Una volta condividevo un caotico appartamento ai confini del Raval. Pur di lasciarlo avevo bloccato un’intera casetta a due stanze, cedutami da un amico che andava sei mesi negli USA.
Ma le politiche dell’appartamento che volevo lasciare erano particolarmente cazzimmose: l’unico modo di recuperare la caparra era di trovarmi io un sostituto per la camera. Vi ho già detto che era un quinto piano senza ascensore?
Per fortuna, la satanica detentrice del contratto d’affitto risolse le sue contese con la padrona di casa autosfrattandosi, insieme a tutti noi. Non ci crederete, ma ero contenta!
Anzi, avevo talmente aspettato quel momento da arrivare a immaginarmi una vita fantastica fuori da lì. Ma al primo pranzo a casa nuova, osservando il salottino senza luce sul cui divano si era addormentato un compagno di università, mi ero resa conto che no, non avevo trovato il Graal della felicità. Per varie ragioni: 1) le questioni momentaneamente “cancellate” dalla priorità dell’appartamento ritornavano a bussare urgenti; 2) avevo solo sei mesi per cercarmi una casa nuova; 3) nello spazio di una notte, il discretissimo e timido coinquilino ereditato dal vecchio piso, aveva già installato in casa una fidanzata brontolona, e decisa a farci taaanta compagnia.
Allora mi sono ricordata dell’ovvio che ci sfugge sempre di mente: il compito più difficile dei sogni è sopravvivere a se stessi.
Insomma, una volta che il “sogno” si è avverato, ci tocca viverlo.
Superare la parte d’immaginazione, che prevedeva che fosse tutto rose e fiori se solo avessimo raggiunto l’obiettivo, per farla diventare vita reale, quotidianità, qualcosa che richieda manutenzione o una certa routine, come quasi tutte le attività umane.
Pensate a chi sogna di lasciare l’Italia per Barcellona, viene qui e si ritrova alle prese coi documenti da ottenere, il lavoro da cercarsi, le stanze dai prezzi assurdi…
Pensate a chi passa dallo sfogliare margherite sospirando il nome dell’amato bene a doverci davvero dividere il bagno e le bollette della luce. E, a giudicare dallo stress di tanti amici diventati genitori, sarebbe importante che la croce e delizia di mettere al mondo una nuova vita diventasse consapevolezza, informazione, e capacità di perdonarsi.
Questo lato prosaico non rovina la poesia. A patto che lo mettiamo in conto. A patto che invece di inseguire aspettative impossibili ci fermiamo un attimo, consideriamo lucidamente i pro e i contro e ci diciamo: “Voglio provarci lo stesso?”.
Tranquilli, non mi lamenterò più di tutti i progetti che mi sono andati male negli ultimi mesi, guadagnandomi ad honorem il diploma in fallimento di Manuel Agnelli (arranco invece con la laurea per reagire). E prima di limitare di nuovo le mie citazioni a Tony Tammaro, volevo però condividere un pensiero su quanto stessi facendo prima che si mettessero in moto i vari progetti che non mi avrebbero portata in nessun posto.
Stavo scrivendo due libri, situazione insolita perché di solito mi dedico a una ciofeca impubblicabile alla volta. E, quel che è peggio, i risultati non mi dispiacevano.
Stavo facendo la calzetta. O meglio, imparando a lavorare a maglia. Per la gioia del mio migliore amico, che chiamava il risultato “i miei lunghi vermi di lana”. L’incoraggiamento innanzitutto!
Insomma, mi stavo dedicando a due attività apparentemente antitetiche (e invece molto simili, inevitabile pensare alla parola “trama”), prima che cominciassi a conciliare lo studio e il lavoro, che si sarebbero annullati a vicenda per risultati e prospettive. Oh, ma erano attività adulte, una remunerata e l’altra “con delle prospettive”. Mica come scrivere senza sapere se pubblicherò mai, o fare la casalinga disperata.
E invece, adesso che le attività adulte mi hanno lasciata a terra, mi ha fatto bene essere costretta a tornare al mio mondo domestico di capitoli scritti davanti a una tazza di tè, e nuovi serpenti di lana un po’ meno sbagliati di quelli dell’anno scorso.
C’è un’eterna tassonomia tra lavoro in casa e lavoro fuori casa, e tra lavoro remunerato o non remunerato. So che in tanti della mia generazione dobbiamo convivere con l’incredibile differenza tra le nostre aspettative e quello che stiamo facendo ora. Volevo solo dire che stiamo spesso rinunciando alle nostre passioni per cadere in trappole che comunque non ci pagano l’affitto. Tanto vale.
Sono stanca dell’idea di dover scegliere, di questa classificazione un po’ ipocrita tra cosa dia più prestigio e cosa no, cosa sia saggio e cosa assolutamente sconsiderato.
Ci sono cascata una volta, non lo faccio più.
E ai lavoretti che prendo adesso, in fondo non meno precari di quelli così saggi dell’anno scorso, chiedo come requisito principale di non portarmi via quello che mi serve davvero.
Lo so che è da tempo che non scrivo resoconti cazzari dei miei pomeriggi più surreali, ma facciamo una cosa: io vi racconto quello di lunedì scorso e ci pensate voi a trovargli una profonda morale nascosta. Affare fatto? Cominciamo.
Allora, sono le cinque passate, sono in casa reduce da un’ora di step, in attesa delle uova fresche del Montseny promessemi da un amico brasiliano, che ha lasciato tutto per vivere in montagna. All’improvviso il mio pusher ecobio mi annuncia via WhatsApp di non poter più effettuare la consegna a domicilio. Al massimo posso incontrare la sua compagna, ma solo a Plaça Universitat, e solo tra mezz’ora: è incinta e partorisce a maggio.
Senza neanche docciarmi mi precipito fuori nella seguente tenuta: felpa rossa cinese di pile infiammabile, due taglie più grande; pantajazz di Decathlon (come i pantacollant, ma a zampa); scarpe dello stesso magazzino, col risvoltino fucsia fosforescente.
Ovviamente alla fanciulla avevo dato appuntamento fuori al Buenas Migas e lei si schiaffa giusto all’altro lato della piazza, proprio l’ultima panchina. E le dodici uova che compro sono racchiuse in due cartoni precari, tenuti fermi a stento da uno spago e rigorosamente non imbustati. Così imparo a vivere in città.
Mi vendico a mia insaputa rivelando alla venditrice che secondo il suo compagno partorirà a maggio. Metà giugno, corregge sorpresa e irritata. Magari è una premonizione, butto lì. Ma dalla sua faccia mi rendo conto che non capisco un cazzo di gravidanze e me la batto.
Dopo uno scone di consolazione al Buenas Migas (se dobbiamo gentrificare, che sia per una giusta causa), sempre con le uova in bella mostra accanto al matcha, mi dico che sono quasi le sette ed è inutile tornare a casa, se alle otto e mezzo comincia il film che vorrei vedere. M’incammino dunque verso il Renoir Floridablanca (tra i pochi cinema in lingua originale della zona) a comprarmi il biglietto in netto anticipo: Jackie è appena uscito, più tardi ci sarà la fila. Siccome perfino un’anziana signora comincia a sfottermi per il carico di uova, decido di farmi una spesona al supermercato accanto alla biglietteria (un euro e 50 in totale) per procurarmi una busta.
Eccomi qui di fronte al cinema con la mia tenuta “sportiva” e una busta della spesa, che qualche italiano over 30 amante del Pippo Chennedy Show avrebbe potuto aspettarsi da me un: “Tenissene ciento lire? Aggia vede’ ‘o film d’ ‘a Portmànnn“.
Mentre racconto l’avventura delle uova in un messaggio vocale ai miei, ridendo da sola per il mio abbigliamento, arriva Viggo Mortensen.
No, non me lo sto inventando. Il mio sogno erotico numero due (il primo è Paul Bettany e il terzoJuan Diego Botto) si ferma alla cassa del cinema con una signora alta e magra che compra due biglietti, mentre lui si guarda intorno circospetto.
Via libera, nessuno lo ha riconosciuto. Tranne forse una tipa losca in tuta cinese, con una busta della spesa che sembra contenere uova, ferma nella stessa postazione della mendicante che di solito si mette lì a vendere accendini.
Ma la presunta fan, chissà chi sarà, fa la vaga con lo sguardo fisso sull’orizzonte, o meglio sul tabellone dei film, dicendosi che no, quel piacente signore sulla sessantina sarà solo uno mooolto somigliante ad Aragorn.
E poi va bene la sfiga, ma possibile che l’unico incrocio di sguardi che mi sia dato su questa terra con Viggo mi debba vedere conciata così, con delle uova in mano? No, non può essere, non può…
– Ha’ vitto Moonlight?
Ok, la domanda non era per me (“Hai visto Moonlight?”), però quella che mi giunge è la voce del Capitan Alatriste, con l’accento argentino di chi in Argentina ci ha vissuto. Viggo Mortensen, appunto. Sì, sono una di quelle fan che sanno tutte ste cose.
Scappo a casa, un po’ per nascondermi e un po’ perché l’ora abbondante che ho d’attesa la potrei pur spendere posando le cazzo di uova e regalandomi una bella doccia.
No, non è nella speranza di rivedere Viggo, figurarsi.
Quante probabilità ci sono di ritrovarmelo a guardare Jackie in sala con me?
E infatti al ritorno al cinema finisco seduta dietro alla sua accompagnatrice.
Ma siccome il posto accanto al mio è libero, con abile mossa mi piazzo proprio alle spalle di lui.
Non l’avessi mai fatto!
Non è uno spilungone, ma in questa nuova versione capello bianco corto ha una vertigine proprio sulla sommità del capo, che negli occasionali sussulti di lui per baciare la compagna (maledeeetta!), si pianta direttamente nel naso di Natalie Portman. Che magari lui chiamerà Naty.
Credetemi, il miglior modo di togliervi dalla testa il vostro sogno erotico è vederlo trasformato in un ciuffetto di capelli bianchi davanti al cervello schizzato di Kennedy (non Pippo, proprio JFK).
Specie se smette di coprire lo schermo solo durante i titoli di coda, dileguandosi poco prima che si riaccendano le luci.
Al ritorno a casa riconosco definitivamente su Google gli zigomi della sua fidanzata barcellonese, attrice famosa pure lei. Ma avrei dovuto abbandonare ogni dubbio già durante la proiezione, quando la vertigine bianca si era impennata in un guizzo di riconoscimento alle prime note di…
No, siamo seri, quanti argentini potevano riconoscere la voce di Richard Burton in Camelot, Anno Domini 1960?
E soprattutto, avete trovato una morale a questa storia, a parte “Vai ad allevare galline nel Montseny”?
Io mi assesto su “La sfiga è cieca, ma la fortuna ci vede benissimo”. Scritto proprio così.
Volevo incontrare Viggo Mortensen, una volta nella vita, e sono stata esaudita. Magari non proprio come credevo, e lui non era più né single né Aragorn, ma d’altronde io non ero presentabile. Insomma, viva la vita che ci dà sempre quello che vogliamo, mai al momento giusto, mai come ci immaginavamo. Ma quello si chiama “avere aspettative” ed è un problema.
Per festeggiare v’invito a pranzo. Frittata. Di dodici uova. Fresche di pollaio, eh.
E non c’è niente di male. Basta accorgersene, guardare in tempo l’etichetta prima di assaporarli come sempre e scoprire che, finalmente, sono diventati acidi.
Che il tempo, gli incontri, i giri di fortuna e quelli di sfiga cronica che ci hanno portati in un pizzo di mondo invece che in un altro, li hanno cambiati per sempre.
Ci credereste? Ci piacciono così, scaduti e buoni. Pur di non farne altri e rischiare di veder scadere anche quelli trangugiamo ancora i sogni vecchi, fino a stare male.
Leggo a volte post di amici miei dell’Italia, dei miei 20 anni. Rimpiangono, molto. Quello che eravamo.
Io me lo ricordo, come eravamo. Pieni, freschi, un po’ per aria, tutti. Con la capa per aria, dico. Già rassegnati a non vederci avverare i sogni che adesso rimpiangiamo come passati.
C’è una differenza, tra accettare che scadano e non farlo.
A crescere e accettare di non essere più quello di prima dai per scontato che sì, non sono più tuoi, quei sogni là. Non che non vorresti scrivere più un bel romanzo sperimentale o andare a vivere in Honduras, che mo’ si porta. Ma adesso ti piacciono altre cose, di più, e perché spesso sono più concrete non vuol dire che non siano affascinanti.
A non crescere (cioè, a invecchiare soltanto), semplicemente non li realizzi uguale, quei sogni, ma non te lo dici. Cioè, te lo dici così spesso perché speri di essere smentito dalla sorte, senza fare niente né per realizzarli né per cambiarli. Quindi, diventi un mausoleo dei tuoi sogni.
Che è una condizione/scappatoia che ultimamente va di moda quanto l’Honduras: fai il portatore sano di sogni scaduti. Sarai un fallito, ma vuoi mettere l’alone romantico di eroe tradito dalla sorte? Che la sorte a volte abbia un nome e un cognome (il tuo) è solo un dettaglio.
No, i sogni scaduti evaporano da soli, se glielo lasciamo fare. Conserviamoceli pure in dispensa, a imperitura memoria, ma stiamo attenti a consumare in tempo quelli nuovi.
Sono quelli che si adattano meglio a chi saremmo ora, se non fossimo troppo occupati a rincorrere chi eravamo.
Avete presente tutti i film in cui qualcuno sta per compiere un passo decisivo nella sua vita e per un po’ cerca una via di fuga? In genere la più gettonata è il tentativo di “tornare al passato”, a prima di arrivare a quel bivio inquietante. Capita al quasi-trentenne de L’ultimo bacio, che sulla soglia del matrimonio finisce con una bella diciottenne a leggere Siddharta.
Quel film è esemplare di ciò che voglio dire, perché il protagonista alla fine non s’innamora della pischella, che incarna la sua fuga dall’età adulta. Ci si rifugia per paura dell’irreversibilità delle sue decisioni.
La paura, se ci pensiamo, è lo stesso motore che spinge Gwyneth Paltrow in Two lovers a fare una scelta uguale e contraria: rinunciare a una fuga “adulta” con Joaquin Phoenix, che vuole liberarsi come lei di una realtà soffocante, per tornare all’infelicità bohemienne che non la fa star bene, ma la fa sentire al sicuro. È quello che fa l’infelicità prolungata: ci fa sentire più sicuri di una felicità da costruire.
Ma per evitare dubbi su cosa io intenda per felicità, torniamo ai trentenni italiani di Muccino: mica le aspirazioni devono essere le stesse per tutti. Ci sono amici che davvero sono contenti a realizzare il loro sogno di ragazzi e partire in viaggio. Quindi “crescere” per me non vuol dire assumere modelli di comportamento tradizionali come un lavoro fisso e una famiglia stabile. Significa proprio avere il coraggio di seguire la propria aspirazione, che comporti un mutuo trentennale o l’apertura di un baretto sulla spiaggia. Seguire il corpo, sul serio, come è cambiato ora. Io ero più grossa a 25 che adesso, a 35, in più di un senso. E mi sto adeguando alle mie aspirazioni apparentemente più modeste di adesso.
Sono quelle che mi fanno star bene in questo momento. A 25 anni le avrei trovate insignificanti, ma allora ero molto insicura e dovevo dimostrare a me stessa di “saper” fare le cose. Saper vivere da sola, saper vincere una borsa di studio, saper… Adesso non ho bisogno di dimostrarmi niente. So che potrei farlo di nuovo, soprattutto so che, ci riesca o meno, sarò sempre io.
Credo che questo sia l’atteggiamento che mi faccia meglio, penso di essere in buona compagnia. Fare le cose non per sfidarmi continuamente, per colmare da fuori un’insicurezza che mi porto dentro, ma farle perché in questo momento, per gli studi che sto portando avanti (ancora!), per i lavori che comincio a fare, mi sembra la strada “naturale”, se qualcosa del genere esiste, il cammino che si disegna da solo quando in realtà ci stai lavorando su e bene.
Quindi, se finalmente riuscirò ad aprire quest’associazione che faccia da ponte tra culture diverse, non sarà per dimostrare a me stessa di esserne capace, ma perché in questo momento è la cosa più spontanea che mi venga da intraprendere, la conclusione più logica dei miei studi comparatistici e dell’impegno sociale degli ultimi anni. Finché non mi servirà da tappabuchi per l’ego, potrebbe addirittura funzionare.
E se dovesse fallire… Ragazzi, non sapete quanta roba stia cannibalizzando da imprese fallite. Non sono neanche sicura di poterle chiamare fallimenti, in realtà, ma da eventi riusciti così così ho ricavato conoscenze fantastiche, contatti di persone che un giorno potranno aiutarmi in qualcosa che possa riuscire bene. Soprattutto, quello che è stato un mezzo fallimento per me è stato un grande successo per altri. C’è l’associazione che partecipando a quel cineforum sotto la pioggia ha imparato a mettersi in gioco, oppure la mamma a tempo pieno che per offrire un premio a una riffa si è inventata un’attività artigianale da svolgere in casa.
Ecco, questo sì, ho imparato un criterio fondamentale quanto semplice per andare avanti: se le cose fluiscono, bene, se no, come si dice in spagnolo, otra cosa mariposa.
Una volta che si sta bene e si sa bene cosa si vuole, ci è anche più facile portare a termine i progetti.
Insomma, non si tratta di mollare tutto e tornare a un’adolescenza che non potremmo mai più avere (se il trentenne Accorsi fosse rimasto con MartinaStella, fantastico, ma sarebbe stato da trentenne con una diciottenne, non sarebbe venuta la fata di Cenerentola a togliergli gli anni). Si tratta di guardare avanti, partire da nuove esigenze e non da vecchi bisogni, andare perché aspiriamo a realizzare qualcosa che vogliamo sul serio, canalizzare un’energia che al momento ci mulina nello stomaco in attesa di essere (ben) impiegata.
Ecco, secondo me bisognerebbe partire sempre dall’energia e mai dalla fame. Stay hungry stay foolish lo raccomandi a qualcun altro, almeno nel mio caso.
Io mi sazio prima di tutto ciò che sono diventata, mi sorrido come una scema e allora, solo allora, attraverso la strada.
Ok, in questo Santo Natale di Strafogo (voce del verbo strafogare, ovvero abbuffarsi come se non ci fosse un domani) sono più buona perfino io e non voglio ammorbarvi con considerazioni pseudofilosofiche che paghereste due euro da Lidl.
Colgo solo l’occasione per confessare una cosa a cui pensavo da tempo: da quando mi propongo esattamente quello che voglio (niente scorciatoie, sotterfugi, ripensamenti), l’ottengo.
No, non ho ancora vinto questo biglietto alla lotteria che mi mette a posto per sempre, e quei 10 cm in più di cosce che prometteva il mio sviluppo precoce sono rimasti nella gerla di Babbo Natale.
Ma quello che desidero sul serio, mi sta arrivando.
E forse il segreto è questo: scoprire che non vogliamo mica la luna. E che non è accontentarsi, considerare che possiamo benissimo stare in santa pace con quello che ci serve davvero. E che se la supervincita dovesse arrivare, troverebbe una personcina perbene (scusate, ieri in TV c’era Non ci resta che piangere) che già sta bene come sta e si godrebbe ancora di più il premio. Soprattutto, non lo dissiperebbe tornando più povera di prima, come farebbero tanti che mi direbbero ora di stare zitta perché “non conosco i veri problemi” (i loro, ovviamente).
Fortuna che quelli che conoscono “i veri problemi” in quel senso (i malati leucemici di mio padre) hanno sviluppato, mi sembra, un atteggiamento simile al mio, per la serie: “È inutile che ti prendi collera, tanto…”. I fan di Gianfranco Marziano sanno come continuare.
Evvabbe’, ora potete rispondermi con un ricco esticazzi, ma ve lo dovevo dire. L’ho spiegato anche all’amica che aveva un miniprogetto per lavorare da sola, in modo creativo, e che l’ha messo da parte per un “lavoro sicuro” in un’azienda, inseguendo il miraggio dello stipendio fisso. L’hanno licenziata dopo tre mesi, troppo pochi pure per prendersi il sussidio minimo di disoccupazione.
L’ho detto pure a quella che si accontentava di stare e non stare col tipo brillante ma scombinato che la prendeva e la mollava, e allora lei si diceva “prima o poi capirà che ci vogliamo bene”, e dopo ogni ritorno “stavolta è diverso”. Le ho detto: visto? Da quando ti proponi di volere solo qualcuno che ti rispetti e che ti voglia bene sul serio, l’hai ottenuto. E lei mi ha sorriso dall’altra parte dello specchio.
Insomma, appurato che i nostri desideri, ridotti all’osso, sono ben lontani dal chiedere la luna, direi di andare a realizzare quelli. Cazzo ne so se mi pubblicheranno mai, intanto scrivo, che è quello che voglio. Se il posto fisso è un miraggio, meglio provare a far funzionare il mio negozietto online di saponi fatti a mano (come ha fatto una ragazza deliziosa che conosco) o rinunciarci per lavorare tre mesi a 500 euro al mese a mezz’ora di treno, per poi essere sostituita da un’altra “stagista”?
Allora, come proposito da tenere sotto l’albero direi di farlo: puntiamo esattamente a quello che ci serve.
Proviamo a fare il lavoro che vogliamo, dovessimo esercitarlo come hobby la domenica.
Quel paese che vogliamo visitare, possiamo vedercelo lo stesso zaino in spalla, se i soldi per l’Hilton al momento ci mancano.
Diciamoci: il prossimo che mi capita mi deve adorare.
A me tutto questo è successo e non ho niente in più a voi.
Ormai sto post lo sapete tutti (almeno chi ha la sfortuna di conoscermi di persona), senza che l’abbia mai pubblicato una volta. Grazie a WordPress che pretende addirittura che salvi le bozze che scrivo, come se non fosse tenuta a leggermi nel pensiero!
Comunque, meglio così: ieri a lezione di Storia della Letteratura (sì, sono recidiva) il professore enciclopedico e schizofrenico del decennio (ogni mia decade ne ha uno) ha dichiarato che “la felicità bisogna cercarla”.
Fantastico! Tempo fa un amico mi ha passato il link di un articolo che sosteneva che la felicità “arriva quando non la cerchi”.
Allora, indovinate un po’, credo che in questo caso valga la proverbiale via di mezzo, se diamo per assodata una cosa: la felicità è un piatto di couscous.
Fermi lì! So che vi piace quello precotto che provate ogni tanto per sentirvi internazionali, e in effetti con una buona salsetta fresca fa la sua porca figura.
Ma io parlo di quello che si fa da zero, a partire dalla semola, l’incubo delle cuoche velate delle bettole del Raval quando mi aggiro famelica in pieno Ramadan e minaccio di prenotarne una razione (leggi “di farle sudare dalle 10 di un mattino d’agosto senza neanche poter bere”. No, non l’ho mai fatto).
Perché in effetti ci sembra una sfacchinata, prepararlo, se consideriamo che con quello precotto in cinque minuti abbiamo il piatto pronto. Già, ma non faccio l’hipster se vi dico che col couscous preparato da zero c’è la stessa differenza tra gli spaghetti alla bolognese in scatola che potete comprare da Tesco, in Inghilterra, e le tagliatelle fatte a mano in un ristorante di Bologna.
Non comprate paradisi precotti, che la vostra felicità sia autoprodotta!
E poi, come la felicità, il couscous ha un’altra caratteristica: alla fine, la nostra parte nella preparazione è piuttosto esigua, diciamo un 30%.
Ok, dobbiamo avviare il brodo (e qui ve lo concedo, il dado, anche se buttare verdura di stagione in una pentola non è un’impresa impossibile!). Ok, dobbiamo mescolare la semola non rimacinata con un po’ d’acqua, abbastanza perché si sgrani meglio.
Ma per le restanti ore di lavorazione, ve lo prometto, fa tutto il vapore. E non serve neanche la couscoussiera, la felicità non è schizzinosa e la pentolina bucata Ikea da mettere sulla solita caccavella va bene lo stesso.
Ma vapore q.b. e il vostro couscous in tre ore è fatto. Noi al massimo dobbiamo girarlo ogni 40 minuti: non è mica una criatura come il ragù, da accudire passo passo! E poi, con tutta la manutenzione che avete dedicato alla vostra ultima relazione fallimentare, non volete girarmi a mano un po’ di couscous?
Insomma, couscous e felicità hanno due cose in comune: né vanno costruiti da zero né ci cascano nel piatto.
Dobbiamo metterli noi a cuocere in pentola, ma una volta iniziata la preparazione fanno tutto loro. E saranno tanto più generosi e abbondanti quanta più cura ci avremo messo all’inizio.
Ahò, mia mamma, che non tanto digerisce quei brodi di carne che si usano da noi, ha detto che il mio brodo vegetale di accompagnamento del couscous è la cosa più delicata che abbia provato ultimamente. E no, di solito non mangia bisonte in salmì.
Sarà per questo che, senza tralasciare di perfezionare la ricetta, la felicità ultimamente bussa spesso alla mia porta.
Voi, invece di autoinvitarvi a pranzo, cominciate ad accendere il fuoco.
E sì, quelle strade le avevo già viste. Quelle pietre, quei giardini. Anche se non qui e ora.
Le ho riviste a centinaia di chilometri da dove l’avessi fatto la prima volta, e a quasi trent’anni di distanza, ma erano le stesse pietre, gli stessi giardini, perché uguale era la sensazione che mi davano, rispetto alle pietre e ai giardini che li avevano preceduti.
Il quartierino che scoprivo pochi scaloni sopra casa mia a Barcellona, quella Satalia a rischio estinzione che viveva ancora di villette con giardino e vicoletti scoscesi, era la Capri che attraversavo a fine anni ’80 con mio nonno, che mi spiegava cosa fosse quella statua e che dio fosse quel tale Balilla (eh, già) che intravedevamo dalle inferriate di un portone a Tragara.
Stesse sensazioni, stesso senso di pace. Allora ricordavo la prima volta, trent’anni fa, come immaginavo il mio futuro.
E mi sono accorta che l’immaginavo così. Come il presente che vivo ora. Non proprio sputato, ma così. E ho visto la bambina vedere me. Ci siamo riconosciute, e salutate.
Certo, lei, la pargola, non avrebbe immaginato che a questo punto della mia vita non avessi ancora un lavoro di quelli “coi soldi”, che non avessi ancora figliato. Che la gente che mi circondava parlasse alla perfezione la lingua di quella poesia fatta di roccia, sulla strada del mare: Reina de roca, en tu vestido de color amaranto y azucena viví desarrollando… Anche se il tizio che l’aveva scritta, Pablo Neruda, non era né di Capri, né di Barcellona.
Ma appena interrotte dal flamenco di una passante bruna, dalla chioma raccolta, nella canzone antica che cantavamo a una voce*, abbiamo letto tutte e due, la donna e la bambina, il manifestino artigianale della festa del barri (come quella del patrono, senza patrono). Una festa piccina picciò che dura un solo giorno, e alla cena popolare bisogna portarsi da mangiare da casa, come quell’attore che piaceva tanto al nonno. Ci siamo accorte subito che non sapremmo ballare le danze popolari di qua, come non avevamo saputo ballare le tarantelle di Ferragosto, a Marina Grande. Ci saremmo limitate, oggi come allora, a saltare, e battere le mani.
Però ci siamo riconosciute, e salutate.
E siamo scese insieme verso la città, uguale a ogni nostra città, che da lassù sembrava sdraiarsi un po’ scocciata, ma in fondo benevola, ai nostri piedi.
Mi sta venendo un sospetto sui progetti a lungo termine. Di qualsiasi tipo. Di lavoro, d’amore. Soprattutto, forse, di quelli che facciamo nel nostro tempo libero e non sono costanti: associazione di volontariato, giornalino amatoriale, circolo di amici che si incontrino per uno scopo comune, dalla partita di bridge alla birra ogni tanto.
Credo che la chiave perché funzionino e si mantengano sia accettare che il progetto iniziale si modificherà, prima o poi, e va bene così.
Perché cambieranno le persone che ne fanno parte e le circostanze che l’accompagnano.
Prendiamo un’associazione politica, o di volontariato. Capita che nel corso del tempo alcune persone la lascino, o perché vanno altrove, o perché non hanno più tempo o interesse, o, come spesso capita, per dissidi con altri membri.
Allora, se tutto va bene, arrivano nuove forze, nuove persone, che non erano presenti al momento della fondazione e non possono condividere in toto il progetto iniziale. Se tutto va bene, l’incorporazione avviene senza troppe scosse. Spesso, però, i fondatori cominciano a nicchiare, a brontolare, a volte a litigare. Parlano di una fantomatica età dell’oro, mai esistita, in cui sembrava avessero fondato Greenpeace, della situazione attuale dicono “Non era quello che mi aspettavo”, e in nome dell’idea astratta che si erano fatti del progetto ne boicottano gli inevitabili cambiamenti.
Questo capita anche a livello individuale, ovviamente: mettere fine a una storia perché “la mia idea” era che avessi le farfalle nello stomaco ogni volta che ti vedo. Potrà funzionare i primi mesi, ma ce li vedete i vostri nonni a vivere cinquant’anni di matrimonio con le farfalle nello stomaco ogni giorno? È ovvio che le cose cambiano, senza per forza doverlo fare in peggio: si attraversano varie fasi, l’attrazione è molto forte all’inizio, si consolida, magari sparisce per un po’, a volte ritorna…
Succede così anche in un qualsiasi collettivo, che non ci pare, ma a volte fa un po’ storia d’amore, o così sembra dai litigi che ne accompagnano la vita: “divorzi” improvvisi, porte che sbattono, malelingue incrociate, “ma cosa va dicendo, di noi?”. Perché sotto c’è rancore, frustrazione, la delusione per non aver visto i propri bisogni colmati dalla realizzazione di quello che volevamo.
E invece siamo noi a boicottare il tutto. Noi, con la nostra pretesa di vedere realizzate esattamente le nostre aspettative.
Perché i sogni, le idee, i progetti, sono creature vive, specie quelli condivisi: si passano agli altri perché li nutrano esattamente quanto noi, e il loro sviluppo non dipende da noi così come non dipende del tutto da noi che nostro figlio venga su come vorremmo: se scarichiamo su di lui i nostri sogni frustrati inganniamo lui, ci inganniamo noi e il risultato sarà un disastro (e quante volte capita, questo, in un’associazione)
Allora, lascio che i miei progetti, al momento di condividerli, diventino nostri. Col rischio di non riconoscerli più come miei, ogni tanto. In questo caso, niente di più sbagliato che sbattere la porta, gridare ai compagni “non vi riconosco più” e poi stupirci del fatto che, quando ci decidiamo a tornare indietro, non li riconosciamo più davvero. Dov’eravamo, noi, quando si era presa quella decisione così contraria ai nostri principi? Perché ci meraviglia che sia stato fatto, se non eravamo lì a opporci?
Vivere con gli altri è sempre una sfida, per la parte di sacrificio dell’ego che comporta. Bisogna trovare il giusto equilibrio tra annullarsi e imporsi, ed è difficile perché non ci riusciamo neanche con noi stessi.
Io cerco di attenermi a queste due regole, quantomai fluide: accettare il cambiamento e restare lì anche quando le cose non vanno come vorrei. Resistere ancora un po’, invece di vivere nell’ambiguità dentro-fuori che porta solo disagi a me e agli altri.
Speriamo di star bene, tutti insieme, prima o poi.
Giuro che non è un titolo ruffiano, è che in effetti ci stiamo talmente scartavetrando le gonadi tra noi, con Gomorra, che non me ne venivano altri.
Colpa di un amico che fa medicina cinese e che mi ha detto, ascoltando un mio sogno, che tutti i personaggi veri e allegorici che vi figuravano (e io faccio sogni-fiume) erano appesi a una cosa: la mia (scarsa) capacità di perdonare me stessa.
E questo perdono o mi sarebbe dovuto venire da… [e aveva indicato il cielo col dito, mentre io diventavo la famosa stolta che guarda il dito], o da me. Comincio a pensare (senza manie di grandezza, eh, la cosa è valida un po’ per tutti) che le due opzioni più o meno si equivalgano.
Ma perdonarsi di che?
Immagino, di non essere stata quello che avrei voluto. È una cosa strana, non essere quello che vogliamo.
È una battaglia che intraprendiamo da soli con noi stessi, e come quella di Macbeth sarà vinta e perduta. Ma sempre da noi.
Ci siamo fatti in testa, spesso in età precoce, un progetto a cui mancavano le cose più importanti: informazioni. Su come saremmo cresciuti, su cosa ci sarebbe piaciuto fare veramente. A volte si hanno da subito, a volte no.
Allora decidiamo a 5 anni che da grande faremo il pompiere, e veniamo su pigri e mingherlini. E non vi dico le aspiranti modelle delle mie parti, un paese di donne generalmente formose e non sempre altissime (ma lì il problema è credere che ci sia qualcosa di sbagliato, in questo). No, sul serio, è come quando siamo bravi in matematica a 16 anni e scopriamo la passione per la pittura a 30.
Ci facciamo un progetto precoce e quando scopriamo che da grandi le cose non vanno come ci saremmo aspettati (non per incapacità, eh, magari solo perché si cambia), abbiamo due reazioni tipiche.
I più saggi diventano flessibili e dicono: ok, che mi piace fare davvero? E cambiano progetto.
Potevo mai fare questo, io? Naaa.
La mia operazione è stata infinitamente coerente: siccome ero incapace di realizzare il mio progetto (più o meno, essere Dio), avrei usato con me stessa la stessa severità che dedicavo agli altri “incapaci” (più o meno, il resto del mondo). Insomma, un po’ di coerenza! Come ho osato non essere alta uno e ottanta, non amare il latino come avrebbe voluto mio nonno, trovare molto noiosi i “fidanzamenti dal basso” paesani?
Imperdonabile.
E invece no, dicono che mi devo perdonare. E la mia responsabilità ce l’ho, nei progetti che sono sfumati, non mi prendo in giro.
Ma a perdonare, come si fa?
Trattandoci bene, mi rispondo speranzosa. Ci siamo dichiarati guerra da soli, stipuliamo la pace. Quando si è abituati alla guerra non viene subito, eh. Per questo ci si deve trattare bene un po’ ogni giorno, mi sa, per dimostrarci che è acqua passata.
È un buon segno del fatto che ci stiamo perdonando, liberarci piano piano del fango di cui ci siamo ricoperti e abituarci a fare cose che ci piacciano.
È come quando nostra madre non ritirava il cazziatone che ci aveva fatto, ma si metteva a prepararci la merenda, e aveva pure un mezzo sorriso.
Ok, lo cercherò lì, il mio perdono. Nella bozza di sorriso che faccio quando non penso troppo.
Voi avete qualche idea, di dove si sia cacciato il vostro?