Dopo quasi 5 anni a Barcellona, sto imparando lo spagnolo. L’ultima volta che ho studiato una lingua che già parlavo da 5 anni è stato 27 anni fa, e fa strano. Devo riflettere su meccanismi fonetici che davo ormai per scontati, che per me non erano mai stati una regola grammaticale, ma un amico che davanti a una birra mi diceva una frase mai sentita. Allora gli chiedevo “Aspetta, che minchia hai detto?”, nel mio castigliano a dir poco approssimativo.
Ma l’inganno è durato poco: la differenza tra una lingua che studi per bene, e una che impari per prove ed errori, me l’ha insegnata il catalano. Ovvio che mi viene più spontaneo, salvo periodi speciali, parlare spagnolo, ma che differenza coi congiuntivi, quando “vado a orecchio” coi vari me gustaría que hiciéramos, e l’equivalente catalano. Su quello ho buttato il sangue in certi weekend invernali di pausa dal lavoro, quando ancora non avevo deciso di sospendere il mio periodo di asocialità post-Erasmus e manco avevo l’amaca in terrazzo, su cui accomodarmi con coperta e dossier del Consorci de Normalització.
E ora tocca allo spagnolo, bistrattato anche per questioni di, ehm, sopravvivenza. E chi vuole intendere intenda.
Adoro, poi, i periodi in cui apprendo due cose importanti allo stesso tempo. Infatti, per la gioia di mia zia che non ha vissuto abbastanza per assistere a questo giorno, sto imparando anche a campare. Una disciplina, più che un’arte, che notoriamente non s’impara sui libri, anche se secondo me quelli aiutano, se li sai scegliere bene.
La mia grammatica di spagnolo, per esempio, fa miracoli.
Nelle poche lezioni cui ho assistito su Saussure, mi chiedevo perché una teoria linguistica potesse cambiare un’intera cultura.
L’ho scoperto coniugando il preterito perfecto coi miei impegni pomeridiani, numerosi e poco redditizi, scanditi da una crisi economica che rende il mio dottorato più o meno carta straccia. Semanticamente, si tratta di capire che certe cose sfuggono totalmente al controllo umano. Come i generi delle parole, per esempio. Perché el sol è maschio e la luna è femmina? E mi dispiace per le patite del femminismo new age, ma in tedesco è “maschia” la luna.
No. Certe cose sfuggono al controllo umano, non so bene in che dose. Dobbiamo fidarci di Machiavelli, che faceva un pratico fifty-fifty tra fortuna e azioni umane? Ora, per una con le manie di controllo selettive, che se non può farsi il mondo a sua immagine se lo inventa, questa è la cosa più difficile da accettare.
Eppure con le lingue non mi succede così. Non mi è dispiaciuto affatto, per 5 anni, farmi guidare dall’orecchio per distinguere si no da sino, su cui mettere un bell’accento acuto in catalano. Nella vita invece non accettavo, fino a ieri, che ci fossero cose che sfuggissero al mio controllo. Che il male che senza volerlo, ma senza far molto per impedirlo, ho fatto ad altri, possa essere fatto a me con le stesse, indolenti buone intenzioni. Che dopo anni senza il coraggio di cercarmi una casa editrice per i miei volontari catalani, la trovassi, guarda un po’, a un anno dal centenario della Prima Guerra Mondiale. Ok, l’ultima non era proprio una coincidenza, ma è curiosa lo stesso.
Fondare il mio spagnolo su solide conoscenze grammaticali si sta rivelando un’impresa piacevole. Ammettere che le cose importanti della mia vita sfuggono spesso a qualsiasi regola fa più male, anche se non sempre questa benedetta fortuna si rivela sfortunata. Anzi.
Forse, per studiare con profitto questi due ambiti così affascinanti, dovrei ricordarmi del mio amico Antimo.
Dieci anni fa, quando lo riaccompagnavo a casa in auto, ritrovavo sempre l’arzigogolata strada del ritorno, senza prestarvi troppa attenzione. Non ricordavo, o fingevo di non ricordare, gli incroci e le traverse che mi portavano fuori la Villa comunale di Sant’Antimo, e da lì fino al ponte di Grumo, quello delle macchine, e da lì fino a casa mia. Mi sembrava una piccola magia, mi piaceva così. Quando dovetti ammettere che il percorso avrei saputo descriverlo, se me lo avessero chiesto, l’incanto svanì un po’, ma fui orgogliosa della mia consapevolezza.
Forse con la grammatica dovrei fare uguale, sono orgullosa, come la prof. di scrittura creativa, del mio spagnolo raffazzonato per strada, con accento variabile a seconda dell’interlocutore, ma ora voglio che diventi eccellente.
Con la vita, invece, si tratta di sapere già che la strada non la conoscerò mai. Ma va bene così.
Mentre guardavamo la puntata di Presa Diretta sullo stabilimento Caffaro di Brescia, accusato di avvelenare il suolo circostante tramite gli sversamenti nell’acqua, il mio migliore amico e io abbiamo appreso che il primo quartiere colpito dall’inquinamento, il Primo Maggio, sorge giusto vicino al cimitero.
Allora, con tutto il sarcasmo delle nostre terre alla diossina, che si avviano ad avere più tumori che abitanti, ci siamo guardati e abbiamo detto la stessa cosa:
– Ah, fanno casa e puteca.
È uno humour nero simile alle leggendarie battute sulla morte che si attribuivano a Falcone e Borsellino, che da fuori si capisce poco e si può pure trovare offensivo, ma ricordo che quando vivevo qui mi aiutava non poco a campare.
Solo che l’unica cosa buona che diceva la mia professoressa di Storia e Filosofia al liceo era che il sarcasmo napoletano è un problema, mentre l’ironia è costruttiva.
Quella, però, temo di averla imparata fuori.
Infatti questi giorni di Pasqua in paese stanno trascorrendo in un’atmosfera surreale, con mio padre che non poteva venirmi a prendere all’aeroporto per la ZTL, in vista dell’America’s Cup. Non so proprio niente del percorso della regata, ma non posso fare a meno di chiedermi se nelle foto uscirebbero anche le rovine della Città della Scienza.
Intanto dovrei cominciare a giocarmi i numeri sull’Italia del non-governo, coi non credenti ipnotizzati da un papa che dice buonasera perché non c’è molto altro di cui parlare, a parte la straordinaria coincidenza per cui su dieci saggi oh, uno che fosse donna proprio non si trovava. E non parlo di quote rosa, proprio della coincidenza. Tutti uomini, maturi e discutibili.
Io, d’altronde, ho fatto aeroporto-casa e non sono uscita più. Dove vado. La distanza ti fa capire che il posto in cui vivevi era fatto soprattutto di reti, di amici e amici di amici che supplissero all’assenza di teatri, cinema che non mandassero solo film doppiati e scorregge Vanzina, festival di musica. Alla fame di cultura che può crescere facile, in una provincia denuclearizzata (ma piena di scorie non meglio identificate) in cui i pochi che vorrebbero più stimoli, più mondo, in attesa di avere anche un lavoro, si organizzano come possono. E fanno anche cose belle.
Ma a stare fuori da queste ragnatele di rapporti fai fatica a rientrarci, specie se hai poche energie e la pappa pronta a un’ora e mezza d’aereo (guardate solo che potrei fare, oggi, a Barcellona).
Così resto a organizzare il viaggio di mio fratello in Catalogna, la settimana prossima, a litigare con mio padre sull’opportunità di passare al microonde il salmorejo andaluso ghiacciato, quando toccherà a lui venire, e a sentire mia nonna parlare di vecchi spasimanti che l’avevano respinta per mancanza di dote (“Io che ero maestra!”) e adesso si trovano sottoterra con tutta la loro famiglia (che, qui torna il sarcasmo, dev’essere una bella soddisfazione).
Qualche rimpatriata importante aspetta anche me.
E la mia refrattarietà alla carne si è arrestata, come prevedibile, davanti al casatiello.
Insomma, una cosa mi accomuna a chi è rimasto qua: seguire ostinatamente il consiglio di Jannacci, in una canzone dal titolo che meno milanese non si può. Una delle poche sue che hanno significato qualcosa, per me. Poche ma buone.
Le nuvole restano il mio posto preferito per pensare. Segno che penso molto poco, giusto quell’ora e mezza di cielo che attraverso ogni morte di papa (anche se il proverbio andrebbe aggiornato) per passare Pasqua con chi voglio. Cioè, con i miei.
Oggi, guardando il soffice letto di nuvole ai miei piedi (ne ignoravo volutamente le temperature ultraglaciali) mi sono detta che è passato un anno.
Un anno fa ero a Plaça Universitat, di ritorno dallo sciopero generale del 29 marzo, e mi veniva sparato un proiettile ad aria compressa senza motivo apparente. Si schiantava a un metro d’altezza da me, rimbalzando contro il portone laterale all’incrocio tra la piazza e il c. Balmes e finendo per strada.
Io, è il caso di dirlo, ero caduta dalle nuvole e avevo pensato a un petardo. Chi era con me dice di aver visto il cecchino sparare nella nostra direzione.
Due mesi dopo fu chiesto a Nicola Tanno, alla presentazione del suo libro: perché colpiscono sempre gli italiani?
Su 8 vittime in 3 anni in Catalogna, la percentuale d’italiani è alta. C’è chi ci ha ricamato sopra complotti anarcoitaliani.
Io ormai sapevo. Non c’entra niente, la nazionalità. E nemmeno cosa stessi facendo in quel momento. Probabilmente aspettavi, come me, che finisse il casino per tornartene a casa.
La sera del 29 marzo i social network erano un rincorrersi di richiami: a te che è successo? Ti hanno caricato? Qualcuno se l’era portato a casa, il proiettile che non avevo avuto il coraggio di raccogliere. E nella foto ravvicinata mi sembrava grande come un uovo. Brividi.
Da allora ne è passata, di acqua sotto i ponti. C’è stato un altro sciopero generale, costato un altro occhio. Non a un’anarcoitaliana, a una catalana attiva nel sociale. E le cose, per fortuna, hanno cominciato a muoversi. A Stop bales de goma si è affiancato Ojo con tu ojo. Hanno imputato due poliziotti per Esther, e due pure per Nicola, tre anni dopo. Finalmente.
È rimasta la paura, che mi ha fatto messaggiare dal paese all’ultima grande manifestazione. Ero tornata per le elezioni ed ero paradossalmente bloccata in casa al paese da un temporale, mentre i miei amici sfilavano per le strade di Barcellona con lo striscione di Stop bales, e cominciavano i disturbi a Madrid…
Sulle nuvole pensavo a tutto questo. Senza sapere che, una volta atterrata, RaiNews mi avrebbe restituito la faccia martoriata di Federico Aldrovandi al sit-in dei poliziotti fuori al comune in cui lavora sua madre. E quella della sorella di Giuseppe Uva, indagata per diffamazione. E allora avrei ricordato pure la paura che mi presi ad Aversa, anni fa, per quel tipo morto di overdose proprio mentre la guardia penitenziaria gli metteva un piede sulla gola. Attento, dicevamo all’amico che voleva seguire il caso. Il ragazzo era uno sbandato, figlio di un mezzo camorrista, licenza di uccidere, insomma. Non lo trovo manco su google. Ne uscì un articolo sull’Unità, credo, l’amico fu contattato solo dopo Aldrovandi.
Sì, le nuvole tra Barcellona e Napoli non sanno di portare ben altro che mozzarelle e vacanze omaggio con Groupon.
Quello che sanno è che in quest’anno è cambiato tanto anche per me. Che in certe cose, ok, sto uguale o quasi, e devo ricordare con Scrubs che crescere è una scelta, non viene spontaneo. Puoi solo decidere di crescere tu, quando sei pronta.
E a un anno di distanza devo dire che il proiettile ha aiutato. Come il mattone che distrugge il claustrofobico vetro di The Dreamers, portando le strade del ’68 nei drammi personali dei sognatori. Perché ha centrato, solo metaforicamente per fortuna, quella parte del mio mondo che se ne stava rintanata ad aspettare che qualcuno si muovesse anche per lei. Prima di scoprire che se non ti muovi tu, fija mia, non lo fa nessuno per te.
D’altronde, se vivi nel centro di Barcellona, un po’ te lo devi aspettare. Domenica sera, di ritorno da una despedida italiana (è quando l’ennesimo italiano all’estero va a vivere nell’ennesimo paese che non sia l’Italia e saluta tutti), attraverso il carrer Robadors, strada di sante, puttane e filmoteche (le sante poche, in verità, le filmoteche una), e scopro un concertino al Robadors 23.
Neanche tanto affollato, stavolta. Il mitico cameriere pako non sta all’ingresso a spillare i 3 euro e chiederti di default “Come va? È tanto che non ti vedo, tu trabajo bien?“. Le domande giuste al momento giusto. Ma stanotte via libera.
Mi siedo al primo sgabello libero della spelonca in fondo, dove fanno i concerti (quello che suona il cajón lo conosco, si teneva una coinquilina che lo invitò a casa per un salmorejo) e penso che questo bar per me è stato come l’armadio di Cronache di Narnia: mi ha aperto le porte a un’altra dimensione. La Spagna.
A me, che ancora vivevo di baretti al Gotico per turisti occasionali e lunghe domeniche post-sbronza in un appartamento che diventava un film di zombie. Finché la prima spagnola che osò affittare una stanza da noi, esasperata, mi considerò ancora recuperabile e mi portò qui. Allora si fumava ancora, e insieme alla sensazione del fumo nei capelli conobbi il magico mondo del flamenco fatto da catalani.
E per un po’ questi musicisti boemi, figli e nipoti di andalusi oppure catalanissimi, di quelli con due cognomi tipo Puig Grau, popolarono il mio salotto italo-svedese-olandese, per scoprire che la frittata di maccheroni esisteva davvero. Ricambiarono con tortillas vegane, qualche intricato caso di gelosie incrociate e una breve convivenza sulle montagne di fronte alla Costa Brava.
Tutto quello che resta di quell’epoca di fumo e tortillas è Robadors 23.
Che nel frattempo, oltre a jam e flamenco e concertini a 3 euro, si è riempito cose nuove: comiche americane pazzoidi col loro seguito di friki, e qualche serata così, per caso, con tre napoletani che si siedono con me al bancone nel momento in cui lo stereo dà Tu vuo’ fa’ l’americano, e scatta un coro. Uno dei tre, se è ispirato e c’è qualche bella ragazza a guardare, si mette perfino al piano.
Adesso, invece, flamenco puro e duro, la jam della domenica. La mia insegnante di flamenco, quelle tre lezioni che presi al centro civico di Paral·lel, si alza un attimo dalla prima fila a baciare la cameriera stralunata del Bar Salvador, quella che parla uno spagnolo che mi sembra latino, e poi francese. Mi meraviglio sempre troppo di quanto sia piccolo il mio mondo di qua.
La tipa che canta ora pure l’ho vista, da qualche parte. Cerca di ricordarsi una canzone che non conosco, si eres vela yo soy viento, si eres cauce yo soy río… Nadie habló de enamorarnos. Pero Dios así lo quiso.
E sulle vele del vento flamenco ripenso al mio ultimo appuntamento, con uno di quelli coi cognomi catalanissimi che a un certo punto aveva dichiarato, patriottico, “Non mi piace la musica spagnola”. Gli avevo scritto scherzando che non andavamo d’accordo, anche perché a me il flamenco non piacerà tanto, ma più della sardana sicuro. La risposta furiosa e indignata mi ha fatto rimpiangere di non aver replicato con un video di Camarón.
So che un giorno mi alzerò e sentirò il sale nell’aria.
Ovviamente sarà un’impressione. Per i gabbiani, forse, che cominciano ad avventurarsi fino ai tetti del Raval. O perché il primo sole che mi filtra in terrazzo alle 8 del mattino mi ricorderà che sullo sfondo ci sono le torri Mapfre, e che è un giorno da mare.
E allora mi sentirò fortunata, per tutte le donne che in giorni come questo, improvvisamente, hanno deciso (o lo ha deciso qualcosa per loro, da qualche parte nei lombi) di tornare a vivere. E che invece di andarsene al mare devono alzarsi e mettere il latte sul fuoco.
Io, invece, finirò dritta sotto la doccia, e per l’occasione mischierò il bagnoschiuma alla mela verde con quello al mandarino. Uno lo tengo a terra e l’altro nella sacca appesa in alto a mo’ di mensola, ma li cercherò apposta, nella doccia distrutta come me da mani più grandi. E tirerò bene la cortina.
Poi metterò il completo in saldi del Corte Inglés, reparto llençeria. Quello vintage color carne al 60% di sconto. E stavolta me lo metterò per me, che sotto i vestiti leggeri della primavera ci va una bellezza.
Quindi, passando per Drassanes, mi avvierò verso il porto. Siederò sulle panchine della Rambla del Mar come sempre quando ho cercato risposte, guardando dalla parte sbagliata il brutto palazzo che per me fu Barcellona, la prima volta.
Ma no, non mi accontenterò del Porto. Proseguirò fino a Barceloneta, fino alla sabbia fina che ti entra nelle scarpe e ti rompe poi, se ti ci stendi lunga lunga, coi capelli appena lavati che si fanno una colla.
Ma non m’importerà, perché qualcosa dentro di me starà dialogando con le maree. Qualcosa che non conosco e non so dire, o descrivere con le parole che mi muoiono nella bocca di sale, screpolata dal sole perché avrò scordato il labello a casa.
Qualsiasi cosa si dicano, spero che nella mia lingua, l’unica che conosco, quella degli esseri umani che si fanno incantare dalla passione ma poi ci ritornano, a riva, coi piedi nudi e gli occhi dei penitenti, qualsiasi cosa si dicano spero significhi pace.
Sarà anche il ragionevole crollo psicofisico da settimana impegnativa, con andirivieni dall’archivio, e il mio inconscio che non riesce manco più a farmi dimenticare a casa una cartellina fondamentale in vista di un colloquio. Sarà che ho mangiato pochino, ultimamente, e non sono abituata.
Ma mi viene da pensare al poco che ho visto di Analyze that, in un pullman di qualche anno fa tra Philadelphia e NY, e il tormentone dello psicanalista Billy Cristal che continua a dire: “She’s grieving. You know. It’s a process“.
Certo, meglio quelli come il mio, di lutti. Se ci chiedono dov’è il morto, possiamo sempre provvedere con le nostre manine e un pratico trinciapolli.
E niente, è come un’influenza, che mentre ce l’hai non ci credi che finirà, e una volta finita non ci credi che l’hai avuta. Tutto questo lo so. Ma serve a poco.
E allora ci sono loro. Le eroine sfigate dei romanzoni ottocenteschi. Machiavelli tornando a casa si spoglia della veste quotidiana, piena di fango e di loto, e indossa panni reali e curiali. Io mi metto: pantalone Oysho in saldi con cinghia allentata in vita; maglietta di cotone multiuso che peggio abbinata non si può; felpona del ’98, se non ci sono andata a correre. E così combinata ricevo Emma Bovary, Anna Karenina, Catherine Earnshaw e compagnia bella, come vedete non sempre in ordine cronologico. In tutti i formati, ma la sera quello digitale va per la maggiore.
Ultimamente mi è stato chiesto se sotto il treno si butta Anna o Vronski. Ho sorriso di tanto candore. D’altronde perfino uno cattivo cattivo come Heathcliff non puoi mai dire fino in fondo se è più vittima o carnefice, dei capricci dell’amore.
Le colleghe femministe non me ne vogliano, ma anche questi ritratti di donne, come le rendono i loro sadici scrittori e le occasionali sadiche scrittrici, conservano tracce di pregiudizi che si trascinano senza pietà fino a oggi. In questo senso sono ritratti fedeli. E poi, con tutta la tenerezza per Jane Eyre, The Madwoman in the Attic (la prima moglie di Rochester) è stata una delle grandi rivelazioni letterarie di sempre, con tutto il suo Mar dei Sargassi.
Sì, ma queste sfigate come fanno a curarmi, a parte l’evidente cartellone che si portano appresso con su scritto “non fate come lei”? Be’, un aiutino me lo danno i romanzi che seguono due storie, una così tragica che manco Mariottide ai tempi d’oro, un’altra che come una commedia comincia col piede sbagliato e finisce decisamente bene.
Cioè, dopo la lettura di Cime tempestose, l’unica cosa che può salvarti dalla flebo è Catherine jr che almeno se ne vede bene, con quel pezzo di marcantonio di Hareton. E che cavolo, tra baci postumi e morti improvvise, almeno due che si amano e riscattano la maledizione familiare, ce li vogliamo mettere?
Trasferendoci nell’indolente Russia degli zar, vi confesso una passione: Levin di Anna Karenina. Ci ho messo tempo, eh. Mi sembrava, per usare un tecnicismo letterario, una uallera affumicata. Lui, i campi, i contadini. Mo’ per fortuna non sono una tipa da Vronski, mi è capitato un paio di volte nella vita ed era sempre troppo scemo per essere letale. In genere finisco con uno con la focosità di Karenin e la serenità d’animo di Heathcliff. Ma cavolo, alla povera Kitty non posso dare tutti i torti a dargli un palo, all’inizio (per chi legge da fuori Napoli: un due di picche). Ora sono commossa dal loro bimbo, che, in una rappresentazione teatrale che vidi a Edinburgo, caccia il primo vagito in concomitanza con l’urlo di Anna mentre plana sotto al treno.
Bello che un autore, dopo averti fracassato le gonadi col lato distruttivo dell’amore, si ricordi di lasciare un po’ di spazio alla speranza, memore forse del fatto che i suoi genitori non stavano sempre lì a chiamarsi nella notte tempestosa della brughiera.
Nell’ultima versione di Anna Karenina, però, Levin fa una scoperta fondamentale: l’amore è irrazionale. Lo so, state già organizzando un viaggio in Transiberiana per fargli un applauso scrosciante.
Ma intanto io pensavo, quoque tu. Tu che sei la speranza, l’amore che si fa fecondo senza dover per forza essere palloso, mi ricordi che ci s’innamora un po’ a cazzo di cane, e non sempre di chi ci conviene. Che, senza scomodare il Teorema di Marco Ferradini (o la più pregnante versione di Tony Tammaro), spesso non ci filiamo manco di striscio il Levin della situazione, perché non è abbastanza grosso o magro o idiota. O magari, semplicemente, non è abbastanza Vronski.
Poi qualcuna esce dal tunnel, qualcun’altra no. Le prime non sempre tornano indietro a prestare il tom tom.
Intanto, però, mi aggrappo come un faro a un luogo comune preso dall’ultimo Dickens, o da quello BBC (lo so, le mie notti sono appassionanti): in The Mystery of Edwin Drood, Rose, promessa sposa a un ragazzo che non ama, chiede al suo tutore com’è l’amore. E quello le risponde “è sempre corrisposto”.
Lì andrebbe organizzata una spedizione solo per prenderlo a botte. Ma ho deciso di essere ottimista e di rileggerla così: l’amore è irrazionale, e spesso ti spinge verso gente assurda. È una forza, di quelle cieche e ottuse. Ma c’è chi riesce a dominarla e dirigerla verso qualcosa di sano, come Kitty, e chi improvvisamente si ritrova a bruciare senza capire manco che è successo, come Anna.
Non so se il mio spirito di osservazione era latitante, l’anno scorso, ma mi sembra che mai come questo 19 marzo i social media siano stati invasi da foto di utenti coi loro padri.
Da Pieraccioni alla sottoscritta, che ultimamente ha trovato delle foto in bianco e nero dei suoi 3 anni che le hanno fatto fare tutta una serie di riflessioni, prima su di noi da bambini, e poi sui nostri padri.
Vi avverto, sono riflessioni banali, ma siccome per trovarvi qui vi avrò beccato in quei 5 minuti in cui non avete di meglio da fare, vi chiedo un po’ di comprensione.
Guardandomi contenta e sorridente, sicura dell’affetto dei miei e apparentemente spensierata, mi sono chiesta cosa sia successo poi. Cosa mi abbia fatto perdere quella fiducia in me stessa di quando altro che Di Caprio, la regina del mondo ero io.
Non sono manco originale, credo sia un problema comune, o sbaglio?
Va bene uscire dalle manie di grandezza che può avere una figlia primogenita, prima under 20 di una famiglia che fa poca vita mondana. Ma da qui a perdere quel sorriso e quel senso di sicurezza ce ne passa. Insomma, a me ha fatto bene rivedermi in quel momento della mia vita, e ho deciso che, se ovviamente non potrò mai ritornarvi, posso adattare un po’ di quei sorrisi al mio volto di adesso. Ora almeno i denti non mi mancano.
La seconda riflessione è sui padri d’annata che ho visto in rete. Giovani (il mio, coi suoi 33 anni di differenza con me, era un decano), e affettuosi, almeno nelle foto. Non so se a obiettivo tappato abbandonassero il pargolo alla mamma, se cambiare il pannolino fosse una cosa da donne. Ma nei limiti della loro cultura, di quello che hanno spacciato loro da sempre per virilità e paternità, sono sicura che quasi tutti hanno fatto del loro meglio.
Il fatto è che, mi sembra, spesso i bambini delle foto non sono pronti, a loro volta, a diventare padri. Qui potrei lanciarmi in questioni di lana caprina sulla crisi del maschio, o sulla liquidità dei ruoli di genere, che ci ho fatto pure un dottorato (ebbene sì, mi pagavano per questo). Potrei dimenticare il dottorato di cui sopra e i luoghi comuni sulla misandria, e dire che gli uomini mentalmente sono eterni bambini. Almeno non vi scodellerei teorie pseudoscientifiche basate su esperimenti che si contraddicono tra di loro.
Potrei tirar fuori, e qui finalmente avrei un po’ di sale in zucca, il problema ormai annoso della crisi economica mondiale, del precariato globbbale totale che ci fa rivedere le nostre scelte e ridimensionare gli obiettivi. Ma, considerando i nostri nonni e vedendo anche i nipoti che scelgono di aver figli e tirare la cinghia, sento che non è tutto, che manca un tassello a questo mosaico di figli felici e viziati che si trasformano in padri mancati.
Non pretendo di ricomporlo. Ma sento che, semplicemente, tanti di quei bambini degli anni ’80 non sono pronti. Semplicemente. Sono passati 30 anni e mi sembrano idealmente più vicini al bimbo della foto che all’adulto che lo regge. Perché? Boh.
Forse perché adesso sanno che possono scegliere. Che un matrimonio e un mutuo non sono più così impellenti, rispetto al wide wide world da visitare, a progetti da portare avanti, ecc. Forse perché anche le loro sorelle si sono liberate dall’obbligo di sapere esattamente cosa vogliano dalla vita, per poi sentirsi dire che “le donne non sanno mai cosa vogliono”.
Ma credo che qui c’entri molto l’umana tendenza, che trascende generi e generazioni, a vivere scansando il più possibile le proprie responsabilità. Una tendenza che la società liquida ha imparato a incoraggiare. E finché queste responsabilità sono seguire un percorso tracciato da qualcun altro fin da quando avevi 3 anni, perfetto scansarle.
Il sospetto, però, è che per inseguire chimere (e ciascuno ha la sua) fino a diventare bimbi vecchi si perdano cose importanti per strada. Come la possibilità, appunto, di essere padre. Ho detto la possibilità, non l’evenienza. Alle possibilità ci tengo sempre, io. Mi fa arrabbiare non “poter” fare una cosa, anche se magari non la voglio neanche fare.
E non credo sia un caso che, ora come ora, con buona pace di Povia e del nuovo papa che è troppo umile per scomunicarmi, mi sa proprio che nella mia vita vorrei più mio figlio, che suo padre.
E il semplice ricordo che per essere arrivata qui qualcuno mi ha nutrita, coperta, lavata, protetta, che c’è un nesso tra quelle foto in bianco e nero e i colori della mia stanza di adesso, mi rende il pensiero dei figli più lieve, in tutta la sua imponderabilità.
Agli uomini della mia generazione che hanno il coraggio di pensare lo stesso per più di un istante, un abbraccio e ‘a Madonna ce accumpagne.
Vegetariani di tutto il mondo, unitevi: da Elias & Zakaria, spartanissimo bar sul c. del Carme, c’è il cous cous vegetal a 5 euro. Non quello che vi arronzano al maghrebino normale, che poi non sa manco come farvelo, senza carne.
Ma vabbe’, prima di precipitarvi lì documentatevi sul brodo, il mio panettiere dice che è sempre e comunque di carne. Quindi magari vi ho appena detto una stronzata, verrete sotto casa mia a picchiarmi e fareste anche bene.
Ma non di venerdì, per favore.
Quando un lavoro ce l’avevo, il manager di venerdì entrava nella stanza e invariabilmente diceva: “Today it’s a good day, today it’s Friday!“. Ero l’unica a non volerlo strozzare, la sua vita era un’eterna sorpresa come per la buonanima di mia zia, che ogni domenica mi chiedeva se Simona Ventura non avesse freddo, conciata così.
Ora che non lavoro più, quello che cambia è che non mi pagano. Ma di venerdì mi sveglio alle 8 e alle 8.15 sto attaccando coi lavori di chi non lavora: traduzioni, progetti di ricerca, proposte di pubblicazione… Ok, stavolta che avevo il ciclo ho cominciato alle 9.30. E mi è andata bene: Leonardo Da Vinci se n’è rimasto buono buono nel capitolo della settimana scorsa, senza uscirsene con qualche intraducibile invenzione alla Mc Gyver, ma di dubbia efficacia. E mentre rispondevo in catalano a una paludata casa editrice che mi proponeva un incontro, avevo nelle orecchie a palla LU TAMBURREDDU MEU VENE DE ROMAAA.
Alle 14.30 (che qui si mangia tardi), il cous cous di cui sopra con un quasi-vicino che ormai è il convitato del venerdì. Un piatto per due, date le dimensioni, basta e avanza. Mettici il laban per me e il mitico succo di banana e avocado che fanno così bene i marocchini (davvero, a imitarlo non ci si riesce), e col tè alla menta finale siamo usciti sazi con 5 euro a testa. Standing ovation alla cuoca, che come sempre mi ha sorriso pacioccona con la faccia incorniciata dal velo.
Abbiamo deciso d’inseguire il sole, che si è fermato a Plaça Espanya al Caixa Forum. In tanti anni non l’avevo visto mai, il volto presentabile di Mordor. È un centro che organizza conferenze ed esposizioni. Un’amica latina che ha lavorato per un po’ a La Caixa come contabile, non proprio una socialista bolivariana, diceva che era un buon metodo per giustificare certi movimenti di denaro. Io mi sono persa tra le esposizioni. Quella di fotografia propone lastre di metà ‘800 accanto a rifacimenti, parodie e ritratti di oggi. Mi piace la riproduzione del 3 de mayo di Goya, senza i protagonisti, rimossi digitalmente. Quella lanterna nel buio di un angolino desolato di Madrid era spettrale e riconfortante insieme, poteva essere lo scenario del terzo atto della Bohème come il mio balcone con una nuova lampada IKEA.
E poi, in un’altra sala, la colorata fila di striscioline su cui l’artista aveva stampato i desideri di 10mila persone. desidero che non ci sia gravità, desidero che la mia famiglia viva a lungo, desidero… Lì mi sono resa conto che non avrei saputo che scrivere. La risposta è sempre stata un nome proprio di persona, sempre lo stesso. E ora? Nel dubbio ho scelto il mio nastro, se ne può scegliere uno. Per scoprire col mio accompagnatore che, tra tante risposte, avevamo preso entrambi “desidero che i miei desideri si avverino”. Attenzione, gli ho detto, attenzione a ciò che desideri, perché potrebbe avverarsi.
Nell’attesa, ho deciso di chiudere col mercatino vintage a Gràcia, alla Casa Capell, Rambla del Prat 27. Però ho un problema col vintage di qua: perché questi vestitini a 30 euro, di taglio delizioso, devono sembrare carta da parati, con profusioni di fiori e frutta e beveroni di trine e ghirigori? Per la stessa ragione per cui una parrucchiera di Barcellona non ti sa fare una linea dritta in testa, e i fricchettoni ritengono che verde e cocozza sia un grande abbinamento? Insomma, ho cercato di vincere le divergenze culturali infilandomi coi vestiti più semplici in uno stanzone con su scritto “camerini”. Sì. Sono finita tra un esercito di donne in mutande, che si contendevano ridendo i pochi specchi in giro. Niente tende. E le mie autoreggenti H & M fresche di terzo lavaggio a trasformarmi ufficialmente in Priscilla, la regina del deserto. Superato l’imbarazzo, è stato divertente. Le amiche ridevano e si passavano i vestiti, quella con le tette strizzate nei corpetti anni ’60 vicino a quella secca a cui tutto scivolava addosso perfetto. E ho pensato a quanto siamo belle, tutte (tranne me, con la biancheria spaiata da ciclo).. E quanto spesso ce lo scordiamo.
Dopo essere scesa alla fermata Paral·lel, sulla strada di casa ho visto gente in fila, guarda un po’, alla Caixa all’angolo di Nou de la Rambla, che ha anche un bancomat interno, deserto per l’occasione. Mi sono affacciata e accomodato a terra sotto varie coperte c’era un uomo, ancora giovane, immobile, bocca e occhi aperti. Ho aspettato di vedere che respirasse, mentre un signore mi osservava preoccupato, e ho deciso di andare avanti. Il signore era preoccupato solo di vedere se entrassi, “io, con quello lì, dentro non vado”, ha borbottato in catalano.
Su Nou de la Rambla mi sono fermata. Ok, respira. Ok, è un luogo chiuso. Ok, non so come reagisce se gli chiedo se sta bene. Non sono tenuta a farlo. Se vado via non ho niente da rimproverarmi, se torno indietro…
Sono tornata indietro.
Ora non voglio fare la Pollyanna della situazione, ma il momento più bello di tutto questo venerdì è stato quando il tipo mi ha stretto la mano.
Pensateci. Il signore che non voleva entrare l’avrebbe fatto anche solo per presentarsi. Un barbone che si degni di stringerti la mano è raro quanto una nonna che non sappia cucinare.
E io da oggi (nonna non me ne voglia) posso vantare di aver sperimentato entrambi i fenomeni.
Ho rotto le scatole finché non siamo arrivati al centro Sant Pere Apòstol: aggia sape’!
Ma la fumata bianca c’è appena stata, mi si diceva, e poi che te frega? Come, che me frega? Il primo papa della Cia, il primo di CL: sono cose che si devono sapere. E poi, vuoi mettere il momento storico?
Grande esordio, per la mia prima riunione Altraitalia: in quel covo di mangiabambini atei il mio agnosticismo pop esordisce con me che mi pianto davanti a uno schermo, insieme agli utenti catalani del centro, per vedere chi è questo.
Come si diceva l’altra volta, erano state ore di attesa . Non poco dolorose. Nelle quali, tra fossi scansati che poi mandano e-mail chilometriche per farti tornare indietro a inzaccherarti, e la constatazione definitiva che la crisi ha fatto dei nostri 30 anni un’eterna adolescenza, mi sono ritrovata a ripensare a una di quelle frasi che ricorderà la generazione Smemo, che si scrivevano tra le pagine odorose di salatini mentre la prof. interrogava in Latino:
se io amo lei, lei ama lui, e lui ama un’altra, fermate il mondo, voglio scendere.
No, un momento. Questa laurea in Lettere a qualcosa mi dovrà pur servire. E allora dirò che mio malgrado, mentre i papa boys pregavano in Piazza San Pietro, ho pensato di nuovo a quella citazione di Calvino sul castello di Atlante. Quello dell’Orlando Furioso, in cui si perdono tutti i cavalieri a inseguire l’ombra (e solo quella) dell’oggetto dei loro desideri: se non sbaglio, Bradamante cerca Ruggiero, Ruggiero Angelica, e così via. E sono 10 anni che mi colpisce e commuove il commento di Calvino su quel “vortice di nulla” che sono le illusioni:
Atlante ha dato forma al regno dell’illusione; se la vita è sempre varia e imprevista e cangiante, l’illusione è monotona, batte e ribatte sempre sullo stesso chiodo
E con buona pace di Trainspotting, io avrei scelto la vita.
Così me ne stavo lì in quel centro civico a sentir annunciare in catalano chi era il nuovo presidente del consiglio italiano. Il papa, scusate, il nuovo papa.
E chi guardava con me, senza aver mai scritto frasi sulla Smemo, ora aveva qualche difficoltà col latino.
Io ci sono cascata: Bergoglio in effetti è un cognome italiano. Ma dovevo ricordarmi che quando i cognomi sembrano italiani, ma non li ho mai sentiti (mitico Buonanotte, nella liga spagnola), in realtà sono italiani d’oltreoceano. Argentini.
I miei colleghi altritalioti, esperti, cominciavano invece a chiedersi cosa pensasse Don Francisco del señor Videla, senza sapere di toccare un nervo scoperto. Il mio pensiero, come sempre in questi casi, va a Juan Diego Botto, il mio attore ispanoargentino preferito, che non a caso vi propongo mentre parla di Hamlet: lasciò il paese a 3 anni, figlio di un desaparecido. Quando Videla fu condannato all’ergastolo per i figli dei desaparecidos, tutti sul suo Twitter a festeggiare.
Però mi è piaciuto il nome, Francesco. Divertente che scrivessero “Francesc” in sovraimpressione, e dopo un po’ cancellassero per piazzarci la mazzarella, Francesc I. Fa un po’ turista, lo straniero che viene e si chiede quali santi siano più amati in Italia. Come se mi facessero papessa negli USA e come nome scegliessi Rose Parks, per far vedere che la storia la so. Ma davvero, bella mossa. Francesco sta simpatico un po’ a tutti, fratello sole, sorella luna.
E infatti, per gli astanti che informavano i nuovi arrivati, già era diventato Paco. O meglio, el Paqui. Che Francisco diventi Paco in spagnolo, oltre a essere il più grande deterrente per chiamare così mio figlio, è un mistero della fede. Un po’ come Domenico che diventa Mimmo. Perché, mio Dio, perché?
Francesco I, affacciandosi, non se lo è chiesto. In realtà non ha parlato per un bel po’. Ricordo il ciuffo di Ratzi, perfettamente a suo agio tra la folla e ben più bardato, quando venne scelto. Questo pareva mio nonno, di bianco vestito, emozionato e muto.
Poi è successa una cosa strana. Ha cominciato a parlare in italiano e io, per ridere, improvvisavo una traduzione simultanea in catalano coi presenti.
Com sabeu, el conclau ha de triar el bisbe de Roma…
Improvvisamente, il telecronista ha coperto la voce del papa. Ma come? Sta facendo il primo discorso. È pure in italiano… Ah, già, non sono in Italia. E capirei solo io. È stato uno di quei momenti di alienazione che capitano agli italiani all’estero, quell’istante in cui devi ricordarti in fretta chi sei e dove ti trovi per non impazzire del tutto. Per sdrammatizzare allora mi son detta che il cronista fosse un po’ sorpreso e arrabbiato dal fatto che il primo discorso del papa non fosse in catalano. Se perfino Colombo era catalano…!
– Maria, ti espelliamo alla prima riunione! Vieni, che cominciamo.
E no, nonostante l’omonimia, certi divini pennuti non c’entrano niente.
In realtà è puntuale, solo che quando cominci ad andare in coma sette giorni prima, l’aggiungi alle cose da aspettare. Insieme al governo, al presidente e al papa.
Oddio, quest’ultimo lo aspetto solo per vedere se parlerà davvero come Stanlio e Ollio: sperow key mi corrigiretey, stupídi!
La scorsa fumata nera, otto anni fa, mi vedeva a un passo dalla laurea e a molti di distanza da Manchester, dove un 25nne (di un anno più grande di me, ma lì sono uomini presto), mi aspettava per convivere nella casa che si era appena comprato. Io non avevo quella testa, volevo la libertà rob’ cos’. Come il mio amico di Madrid, che aveva lasciato Manchester un anno prima dopo aver infranto vari cuori.
Oggi mi ha chiamato, l’amico di Madrid, e abbiamo parlato a lungo, senza più dover passare all’inglese. Anche se ogni tanto ci mettevo qualche parola in catalano. In questi otto anni io ho finito un dottorato e lui ancora no. Ci hanno licenziati entrambi. E sentimentalmente ci hanno somministrato la stessa medicina che otto anni prima elargivamo noi. Concordiamo sul fatto che sia amara.
Ora siamo entrambi in attesa, perché quando hai fatto tutto quello che devi fare, puoi solo aspettare.
E nell’attesa, ho scritto un racconto sulle attese.
Sangue amaro
E poi Xavi le dà un anello.
Glielo dà sul lungomare di Napoli, per festeggiare la sua promozione. Quale? Non lo sa, ma sa che è un bel lavoro, quello che cercava.
Il tramonto è di quelli di cielo e mare uniti in un unico schizzo di spuma, che in un’impennata d’orgoglio ti plana sugli stivali di mezzi tempi, sugli scogli davanti a Castel dell’Ovo.
Ma stasera ‘a cartulina ha deciso di dare proprio il meglio di sé, e Xavi, che per l’occasione si è messo il profumo regalato al loro terzo non-meseversario, la porterà a mangiare da Zi’ Teresa. Offre lui. E s’impegna a non mettere il parmigiano sulle cozze.
Ora, che tutto questo sia un sogno, Rosa lo sa.
Sa pure che la sveglia del cellulare è suonata dieci minuti fa, e con la cazzimma delle sveglie moderne si appresta a ripetersi. Ma vuole stare ancora un po’ sotto il piumone a credere che sia tutto vero, ancora un po’, per favore…
Ecco. Tu-tu-tu-tuuu. Sembra un elettroencefalogramma. Il braccio lotta col buio, svogliato, sapendo di perdere, allora afferra il lume come un tentacolo e cerca l’interruttore.
Tuuu.
Niente, tanto ormai il telefonino è illuminato a festa. Ci mette qualche istante ad affrontare la logica delle sveglie da cellulare spagnole. Quando suona questa, sull’enorme schermo rettangolare compaiono due scritte equidistanti:
Aceptar
Repetir
Se non accetti la cruda realtà (che ti devi alzare), ripeterai all’infinito il tuo errore (fingere che non sia tardi).
Le sveglie spagnole sono un po’ filosofe.
Si alza e corre verso il bagno. Ma lei non sta in Spagna, sta a Barcellona. E nel suo mozzico di quartino, 30 metri quadrati per tre coinquilini, l’unico bagno, quando ti serve, è occupato da un Erasmus.
– Vanessa, por favor, ci ho il ginecologo!
– Un momento!
Sì, un momento. Si mette una mano sulla pancia, per ascoltarsi. Vanessa a lezione non ci va mai, può svegliarsi all’ora che le pare, e non le lascia libero il bagno una volta che si sveglia alle 7.30 del mattino.
La pancia tace. Eppure. Guarda il mare, dalla finestrella delle dimensioni di un oblò. Che differenza, col sogno. È grigio, carico di pioggia. Come il cielo che incombe sulla giornata gonfia che le si apre davanti, dopo un altro quarto d’ora, come la porta del bagno, prima che la sfondi.
Quando doveva arrivare? Fa il calcolo. Stavolta è una settimana. Non si è mai preoccupata, tanto incinta non è, Xavi è in tournée da un mese e doveva chiamare tre giorni fa.
Il reggiseno l’ha lasciato già in bagno, quello una misura più grande, della fase premestruale. È l’unica cosa buona, se non le facessero così male. La panza, come un otre che cerca di comprimere nei jeans, non la guarda nemmeno. Maledetto progesterone. Il bottone con su scritto Levi’s si chiude a stento.
Correndo verso l’ambulatorio incrocia tutte e due le dita, spera che ci sia la vecchia.
Quella la fa visitare da tutti e due gli assistenti, maschio e femmina, e le fa domande tipo quanti uomini ha avuto e a che età il primo rapporto sessuale, ma almeno è seria.
– La dottoressa Grau ti aspetta – fa alla reception il tizio simpatico, che improvvisamente le diventa antipatico.
No. Crudelia. Solo che rispetto a Crudelia De Mon, si accorge precipitandosi nella sala di ostetricia, stavolta si è fatta i capelli rosso paprika, che con la montatura degli occhiali a chiazze dalmata fanno una combinazione deliziosa.
– Che succede, stavolta?
La sedia gestatoria si staglia alla sua destra contro la parete color Brooklin – freschezza da baciare. Minacciosa.
– Non mi viene il ciclo.
Crudelia fa un sorriso ironico.
– No, non sono incinta – spiega subito lei. – Mi succede sempre. Ma da tre mesi a questa parte è fisso.
– Tre mesi – scrive l’altra pensierosa, su un taccuino. – E che è successo, tre mesi fa?
Ecco, ora la rende nervosa. Si morde un labbro, incrocia le scarpe sotto i jeans che da seduta sembrano sul punto di scoppiarle addosso.
– Non so – dichiara infine.
Crudelia si toglie gli occhiali dalmata.
– Te lo dico perché sarò franca, con te. È inutile che guardi la sedia gestatoria, lì. Non ti visito. Posso pure infilarti un dito lì dentro e controllare, ma già so cos’è. Te lo leggo in faccia.
Rosa sospira. Pure la ginecologa veggente, ti legge le ovaie attraverso gli occhi.
– C’è qualcosa della tua vita che devi cambiare. Una cosa che non ti serve a niente, che ristagna. Ma tu non la lasci andare. Cambia quella e starai bene. Intanto…
Per essere esattamente l’antimedico, ha una grafia nitidissima.
– Ibuprofeno? E che è? – Luigi legge la ricetta, appoggiato alla macchinetta del caffè. Si sono presi la pausa insieme per commentare il crollo del palazzo a Riviera di Chiaia, quella mattina, e lei ne ha approfittato per fargli vedere il foglio di Crudelia.
– Acqua calda, questo è. Sti stronzi non hanno l’Aulin. Hai detto a Carlo di metterlo in valigia, mo’ che viene questo fine settimana?
Pensano tutti e due a Carlo e alla sua valigia. Col contratto di affitto dello stabile, già visionato dal suo notaio. Carlo è sicuro che farà un buon affare, lui è figlio e nipote di ristoratori. Rosa non vede l’ora di aiutarlo nella gestione del ristorante che metteranno su tutti e tre, e mandare affanculo i telefoni del call center.
Luigi schiaccia pensieroso il pulsante della cioccolata.
– Quello non sa ancora se viene venerdì o sabato. Ma prenotasse, coi prezzacci che ha messo la Vueling…
Rosa gli scompiglia i capelli tenuti su dal gel buono, brizzolati e affascinanti da quando stavano all’università. Facoltà di Economia della Federico II. Lui, tesi in Economia Aziendale, lei Economie dei paesi in via di sviluppo.
Nessuno dei due, arrivando a Barcellona sei anni prima, aveva mai studiato Servizio di Attenzione al Cliente.
– Quale ibuprofeno. Quello che devi fare tu è liberarti di Xavi. Si ricorda di te tra un concerto e l’altro, quando gli mancano le groupie.
– Te l’ho detto, ancora non ho deciso. Non è detta l’ultima parola. E anche se fosse… Potrebbe andarmi bene così.
– A te? Ma nun me fa’ ridere. E allora cos’è, che staresti trattenendo, signorina Freud?
– E io che ne so. Tutto questo, forse.
– Azz, le nostre giornate al telefono? Pronto si’ tu, nun attacca’? Bell’affare, che fai.
E hanno pure fortuna, che l’azienda è piccola e l’hanno trovata al terzo tentativo. 1.200 al mese con la crisi non sono male, specie se netti.
– Te l’ho detto, Lui’, non lo so. Ho la sensazione che potrei rimpiangere tutto questo, precario e buono.
– Rimpiangere cosa?
Sorride.
– I Pavesini che mi porti la mattina, per prendere il caffè.
E pure Xavi che va e viene, ma quando viene è una festa, camera chiusa a chiave per un giorno indero, direbbe “Cicci” D’Alessio.
– Il punto non è la paura di non trovare mai pace, Lui’. Le nottate, prima o poi, passano. I nostri nonni che hanno mangiato polvere di piselli sotto le bombe ci sputerebbero in faccia. Il punto è che, guarda un po’, io tutto questo potrei anche rimpiangerlo, precario e buono. Pure le cose così così, a volte, si rimpiangono. Ti ci affezioni…
Lo stomaco le brontola in maniera inverosimile, mentre conclude:
– Non vorresti mai lasciarle andare.
– Aspetta di stare uccisa di lavoro alla cassa del Restaurante Bella ‘Mbriana – Cocina típica napolitana, e vedrai come le lasci andare.
Sì, decide lei. Stavolta, stavolta fanno il botto, col ristorante.
– La pizza con la scarola, Rose’, la pizza con la scarola, facciamo.
Luigi si emoziona sempre su questo punto. La pizza fritta con la scarola a Barcellona proprio non si trova, e non ci stanno santi, può pure affacciarsi il peruviano, come adesso, a fargli capire che devono tornare al lavoro.
– Chitebbivo – bisbiglia sorridendogli, e facendo un cenno che può voler dire qualsiasi cosa. – Il coordinatore del servizio clienti italiani sono io? E comando io. Hai visto, Rose’, tu sei mille volte più buona di me, e sempre al masculo hanno dato l’incarico, ricchione e buono.
Rosa sta pensando ancora alle scarole.
– Povia dice che puoi guarire – sorride sarcastica, mentre si scosta dal distributore per far posto alla russa appena assunta, di IT.
Allora Luigi si avvicina alla nuova venuta, le fa il baciamano e dichiara nel suo inglese:
– Ciao, il mio ragazzo stasera non c’è. Che dici, vieni a casa mia?
La ragazza balbetta qualcosa, afferra un cucchiaino di plastica da sopra alla macchinetta, e si allontana con quello, senza un caffè in cui girarlo.
– E che sarà mai – borbotta Luigi. – Ma come fanno, con voi, gli altri uomini? Che poi mio padre all’Arenella questa terapia d’urto voleva propinarmi: ce ne andiamo insieme giù Napoli, in un posto che so io, le mie amiche ti daranno una mano…
Occhiolino. Rosa si risiede schifata, s’immerge nel lavoro per non pensare al bottone che le preme contro la pancia impazzita, ai capezzoli sensibilissimi contro il reggiseno che solo per questa settimana li conterrà a stento. Ma quando arriva, sto ciclo? E quando chiama, Xavi? Ma già, sa che adesso lei è al lavoro, non la disturberebbe mai.
Due coreani si sono spersi per Firenze, il proprietario dell’albergo la chiama più volte, aspirando tutte le t: il thour operathor sei thu, devi fa’ qualcosa. E che parla coreano, lei?
È proprio perché s’impone di non guardare il telefono ogni cinque minuti, e dimenticare un po’ Xavi, che se ne accorge solo dopo. Molto dopo.
Quando la segretaria ha già strillato il suo nome non sa quante volte, e quelli di IT hanno fatto spazio alla valigia all’ingresso, e verificato che delle uniche lingue che sa parlare il nuovo venuto, napoletano e un po’ d’italiano, loro sanno solo ue’ uaglio’ e spaghetti.
– Rosa, Luigi, c’è un amico che chiede di voi.
Stavolta il peruviano si alza.
– Siete appena tornati al lavoro dopo una pausa di mezz’ora. Volete guadagnarveli, questi soldi, o gli italiani li manteniamo per beneficienza?
Luigi fa il sorriso scemo di quando non vuole discutere. Non si accorge, quindi, che Rosa scatta dalla sedia e si precipita verso il peruviano, che rimane immobile con la barbetta curata e la prosopopea che gli dà la condizione di veterano in quel servizio clienti. Pure ‘e pulece teneno ‘a tosse, pensa all’improvviso, ma non sa come tradurlo.
E allora gli grida:
– Senti, noi qua di te non ce ne freghiamo proprio, capito? Noi ci mettiamo a fare la pizza con la scarola, e se vieni nel nostro ristorante prova a chiedermi una di quelle tortillas di merda che ci hai portato per il tuo onomastico, vedrai che buona. Pure nell’acqua, ti sputo, strunz’.
Luigi le è addosso in tempo per soffocarle l’improperio finale. Tutti (o meglio, tutte) guardano.
– E lasciami!
– Rose’, niente sceneggiata… Perdona, sabes, le deve venire il ciclo.
Sgrana gli occhi, incredula.
Il peruviano già stava per scivolare silenzioso nell’ufficio del manager, col suo nome in punta di labbra. Ma ora la squadra, da capo a piedi, e lei si sente nuda sotto il maglione più grande, più gonfio.
Finché non gli vede le labbra storcersi in una smorfia ironica, che vuol essere un sorriso.
– Quand’è così. Va bene, Rosa, per oggi passi, che sono un caballero. Ricorda che quando stai così male puoi sempre chiedere un giorno di malattia. E la prossima volta vai in farmacia. Per queste cose di donne, ormai, ci sono diversi rimedi.
Le colleghe hanno gli occhi bassi. Qualcuna la guarda con un sorriso solidale, da dietro lo schermo del computer.
Rosa attraversa il corridoio tirando Luigi per il bavero della giacca.
– Che cazzo ti è venuto?
– A me? Ma se ti ho salvato il posto di lavoro! E poi scusa, non è vero? Se non stavi male la facevi, questa sparata? Si sa che quando state così siete tutte uterine, specie tu.
Scuote la testa. No, si dice tra sé. Nel suo caso è dismenorrea, ciclo doloroso. L’ha sempre avuto. È come stare col mal di denti per tre giorni di seguito senza potersi togliere la carie. Vorrebbe vederlo, Luigi, in quelle condizioni.
Speriamo che Carlo porti l’Au…
– Carlo!
La valigia. Parcheggiata vicino alla scrivania della segretaria, che li guarda con aria di rimprovero.
– Per ricevere gente dovete avvertirmi prima, o non li faccio passare.
– Sì, sì, scusa – interviene Luigi, prevenendo nuovi scatti di Rosa. – Andiamo in cucina.
– No, me ne torno a Napoli – Carlo si lascia cadere sul divanetto accanto alla scrivania, incurante del giaccone che ci sta sopra. Si prende la testa tra le mani e capiscono che non possono fare altro che aspettare. Infatti, dopo un po’, butta via il giaccone e dice:
– Ragazzi, il ristorante non si apre più.
E Rosa sa che è vero prima ancora di chiedere spiegazioni. Che nell’acqua del peruviano non ci sputerà mai, e deve vedere se il giorno dopo lo guarderà ancora in faccia dalla sua scrivania, o alla fine lui andrà dal manager. Si lascia cadere sul divano anche lei, davanti alla segretaria che la fulmina con gli occhi perché non torna al lavoro, e ascolta la storia.
– Mi ha chiamato ieri notte l’avvocato… Il tuo amico, Luigi, come si chiama? Carlèsss, come me. Dice ci sono problemi. Chiamami domani e ti spiego meglio, fa. Ma quale chiamare, ho preso l’aereo. Tenevo tutto già firmato, mio padre mi aveva dato i soldi, dicendomi che se fallivo stavolta arrivederci e grazie. Arrivo da quello, col primo taxi, in culo alla Diagonal dove sta, e mi dice che c’è la normativa.
– Ma quale normativa? – Luigi scatta, facendo girare la segretaria. – Le abbiamo verificate tutte, tutte le cazzo di normative che vanno trovando questi per mettere su un fetente di ristorante. Le uscite di sicurezza erano a posto. I metri quadrati, adeguati. Non c’erano altri ristoranti nel raggio di…
– E qui casca l’asino. Sai quel parcheggio all’angolo, là vicino? Avevano chiesto l’autorizzazione prima di noi. Ci metteranno su un… nun m’arrecordo manco comme se chiamma… Un Sabors del Món, una cosa così.
Rosa e Luigi si guardano. Conoscono la catena, arrampicatasi da poco per l’Eixample e pronta a invadere, piano piano, pure il centro. Nel Raval non potrebbe mai, inutile pagare 10 euro per un riso indiano che al kebabbaro ti danno per 2 euro. Ma dove volevano farlo loro, il ristorante, sfidando la roccaforte catalana con l’offerta dell’amico di Luigi che chiudeva, hai voglia.
– E come sappiamo – conclude Luigi, la fronte precocemente stempiata resa lucida dal sudore – due ristoranti a così poca distanza non si possono mettere.
Rosa si mette le mani sulla pancia, come se fosse incinta. Le contrazioni sono quelle, decide, ma niente. Non si muove niente. Neanche lei, quando il peruviano le manda la collega francese, per non andare lui a ricevere un’altra sfuriata.
Ma lavora come una zombie, sa che Luigi ha convinto Carlo a restare, che la valigia sta nello sgabuzzino e lui al bar di fronte, ad aspettare paziente che finiscano di lavorare per prendersi una birra in riva al mare.
– Non è il mare di Napoli – commenta che è buio pesto, osservando una ragazza che corre in pantaloncini verso la skyline di Vila Olímpica.
Sono gli unici nella terraza, i tavolini all’aperto riscaldati dalla stufa. Le nuvole sono lì ad aspettare solo di scaricare il loro peso. Rosa si è sganciata il bottone fin dalla seconda clara, non ne può più.
– E come va, con quello, là… Xavi? – chiede Carlo, con un sorriso che dice fammi distrarre pensando ai guai degli altri.
– Come vuoi che vada? – interrompe Luigi. – Pare Ragione e sentimento di Maria Nazionale: scema, che aspiette p’ ‘o lassa’…
Carlo coglie la palla al balzo per rispondere in falsetto ma io lo amo…
Rosa si getta su Luigi, lottando coi bottoni della sua giacca, finiscila, finiscila. Ma quello continua, ridendo:
– Chillo, è tutto ‘nfamità… So’ ‘nnammurata…, ribatte Carlo, senza smettere di fissare il mare.
Va bene, pensa Rosa guardandolo. Sfotti me, tu sei quello che ci ha perso di più. Ostenta noncuranza e commenta:
– Questa canzone l’abbiamo cantata tutti insieme proprio qua, no? Per far disperare la prof d’Italiano. Era la colonna sonora trash della nostra gita a Barcellona.
1999. Il millennio era alle porte e Barcellona era Gaudí di giorno, e discoteca di notte.
– Voi stavate nell’altra sezione – ride Carlo. – Quante fughe notturne, sotto gli occhi di Donzelli di Chimica. Facevano pure la ronda notturna col prof. di Latino, e noi mettevamo gli zaini nei letti per fingere di star dormendo, tipo telefilm americano.
– A me Barcellona non piacque manco, allora – ride Luigi. – Che ne sapevo, che ci trovavo l’uomo della mia vita.
– Seh, e quel ricciolone l’ultima sera, quando ci perdemmo per il Gotico… Ancora facevi quello misterioso, dicesti che ci andavi a cercare non so che bar, e invece… Sparito dalla circolazione per tutta la sera.
Luigi sorride, trasportato dai ricordi. Ricordi di 20 anni ancora da compiere. Di una città buona per bersela tutta con menta e vodka, non per lavorarci e mettere su famiglia. Anche se una famiglia Luigi non la può avere, a Napoli.
– Ma la gita più bella fu alla Città della Scienza, con Cardinale di Fisica. Vi ricordate?
– Ua’, sì – risponde pronto Carlo, alzando il bicchiere vuoto per chiedere altra birra, come si fa là.
– Io non ci venni, avevo la febbre – ricorda Rosa, prima che comincino a rivangare cose che lei non sa.
– Facesti male, scema. Dovevi venire con tutta la febbre. Non ci sei mai stata, là?
– No – ammette, a malincuore.
– E vacci. Fu una grande gita. A un certo punto seminammo Cardinale. E io m’infrattai con Enzo Avossa nel Planetario.
Carlo quasi cade dalla sedia.
– L’amico mio? Quello mo’ ha due figli.
– Nessuno è perfetto – ride Luigi, fino a rovesciarsi la birra. – Ma ce l’hai su facebook? Fammi vedere come si è fatto.
Carlo caccia l’iPhone 4.
– No, io non ce l’ho, ma Pasqualino Grimaldi sicuro lo tiene.
Rosa non ascolta nessuno, solo la sua pancia. Niente. Non parla. È arrabbiata con lei. Vuole che la liberi. Ma io come ti libero, figlia mia? Come? Ci pensa un attimo, poggia la clara sul tavolo e dice:
– Facciamolo, ragazzi.
Carlo alza gli occhi dall’iPhone.
– Il bagno di notte? Ma veramente facevi, in metro?
– No. Prendiamo l’altro magazzino. L’altro che offriva il tuo amico, non scontato. Un po’ più grande, a due strade dal nostro. Stringiamo la cinghia e pigliamo quello. Ormai lo sfizio della pizza con la scarola lo tengo.
– Ma ti ricordi quanto sta? – Carlo smanetta nervoso, il blu facebook le balena un momento negli occhi e scopre che ricorda il blu Barilla. No, nel ristorante al massimo pasta De Cecco. Se non la fanno loro a mano.
– Lo so – guarda Luigi in cerca di complici, capisce che stavolta non sarà facile. – Ma pensateci, ormai è fatta. Se torni a casa tuo padre ti dice che sei un fallito e aveva ragione lui. E tu, Lui’, quanto ancora vuoi restare in un call center, invece di fare quello che volevi?
– Ma Joan e io cerchiamo casa, e il mutuo…
– E ja’! – ecco, si arrabbia di nuovo. Il mare frusta furioso la battigia troppo alta, specchio inquieto del temporale che lo minaccia.
Rosa si alza, gli occhi lucidi, il bottone evidentemente sganciato sotto la maglia.
– Almeno pensateci.
– Ragazzi, la Città della Scienza sta bruciando!
– Cosa? – fa Luigi.
Carlo gli passa il cellulare. Rosa si affaccia a guardare.
– È una foto fatta mo’, sta sulla pagina facebook di Lino Grimaldi.
Rosa guarda e non capisce niente. Vede un fiume rosso sul mare di Napoli. Fumo.
Capisce solo che alla Città della Scienza non ci andrà più, come aveva capito quella mattina che il ristorante non si faceva e amen.
E che Napoli è una città che normalmente ti ammazza piano piano, in un giorno non era mai stata così infame. Una città in cui il malessere ristagna sotterraneo, come le catacombe che visitano i turisti, di solito è più discreta, non ti getta la disperazione in faccia in un giorno solo.
Sulla home di facebook si accavallano messaggi di rabbia.
È arrivato il momento di andarsene, fa un amico di Carlo che lei non conosce.
Pure quelli in comune, è tutto un “lasciamo Napoli, adesso”.
– Come se arrivando qua trovassero il Paradiso – sorride Luigi, amaro.
– L’incendio è doloso?
Pare di sì. Stanno bruciando 4 capannoni. Il sindaco…
Rosa afferra la borsa, come un riflesso condizionato che ha dai tempi di casa, e si avvia verso il mare.
– Dove vai? – le grida Luigi. – Hanno già iniziato una petizione…
Da lontano non li sente.
Accende il suo, di smartphone, e sì, nel cordoglio generale qualcuno già si muove. Si parla di conti corrente, flashmob.
Sta talmente ubriaca e dolorante che manco si accorge del messaggio di Xavi, e quando lo fa si sorprende a dirsi che lo leggerà dopo. Ora pensa a come può essere una pizza Planetarium, nel ristorante.
Perché a quei due li convince, il ristorante lo aprono.
E il primo incasso sarà per la Città della Scienza, che non ha mai visto ed è troppo tardi.
Non sa più che pensa. Cerca un pezzetto di luna tra i nuvoloni grigi.
Niente. Ma sa che sta là, nascosta, a spadroneggiare sulle maree.
E allora si lascia cadere e guarda le onde che frustano la sabbia, senza capire se quello che le arriva addosso sia una goccia di pioggia, finalmente, o le maree che le dicono… Cosa?
Qualsiasi cosa le dicano, però, lei risponde.
Da qualche parte, dentro di sé. Nel ventre che ora accarezza con la mano mentre affonda pure i capelli nella sabbia, vinta, contenta.
Qualsiasi cosa sia, la lascia scorrere via come la manciata di pietruzze che ora le cadono dalle mani, spargendosi sulla maglia che l’avvolge paziente, un attimo prima che cominci a piovere.