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Ho tradotto questo breve post nel blog di Coral Herrera Gómez, studiosa di spicco nel mondo spagnolo e latino. Non sempre sono d’accordo con lei, ma credo vada ascoltata. Prima di pensare che “certe cose in Italia non succedono” (sicuro?) dobbiamo tener conto che Herrera si riferisce alle conseguenze dell’amore romantico in tutto il mondo.

Come si evince anche da questa intervista, non si tratta di eliminare il romanticismo, ma di rendersi conto delle trappole in cui la strumentalizzazione dell’amore romantico può far cadere chiunque, a prescindere dal genere. Le donne però sono più esposte a quest’influenza, dunque tendono a subire le peggiori conseguenze. Contrassegno con asterisco le affermazioni su cui rifletto a fine traduzione.

A cosa serve l’amore romantico?

Ecco alcuni degli usi perversi con cui gli uomini patriarcali abusano delle donne in tutto il mondo.

– L’amore romantico è l’arma perfetta per avere una domestica gratuita, disponibile 24 ore su 24, 365 giorni all’anno*. Viene utilizzato da moltissimi uomini che non hanno autonomia e hanno bisogno di una cuoca, di una donna delle pulizie, di un’infermiera, segretaria, psicologa, bambinaia. Inoltre, desiderano ricevere cure senza doverle dare, e desiderano che la donna li serva con un sorriso permanente, che sia accomodante e che copra i loro bisogni sessuali*.

– L’amore romantico viene utilizzato anche perché uno sembri un uomo rispettabile e un padre di famiglia.

– Viene usato per avere discendenti coi propri geni. La donna che ti permette di riprodurti si occuperà di tutta la cura e dell’educazione della prole, gratuitamente.

– L’amore romantico serve come intrattenimento per gli uomini annoiati, con un’autostima molto bassa, e affinché gli uomini possano sentirsi importanti, essenziali, necessari, ed essere trattati come degli dei.

– Serve a mettere in ginocchio le donne più autonome e potenti, e anche le più vulnerabili: con l’amore romantico, gli uomini patriarcali possono avere giovani amanti che hanno bisogno di aiuto per studiare all’Università, o per sfamare i loro bambini.

– L’amore romantico può servire anche alla donna per sostenersi, in alcuni casi, e per arricchirsi in altri: gli uomini patriarcali lo usano per imparentarsi con famiglie benestanti**, per defraudare le donne, per vivere come dei re, per chiedere soldi a credito in nome dell’amante, per fare affari con i loro risparmi e beni.

– I trafficanti lo usano anche per rapire ragazze e adolescenti per la tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale e riproduttivo: la tecnica più efficace per schiavizzare le donne povere è farle innamorare, per poi portarle fuori dal Paese per piazzarle nei campi di concentramento in Europa. La tecnica per far innamorare le donne è antichissima: gli uomini gonfiano la loro bassissima autostima in modo da far credere loro di essere uniche e speciali, bombardandole di regali, complimenti, promesse di futuro. Una volta che si sono innamorate, bisogna farle scendere dal paradiso all’inferno, distogliendo progressivamente le attenzioni e le lusinghe, perché [le vittime] comincino a soffrire e a sentirsi insicure.

In questo momento i signori patriarcali le hanno già ai loro piedi e possono manipolarle come vogliono. [Le vittime] si chiederanno mille volte perché lui si comporta così, e vivranno nella speranza che le tratti nuovamente come regine. Ecco perché ci mettono un po’ a capire che il loro ruolo è in realtà quello di serve. È urgente che le ragazze e le adolescenti riconoscano questi usi perversi dell’amore romantico, che ascoltino le vittime sottoposte allo sfruttamento domestico, lavorativo, sessuale e riproduttivo, abbiano il diritto di conoscere la verità sulla truffa romantica. Le ragazze devono armarsi di strumenti per lavorare sul proprio ego e sulla propria autostima e per raggiungere la propria autonomia emotiva ed economica. È l’unico modo perché l’amore romantico non le soggioghi e non distrugga le loro vite. Non possiamo continuare a educare le nuove generazioni di donne a diventare dipendenti dall’amore romantico: è una droga molto potente, che ci fa molto male. Dobbiamo proteggere tutte le donne dalla sottomissione chimica [sic] e formare reti di sostegno reciproco per salvare coloro che cadono sotto il potere di manipolatori, narcisisti, molestatori, truffatori, schiavisti e femminicidi.

Ne va della nostra vita.

* Questo si dimentica spesso quando si dice: “Lei resta [più tempo di me] in casa, quindi le toccano le faccende domestiche”. Tu dopo circa otto ore lasci il posto di lavoro, e a Dio piacendo avrai diritto a una pensione. Da una casalinga ci si aspetta che sia disponibile 24 ore su 24 vita natural durante, prendendosi cura prima dei figli e poi dei nipoti a meno di non pagare un’altra donna, spesso razzializzata, che lo faccia per lei. Non c’è equità.

** L’idea di mogli e compagne come di “lavoratrici sessuali gratuite” mi è sembrata stranissima finché non mi sono resa conto di quante donne si lamentino, in gruppi come Bridging the Gap, perché non desiderano più avere rapporti sessuali col proprio uomo o ne diminuirebbero la frequenza, ma temono di contrariarlo o di essere tradite/lasciate, o di creare un’atmosfera irrespirabile in casa. Molte parlano di stanchezza per le faccende domestiche che già si accollano, e di rancore per un uomo che ritiene che il tempo della compagna valga meno del proprio. D’altronde ciò che oggi intendiamo per rapporto sessuale è pensato per il piacere maschile, e il fatto che la penetrazione non favorisca quasi mai un’adeguata stimolazione clitoridea viene frainteso come un “Le donne vogliono fare meno sesso”.

*** Questo aspetto per me è sottovalutato: si parla soprattutto della “gold digger” donna perché le donne hanno meno potere economico, ma tantissimi uomini nella storia hanno usato i legami affettivi per entrare in certe società: dai normanni in Meridione, che si imparentavano con i nobili locali sposandone le figlie, passando per i fidanzati delle moderne celebrità. L’istituzione della dote prova quanto il matrimonio fosse un patto di interesse per entrambe le parti. Infine, vivendo a Barcellona vi assicuro che uomini senza i documenti in regola sono disposti a corteggiarvi, a sposarvi, e pure a pagarvi (a suo tempo erano 5.000 per una coppia di fatto, il doppio per un matrimonio) per ottenere tramite voi la cittadinanza europea. Le persone discriminate, svantaggiate in una società, usano qualsiasi mezzo per aiutarsi a prescindere dal genere.

Da El País

Ecco da dove venivano i meme!

Dovete sapere che, mentre ero immersa in faccende che avrei romanzato qui, e giorni prima che iniziasse il confinamiento (lockdown) in Spagna, cominciavo a vedere sul web dei cartelli retti da donne che rivendicavano il diritto di ubriacarsi senza che la cosa pregiudicasse, sapete, questo vizio che abbiamo di voler comunque tornare a casa sane e salve, checché ne dica Giambruno (che manco conoscevo)… Perché anche qui, nella terra del botellón, l’idea prevalente era ancora: la violenza maschile è inevitabile, stai attenta tu a non esportici. Figuratevi da noi! Un amico, ricercatore italiano a Londra, postava il caso dei due ragazzi italiani che avevano violentato una ragazza ubriaca in un locale di Soho, e una commentatrice italiana coglieva l’occasione per far notare che “questi [gli inglesi], hanno un problema di alcol davvero serio”. Sì, replicavo, ma sono inglesi anche espressioni come victim blaming e slut shaming, che per qualche arcano motivo sono difficili da rendere in italiano. Lei poteva forse illuminarmi sul perché?

E invece, qui in terre iberiche, daje coi cartelli che tradurremo come “sola e ubriaca, voglio arrivare a casa” o quello che dopo vent’anni da girovaga ci ho proprio tatuato nell’anima: “Quando torno a casa voglio essere libera, non coraggiosa” (anche se di solito mi si diceva che “avevo avuto fortuna”).

Da Nueva Tribuna

La ministra spagnola delle Pari Opportunità, Irene Montero, aveva citato il primo slogan nel corso di interviste TV in cui difendeva la legge sulla libertà sessuale, detta anche “legge del ‘solo sì è sì'”, che nonostante il persistente fuoco amico della coalizione veniva presentata come “pioniera in tutto il mondo”. Si prefiggeva infatti di cambiare sia il codice penale che la mentalità che accompagnava certe scelte giuridiche: stavolta al centro della questione c’era il consenso, esplicito, in assenza del quale si parlava di aggressione sessuale, eliminando così anche la differenza tra abuso e aggressione. Era inoltre necessaria una riforma in ambito educativo, sanitario, giudiziario, per fomentare la prevenzione di casi di violenza e promuovere l’accompagnamento delle vittime, impedendo il solito copione per cui queste ultime o non venivano credute (e Montero citava il famoso “Sorella, io ti credo” sorto in seguito alla violenza de La Manada*) o subiscono una seconda vittimizzazione in cui viene loro chiesto “cosa stessero facendo” per cadere vittima di un’aggressione sessuale. In realtà un aggressore, puntualizzava la ministra, ti colpisce a prescindere da dove tu vada, da come tu vada vestita, da se ballassi o meno…**

Lo slogan “sola e ubriaca” compariva in una campagna ministeriale, che voleva trasformarlo “in una realtà per smettere di vivere nella paura”, e chiosava: “I diritti delle donne non si perderanno mai in vicoli oscuri”.

Prima che facciate il biglietto sul sito della Vueling: l’opposizione si è fatta sentire subito, con le argomentazioni che immaginerete. Pablo Casado, del PP, parlava di istigazione all’alcolismo e ricordava che la OMS suggeriva di bere con moderazione, mentre i mai troppo rimpianti (scherzo) Ciudadanos, nella persona di Inés Arrimadas (nostalgia canaglia!), parlavano di un “settarismo” del governo Sánchez che ostacolava la “vera” lotta per i diritti delle donne. Anche Pepe Rubiales, come accennavo qui, parlava di femminismo buono e cattivo, oltre ad aggiungersi alla tradizione di uomini che spiegano come si debba reagire a un abuso. Il mio preferito resta Santiago Abascal (l’amico di Giorgia Meloni) che vedete qui nella sua foto che preferisco, quando incitava alla reconquista di Spagna che manco i Re Cattolici:

Scusate, dovevo mostrarvela, ma torniamo a noi, anche perché il leader di Vox è l’autore della dichiarazione più pittoresca: “È una cosa tra il comico e l’aberrante. L’obiettivo del ministero delle pari opportunità è che le donne vadano sole e ubriache per strada? Qualcuno può spiegare a questo governo che un ministero non è un pigiama party, e che coi soldi degli spagnoli non si promuovono idiozie?”.

Ebbene sì, anche qui, anche all’interno della stessa sinistra, le critiche possono riguardare il modo in cui vengono spesi “i soldi dei contribuenti”, con l’accusa in stile Arrimadas di alimentare settarismi, piuttosto che occuparsi di questioni che interessino “todos los epañoles” (scusate, traduco subito: “tutti gli spagnoli cis etero di classe media”***). Capirete però, e lo dico nonostante le mie critiche a Sánchez sulla questione catalana e repubblicana, e soprattutto sulle politiche migratorie, che il benaltrismo è un’obiezione più difficile da muovere a una sinistra che, invece di trascurare i diritti sociali per fingere di portare avanti quelli civili (scusate l’immaginario fantascientifico!), taglia l’iva sui beni di prima necessità, prova a regolarizzare i contratti di lavoro, e riesce con una manovra in cui non credevo neanche io a salvarsi a rotta di collo dal (re)conquistador di cui sopra.

Per la cronaca, Montero ha replicato alle accuse con questo tweet: “Quando le donne gridano per le strade ‘Sola e ubriaca, voglio arrivare a casa’ dicono qualcosa di fondamentale: né il tuo modo di vestire, né il fatto che tu abbia bevuto, NIENTE, giustifica o attenua un’aggressione sessuale. Questo ministero lavora perché la Spagna sia un paese libero dalla violenza maschilista”.

Mica solo il ministero.

*Come spiega questo articolo, non si tratta di attentare alla presunzione di innocenza, ma di contestare la linea di difesa degli aggressori per cui la vittima “se l’è cercata”. Dunque, l’imputato è sempre innocente fino a prova contraria, ma non può più costituire una prova di innocenza il fatto che la presunta vittima, come nel caso de La Manada o di alcune vicende italiane, non avesse reagito alla violenza nel modo che si aspettavano i giudici, o i legali, o certa stampa.

**Io mi sento solo di confermare le statistiche, perché dall’età adulta sono sempre andata dove volevo a qualsiasi ora, e le mani sul sedere o sui genitali le ho avute mentre ero vestita di tutto punto, davanti ad altre persone che magari mi volevano bene – un saluto al vecchio rattuso del supermercato sotto i portici, che mi diede una pacca sul sedere davanti a mia madre – e quasi sempre in pieno giorno, di sicuro mai in strada da sola. Quindi mi diverte ricordare l’amico molisano che diceva: “Ah, già, tu devi essere di quelle che non si fanno riaccompagnare a casa la sera”. No, è che non ci ho mai pensato: la mano sulla patana a 14 anni l’ho avuta alle quattro del pomeriggio a Napoli, sul famigerato e affollatissimo autobus R2! E poi, attenzione a chi si offre di accompagnarti: una sera del lontano 2004, in Inghilterra, ero io ad accompagnare un ragazzo austriaco ai cancelli del mio studentato, che si aprivano solo con un chip in dotazione di noi residenti. Il tipo provò a baciarmi nonostante le mie resistenze, in presenza di un ubriacone che passava di lì e gridava: “Pure io!” (cioè, per colmo di ironia, “Me too!”), per poi farmi sapere che mi rifiutavo solo perché ero “a chick”, ‘na zoccoletta. Poi mi chiese scusa (l’austriaco, non l’ubriacone).

*** Scusate, mi ricorda troppo l’intellettuale italiano che si chiedeva: a una lesbica precaria interessa di più il linguaggio inclusivo o trovare lavoro? E quando nei commenti Facebook si provava a dire “Why not both?”, peraltro in toni piuttosto pacati, un sostenitore del filosofo qui sopra (che non linko per compassione) si lamentava perché “non si può più parlare di niente senza manifestare rabbia”. E non ve la prendete se stavolta vi traduco questa, che è una frase italiana, con l’ennesima, efficacissima espressione inglese.

Traduco, come sempre “a sentimento”, questo articolo di opinione del giurista Octavio Salazar, comparso sull’edizione online di Público il 27/08/23.

Da infobae. Scusate se in foto voglio mettere lei.

In questi giorni il caso Rubiales ci sta dimostrando che la società spagnola è cambiata molto, e in meglio. L’azione instancabile delle femministe e l’impulso politico che ha individuato determinate questioni nel dibattito pubblico – come, per esempio, la centralità del consenso nell’approccio giuridico alle violenze sessuali – hanno contribuito al fatto che azioni e comportamenti che fino a pochissimo tempo fa erano irrilevanti diventino ora intollerabili.

È il dato più positivo che possiamo ricavare da eventi che ci stanno dimostrando, come se fosse la lezione base di un manuale di studi di genere, come la mascolinità è stata e continua a essere uno strumento di potere, un artefatto culturale e politico sempre più eroso e messo in discussione, il che sta provocando reazioni da parte di uomini offesi e furibondi. Si tratta di una contestazione che è parte centrale del discorso dell’estrema destra che avanza in tutto il mondo, e che incontra terreno fertile sui social, dove assistiamo alla crescita pericolosa di ciò che le esperte chiamano ‘manosphere’: un termine con cui oggi nominiamo la misoginia di sempre, che però ora viene proiettata sugli schermi, a loro volta in mano a poteri maschili.

Le reazioni di Luis Rubiales, e in particolare il modo in cui ha articolato il suo discorso nell’Assemblea della Federación Española de Fútbol, rispondono fedelmente alle esigenze di un mandato che è costruito sull’idea di dominio, e sulla negazione della soggettività e autonomia femminili. Allo stesso tempo, questo mandato è bisognoso del sostegno dei “confratelli” [fratría], in una specie di performance riaffermativa e celebratoria.

È così che, nella lunghissima storia del patriarcato, è venuto fuori con insistenza ciò che Celia Amorós denominava “patti giurati tra maschi”, dei quali fanno parte, come abbiamo potuto ben vedere in questi giorni, le complicità silenziose e le comodità dietro le quali noi uomini ci siamo abitualmente trincerati, beneficiando sempre, benché in modi diversi, dei rapporti asimmetrici con le donne. Il desiderio di dominio, che è anche desiderio di possesso, si proietta singolarmente sui corpi e la sessualità delle donne. È da lì che sussiste ancora oggi una delle frontiere che definiscono il polso di un regime, quello patriarcale, che non vuole saperne di sparire.

Il problema che abbiamo dunque con la mascolinità, intesa come ‘megastruttura’ culturale e politica che ci definisce in maniera personale e collettiva, è un problema politico. E lo è perché ha a che vedere col potere, coi (dis)valori associati alla mascolinità stessa, e coi meccanismi che per secoli hanno mantenuto noi uomini come la metà privilegiata dell’umanità: coloro che definiscono l’umanità e gli amministratori dei beni e delle opportunità, i re della casa e i principi della città, coloro che di solito non hanno avuto nessuno scrupolo a usare vilmente le donne come scudo, o coloro che hanno usato con frequenza la strategia di trasformare le vittime dei loro abusi nelle “femmes fatales” che avrebbero distrutto le loro vite.

Non ci bastano le soluzioni individuali o la buona volontà dei singoli, ma è urgente una trasformazione sociale che metta il dito nelle piaghe dei poteri – inclusi, non lo dimentichiamo, quelli economici, che sono quelli che dettano legge – e che costruisca una cultura di emancipazione: niente di più e niente di meno di ciò che da secoli cerca di fare il femminismo, non quello “buono” o “cattivo”, ma l’unico*, che a sua volta si proietta in centinaia di ramificazioni che partono dallo stesso tronco. È un orizzonte che sarà possibile solo se, insisto, cominciamo a rompere questi patti che ci sostengono e fomentano: un compito che tocca singolarmente a noi che in maggior o minor misura beneficiamo di tali patti. Dobbiamo svolgerlo intanto che impariamo a riconoscere il valore e l’autorità delle donne, in quanto soggetti che ci equivalgono in qualsiasi ambito umano, e per i quali non dobbiamo continuare a essere il punto di riferimento a cui aspirare.

Oltre a quanto detto in precedenza, il caso Rubiales dovrebbe farci riflettere anche sulla necessità di non aspettarsi troppo dalle soluzioni che possano venire dal Diritto Penale. Va da sé che, se le azioni del personaggio in questione hanno gli estremi per una denuncia, e si agisce per vie legali, la legge dovrà essere applicata con tutte le sue garanzie e conseguenze. Tuttavia, quando parliamo di questioni relative alla cultura che abitiamo e che ci abita, la risposta dovrebbe provenire dalla comunità, dalla reazione della società e dagli effetti pedagogici che possano tenere i limiti e i freni posti a partire dall’esercizio delle responsabilità pubbliche. Pertanto le possibili sanzioni, come ad esempio il ritiro del sostegno economico, devono avere più valore per le conseguenze negli immaginari collettivi, che per il livello di punizione che costituiscono. Ricordiamoci una volta di più che il Diritto Penale non ha mai contribuito a una maggiore uguaglianza, e nemmeno a una maggiore giustizia sociale.

Il caso Rubiales ci sta insegnando, inoltre, che noi uomini abbiamo davanti un lungo processo di apprendimento, però anche di dis-apprendimento di tutto ciò che il maschilismo ha convertito per noi in punti di riferimento e aspettative. È un processo che dev’essere accompagnato da un impegno militante e pubblico che, come minimo, ci faccia prendere le distanze, come finalmente hanno iniziato a fare alcuni calciatori, da coloro che ancora si prodigano a imporre la legge del più forte. A patto che, ovviamente, questo impegno non obbedisca alla necessità di ricoprirci con la gloria del politicamente corretto o delle “nuove mascolinità”**, ma che risponda alla necessaria cooperazione che le donne reclamano da noi per rendere questo mondo più giusto ed egualitario. E questo passa, per forza di cose, per il coraggio di guardarci allo specchio e iniziare a smontare il Rubiales che tutti, in maggiore o minor misura, portiamo dentro di noi.

*Anche a queste latitudini, molti benaltristi e lo stesso Rubiales distinguono tra un femminismo buono, come quello che esigerebbe “la parità” (che per questi uomini spesso significa ignorare il lavoro di cura gratuito e risparmiarsi l’assegno di mantenimento), e uno cattivo, costituito da ragazzine capricciose che pretendono addirittura un’adeguata legislazione sul consenso, o la distribuzione paritaria del lavoro di cura. Che tempi.

**Per me il politicamente corretto è uno spauracchio delle destre, e quanto alla critica delle nuove mascolinità… Público è un po’ tankie, e i contributi femministi mi fanno spesso cadere le braccia. Ma abituata agli standard italiani trovo facile continuarlo a leggere.

Io già lo so, che Serena vi starà sul culo.

Innanzitutto, la co-protagonista di Sam è tornato nei boschi (che trovate qui e qui) è una privilegiata, specie in confronto a uno come Sam che, quanto a disgrazie, altro che tornare nei boschi: dovrebbe farsela a piedi a Lourdes!

Poi all’inizio del libro troviamo Serena un po’, ehm, alterata, e propensa a confessarsi cose che non oserebbe ammettere, in circostanze meno ansiogene.

Però Serena ha un grande problema, che individua lei stessa in un momento di illuminazione: è una Santippe. Con la sua orribile esperienza in strada, Sam si atteggia, se non a Socrate, almeno a Terzani di Collserola… E Serena come può competere? Lei è “quella che resta”, e ha due vizi capitali: sa quello che vuole, e vuole una vita tranquilla. Che nel suo caso passa anche per l’idea peregrina di creare una famiglia, magari con uno che non sia proprio Barbablù. Non so come vada a voi, fanciulle etero che desiderate lo stesso, ma lei si ritrova sempre uomini che se la squagliano sul più bello. Tanto che je frega, a loro? Per i figli possono aspettare decenni, e una donna con più soldi di loro può essere ancora presa maluccio, pure nell’Anno Domini 2020.

Insomma, lasciatemi spezzare una lancia per una tizia che, semplicemente, si faceva i fatti suoi, e all’improbabile relazione con Sam si presenta già “risolta” sul piano psicologico. O così crede.

Invece ha anche lei molta strada da fare, e la deve fare tutta nello spazio di una notte.

Magari seguiamola, e vediamo dove arriva.

Tutto80 | Super Vicki

Ieri sera ho accompagnato un amico a un pub in cui lui lavorava in un momento difficile della sua vita.

A quei tempi sembrava che con l’amico potessimo stare insieme, ma il momento era così difficile che lui non era pronto per una relazione. Infatti non ne ha avute da allora.

Il pub era uno di quelli che potrebbero trovarsi in ogni parte del mondo, a parte il fatto che la presentatrice del quiz domenicale traduceva le domande anche in spagnolo. Il mio amico ha trovato subito l’ex collega con cui voleva parlare, ma quello aveva appena smontato, e giocava a freccette con un compaesano scozzese. Il mio amico non si aspettava di trovarsi a tu per tu pure con l’altro, che lo ricordava ai tempi in cui era un barman depresso e maldestro.

Risultato: sono rimasta impalata diversi minuti, in attesa che 1) i due scozzesi mi degnassero di uno sguardo; 2) l’amico mi presentasse. Mi tornava alla mente il mio primo fidanzato, in paese, quando si fermava a salutare amici che mi ignoravano. Timidezza, li giustificava il fidanzato, oppure arretratezza mentale: le ragazze degli altri non si guardavano neanche. Io ci rimanevo malissimo, perché nella mia vita avevo fatto una cosa del genere solo con Angelo Branduardi. Un’estate, il cantautore era venuto con la famiglia nel mio stesso villaggio vacanze, e una volta l’avevo incontrato a spasso con la figlia, mia coetanea. Avevo invitato la figlia a un’attività dello junior club e, sapendo che il padre si beava di quell’anonimato vacanziero, l’avevo ignorato a costo di sembrare maleducata. A parte questa illustre eccezione, mi sono sempre premurata di riconoscere l’esistenza di chi si trovava a un metro dal mio naso.

Ieri sera l’amico mi ha ritrovata al bancone del pub, alle prese con una clara che non bevevo da anni, e mi ha chiesto scusa, invitandomi a giocare a freccette coi due scozzesi sprucidi. Ma io detesto le freccette, e ormai ero presa dal quiz: la presentatrice era una donna inglese sulla cinquantina, e faceva domande toste per il suo pubblico anglosassone.

“Cosa vuol dire la frase latina ‘omnia vincit amor’?”

La tipa aveva messo subito le mani avanti sulla pronuncia: “O ai tempi di Cesare non c’eravate neanche voi, oppure avete in soffitta un quadro molto speciale…”. E questo era un riferimento ovvio alla sua, di cultura. Ma in effetti la sua pronuncia del latino era un ibrido tra quella anglosassone, la nostra e lo spagnolo. Il risultato era tipo: “Omnia Vicky amòr”. Ho pensato subito alla ragazzina robot della serie anni ’80, e anche al fatto che Mr. Virgilio su questa storia ha toppato: l’amore non vince tutto.

Non ha vinto, per esempio, l’incapacità del mio amico di avere una relazione in un momento difficile. Non ha vinto neanche l’amicizia che l’amico sente oggi per me, ma che è venuta meno davanti a due persone che l’avevano conosciuto al picco della vulnerabilità.

Insomma, Vicky, mi sa che non è il tuo momento di entrare in scena. Non quando si parla dei trionfi dell’ammore.

Però ci si prova: quando ho lasciato il pub, l’amico è venuto a casa mia a scusarsi ancora e a spiegare, e abbiamo cenato insieme. L’amore è imperfetto e ha mille forme, e a volte viene usato per giustificare roba che non volete nella vostra vita.

Ma è la migliore soluzione che abbiamo in questo momento: coltiviamolo come meglio possiamo.

E la prossima volta vado da sola al quiz, e sbanco il montepremi.

Nipponica #272 – Lady Oscar 40 (12): episodi 25-26 Antonio Genna Blog
Cioè, questa viene cresciuta come un uomo per volere del padre, si veste da donna per piacere a uno… Oooh, usciamo dal loop!

Nelle puntate precedenti, oltre a scoprire che sono Claudia Schiffer con la simpatia di Jennifer Lawrence, abbiamo lasciato le ragazze dell’entroterra campano, nell’A. D. duemilaequalcosa, separate come in due blocchi: quelle che, per ottenere rispetto, accettavano più o meno consciamente di entrare nel recinto delle ragazze, e magari ricorrevano a mille strategie per scavalcarlo senza farsi troppo male; quelle che si tuffavano a sacco di patate negli spazi tradizionalmente maschili, rinunciando ai vantaggi del recinto senza acquisire del tutto quelli dell’arena.

Cos’è successo dopo, secondo voi? Beh, tanto per cominciare è successo che siamo cresciute.

E ogni tanto le riconosco, “quelle dell’arena”: le ex ragazze che sono entrate in mondi popolati soprattutto da uomini, a patto di accettarne certe regole. E ne sono orgogliose: ti credo, è una faticaccia immane! La soddisfazione? Essere l’unica. Non sarai mai al vertice di tutto, ma cristo, sei l’unica! L’unico direttore con i capelli lunghi e biondi, l’unico ingegnere che tratta a tu per tu con gli operai anche dopo aver ricevuto il titolo ufficiale di Miss Culo del cantiere (tratto da una storia vera). Ma oh, almeno ti sei scappottata l’alternativa di essere considerata un cocktail esplosivo di ormoni, o una sfornapupi a orologeria. Fino al giorno in cui ti metti di traverso, oppure un pupo lo vuoi sfornare davvero.

Ma difendere la propria postazione, e tirarsela, è una tentazione che un sacco di ex ragazze che “sono state le prime/le uniche/tra le pochissime” sentono forte, proprio perché ci hanno buttato il sangue. Si sono sentite sminuite, derise, o sottovalutate perché nella radiolina a transistor che era l’identità di genere (vedi la seconda puntata), loro viaggiavano su frequenze diverse da quelle che si aspettavano i più. Per un compagno che mi osservava alla sbarra durante l’ora di ginnastica, io avevo “un fisico di merda”, però lo stesso compagno mi considerava una minaccia (benché meno di altri) nella sua triste gara annuale a chi avesse la media più alta. Perché sì, “andavo molto bene a scuola”, anche se per fortuna solo in italiano: la letteratura era comunque roba da donne. Quelle brave in scienze erano fottute, o erano salve da certi energumeni: come l’aspirante ingegnere che mi trovava preferibile a una studentessa di biologia, perché i ruoli ci vogliono. Ai nostri eventuali figli chi spiegava la matematica, la mamma?! Allora che speranze aveva un papà di farsi rispettare, visto che già non cucinava lui e non cambiava pannolini? A. D. 2004, signore e signori.

Dunque, sì: se fossi stata brava in scienze avrei avuto un diavolo per capello, altro che il gel profumato e gli occhialoni a piattaforma di atterraggio di Quelle che… il recinto.

Per fortuna o purtroppo, la cosa più stupida è sfottere queste ultime (che spesso io stessa, ahimé, trovavo ottuse o fifone) e sentirsi speciale perché tu sei nell’arena. La questione andrebbe piuttosto spostata su una domanda fondamentale: che ci fa, qui, quel recinto? Che bisogno ne abbiamo per sentirci protette?

Già vi sento: “Vabbè, sei la solita estremista! La sorella di mio cognato è bellissima e laureata in ingegneria aerospaziale, fa politica e sta con un compagno di movimento…”. Sì, avete ragione, e meno male. Si spera che in quasi vent’anni le cose siano migliorate molto. Però io ho migliorato la mia vita solo migrando, e conosco tante, qui a Barcellona, che magari si lamentano degli autoctoni che non saprebbero corteggiare (mentre io godo), ma poi sono felici di poter andare conciate come vogliono, oppure di passeggiare con un maggiore senso di sicurezza rispetto al posto in cui, come ammetteva un mio compagno di università, “se i miei vicini sono in strada con me e passa una, a volte mi sento giudicato male se non lancio uno sguardo malato anch’io”. Solo migrando mi sono resa conto appieno che questa terra di mezzo, in cui mi ero arruolata come non-uomo, era sì una soluzione alle restrizioni ancora imposte al mio genere, ma comunque non era una scelta molto sana per me. Per esempio, pure se ho molte riserve sull’umorismo iberico, di buono c’è che qui lo sfottò è solo uno dei tanti modi di scherzare, e non valica quasi mai i limiti della stronzaggine: se fanno commenti sul tuo fisico non la devi prendere sempre bene, col ricatto che “chi si offende scemo è” o con la possibilità di ricambiare lo sfottò (come se la pressione estetica fosse la stessa su donne e uomini). Qui è scemo chi offende, di solito, e questo fa tutta la differenza.

Vedete, la cool girl (o ragazza fica) ha un problema: non vince mai. Almeno non vince quella che per me è la battaglia più importante: l’equilibrio tra essere te stessa ed essere rispettata. La cool girl guadagna terreno, conquista spazi e si prende il diritto di parola, ma in cambio è chiamata a sacrificare, che lo voglia o no, i vantaggi di chi quegli spazi non se li prende e preferisce ripiegare su quella specie di aura sacrale che vede le donne come “il diverso“. Un diverso che nelle fantasie è “intoccabile” in più di un senso, perché toccare può essere ancora sinonimo di mancare di rispetto (pensate a “non starei mai con la sorella di un amico”). Le “vere donne” sono intelligenti, certo, ma proprio perché lo sono “non si perdono in battaglie inutili” (cioè, in quelle che non convengono al fidanzato). Sono quelle che possono sottoporti a delle “prove“, per sincerarsi del tuo interesse, e magari proibirti pure di avere delle amiche (ciao, sono la tipica “amica segreta” di compagni storici e colleghi di università). Peccato che lo facciano anche perché sono quelle che sanno che prima o poi rischiano le corna, in una società monogama in cui l’amore è possesso, ma gli uomini sono visti come queste bestie indomabili e, oh, “sappiamo come sono fatti”. A volte non si tratta neanche di cornificarle, le donne, ma di “tradirle” con una serata in pizzeria insieme ai “compagni”, magari con la partecipazione straordinaria di quella che ti lascia dire pucchiacca in sua presenza.

Sono grata al mio nuovo paese per avermi dato l’opportunità di essere me stessa fino in fondo. Sì, sono sicura che avrei potuto essere così anche in Italia, solo che lì non mi è capitato. Credo che possiamo far sì che capiti più spesso, specie decostruendo certe dinamiche di sessismo benevolo, per cui le donne sono “l’alterità”: basta con gli psichiatri vecchio stampo che infestano le televisioni, e basta anche con quefta falfa divifione tra puttane e spose, come cantava un gettonatissimo guru dei miei tempi: ovvero, la distinzione corpo-mente che, invece di emancipare le donne, le frega. Si presenta con un altro ricatto da smontare: l’unica condizione per realizzarti da un punto di vista intellettuale, è far sì che gli uomini del tuo ambiente dimentichino che hai un corpo. E invece no! Loro sono autorizzati a coniugare corpo e mente, tu pure possiedi entrambi, quiiindiii…

La strada sarà lunga, ma meno di quanto immaginiamo: abbiamo visto come certe sensibilità cambiano nello spazio di pochi anni, come per ondate improvvise.

Cavalchiamo questa, di ondata: la freschezza dei cambiamenti, che pure ravviso qua e là, è l’unica cosa “cool” che voglio ancora nella mia vita.

Della strage di tombini a Barcellona scriverò qui, visto che a certa gente importa più la monnezza della libertà di espressione. Poi vabbè, c’è chi perde un occhio per i proiettili sparati ad altezza d’uomo (stavolta, di donna). Ma “chissà cosa stava facendo quella lì perché succedesse”: una volta lo pensavo anch’io, finché non ho conosciuto Nicola e finché non hanno sparato a me, mentre me ne stavo spalmata contro un muro, in attesa che finisse il casino.

Ma adesso parliamo d’altro! Oggi sono in modalità imbonitrice, stile Veronika di Lucia Ocone.

(*Improbabile accento romano*) Amica del blog, amico di WordPress, amico romantico e amica decostruttrice! Oggi la tua Maria ti porta un’invenzione fresca di stampa: La camera blu! Ecco il suo ultimissimo numero, il 23 (e quale potevo coordinare, io?), curato dalla sottoscritta e da due studiose vere, che sanno di cosa parlano. Questo è tutto femminismo cotto a legna! (Tanta legna, troppa legna: chiedete un po’ alle streghe di Silvia Federici.) In questo numero analizziamo il Romanticismo: credete che ‘sti metodi di decostruzione se li semo ‘nventati noi? Seh, lallero!

Anche se… La prima parte del numero è dedicata a un Romanticismo che ci piace: una forza nuova che a partire dal XIX secolo spinge donne prima silenti a compiere imprese mai viste, almeno così de botto. Vedete un po’ che ha il coraggio di fare Enrichetta Di Lorenzo, nel primo articolo della rivista! Dimenticatevi le relazioni borghesi dell’Ottocento da avere in segreto, una volta assicurata la progenie al marito che ti ha scelto mammà. Enrichetta invece (*musica di suspense*) fugge con Carlo Pisacane! Si ribella! Si imbarca per Livorno con un’arma per togliersi la vita, se la sgamano. E poi fa il ’48, tanto per non perdersi niente. È una delle eroine dimenticate del Risorgimento italiano, quel pasticciaccio che idealizziamo assai e non guardiamo mai bene in faccia. Ma, come dice Tommasi di Lampedusa a proposito di una sua eroina ambigua: “molte dovevano essere le persone che di questo lavorio critico non furono capaci mai”.

Infatti, che è successo poi al Romanticismo? Ha perso la maiuscola ed è diventato ‘sta roba che conosciamo oggi. Come ha fatto una filosofia che ha spinto le donne a un nuovo protagonismo, che le ha convinte a ribellarsi nei limiti dell’epoca per acquistare un minimo di voce sul loro destino, a diventare una canzone di Gigi D’Alessio?

Amica, lettrice del blog, non stiamo parlando del “tubo” di Baci Perugina! Quello mangialo e “fanne salute”, come avrebbe detto mia zia (a quando la versione vegana?). La questione sono le problematicità che la coordinatrice cilena della rivista mi aveva già elencato in questa intervista, e che questo nuovo lavoro insieme cerca di approfondire. Per citare la web, i cinque articoli della rivista incentrati sull’argomento provano ad analizzare in che modo “il Romanticismo, movimento, se pur contraddittoriamente, anti-patriarcale nelle sue origini sette-ottocentesche, sia stato poi ‘normalizzato’ all’epoca delle politiche capitaliste e nazionaliste della seconda metà del XIX secolo, fino a divenire uno strumento culturale funzionale alla subordinazione delle donne, allo sfruttamento del loro lavoro di cura, e alla legittimazione della violenza maschile”.

Già, che è successo, amica del blog, amico di WordPress? Forse c’entra qualcosa il fatto che l’articolo della sottoscritta sul poliamore (scritto con uno studioso che sa di cosa parla) non abbia trovato abbastanza referenti in Italia per la peer review, finendo così in una rubrica. Il poliamore in Italia non solo è semisconosciuto come oggetto di ricerca, ma non sembra essere ben accetto, quindi approfittate della prima traduzione italiana di un’opera di Brigitte Vasallo, la studiosa catalana che parla di terrore poliamoroso. Non è un caso che la prima diffusione massiccia dell’argomento sui social sia stata opera di Freeda (madonna mia). Poi la sua portavoce è stata attaccata al punto da farsi un canale tutto suo. E non è neanche un caso che la ragazza, quando si esprime, si impappini ogni tanto con lo spagnolo: guarda un po’, questa libertà di esprimersi non l’ha appresa in Italia, al contrario di ragazze più giovani.

Insomma, amica del blog, amico di WordPress, se vuoi i Baci Perugina tieniteli. Alla tua Maria basta che ti chieda anche come mai il mitico “tubbo” di cioccolatini faccia parte di una retorica che consente che il 78% del lavoro domestico venga svolto dalle donne, contro il 32% di quello degli uomini, e il 93% del lavoro di cura sia appannaggio femminile rispetto al 69% degli uomini: non credere a me, ma all’Istat. Perché si sa, le donne sono più “romantiche”, si prendono “naturalmente” più cura degli altri e proprio non vogliono fare altro nella vita. Infatti quel 98% di donne, tra le persone che hanno perso il lavoro per la pandemia, lo ha vissuto di sicuro come una liberazione, e non c’entra la disparità di stipendi o il soffitto di cristallo, o il pavimento appiccicoso. Ma, a leggere i giornali e il modo in cui raccontano i femminicidi, quasi quasi queste neo-disoccupate devono ringraziare che un povero marito depresso non abbia fatto piazza pulita di loro e della prole: vedi le indagini di Pina Lalli, e del “romanticismo della violenza“.

Quindi, amica del blog, amico di WordPress, buona lettura!

Sono sicura che capirai.

(La vera Veronika, che presto presenterà il numero in televendita)

FB_IMG_1591866869874 Si torna alla vita normale!

Infatti martedì scorso, verso le nove e mezzo di sera, scendevo da Plaça Sant Jaume in direzione della Rambla, nel secondo giorno utile per godersi la fase 2 della quarantena barcellonese (il giorno prima pioveva a dirotto). Non avevo più limiti di tempo e d’orario, e me ne andavo in giro con la mascherina e la tenuta pantacollant/scarpe da ginnastica che riservo alle passeggiate lunghe.

Imbruniva ma non troppo sul carrer Ferran, che percorrevo a passo spedito circondata da gruppi e coppiette, e qualche passante che, come me, circolava solo. Era stato proprio a me, però, che si era rivolto un tizio che andava in direzione opposta alla mia. Aveva voluto confidarmi ad alta voce una cosa che, a dirla tutta, non avevo capito bene, per via dell’accento italiano e della scarsa padronanza della lingua spagnola: ripensandoci resto indecisa tra “me falta la cabeza” e “te falta una carezza”. In ogni caso avevo risposto: “Sì, sì, hai ragione”. Quello allontanandosi mi aveva gridato dietro altre cose, tra l’ironico e il condiscendente: non capiva perché m’innervosisse essere interrotta nella mia passeggiata da uno che, boh, voleva solo assicurarsi di poterlo fare.

Proseguivo perplessa. Un altro tizio mi veniva incontro, anche lui in direzione opposta alla mia: pelle scura, t-shirt color oliva, lattina di birra in mano. Vedendomi mi aveva lanciato un “Hola, guapa” ubriaco, e la sua improvvisa virata a 180 gradi era diventata un inseguimento quando avevo cambiato marciapiede.

Quando gli avevo intimato di lasciarmi stare, si era arrestato e mi aveva replicato, traduco letteralmente: “Stai zitta! Ricchione!”. Quindi era tornato sui suoi passi. A quel punto, esasperata, costeggiavo ormai Plaça Reial, quando un ragazzo in bicicletta che aveva al massimo una ventina d’anni s’era staccato dal compagno ciclista, con cui sostava fuori al KFC all’angolo con la Rambla. Quindi, pedalando con una certa esitazione, mi si era avvicinato apposta. “No, eh” avevo pensato.

Ma lui: “Stai bene?”. Me l’aveva ripetuto due volte, perché capissi: doveva aver assistito almeno al secondo alterco e, suppongo, voleva davvero confortarmi. Aveva l’accento del posto. Credo percepisse la mia perplessità iniziale, la chiusura a riccio che già cominciavo a mettere in atto: poi spero che il mio sorriso gli sia arrivato anche da sotto la mascherina.

Finalmente, la Rambla. Mentre riflettevo su quanto mi fosse accaduto nello spazio di pochissimi metri, un tizio con la brillantina e i tratti che davo per latini (anche lui veniva in senso opposto al mio) mi lanciava un suadente: “Adéu…”, che pareva più un “Hola, cosa ci fai fuori dal mio letto?”.

Confesso che il primo istinto era stato osservare i miei indumenti: in fondo così ci addestrano, no? A pensare che c’entri qualcosa ciò che indossiamo. Embe’, i pantacollant erano sempre neri e un po’ larghi, la maglia abbinata cadeva morbida sui fianchi e il foulard mi scendeva ancora sul petto: un accorgimento che mio malgrado prendo da quando, tra portare un reggiseno e respirare, scelgo la seconda opzione. Avevo pensato allora che la mascherina mi copriva i segni del tempo: sospetto da un po’ che l’età che avanza mi stia proteggendo in parte da episodi del genere. Non tanto perché a vent’anni si rientra più facilmente negli standard di bellezza diffusi, ma perché, chissà per quale motivo, da più giovani si è considerate anche più disponibili e fragili: un bersaglio facile, insomma.

E poi, oh, che dicevo all’inizio? Si torna alla normalità. A marcare il territorio, a fermare una perché al massimo, specie se hai il colore di pelle giusto, passerai per maleducato e non per un molestatore. In una parola: perché puoi farlo.

Ed è ovvio che “non tutti gli uomini lo fanno”, però forse è su questo che non ci capiamo: il ragazzo in bicicletta, per quanto ne sapessi io, avrebbe potuto regalarmi anche lui qualche fantastica confidenza o frase insinuante, oppure avrebbe potuto solo informarsi del mio stato d’animo, come poi aveva fatto. Il punto è: era una decisione sua, non mia. Poteva fare entrambe le cose. Io potevo al massimo aspettare a vedere cosa facesse e, se fosse andata male, compiere un’esaltante scelta tra subire e reagire, con tutti i rischi del caso.

Quindi non è: “gli uomini sono”… Ma è: gli uomini possono essere.

Prenderla sul personale è una tentazione che ha solleticato anche me quando, nei film americani, sentivo che “white man”, o “gringa” era usato come un insulto. Peccato che poi la polizia mi ha sempre trattata coi guanti, a me. Forse ci diamo troppa importanza, quando la buttiamo sul personale: siamo parte di una categoria che può discriminare  le altre, con esiti anche letali, e può farlo senza tutte le conseguenze che la legge prevede o dovrebbe prevedere. Non approfittare di questo privilegio è fare la metà del nostro dovere. Per capirci: il giovane ciclista del mio terzo incontro non è una brava persona perché non ci ha provato, ma è una persona gentile perché mi ha chiesto come stessi.

Quando mio padre, nella sua ultima visita, mi consigliava “prudenza” sull’ora di rincasare (di nuovo il controllo delle donne!), gli ho chiesto se lui avrebbe accettato delle limitazioni di movimento per il solo fatto di essere qualcosa (mettiamo, un napoletano in un quartiere leghista, o un signore anziano in una zona famosa per le rapine frequenti).

Papà non sapeva cosa rispondere, capisco che voleva solo sapermi sana e salva. Ho letto le testimonianze di diversi padri che si sono posti il problema solo quando hanno avuto figlie femmine.

E sì, meglio tardi che mai, ma non è questo il punto.

In fondo, essere ciechi ai problemi altrui è un privilegio che funziona così: se non lo vediamo, con ogni probabilità ce l’abbiamo. E possiamo permetterci di fregarcene.

E allora, che vi devo di’? Buona passeggiata.

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Quest’anno, vorrei augurarvi un buon primo maggio con le riflessioni di Unaelle, pubblicate su Facebook e Instagram. Salviamoci insieme, o non ci salveremo.

Tornando a casa, ieri sera, mi sono accorta di due cose terribili:

  • la mia compagnia telefonica stava affrontando il più spaventoso guasto degli ultimi anni, quindi niente Wifi;
  • nel negozio sozzoso da asporto si erano dimenticati di darmi le patatine.

Indovinate quale scoperta mi ha fatto disperare di più.

Ho scritto in fretta a una neo-arrivata che vive accanto al locale, e conosce la ragazza, italiana come lei, che ci deve servire in venti alla volta in una zona affollatissima.

“Mi scoccio di tornare indietro” le ho annunciato “mangiati tu le mie patatine!”.

Ho scoperto che la mia interlocutrice era già sul posto.

Reduce di colloqui di lavoro di massa, in cui eliminano candidati con giochetti psicologici, la “vicina” aveva portato alla malcapitata cameriera un po’ di pasta appena fatta.

Le “decostruttrici” autoctone della monogamia approverebbero: basta con ‘sto trincerarsi in coppie escludenti, che si reggono su narrative leziose (su Tinder qualcuno scrive: “M’impegno a non rivelare in giro come ci siamo conosciuti!”). L’importante è la vicina che quando stai male ti porta un brodo caldo.

In questo caso, trattavasi di “pronto soccorso pasta”, in una situazione che avevo lasciato critica (la fila al bancone prometteva di arrivare fino a fuori).

Seguendo il tutto con la connessione del telefonino, ammiravo la foto delle patatine che la cameriera aveva già elargito alla sua vicina: e non perché le offrivo io, ma perché gliele aveva regalate sua sponte, insieme a una mini-insalata servita nella coppetta per la maionese d’asporto (altrimenti sarebbero stati sei euri sei, graciaaas!).

So che anche lei, l’indomita reginetta delle patatine fatte al momento, ha i suoi grattacapi con amici in ospedale, cuccioli rimasti senza umano, e qualche conoscenza con problemi di documenti a cui è stato passato il numero del sindacato che avevo consigliato io, per altri fatti.

Insomma, intanto che sulla pagina della compagnia telefonica minacciavano vendette creative, me ne stavo sulla poltrona-letto che non usavo mai a godermi uno scambio a distanza di modi di dire (“Fanne salute!” scrivevo dell’insalatina, citando la buonanima di mia zia, e mi si rispondeva “Omo de panza, omo de sostanza!”).

Le due mi hanno invitato a raggiungerle, ma ero stanca e mi divertivo già così. Tanto la prossima volta, a mo’ di compensazione per la svista, mi aspetta doppia razione di patatine!

Vi starete chiedendo da un po’ che ve ne frega a voi di tutto questo. Beh, era per dirvi una serie di cose che richiederebbero (in qualche caso hanno richiesto) un post ciascuna.

La prima è che Barcellona è una città tosta. Chi ci viene in vacanza non se ne accorge, ma metti tanta gente in un posto in cui la documentazione per lavorare non è affatto chiara, e l’economia non è poi così florida, con brutte conseguenze sul rapporto stipendi/affitti.

Poi, da capitalista speculatrice gentrificatrice e… mi sono scordata gli altri insulti, un giorno vi spiegherò quant’è complicato affittare a donne, a meno che non siano un’informatica scandinava che si sta girando l’Europa perché non ha bisogno di un ufficio per lavorare. Se latine, le aspiranti inquiline possono avere due telefoni “per risparmiare”, e vai a capire a quale devi mandare le foto dell’appartamento; se “di origine latina”, nel senso proprio di paese cattolico apostolico romano, a volte chiedono di dilazionare l’affitto, o di pagare dopo il cinque del mese, e non sempre capiscono perché un monolocale non ha lo stesso prezzo di un ripostiglio senza finestra riciclato a stanza. Spesso fanno ‘sti lavori di attenzione al cliente da 1200 al mese se va bene (cioè, quanto costa un appartamento di due stanze non proprio periferico), e devi vedere se non le licenziano in uno schiocco di dita il mese prossimo. Chissenefrega di quei pidocchi dei clienti italiani!

Va da sé che, dopo aver partecipato a questa bella iniziativa di Afrofémina, non mi avventuro nemmeno a pensare come dev’essere se hai una tonalità di pelle diversa dalla maggioranza, e non sei cittadina UE, o tutti danno per scontato che tu non lo sia.

Quindi tra compagne di sventura ci si aiuta: ci si porta un piatto di pasta, si fa passare sottobanco una razione di patatine, magari ci si passa a vicenda il pacchetto dell’App che ti consente di prenderti la roba che i locali, a fine giornata, butterebbero.

Sì, le teoriche del poliamore sarebbero fiere di questa solidarietà che a un certo punto si deve costruire, e se si libera un posto da te in ufficio mi fai sapere, e se leva le tende il coinquilino sozzo, con due fidanzate che ignorano la reciproca esistenza, vieni tu.

Sono tutte dinamiche che ho apprezzato e sperimentato, ma che, dopo undici anni qui, osservo un po’ da lontano: un po’ con le mani nei capelli per il caos che combattono, e un po’ (tanto), con ammirazione.

“Dai, vieni anche tu!” mi avevano offerto, gentilmente, le due vicine.

La connessione è tornata verso mezzanotte, e a quel punto avevo già spento il computer.

La prossima volta però ci vado.

(Una canzone che mandavano nel locale, prima che uscissi senza patatine).

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