai quasi il dovere di salvare chi parte. Ma meglio quello, mi dissi in quel primo, lungo istante di rivelazione, che un lungo limbo senza neanche incamminarsi per vedere la luce.

Ci sono momenti più sfumati: quello dopo un bacio non dato, che ti resta in punta di labbra a dirti che volevi scoccarlo, lanciarlo come una sfida nel tuo nuovo mondo, ma non ne volevi le conseguenze, non ora, non subito. E allora resta lì, acquattato, sicuro che prima o poi verrà il suo momento.

Che porterà con sé il suo momento dopo.

Se ci riuscite, ascoltateli, sul serio, questi istanti.

Non c’è nulla di più sincero, in quel vuoto perfetto tra pensiero e azione, tra quello che avremmo voluto, e quello che d’ora in poi, chissà per quanto tempo, avremo.

jaimelannisterAvevo questo professore, più che altro un maestro di vita, che era completamente devoto al suo lavoro, tanto da non andare in pensione quando ormai gli toccava e quando le condizioni di salute gli suggerivano un’uscita di scena rapida e dignitosa.

Ma no, più forte dell’istinto di sopravvivenza era la paura di non riconoscersi più, una volta che non fosse entrato in classe e non avesse formato futuri professori da Attimo fuggente, come lui. Non perché si sentisse indispensabile per i suoi alunni, sapeva bene che nessuno lo è, ma perché loro erano indispensabili per lui, per la persona che credeva di essere e in cui s’identificava totalmente.

Quando eccelliamo in qualcosa, ci risulta difficile abituarci all’idea di essere molto più di quello. A volte dobbiamo perdere la nostra “eccellenza”, per accorgercene. Se abbiamo dedicato tutte le nostre energie a un rapporto ormai finito, sentiamo che la vita non abbia più senso. Una donna che si sia identificata tutto il tempo con la sua bellezza va in crisi pesante quando questa cambia con l’età. Un grande atleta soffre tantissimo quando deve ritirarsi dalle gare agonistiche. E poi c’è l’incubo della pensione, specie per gli uomini, abituati fin da piccoli a identificarsi nel loro ruolo di breadwinner.

Il mio prof., nonostante fosse buono come il pane, sapete a chi mi ha fatto pensare? A Jaime Lannister, quello di Trono di Spade. A una frase che dice dopo che gli uomini di Roose Bolton l’hanno catturato insieme a Brienne e gli hanno tagliato la mano. In quello che in TV è il quarto episodio della terza serie, dichiara: “I was that hand!”.

E, come spesso accade, la fiction è più reale della realtà, perché a partire da allora (a parte un rapporto forzoso con Cersei che è proprio gratuito, e nel libro non c’è manco) comincia per lui una nuova vita, migliore. Quando perde la mano che lo definiva come un gran cavaliere, ma lo “limitava” al ruolo di Sterminatore di Re, allora ha la possibilità di sviluppare completamente una personalità rimasta allo stato infantile, al tutto muscoli e incesto.

So che il mio professore non è un appassionato di best-seller, ma sarebbe bello che potesse arrivarci per conto suo. Al fatto che ciò che lui è va molto al di là di ciò che fa, che è molto più delle nobili lezioni che imparte ogni giorno, che esistono tante lezioni che la vita gli deve ancora insegnare e che evita perché gli scalfiscono questa bella maschera che lo limita nei movimenti da troppi anni.

Anche noi crediamo di “essere quella mano”, ogni volta che ci identifichiamo con una cosa sola: col nostro lavoro, col tentativo disperato di far funzionare una relazione, con la necessità in generale di soddisfare la nostra idea di ciò che siamo, trascurando tutte le altre cose che possiamo essere.

Jaime aveva ragione, lui era quella mano. Il suo personaggio, il fantoccio odioso che era diventato, lo era. Ha avuto bisogno di perderla per scoprire tutto il resto.

Che ne dite di arrivarci senza dover passare per esperienze così drastiche?

welcomeVolevo tornare su una questione che mi preme molto: quella della paura che più la evitiamo più si realizza.

E sì, mi vengono vari esempi, come il racconto orientale che è diventato Samarcanda di Vecchioni, ma ha un bel po’ di secoli all’attivo. Oppure, meglio ancora, il grande classico di Giona, il nonno scemo di Pinocchio. Va’ a Ninive a predicare, gli fa il suo Dio. E lui manco p’ ‘a capa, a Ninive troverò la rovina.

E invece la trova non andandoci, nella bocca di una balena. Insomma, di un pesce molto grande.

Quanto vi suona familiare, questo? A me tantissimo.

Tutte le volte che ho provato a fuggire da qualcosa, ci sono finita giusto dentro.

E per la cronaca, Ninive alla fine “pensavo peggio”, deve aver ammesso Giona quando si è accorto, una volta arrivato, di essere diventato presto il predicatore n. 1.

Perché con le paure succede questo, che la cosa di cui abbiamo paura, di per sé non è brutta come la dipingiamo. È ciò che veramente temiamo (per esempio, essere respinti), che in quel momento è rappresentato da quel lavoro, da quella telefonata da fare, che fa paura.

Io sto avendo un piccolo problema con l’appartamento nuovo. E lo so, sto al secondo trasloco in meno di un anno, ma passata l’urgenza iniziale di scappare dall’altro posto, non mi ci sento più tanto a casa. Ci resto, eh, un terzo trasloco mi ammazzerebbe e conosco problemi peggiori.

Ma la casa da cui scappavo, che avevo ereditato lugubre e piena della solitudine di chi ci viveva prima, si fa ogni giorno più serena, accogliente. Perché ci lavoro su, ci invito gente che la sa amare e trattare bene, la pianta è sempre innaffiata, le pareti imbiancate da poco sono più belle quando c’è qualcuno a riderci vicino.

Questa casa invece è stata una fortuna, è vero, presa in fretta e furia e in un giorno tremendo.

Ma ha un problema: un rifugio difficilmente diventa una casa.

Come una storia in cui entriamo non per chissà che amore, ma perché ci sentiamo al sicuro. Da una minaccia che magari, come Ninive, non era poi sto drammone.

E poi il rimedio è peggiore del male o, per dirla alla Watzlawick (che traviserò clamorosamente) il problema è la soluzione.

Negli amori tiepidi entriamo per sentirci al riparo dalla sofferenza, e in quella caschiamo, spinti dalle nostre stesse ambiguità.

La sofferenza che vedevamo rappresentata invece in un amore vero, la paura della dipendenza ecc, diventa più interessante di quest’incubo, di sicuro più sensata.

Un rifugio non è mai casa, ahimé.

Difficilmente lo diventa.

Che dite, cominciamo? A chiamare casa ciò che davvero lo è. Non quello che ci fa sentire al sicuro, ma quello che ci fa sentire pronti a uscirci al mattino e tornarci la sera.

Sapendo che fuori non sarà tutto rose e fiori, ma davvero, “pensavamo peggio”.

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