È tutto pronto. Abbiamo fatto l’ultimo sopralluogo, ci siamo confrontati, bombardati di messaggi facebook e continui aggiornamenti, qualche volta abbiamo pensato di mollare tutto, ma poi ci siamo detti nooo, quest’evento s’ha da fare.
Ingresso libero, però uagliu’, è una gara di solidarietà per contribuire nel nostro piccolo alla ricostruzione di Città della Scienza, almeno un biglietto della lotteria ce lo prendete, no? Certo che sì, specie dopo aver letto i premi. E poi se magna buono e italiano (scusate la ridondanza) a prezzi anticrisi.
Questi 5 giorni sono stati un buco spazio-temporale che ha visto mio fratello e la sua ragazza cimentarsi in una delle più difficili missioni umanitarie al mondo: trasformare la mia tana in una casa per esseri umani. La gatta non era proprio entusiasta, ma si è fatta accarezzare dai nuovi venuti, tralasciando perfino i resti del pollo entrato in casa mia a beneficio dei due carnivori.
Domani ti porto le fotocopie, ho dichiarato due ore fa all’ennesimo interessante incontro per farvi conoscere i miei soldati della Grande Guerra. Domani è sabato, mi ha ricordato la mia interlocutrice. Ma avevo appena lasciato i miei beniamini sulla navetta per l’aeroporto e per me è lunedì. Tanto più che, se non hai un lavoro d’ufficio e vivi nel Raval, un giorno vale l’altro. Magari il venerdì stanno tutti vestiti a festa per andare in moschea, la domenica qualcuno chiude il negozio, e c’è il mercato su Rambla Raval. Ma poca roba.
Lo so, eh, che è passata una settimana, ed è stata interessante anche nelle ore che non mi hanno vista alle prese con Gaudí e con i tour gastronomici per la Barcellona multietnica.
Interessante nel bene e nel male. La mia solita risposta ai periodi no (fare cose) mi sta portando dritta a un altro collasso che vi propinerò in diretta. Ma per ora reggiamo, vecchie ossa permettendo. Adoro creare, nei limiti nel creabile.
Invece mi è spiaciuto vedere meno gente di quanta sperassi alla commemorazione di Íñigo in Plaça St Jaume. C’era Nicola alle prese con le candele, maledetto vento, e pure Esther.
Di lei mi è piaciuto che pubblicasse una foto di quando di occhi ne aveva due, dicendo che a vedersi sui giornali con la benda e tutto, si era sentita brutta, e voleva rivedersi allegra e sorridente dall’ultima vacanza.
Non sa quanto mi ha fatto riflettere sulla bellezza, su quanto possa essere una gioia e una risorsa per arricchirsi la vita, e quanto una padrona spietata, se lasci che t’invada casa secondo le sue regole. Che sono sempre quelle, irrazionali e contraddittorie, del mondo di fuori in questo esatto momento. In quel caso, altro che ventose per appendiabiti o ganci per la spazzatura, casa tua ti crolla addosso lo stesso. Se vuoi sentirti inadeguata ci riesci sempre, c’è chi non ti trova abbastanza accogliente o abbastanza tormentata, abbastanza burrosa o abbastanza pelle e ossa. Le donne le vogliono o rassicuranti o infelici, sono modelli di fascino. L’ho fatto anch’io, a suo tempo, con gli uomini, e mi sono sentita stupida troppo tardi. E sospetto che per gli uomini che ci cascano coi modelli maschili sia peggio, hanno meno strumenti per uscirne, o anche per capire che hanno un problema.
Viva Esther, quindi, Esther che sorrideva e che ora fa più fatica, ma là stava, in piazza.
E, detto en passant, bello che nella tua casa addomesticata, ripulita e piena di ventose, l’amore trionfi. Anche se per cinque giorni. Un amore giovane ma collaudato, fatto di refrain in comune e una profonda conoscenza dell’altro, anche nei suoi limiti. Una profonda accettazione, un profondo rispetto.
Vedo la differenza con gli amori tormentati, scusate l’ossimoro, quelli a cui abitua il caos di città come Barcellona. Quando hai quelli pensi solo perché non chiama, perché non vado bene, perché non va bene, perché. Quando hai l’altra cosa perlopiù non pensi, almeno non a quello che dovresti semplicemente vivere, senza rimuginarci troppo su.
Ed è bello vederlo in azione, ti riempie una casa più delle ventose.
Ti ricorda che la tua preziosa solitudine dovresti barattarla solo con qualcosa del genere, e nient’altro.
I rimpianti non sporcano i piatti. Manco i rimorsi, se è per quello.
Alla fine, quando si tratta di lavarli rimuovi le solite cose: tracce di riso cinese alle verdure, di due giorni fa, le foglie d’insalata nella zuppiera grande, che lasci da parte con qualsiasi scusa e intanto la salsa Caesar avanzata si trasforma in Goldrake. Alabarda spaziale! Meno male che almeno il piatto del cous cous ho imparato a lavarlo subito, se no appesta una casa.
È quando hai ospiti, anche se del tipo buono e indulgente che ti vorrà bene comunque, che ti rendi conto delle condizioni in cui vivi. Specie se una gatta ha ormai preso possesso della casa, senza peraltro parlare di dividere l’affitto. Mi guarda solo con l’aria indulgente di chi dice “se proprio insisti puoi restare”. Bella lei, un giorno scavalco anch’io il balcone dei miei nuovi vicini, che hanno deciso di sfidare ogni luogo comune sulle coppie gay mettendo a palla la Pantoja, e dico sapete che c’è? Il disordine mi sta invadendo casa, mi trasferisco da voi.
Credo che fino a poco fa ci fosse pure qualcosa di feticista, lo psicopatico che si tiene il cadavere della madre in casa per non ammettere che è morta (e magari l’ha pure giubilata lui). Ora no, è proprio pigrizia e indolenza di fronte all’immane lavoro che mi aspetta. Che ci posso fare, nessuno mi ha insegnato a pulire, a che servisse. Vivevo anch’io in una casa dove, come dice Marta Rojals, i letti si facevano da soli come per magia, e il piatto a tavola ti aspettava fumante quando tornavi da casa. Quando ho preso casa da sola è stato anche in barba a quei 2-3 coinquilini maniaci della pulizia e dell’ordine, che peraltro non potevano vantare molte altre qualità. Me li immaginavo seduti nel mio nuovo salotto, a soffrire atrocemente per un fazzolettino buttato a terra dal vento che avrei raccolto solo un istante prima di accompagnarli alla porta.
Ma l’ho fatto anche perché mi venisse voglia di pulire senza che me lo imponesse nessuno, e devo ammettere che sta cosa va un po’ a intermittenza.
Stavolta ad esempio batto in ritirata e, almeno di sabato sera, esco. Il festone non posso, mi spiace non vedere l’amica che lo dà ma sto pure in fase premestruale, e il giorno dopo ho una traduzione. C’è un reading di poesia e racconti all’Hort del Xino, prima di accaparrarmi dieci cm di panca per una birra e un giro di coplas kitsch a O’ Barquinho.
Grandioso, l’hort del Xino. È uno dei vari orti popolari di Barcellona, coltivato dagli abitanti del quartiere. Non ci andavo dal cineforum indignado, due anni fa, che con un proiettore scalcagnato ci aveva trasmesso l’ultimo di Roger Moore. Stavolta c’è un tendone artistico con microfono e un angolo ad alto tasso glicemico, solo birra, dolci e succo di frutta.
Arrivo in tempo per l’ultima lettura e per una piccola recita, coperta dalle grida dei bambini che si rincorrono nell’orto. La recita è carina, una passante strattona con un’asse da stiro un tizio seduto a leggere, e scopre che non sente dolore,a ben vedere non sente nulla. Suo fratello Pol gli ha fatto un elenco di cose che possono fare male, e siccome le assi da stiro non sono contemplati… Alla fine la tipa lo bacia. Niente. Solo all’ultima botta, sempre accidentale, mentre si allontana con l’asse da stiro, il tipo dice “au” (ahia lo diciamo noi).
È un inizio, gli concedo applaudendo.
Poi succede una cosa strana. La presentatrice, in occhialoni da sole e gonna hippie splendida, chiede se ci siano musicisti. Il tipo che, altezza a parte, era uguale a un amico che vive in Provenza, si alza e spiega di essere un musicista… provenzale. Prende il tamburello e una fisarmonica casereccia alla Bob Dylan e canta canzoni in occitano, con qualche variante tra il moderno e il demenziale. Poi ci raccomanda di cliccare sulla sua pagina facebook. Come hai detto che si chiama?, chiedo.
E finiamo per parlare di trovatori occitani e strane lettere trovate tra quelle dei miei soldati, firmate Madame Mistral. Sostegno alle “meirino de guerro”, e bestemmie mie al momento di tradurle.
Lui è venuto apposta a Barcellona per occuparsi di musica e lingue minoritarie, “che la Francia su queste cose è bacchettona e Parigi, in fondo, provinciale”. Che palle essere di un paese così chiuso. Eh, rispondo.
La tammorra la suona bene un tizio che conosce in un centro sociale lì vicino, mi dice il nome, ho presente? Ehm, qualche pagina alle medie.
E poi la differenza tra lingua e il dialetto, e l’occitano in via d’estinzione e il napoletano vivo e ruspante ma proibito ai bambini chiattilli. Finché il freddo polare dell’orto e le tenebre e la constatazione empirica che, per dirla in occitano, stammo sulo nuje e Pino Mauro, non sfrattano anche noi.
Sono contenta. Ogni volta che vinco ciclo, rimorsi e rimpianti e piatti sporchi (e sei piani da risalire) per andare a curiosare nel Raval fricchettone, ne vale sempre la pena. Meglio che restare a dar la caccia alla gatta.
D’altronde, se vivi nel centro di Barcellona, un po’ te lo devi aspettare. Domenica sera, di ritorno da una despedida italiana (è quando l’ennesimo italiano all’estero va a vivere nell’ennesimo paese che non sia l’Italia e saluta tutti), attraverso il carrer Robadors, strada di sante, puttane e filmoteche (le sante poche, in verità, le filmoteche una), e scopro un concertino al Robadors 23.
Neanche tanto affollato, stavolta. Il mitico cameriere pako non sta all’ingresso a spillare i 3 euro e chiederti di default “Come va? È tanto che non ti vedo, tu trabajo bien?“. Le domande giuste al momento giusto. Ma stanotte via libera.
Mi siedo al primo sgabello libero della spelonca in fondo, dove fanno i concerti (quello che suona il cajón lo conosco, si teneva una coinquilina che lo invitò a casa per un salmorejo) e penso che questo bar per me è stato come l’armadio di Cronache di Narnia: mi ha aperto le porte a un’altra dimensione. La Spagna.
A me, che ancora vivevo di baretti al Gotico per turisti occasionali e lunghe domeniche post-sbronza in un appartamento che diventava un film di zombie. Finché la prima spagnola che osò affittare una stanza da noi, esasperata, mi considerò ancora recuperabile e mi portò qui. Allora si fumava ancora, e insieme alla sensazione del fumo nei capelli conobbi il magico mondo del flamenco fatto da catalani.
E per un po’ questi musicisti boemi, figli e nipoti di andalusi oppure catalanissimi, di quelli con due cognomi tipo Puig Grau, popolarono il mio salotto italo-svedese-olandese, per scoprire che la frittata di maccheroni esisteva davvero. Ricambiarono con tortillas vegane, qualche intricato caso di gelosie incrociate e una breve convivenza sulle montagne di fronte alla Costa Brava.
Tutto quello che resta di quell’epoca di fumo e tortillas è Robadors 23.
Che nel frattempo, oltre a jam e flamenco e concertini a 3 euro, si è riempito cose nuove: comiche americane pazzoidi col loro seguito di friki, e qualche serata così, per caso, con tre napoletani che si siedono con me al bancone nel momento in cui lo stereo dà Tu vuo’ fa’ l’americano, e scatta un coro. Uno dei tre, se è ispirato e c’è qualche bella ragazza a guardare, si mette perfino al piano.
Adesso, invece, flamenco puro e duro, la jam della domenica. La mia insegnante di flamenco, quelle tre lezioni che presi al centro civico di Paral·lel, si alza un attimo dalla prima fila a baciare la cameriera stralunata del Bar Salvador, quella che parla uno spagnolo che mi sembra latino, e poi francese. Mi meraviglio sempre troppo di quanto sia piccolo il mio mondo di qua.
La tipa che canta ora pure l’ho vista, da qualche parte. Cerca di ricordarsi una canzone che non conosco, si eres vela yo soy viento, si eres cauce yo soy río… Nadie habló de enamorarnos. Pero Dios así lo quiso.
E sulle vele del vento flamenco ripenso al mio ultimo appuntamento, con uno di quelli coi cognomi catalanissimi che a un certo punto aveva dichiarato, patriottico, “Non mi piace la musica spagnola”. Gli avevo scritto scherzando che non andavamo d’accordo, anche perché a me il flamenco non piacerà tanto, ma più della sardana sicuro. La risposta furiosa e indignata mi ha fatto rimpiangere di non aver replicato con un video di Camarón.
Vegetariani di tutto il mondo, unitevi: da Elias & Zakaria, spartanissimo bar sul c. del Carme, c’è il cous cous vegetal a 5 euro. Non quello che vi arronzano al maghrebino normale, che poi non sa manco come farvelo, senza carne.
Ma vabbe’, prima di precipitarvi lì documentatevi sul brodo, il mio panettiere dice che è sempre e comunque di carne. Quindi magari vi ho appena detto una stronzata, verrete sotto casa mia a picchiarmi e fareste anche bene.
Ma non di venerdì, per favore.
Quando un lavoro ce l’avevo, il manager di venerdì entrava nella stanza e invariabilmente diceva: “Today it’s a good day, today it’s Friday!“. Ero l’unica a non volerlo strozzare, la sua vita era un’eterna sorpresa come per la buonanima di mia zia, che ogni domenica mi chiedeva se Simona Ventura non avesse freddo, conciata così.
Ora che non lavoro più, quello che cambia è che non mi pagano. Ma di venerdì mi sveglio alle 8 e alle 8.15 sto attaccando coi lavori di chi non lavora: traduzioni, progetti di ricerca, proposte di pubblicazione… Ok, stavolta che avevo il ciclo ho cominciato alle 9.30. E mi è andata bene: Leonardo Da Vinci se n’è rimasto buono buono nel capitolo della settimana scorsa, senza uscirsene con qualche intraducibile invenzione alla Mc Gyver, ma di dubbia efficacia. E mentre rispondevo in catalano a una paludata casa editrice che mi proponeva un incontro, avevo nelle orecchie a palla LU TAMBURREDDU MEU VENE DE ROMAAA.
Alle 14.30 (che qui si mangia tardi), il cous cous di cui sopra con un quasi-vicino che ormai è il convitato del venerdì. Un piatto per due, date le dimensioni, basta e avanza. Mettici il laban per me e il mitico succo di banana e avocado che fanno così bene i marocchini (davvero, a imitarlo non ci si riesce), e col tè alla menta finale siamo usciti sazi con 5 euro a testa. Standing ovation alla cuoca, che come sempre mi ha sorriso pacioccona con la faccia incorniciata dal velo.
Abbiamo deciso d’inseguire il sole, che si è fermato a Plaça Espanya al Caixa Forum. In tanti anni non l’avevo visto mai, il volto presentabile di Mordor. È un centro che organizza conferenze ed esposizioni. Un’amica latina che ha lavorato per un po’ a La Caixa come contabile, non proprio una socialista bolivariana, diceva che era un buon metodo per giustificare certi movimenti di denaro. Io mi sono persa tra le esposizioni. Quella di fotografia propone lastre di metà ‘800 accanto a rifacimenti, parodie e ritratti di oggi. Mi piace la riproduzione del 3 de mayo di Goya, senza i protagonisti, rimossi digitalmente. Quella lanterna nel buio di un angolino desolato di Madrid era spettrale e riconfortante insieme, poteva essere lo scenario del terzo atto della Bohème come il mio balcone con una nuova lampada IKEA.
E poi, in un’altra sala, la colorata fila di striscioline su cui l’artista aveva stampato i desideri di 10mila persone. desidero che non ci sia gravità, desidero che la mia famiglia viva a lungo, desidero… Lì mi sono resa conto che non avrei saputo che scrivere. La risposta è sempre stata un nome proprio di persona, sempre lo stesso. E ora? Nel dubbio ho scelto il mio nastro, se ne può scegliere uno. Per scoprire col mio accompagnatore che, tra tante risposte, avevamo preso entrambi “desidero che i miei desideri si avverino”. Attenzione, gli ho detto, attenzione a ciò che desideri, perché potrebbe avverarsi.
Nell’attesa, ho deciso di chiudere col mercatino vintage a Gràcia, alla Casa Capell, Rambla del Prat 27. Però ho un problema col vintage di qua: perché questi vestitini a 30 euro, di taglio delizioso, devono sembrare carta da parati, con profusioni di fiori e frutta e beveroni di trine e ghirigori? Per la stessa ragione per cui una parrucchiera di Barcellona non ti sa fare una linea dritta in testa, e i fricchettoni ritengono che verde e cocozza sia un grande abbinamento? Insomma, ho cercato di vincere le divergenze culturali infilandomi coi vestiti più semplici in uno stanzone con su scritto “camerini”. Sì. Sono finita tra un esercito di donne in mutande, che si contendevano ridendo i pochi specchi in giro. Niente tende. E le mie autoreggenti H & M fresche di terzo lavaggio a trasformarmi ufficialmente in Priscilla, la regina del deserto. Superato l’imbarazzo, è stato divertente. Le amiche ridevano e si passavano i vestiti, quella con le tette strizzate nei corpetti anni ’60 vicino a quella secca a cui tutto scivolava addosso perfetto. E ho pensato a quanto siamo belle, tutte (tranne me, con la biancheria spaiata da ciclo).. E quanto spesso ce lo scordiamo.
Dopo essere scesa alla fermata Paral·lel, sulla strada di casa ho visto gente in fila, guarda un po’, alla Caixa all’angolo di Nou de la Rambla, che ha anche un bancomat interno, deserto per l’occasione. Mi sono affacciata e accomodato a terra sotto varie coperte c’era un uomo, ancora giovane, immobile, bocca e occhi aperti. Ho aspettato di vedere che respirasse, mentre un signore mi osservava preoccupato, e ho deciso di andare avanti. Il signore era preoccupato solo di vedere se entrassi, “io, con quello lì, dentro non vado”, ha borbottato in catalano.
Su Nou de la Rambla mi sono fermata. Ok, respira. Ok, è un luogo chiuso. Ok, non so come reagisce se gli chiedo se sta bene. Non sono tenuta a farlo. Se vado via non ho niente da rimproverarmi, se torno indietro…
Sono tornata indietro.
Ora non voglio fare la Pollyanna della situazione, ma il momento più bello di tutto questo venerdì è stato quando il tipo mi ha stretto la mano.
Pensateci. Il signore che non voleva entrare l’avrebbe fatto anche solo per presentarsi. Un barbone che si degni di stringerti la mano è raro quanto una nonna che non sappia cucinare.
E io da oggi (nonna non me ne voglia) posso vantare di aver sperimentato entrambi i fenomeni.
Sarà demenza senile. Un articolo sulle Questioni meridionali l’avrò pur fatto, un giorno o l’altro.
Se mi sfottono pure, che non mi perdo un concerto al Quiet Man, in genere di venerdì.
E no, non storcete il naso: un concerto di musica folk del Sud Italia ci sta benissimo, in un pub irlandese.
Prima di tutto, perché a me piace il barista. Solo che è il tipo che ha il profilo nascosto su facebook, e quando sono riuscita a sbirciarlo, grazie a un amico ignaro che pure suona nel pub, non lo trovo in foto con una donna? Un appello: tell me it’s your sister! (No, perché quando gli dicono di alzare il volume della cassa non capisce né in italiano né in spagnolo)
E poi perché è divertentissimo vedere i turisti biondi che si fanno strada a stento in cerca del bagno, tra le matasse di riccioli neri che ondeggiano non proprio a due metri dal suolo, giusto per non smentire certi luoghi comuni sulle fisionomie del Sud.
I riccioli di Piero Pesce, il Giannini de nosaltres, sfidano ogni legge di gravità, e quando, accompagnato in genere da Stefano Pompilio, Jimmy Sciortino e Flaviano Jeronimo (Marta dell’Anno devo averla ascoltata con loro solo una volta su Rambla Raval, alla festa del barrio), ci fa accovacciare per Santu Paulu de le tarante, gli si fermano ritti sulla testa mentre sorride della nostra scomodità e del terrore dei soliti turisti, che non sanno cosa sarà quando ci alzeremo tutti di colpo e balleremo come posseduti.
Io a volte ci provo, a dirglielo, “Kneel down, it’s fun!“, ma non sempre mi credono.
Peccato. Noi veramente ce la mettiamo tutta, a improvvisare balli che magari in Italia non ci capita mai di sentire dal vivo. Io a Napoli non avevo mai osato danzare, davvero. Tranne una volta alla Notte della Tammorra in Piazza Mercato. A un certo punto, in un cambio di musica, mi ero girata e avevo avuto l’impressione che tutti avessero qualcuno con cui ballare, tranne me. E quando a fine concerto m’invitò un tizio, i suoi amici gli lanciarono una scarpa che indovinate un po’ chi colse. Fu emozionante, però, perché al momento di Kali Nifta , una coppia che in Italia non si potrebbe sposare si era messa a ballare un lento in pubblico attraverso di me, stretta in un doppio abbraccio contento.
Qui a Barcellona si possono sposare tutti e io ballo da sola: il corteggiamento dei balli popolari mi annoia, se mi giro è per vedere se sto pestando i piedi a qualcuno. Però, oltre alle varie tarantelle, qualche tammurriata e pizzica, e canzoni carine e ritmate come Hagg vist’ (testo calabrese, giuro che al secondo verso capisco chchchchchmoooraaa, con la finale neutra catalana), mi piacciono pure quelle lente. C’è Melanconica che, cantata a tradimento da Piero al Pastis Poetry Slam, mi stava intossicando il premio guadagnato per eliminazione concorrenti (tutti scappati a prendere la metro tranne me e il secondo classificato): forse chistu core chino ‘e pena/ aggia rompere ‘e catene/ l’aggia libbera’.
E poi fanno Nun te scurda’. Per vendicarsi del mio chchchchmoooraaa Piero dice sempre chisto invece di chesto, ma la parte parlata chapeau, avevo difficoltà io, da adolescente…
E poi, come bis, se allucchi abbastanza, c’è lei. Brigante se more. Cantata a squarciagola con tanto di risata diabolica eh oh ah ah ah ah.
E, in mezzo agli amici spagnoli più gasati di loro (“Però això és català!”, “Si chiama napoletano”), questi gggiovani del Sud, partiti senza bastimente con un biglietto Ryanair (che se non lo stampi so’ 40 euro), ridono in faccia non so a cosa: al piemontese che avimma caccia’, ma ormai solo se canta lavali col fuoco; a quei catalani che pensano che siamo solo italianini che vomitano per strada, e ci parlano spagnolo pure se teniamo il C; a questa crisi dentro e fuori che ci porta a gridare che brigante se more in un pub irlandese, a cento passi dalla Rambla.
L’hanno organizzata anche quest’anno, eh, la manifestazione dell’8 marzo. Come sempre parte da Plaça Universitat, stavolta alle 19, e arriva in Plaça Sant Jaume. Andateci, se potete, è bello e confortante vedere quanti uomini partecipino.
Ma il 2009 per me fu impagabile.
Non mi sembrò vero, scendere per la Rambla. Stavo leggendo, per la tesi di dottorato, di operaie che avevano fatto lo stesso durante la Prima Guerra Mondiale, per il caroviveri e la scarsità di carbone. Roba che ai tempi la polizia di Barcellona ti massacrava pure se eri incinta. Come cambiano le cose, eh?
E allora queste ragazze che lungo la Rambla si palleggiavano il mondo, un mappamondo gigante, gonfiabile, mi divertirono più dei loro cartelli improbabili in tutte le lingue (con errori che li facevano più sfiziosi). Certo più delle austere custodi catalane della Transizione, che sfilavano coi loro caschetti sbarazzini di cinquantenni composte. Ma a quelle, come alle mie ’68ine, dovevo essere solo grata.
La Transizione l’aveva vista un po’ anche questa tipa, sul palco di Plaça Sant Jaume che è la sede del poder (maschile singolare anche qui). A un certo punto ha detto una frase che mi ha colpito molto:
– E ci perdoneremo per essere diventate padrone della nostra vita.
Cavolo, sì. Che grande concetto. Ora so che è anche multisfaccettato, perché gli esseri umani, indipendentemente dal genere, non vedono l’ora di scaricare le proprie responsabilità sugli altri, meglio se sul destino. Prendersi quella della propria vita è in effetti imperdonabile.
L’anno dopo fu magico per un altro motivo. Nevicò. E, quel che è peggio, cominciò che ero entrata da cinque minuti nell’Arxiu Nacional. A Sant Cugat, che se come me vi sentite lontani da casa a lasciare il centro si traduce culandia ulteriore. Scese apposta il direttore ad avvertire che chiudevano, facendo pure lo splendido a cacciarmi in italiano davanti a due impiegate ammirate.
Tanto, per me era il giorno dell’ottimismo. Stavo in crisi nera e la sera prima, seguendo il consiglio di certi amici nordici, avevo visto The Secret, che se non lo prendi con le molle è salutare quanto l’invasione di cavallette in Israele. E infatti avevo fatto la talebana dell’ottimismo tutto il giorno, ridendo della neve, della cacciata dal tempio della cultura catalana, degli stivali sfondati, della casa senza riscaldamento. Per poi rendermi conto, quella sera stessa, che a essere ottimisti a oltranza pure si fa una gran fatica. Infatti ero esausta. Come faranno i ‘mericani? Intanto, però, niente manifestazione.
L’anno dopo, ricordo quando spiegai al mio ex, pakistano del Kashmir, che quel pomeriggio sarei andata a una manifestazione per i diritti delle donne.
– I che…?
– Diritti delle donne.
– ?
– Women’s rights?
– Yo no sabe.
Però venne a riprendermi col telefonino, mentre scendendo di nuovo per la rambla reggevo uno striscione, Altraitalia credo, con qualcosa su “papi”, nipoti di Mubarak e affini.
Allora la mia vicina, una signora veneta, vide questo gigante di due metri che ci riprendeva ridendo tutto gasato, come se stessimo facendo una cosa divertentissima, e commentò:
– Un ammiratore?
– È il mio ragazzo.
Non sono sicura che il sorriso fosse proprio scevro da sorpresa. Ma quando lui tornò a lavorare (e ripensai a Mrs. Dalloway, il soldato impazzito perché lei potesse fare la splendida coi suoi rimpianti e vestiti anni ’20), ci fu un altro momento magico a Plaça Sant Jaume. Due ragazze italiane salirono sul palco, prima che si sciogliesse l’assemblea in una Barcellona ormai oscura e freddina. Si fece silenzio. E cantarono:
Sebben che siamo donne
paura non abbiamo
ci abbiamo delle belle e buone lingue
e ben ci difendiamo
La catalanissima piazza risuonò delle note di quell’antica canzone italiana. Che ci volete fare, mi emoziono facile.
Infatti la manifestazione scorsa, ancora un po’ fresca di indignados e di feministes indignades, per me non uguagliò quel momento nonostante la maggiore organizzazione, i cartelli fantasiosi con le tipiche forbici dei tagli, e i classici slogan: la 38 me aprieta el chocho (la 38 mi strizza la patana), e il mitico
non è che mi fa male la testa, è che non sai scopare!
Mo’, tralasciando la profondità del messaggio, ce la vedete, in Italia, una libertà sessuale così scanzonata?
Infatti arrivo fino alle “pompe gemelle”, una perla della toponomastica locale, che Udinese-Napoli è già iniziata e devo ammettere che ho perso la bussola.
Come la settimana scorsa, che cercavo Siddharta (unico negozio fricchettone ad aver tentato l’avventura paesana) e ho scoperto che era chiuso. Come la cartoleria che, storpiando il nome, chiamavamo Culo così, carestosa e non ti faceva neanche lo scontrino.
Ma la vineria, scopro quando la trovo, ci ha guadagnato, nella trasformazione. Piccola e accogliente. Solo che sono l’unica donna. Anzi, no, ce n’è un’altra, e la cameriera slava. Quelle della seconda sala le scoprirò poi, qualcuna addirittura struccata. Io per una volta che ho ‘nu jeans e ‘na maglietta li trovo quasi tutti in camicia e maglioncino, quelli seduti intorno alle panche a guardare il Napoli. Sgranocchiano cestini di spassatiempo (nocelle, mandorle ecc.)… Ok, gli ex compagni di scuola li riconosco facile, e pure quelli dell’altra sezione. Ma questo ragazzo che mi ritrovo davanti, sedendomi storta di fronte a Insigne che non va mai a segno, questo andava forte nella comitiva chiattilla, vero? Quella delle ragazze che si spalmavano languide la crema Dune di Dior, prima di scendere e baciare lentamente tutti i motorizzati, una guancia per volta, e allontanarsi da me se dovevano dirsi segreti importanti.
Ora la cosa importante che abbiamo da dirci è che l’Italia non ha il governo.
E il Napoli sta facendo ‘na chiavica di partita.
Pure Diego avrà spento la TV. Che figura ci facciamo, Maradona a Napoli a cancellarsi i debiti in un colpo di spugna, appellandosi al sentido común (e stavolta so cos’è) e questi giocano così, con questi passaggi che non portano a niente. La Juve si allontana e il primo marzo saranno croci a smerza.
Io il primo marzo sarò già a Barcellona a ripetermi che ho fatto bene, ad andare a votare. A convincermene.
– A quanto stammo? – ci chiediamo nell’intervallo. Non la partita, quella è sempre 0-0. Le cicche cadono sul marciapiede, gli iPhone si accendono su Repubblica, Corriere e quant’altro.
-Eh, sta in vantaggio lui.
Non si nomina, come quando vivevo qua. Porta seccia.
– Pecché tene ‘a Lombardia, chillu mErda.
Parliamo dell’Italia che va a rotoli e non posso fare a meno di notare l’accento di paese. Le e aperte, quasi a, le a quasi o, qualche doppia di troppo rispetto al napoletano standard.
– Tu l’ ‘e ‘a fUrni’. Bersani mo’ tiene 167 seggi.
– S’ ‘e chiOva ‘n faccia.
Votano anche Sel, scopro. Più di quanto credessi. Qualcuno ha votato PD al senato, turandosi il naso, per impedire lo scenario che ora si prospetta. Ce n’è uno che ha votato i marxisti. Non quelli per Tabacci, quelli veri.
Il secondo tempo non offre chissà che brividi, a parte qualche tiro in porta e un rigore mancato (Ma qua’ simulazione?). Speriamo fino all’ultimo, fino all’ultimo, che il compaesano Lorenzo ci faccia almeno un gol. Ma niente, Diego starà sbadigliando quanto noi.
Solo che lui poi torna in Argentina, il dio della mia infanzia, quello che veneravano pure quegli zii che non credevano in Dio.
Io, invece, torno a Barcellona. Da quelli che hanno votato per posta o sono venuti apposta, come me. Che si sono candidati, pure. Che a ogni manifestazione stanno lì a sostenere, a solidarizarse, e poi gli dicono che sono scappati.
Da quelli che, guardandoci in faccia a un tavolino di c. Robadors, la strada delle puttane, dicevano che sarebbe strano, proprio strano, incontrarsi in Italia.
E che invece ora, per me, sono più Italia di questo bar di bestemmie trattenute e spassatempo. Più dell’Italia stessa.
Peccato che, a parte gli arachidi, lo spassatempo non so dove trovarlo.
Me ne accorgo per caso, avviandomi sotto un cielo plumbeo che di sole e natura in fiore non ne vuole sapere.
Eppure.
Seguo questa traccia che un fiuto ancestrale, a me che non credo nei fiuti ancestrali, mi fa chiamare col suo nome, ma che è più antica dei nomi nudi delle cose.
Primavera.
La natura che si rinnova, la vita che continua il suo corso dopo il riposo dell’inverno, e le altre banalità che facevano scrivere a noi bambini quando un inverno c’era davvero, e lo faranno anche ora, con questi catalani in miniatura che mi scorazzano accanto in skate o monopattino, vicino alla Rambla del Raval, alternando l’urdu allo spagnolo.
Anche il signore che va in giro vestito da donna, se n’è reso conto. Oggi, sotto la gonna di stoffa pesante dal taglio impeccabile, non ha le calze.
Devo proprio rassegnarmi alla vita che continua. Anche dopo un inverno che è stato una bugia, come quelle che mi ha sussurrato tra qualche pioggerella di rappresentanza e il sole che ora si fa pregare. Le stesse bugie che ho sentito in altre lingue, in altri posti, ma con le stesse e identiche parole, forse perché la paura che le muove è la stessa dappertutto.
Resta da capire perché ascolto quest’annuncio di primavera come se fosse una nota musicale, un accordo che ti evoca chissà cosa e che ti ostini a seguire nel frastuono generale.
Me ne accorgo qualche giorno dopo. Vado alle Cucine mandarosso, che non mi daranno un centesimo per dire che mi ci trovo bene e c’è una bella atmosfera. Quindi potete credermi, o credere alla folla, perché all’anniversario dell’inaugurazione erano piene zeppe come sempre.
E come l’ultima volta, due settimane fa, per sfuggire un po’ alla calca ho seguito le note del locale accanto.
Al piano di sopra fanno una jam, ogni domenica, poco pubblicizzata ed è un peccato, perché ti siedi lì davanti al piano, e puoi restare ore a sentire.
Ma la nota che seguivo non viene dal piano.
Quello mi ricorda solo quest’inverno che invece di esplodere mi è imploso dentro. A esplodermi dentro invece è il sax.
Non so manco che canzone sia. Ma questo sax che attacca all’improvviso mi investe con la garbata violenza che mi piace, arrampicandosi su note che a volte mi sembravano bizzarre, per poi tacere discreto e sorridere a me.
– Nàpols! – mi grida chi lo regge.
Poi dice il mio nome.
Anch’io pronuncio il suo, fingendo di esitare. Appreso in fretta due settimane fa, fuori al bar a concerto finito, prima che i vicini stizziti dal rumore cominciassero a lanciare secchi d’acqua. Ma ricordiamo entrambi.
Poi il sax riprende il suo duetto con la primavera vicina, e le braccia che lo reggono tornano a disegnarsi sotto la maglia di cotone, fino alle spalle abbastanza ampie da reggere tutta la neve che mi è caduta dentro.
Il problema de La Bodega è che non sai mai se hai fatto un affare o stavolta hai pagato un po’ troppo.
Intendiamoci, il padre di mia figlia è sempre onesto. L’Estrella Galicia te la serve fresca al punto giusto, il tradizionale vermut ha la giusta profusione di ghiaccio e agrumi (e l’olivetta), e la tapa de jamón arriva tagliata fine fine, con certe fette di pa amb tomàquet che so’ soddisfazioni. Forse il trucco è che si sta così bene che ordini un’altra caña, e un’altra, e un’altra (io no, mi ubriaco alla prima) e alla fine ti credo, che paghi come se fossi andato a qualche ristorante “squallor ma buono” dei paraggi. Ma vuoi mettere l’atmosfera?
Siedi intorno a tavolini di marmo, che un tempo reggevano macchine per cucire, e c’è una profusione di barili che fa sempre autenticità. Peccato per la folla, ma se vai un po’ prima scongiuri anche quella.
L’ultima volta che ci sono andata, poi, la sorpresa gliel’ho portata io, a questo guineano che è una festa solo dirgli hola, lavora 12 ore al giorno e chi lo ammazza, sta sempre in piedi contento come una pasqua. La sorpresa è una sua vecchia cliente che aveva lasciato Barcellona da un po’.
Ma siccome lei è più o meno impegnata, e non condivide la mia filosofia manichea “se non sono fidanzata sono single” (comodo pretendere fedeltà senza offrire impegno), ad andare in Brasile con lui ha invitato me.
Allora, per ridere e farlo scappare, gli ho risposto:
– Ok, ma sappi che voglio 5 figli!
Fa i salti di gioia! Dice perfetto, mi si siede vicino e comincia a interrogarmi. Ok, voglio fare la scrittrice, quindi resterei io a casa a occuparmi della prole. Equa distribuzione del lavoro domestico? Si può fare.
Il bello è che ogni tanto si gira verso la mia amica:
– Ma mi sta prendendo in giro? Io sono serio! È da quando ti ho vista le altre volte che ho avuto l’impressione che…
Che sappia, poi, che quasi sicuramente genereremo una femmina. Suo padre, nell’isolotto della Guinea Equatoriale da dove viene (“Sei venuto a Barcellona per lavorare 12 ore, come gli altri africani”, lo rimprovera la sorella), ha una quarantina di figli, e solo una decina sono maschi. Confesso che il suocero già mi evoca ricordi poco rispettosi. Ma lui stesso, aggiunge, ha generato 4 femmine su 5 figli.
Azz, sono già matrigna. La maggiore ha 19 anni, poi ce ne sono 2 nel villaggio, che lui ha lasciato 20 anni fa. Direbbe Troisi “Uno a 17 anni già l’ha fatto, ‘o sviluppo?“. Ma la birretta fresca scende giù che è un piacere, e mi viene da ridere.
Non è la prima volta che un collega estranger, ma uno da valigia di cartone e amara terra lasciata per fame, mi sorprende con questa filosofia semplice, vuoi un figlio, facciamolo e poi prendiamocene cura. Il massimo guru di questa corrente una volta mi disse “Problemo no es falta de comunicación, problemo es niño sin pierna“.
Da anni mi fanno riflettere sugli estrangers di lusso come me, i profeti del non so cosa voglio, e comunque che vuol dire ti amo? Ai loro problemi esistenziali e temporeggiamenti e infatuazioni adolescenziali, spesso riassumibili in un pratico “mi cago sotto di crescere”, e benvenuti nel club, ma a non provarci nemmeno non è che non cresci, invecchi e basta.
Questi aspiranti papà venuti dalla miseria, invece, hanno il grande difetto di prendere sottogamba tutti i problemi che non siano un niño sin pierna, come se il piatto a tavola e la tessera sanitaria (che ultimamente pure si fa sospirare) risolvessero problemi di comunicazione, divergenze politiche, culturali, come se essere vivi volesse dire solo essere in grado di sopravvivere.
Così faccio per pagare la mia Estrella, mentre lui già rigoverna e ci usa come scusa per cacciare gli ultimi habitué (che credono davvero che uscirà con noi). Niente soldi, offre la casa, in omaggio alla cliente prodiga che chissà quando torna.
Quanto a me, dice, la mossa lui l’ha fatta, ora è il mio turno.
Ma se la vita è una partita di scacchi, è da un po’ che ho imparato che un’ottima mossa è non fare esattamente niente, almeno quando già sai che hai fatto il possibile.
Al massimo poggiare i gomiti dove prima c’era una Singer e ordinare un’Estrella Galicia.
(quando le figlie nascevano in condizioni estreme)