So che un giorno mi alzerò e sentirò il sale nell’aria.
Ovviamente sarà un’impressione. Per i gabbiani, forse, che cominciano ad avventurarsi fino ai tetti del Raval. O perché il primo sole che mi filtra in terrazzo alle 8 del mattino mi ricorderà che sullo sfondo ci sono le torri Mapfre, e che è un giorno da mare.
E allora mi sentirò fortunata, per tutte le donne che in giorni come questo, improvvisamente, hanno deciso (o lo ha deciso qualcosa per loro, da qualche parte nei lombi) di tornare a vivere. E che invece di andarsene al mare devono alzarsi e mettere il latte sul fuoco.
Io, invece, finirò dritta sotto la doccia, e per l’occasione mischierò il bagnoschiuma alla mela verde con quello al mandarino. Uno lo tengo a terra e l’altro nella sacca appesa in alto a mo’ di mensola, ma li cercherò apposta, nella doccia distrutta come me da mani più grandi. E tirerò bene la cortina.
Poi metterò il completo in saldi del Corte Inglés, reparto llençeria. Quello vintage color carne al 60% di sconto. E stavolta me lo metterò per me, che sotto i vestiti leggeri della primavera ci va una bellezza.
Quindi, passando per Drassanes, mi avvierò verso il porto. Siederò sulle panchine della Rambla del Mar come sempre quando ho cercato risposte, guardando dalla parte sbagliata il brutto palazzo che per me fu Barcellona, la prima volta.
Ma no, non mi accontenterò del Porto. Proseguirò fino a Barceloneta, fino alla sabbia fina che ti entra nelle scarpe e ti rompe poi, se ti ci stendi lunga lunga, coi capelli appena lavati che si fanno una colla.
Ma non m’importerà, perché qualcosa dentro di me starà dialogando con le maree. Qualcosa che non conosco e non so dire, o descrivere con le parole che mi muoiono nella bocca di sale, screpolata dal sole perché avrò scordato il labello a casa.
Qualsiasi cosa si dicano, spero che nella mia lingua, l’unica che conosco, quella degli esseri umani che si fanno incantare dalla passione ma poi ci ritornano, a riva, coi piedi nudi e gli occhi dei penitenti, qualsiasi cosa si dicano spero significhi pace.
L’hanno organizzata anche quest’anno, eh, la manifestazione dell’8 marzo. Come sempre parte da Plaça Universitat, stavolta alle 19, e arriva in Plaça Sant Jaume. Andateci, se potete, è bello e confortante vedere quanti uomini partecipino.
Ma il 2009 per me fu impagabile.
Non mi sembrò vero, scendere per la Rambla. Stavo leggendo, per la tesi di dottorato, di operaie che avevano fatto lo stesso durante la Prima Guerra Mondiale, per il caroviveri e la scarsità di carbone. Roba che ai tempi la polizia di Barcellona ti massacrava pure se eri incinta. Come cambiano le cose, eh?
E allora queste ragazze che lungo la Rambla si palleggiavano il mondo, un mappamondo gigante, gonfiabile, mi divertirono più dei loro cartelli improbabili in tutte le lingue (con errori che li facevano più sfiziosi). Certo più delle austere custodi catalane della Transizione, che sfilavano coi loro caschetti sbarazzini di cinquantenni composte. Ma a quelle, come alle mie ’68ine, dovevo essere solo grata.
La Transizione l’aveva vista un po’ anche questa tipa, sul palco di Plaça Sant Jaume che è la sede del poder (maschile singolare anche qui). A un certo punto ha detto una frase che mi ha colpito molto:
– E ci perdoneremo per essere diventate padrone della nostra vita.
Cavolo, sì. Che grande concetto. Ora so che è anche multisfaccettato, perché gli esseri umani, indipendentemente dal genere, non vedono l’ora di scaricare le proprie responsabilità sugli altri, meglio se sul destino. Prendersi quella della propria vita è in effetti imperdonabile.
L’anno dopo fu magico per un altro motivo. Nevicò. E, quel che è peggio, cominciò che ero entrata da cinque minuti nell’Arxiu Nacional. A Sant Cugat, che se come me vi sentite lontani da casa a lasciare il centro si traduce culandia ulteriore. Scese apposta il direttore ad avvertire che chiudevano, facendo pure lo splendido a cacciarmi in italiano davanti a due impiegate ammirate.
Tanto, per me era il giorno dell’ottimismo. Stavo in crisi nera e la sera prima, seguendo il consiglio di certi amici nordici, avevo visto The Secret, che se non lo prendi con le molle è salutare quanto l’invasione di cavallette in Israele. E infatti avevo fatto la talebana dell’ottimismo tutto il giorno, ridendo della neve, della cacciata dal tempio della cultura catalana, degli stivali sfondati, della casa senza riscaldamento. Per poi rendermi conto, quella sera stessa, che a essere ottimisti a oltranza pure si fa una gran fatica. Infatti ero esausta. Come faranno i ‘mericani? Intanto, però, niente manifestazione.
L’anno dopo, ricordo quando spiegai al mio ex, pakistano del Kashmir, che quel pomeriggio sarei andata a una manifestazione per i diritti delle donne.
– I che…?
– Diritti delle donne.
– ?
– Women’s rights?
– Yo no sabe.
Però venne a riprendermi col telefonino, mentre scendendo di nuovo per la rambla reggevo uno striscione, Altraitalia credo, con qualcosa su “papi”, nipoti di Mubarak e affini.
Allora la mia vicina, una signora veneta, vide questo gigante di due metri che ci riprendeva ridendo tutto gasato, come se stessimo facendo una cosa divertentissima, e commentò:
– Un ammiratore?
– È il mio ragazzo.
Non sono sicura che il sorriso fosse proprio scevro da sorpresa. Ma quando lui tornò a lavorare (e ripensai a Mrs. Dalloway, il soldato impazzito perché lei potesse fare la splendida coi suoi rimpianti e vestiti anni ’20), ci fu un altro momento magico a Plaça Sant Jaume. Due ragazze italiane salirono sul palco, prima che si sciogliesse l’assemblea in una Barcellona ormai oscura e freddina. Si fece silenzio. E cantarono:
Sebben che siamo donne
paura non abbiamo
ci abbiamo delle belle e buone lingue
e ben ci difendiamo
La catalanissima piazza risuonò delle note di quell’antica canzone italiana. Che ci volete fare, mi emoziono facile.
Infatti la manifestazione scorsa, ancora un po’ fresca di indignados e di feministes indignades, per me non uguagliò quel momento nonostante la maggiore organizzazione, i cartelli fantasiosi con le tipiche forbici dei tagli, e i classici slogan: la 38 me aprieta el chocho (la 38 mi strizza la patana), e il mitico
non è che mi fa male la testa, è che non sai scopare!
Mo’, tralasciando la profondità del messaggio, ce la vedete, in Italia, una libertà sessuale così scanzonata?
Il problema de La Bodega è che non sai mai se hai fatto un affare o stavolta hai pagato un po’ troppo.
Intendiamoci, il padre di mia figlia è sempre onesto. L’Estrella Galicia te la serve fresca al punto giusto, il tradizionale vermut ha la giusta profusione di ghiaccio e agrumi (e l’olivetta), e la tapa de jamón arriva tagliata fine fine, con certe fette di pa amb tomàquet che so’ soddisfazioni. Forse il trucco è che si sta così bene che ordini un’altra caña, e un’altra, e un’altra (io no, mi ubriaco alla prima) e alla fine ti credo, che paghi come se fossi andato a qualche ristorante “squallor ma buono” dei paraggi. Ma vuoi mettere l’atmosfera?
Siedi intorno a tavolini di marmo, che un tempo reggevano macchine per cucire, e c’è una profusione di barili che fa sempre autenticità. Peccato per la folla, ma se vai un po’ prima scongiuri anche quella.
L’ultima volta che ci sono andata, poi, la sorpresa gliel’ho portata io, a questo guineano che è una festa solo dirgli hola, lavora 12 ore al giorno e chi lo ammazza, sta sempre in piedi contento come una pasqua. La sorpresa è una sua vecchia cliente che aveva lasciato Barcellona da un po’.
Ma siccome lei è più o meno impegnata, e non condivide la mia filosofia manichea “se non sono fidanzata sono single” (comodo pretendere fedeltà senza offrire impegno), ad andare in Brasile con lui ha invitato me.
Allora, per ridere e farlo scappare, gli ho risposto:
– Ok, ma sappi che voglio 5 figli!
Fa i salti di gioia! Dice perfetto, mi si siede vicino e comincia a interrogarmi. Ok, voglio fare la scrittrice, quindi resterei io a casa a occuparmi della prole. Equa distribuzione del lavoro domestico? Si può fare.
Il bello è che ogni tanto si gira verso la mia amica:
– Ma mi sta prendendo in giro? Io sono serio! È da quando ti ho vista le altre volte che ho avuto l’impressione che…
Che sappia, poi, che quasi sicuramente genereremo una femmina. Suo padre, nell’isolotto della Guinea Equatoriale da dove viene (“Sei venuto a Barcellona per lavorare 12 ore, come gli altri africani”, lo rimprovera la sorella), ha una quarantina di figli, e solo una decina sono maschi. Confesso che il suocero già mi evoca ricordi poco rispettosi. Ma lui stesso, aggiunge, ha generato 4 femmine su 5 figli.
Azz, sono già matrigna. La maggiore ha 19 anni, poi ce ne sono 2 nel villaggio, che lui ha lasciato 20 anni fa. Direbbe Troisi “Uno a 17 anni già l’ha fatto, ‘o sviluppo?“. Ma la birretta fresca scende giù che è un piacere, e mi viene da ridere.
Non è la prima volta che un collega estranger, ma uno da valigia di cartone e amara terra lasciata per fame, mi sorprende con questa filosofia semplice, vuoi un figlio, facciamolo e poi prendiamocene cura. Il massimo guru di questa corrente una volta mi disse “Problemo no es falta de comunicación, problemo es niño sin pierna“.
Da anni mi fanno riflettere sugli estrangers di lusso come me, i profeti del non so cosa voglio, e comunque che vuol dire ti amo? Ai loro problemi esistenziali e temporeggiamenti e infatuazioni adolescenziali, spesso riassumibili in un pratico “mi cago sotto di crescere”, e benvenuti nel club, ma a non provarci nemmeno non è che non cresci, invecchi e basta.
Questi aspiranti papà venuti dalla miseria, invece, hanno il grande difetto di prendere sottogamba tutti i problemi che non siano un niño sin pierna, come se il piatto a tavola e la tessera sanitaria (che ultimamente pure si fa sospirare) risolvessero problemi di comunicazione, divergenze politiche, culturali, come se essere vivi volesse dire solo essere in grado di sopravvivere.
Così faccio per pagare la mia Estrella, mentre lui già rigoverna e ci usa come scusa per cacciare gli ultimi habitué (che credono davvero che uscirà con noi). Niente soldi, offre la casa, in omaggio alla cliente prodiga che chissà quando torna.
Quanto a me, dice, la mossa lui l’ha fatta, ora è il mio turno.
Ma se la vita è una partita di scacchi, è da un po’ che ho imparato che un’ottima mossa è non fare esattamente niente, almeno quando già sai che hai fatto il possibile.
Al massimo poggiare i gomiti dove prima c’era una Singer e ordinare un’Estrella Galicia.
(quando le figlie nascevano in condizioni estreme)
E poi quella mano di rosa spalmata sul muro del terrazzo (che sarà un colabrodo, ma è di un bel color crema), ti fa capire che ti stai perdendo un capolavoro.
E allora esci sul terrazzo e puoi fare due cose.
Una è pensare.
Che le giornate si sono allungate, e la primavera non è vicina, ma altre due settimane e la sentirai nell’aria, annunciarsi discreta come una vera signora.
Che sul cobalto ci sta benissimo, il rosa fosforito (come lo chiamerebbe la tua amica andalusa). Specie se ogni tanto lo attraversano sagome nere più esuli di te.
Che le antenne sul terrazzo accanto, quello in comune, sono ancora là, inutili, coi fili tagliati dal vicino fin troppo gentile. Quello che ti ha fatto lavoretti in casa, quello che si affacciava troppo spesso a chiamarti e chiedeva al tuo ex “A che piano vai?”, perché non gli piacevano la sua pelle e la tuta del mercato (e manco le labbra carnose e allegre rispetto alle sue, sempre asciutte). Quello che magari ha pure ragione, ci sarà, questa normativa che prevede una sola antenna, per fargli stendere i panni in santa pace. Ma che è passato dalla parte del torto tagliando i fili perché credeva fossero “tutte antenne dei filippini, Maria, una di loro mi ha risposto male, come si permette di vacilarme?”. E sai che è un false friend, ma vacilarme ti sembra sempre il termine più adatto per questo spagnolo piccolo piccolo, con ragione da vendere e la macchinetta del caffè per una persona sola.
Puoi pure pensare che la vita continua e per continuare, come dice la canzone, ogni tanto ti fa morire un po’. E quando ti chiedi se ne vale la pena, a vivere, dovendo morire sempre un po’, il cobalto e il rosa fosforito sono qui per questo.
Puoi pensare tutte queste cose.
Oppure non pensare.
Guardare e basta.
Uno di quei tramonti che sembrano albe, tra i gabbiani scostumati e le antenne del Raval.
Siete a Barcellona a una bella festa, soddisfatti ma stanchissimi. Le canzoni demenziali hanno appena ceduto il posto a Marisol, c’è così tanta gente che non si respira e la vostra amica continua a non credere che il cugino bello di Rambo, davanti a lei, sia gay.
A quel punto, tutto ciò che vorreste fare è tornare a casa, al massimo fare una capatina al baretto all’angolo per commentare il Barça coi vicini…
Quando chiama lei.
L’amica straniera della tua amica. Quella che non sa un cazzo delle strade del Raval, perché ad andarci sola Dio scampi, ma vuole proprio raggiungervi.
Solo che ha degli amici al seguito. Connazionali in visita, carichi di gingilli del Barça e foto della Sagrada Família.
E, udite udite, vogliono mangiare paella. Alle 20 di domenica sera.
Il vostro istinto di conservazione vi dice solo fuje sempe tu. Gli occhioni da cerbiatta della vostra amica dicono “Mica mi lasci sola, vero?”.
Così proponete:
– Vabbe’, ti accompagno dai tuoi amici e poi vado a casa. Dove stanno?
– In questo momento, in Plaça Catalunya con Raval.
Perfetto. Sorvoliamo sulle indicazioni spagnole senza traverse, senza preposizioni (epic win: “ci vediamo nell’Arc de Triomf”, e stavano a 10 metri di distanza dall’arco). Ma Plaça Catalunya, facendo mente locale, è circondata sempre e solo da Gotico ed Eixample. Staranno nel Pelayo?
– Non so – rettifica l’amica – dice che ora stanno nella prima strada del Raval a destra.
La prima… No, questo concetto ve lo dovete segnare. Anche l’amica che propone “Boh, andiamogli incontro, prima o poi li troviamo”. E ripensate a Peppino che in Piazza Duomo a Milano propone: “È la piazza principale? Sediamoci qui, quella qua passa“.
Ma quando già state su Joaquim Costa arriva un altro Whatsapp: “siamo in c. Hospital“.
Ora, a meno che non volino su scope di saggina o abbiano inventato il teletrasporto, all’hospital ce li mandereste voi.
Ma volete aver fiducia nel prossimo, quindi riuscite a portare l’amica nel punto indicato, ancor prima del messaggio “Ora siamo fuori al Macba“. Ok. Sono i Cullen di Twilight.
– Senti, si fermassero lì e non si muovessero, se no succede.
Peccato che in spagnolo “succede”, senza soggetto, non rende l’idea. Ma eccoli lì, i nostri eroi, in attesa tra gli skater di Plaça dels Àngels, che purtroppo continuano a scansarli.
Ora fate un respiro profondo, dite om shanti e spiegate che la paella di domenica sera, a Barcellona, solo surgelata può essere.
A meno che…
– Scusi – chiedono 10 minuti dopo al cameriere della Xaica – El Bastió Blaugrana – la vostra paella è surgelata?
– No. Infatti per mangiarla dovrete aspettare 30 minuti.
Che diventano 40 perché la turista si deve far tradurre tutto il menù, due volte. In inglese e in turco. Il compagno fa lo stesso, ma lo fa dietro la vostra schiena perché vi siede accanto per guardarsi il Barça, lasciandovi lontani dall’amica e letteralmente presi dai turchi.
Che bello, almeno si guarda la partita!
No, si deve anche parlare. Sempre in turco. E la turista vuole la password di Internet per l’iPad, ma la cameriera non collabora perché troppo presa a dimenticarsi dei vostri piatti, che arrivano freddi.
La turca “stanziale” si fa scaldare il suo, e l’amico le diagnostica un ricovero per quello che ci finirà dentro nel processo. La turista richiama la cameriera: password a parte, la coca cola è scaduta.
Adesso. Tutti hanno diritto a bere coca cola non scaduta, ovviamente. Ma, benedetta figliola, come ti è venuto di alzare la lattina di Diet Coke e leggervi la data di scadenza? Sei il mio mito di tutti i tempi.
Intanto l’amica andalusa vi informa che tiferà Sevilla perché Messi ha la cara de mongolo . Cent’anni di diritti dei disabili buttati nella spazzatura insieme alla paella.
Perché ovviamente, quando arriva, la turca ‘nzista ne assaggia giusto due cucchiai.
– Non la voglio. C’è il coniglio.
– Embe’?
– Io non mangio coniglio. Io adoro i conigli.
Già, perché invece mucche e gallinelle le hanno fatto qualcosa.
Fortuna che il Barça vince abbondantemente e siete troppo impegnati a chiedervi per quale arcano motivo il centrocampista del Sevilla faccia di cognome Buonanotte, per accorgervi che, dopo la crema catalana di rito, la cameriera pensa bene di mettervi davanti del liquore alla mela, omaggio della casa. Scordandosi i bicchierini.
Buonanotte è già diventato Va’ te cocca, prima che si rimedi alla svista e la vostra amica spagnola scopra risollevata che non è ancora ora di andare al lavoro.
Voi invece scoprite, prima del canto del gallo, che Buonanotte è argentino. E di nome fa Diego.
Forse, se invece di cedere agli occhioni della vostra amica imparate voi a dire “buonanotte” e filare a casa, la prossima volta andrà meglio.
Devo confessarvi una cosa: Barcellona è un po’ umida.
Un po’.
Ieri sera ho scoperto una lumaca al piano terra del mio palazzo.
Un amico di Madrid, che restò qua 3 mesi, gridava allo scandalo ogni volta che ritirava il bucato più bagnato di quando l’avesse appeso, lo considerava proprio un oltraggio di questa città che ora lo fa disperare per le sue velleità indipendentiste. La cosa mi ricordava la signora tedesca di Ordine e disordine, che se la prendeva col marito partenopeo perché una città costruita intorno a un vulcano attivo le sembrava indice di gran disordine, come uno straccio lasciato a terra in cucina.
Ma Barcellona è umida senza rimorsi.
E la bianca cameretta in cui vivo sola soletta, guardando sui tetti e in cielo (Puccini ignorava il concetto di antenna), è forse la parte più umida di Barcellona. Ok, il primo bacio dell’aprile sarà anche mio, ma febbraio ad esempio non dà baci, sferra cazzotti che ti fanno svegliare tra cuscini bagnati come se avessi lasciato la finestra aperta in mezzo a una tormenta.
Il riscaldamento? Nel centro storico di una città abitata da me? Spiritosi.
Fortuna che le stelle che ancora guardo dalla mia amaca, col cappuccio alzato e una coperta addosso (ma tanto fuori fa meno freddo che dentro) non sono affatto offuscate dalla foschia. Quella, mi sembra, è una caratteristica costante dell’umidità che invece soffro in paese, ad agosto, quando incontrare qualcuno per strada diventa un evento da riportare sul diario.
No, la luce, qui, perfetta.
Così puoi constatare immediatamente che la Nutella nel barattolo da 700 grammi è diventata un corpo contundente anche senza barattolo, e non si squaglia neanche a metterla 5 minuti davanti alla stufa.
E che se vuoi che la pasta avanzata di ieri si mantenga come appena fatta non ti resta che lasciarla sul fornello, che anche se ce la dimentichi due giorni due dovrai passarla al microonde per scongelarla.
Una sola cosa non cambia mai, come rain or come shine: i miei capelli. A spaghetto sono, come diceva una detrattrice alle medie, e a spaghetto resteranno. Solo la signora che mi mise il mantello di Harry Potter alla cerimonia di fine master a Manchester mi confortò in merito: l’invito a portare le forcine per fissare il tocco era riservato alle studentesse cinesi, tu ancora puoi andare. God save the Queen.
Vabbe’, la lumachina al piano terra ci sta bene. È il degno coronamento di due anni passati tra sputi sulle scale, vicini spacciatori sfrattati e famiglie marocchine che mi chiedono una prolunga per ascoltare musica dall’antenna.
Qualcuno mi suggerisce di mangiarla alla catalana, ma ormai sono quasi vegetariana (come dire “quasi incinta”), e poi sospetto che per farlo debba bollirla viva.
Quindi me la tengo come mascotte, in attesa degli scarafaggi di agosto.
O’ Barquiño non si può spiegare, bisogna viverlo!: con questa descrizione su uno dei tanti siti che segnalano O’ Barquiño, Nuria G, di Madrid, riassume tutte le mie perplessità. Come ve lo spiego, io, questo bar galiziano nel cuore del Raval, che tra i manifesti d’epoca dell’affollato piano di sopra ha reclutato le stelle più trash della Spagna che fu, servendole ogni sabato sera con un sorso di Estrella Galicia e un piattone spropositato di pa amb tomàquet?
Io ci provo. Prendete la buonanima di Mario Merola, nella sua scena più esagerata (meglio una cosa allegra, tipo questa), mettetegli addosso una parrucca rosso fuoco e, già che ci siete, fategli raccontare un paio di barzellette sconce. Ebbene, sarà ancora Stefano Bollani, rispetto ai personaggi che ogni sabato alle 21.30, in ritardo sulla tabella di marcia, vi snoccioleranno il meglio del loro repertorio: la copla spagnola, genere esagerato e un po’ fascio associato al peggio (per qualcuno al meglio) di Spagna.
E ad ascoltare il meglio e il peggio di Spagna dovevo andare giusto alla vigilia delle elezioni catalane, in corso mentre scrivo, che a lungo termine potrebbero portare i catalani a prendere per sempre le distanze da questo mondo.
Il mondo variopinto de El Colorines, annunciato dal presentatore Carrión come la niña de la casa ed entrato in scena vestito da donna. Niente al confronto con Antonita la Cachonda, per gli amici Tonio, che nel secondo tempo entra in traje rosso fuoco, cantando canzoni del tipo “Grattami… Che muoio di prurito…” e raccontando barzellette orribili (Bimbo: “Mamma, chi mi ha portato?”, “La cicogna”, “Papà, chi mi ha portato?”, “La cicogna”, “Nonna?”, “La cicogna”, “Cazzo ma in questa casa nessuno chiava?”). Si lamenta poi perché oggi non ci sono più le mariquitas, checche come lui: sono tutti gay! D’altronde che ci può fare, se suo padre era chaffeur ed è venuto fuori con la retromarcia?
La mia anima trash è rapita in diverse visioni mistiche, rimpiangendo i compagni napoletani che avrebbero gradito almeno quanto me, certo più delle mie amiche che non riescono proprio a dissimulare un moto di disgusto.
Ma per me è commozione, con le ballate di Luís del Bosque e del Romántico e la voce incredibile di Paco Carmona, riprodotto anche in sala, in un manifestino in bianco e nero vecchio di almeno 30 anni. La Mercedes accenna pure qualche passo di danza, spiega che la spagnola, quando bacia, bacia davvero (“Come potevo mai sperare di far concorrenza”, sussurro alla catalana che conosce le mie pene d’ammmore), mentre una collega di cui ho scordato colpevolmente il nome canta di una sivigliana che aveva avuto la fortuna d’innamorarsi di un napoletano, guarda caso infedele e traditore.
Mi muoverei di più se una vecchietta con cofana e pettinessa spagnola, che mi ricorda la bambola portatami dalla Spagna a 10 anni, non si fosse seduta al mio fianco in tutta la sua imponenza, cacciando un paio di nacchere e fermando ogni artista che tornasse al vicino camerino per segnalare la sua presenza. Una stella d’altri tempi? A un certo punto m’impone di chiedere al cameriere dei tovagliolini di carta, fingendo che siano per me. Le mie vicine, provviste di pinza a fiori “flamenca”, sono in visibilio e non smettono di gridare olé. Io a volte urlo direttamente stabbene!. Mi viene spontaneo, certe mosse e lacrime finte sono proprio da sceneggiata.
Ma le mie amiche sono sull’orlo di una crisi di nervi, come le connazionali almodovariane. Gettiamo la spugna all’inizio della seconda parte, allontandandoci con un’illuminazione improvvisa della catalana:
– Cacchio, perché disperarmi per aver perso il lavoro? Finalmente ho scoperto la mia vera vocazione!
Già la immagino a cantare canzoni sconce con una rosa tra i capelli, o sul petto come la vecchietta in prima fila con due fili di perle. Cercando di non ridere le dico:
– Perfetto, va da sé però che tradurrai tutto questo in catalano…
Ma conveniamo entrambe che in tal caso non funzionerebbe.
(ne hanno fatto un documentario)
(la sua foto troneggiava benedicente su tutti noi)
– A me solo i napoletani, mi fanno godere! I milanesi nun so’ buone!
S. si avvicina bruna e un po’ sbronza al bancone della pizzeria, puntando il medio alzato verso le maglie rossonere sullo schermo.
– Mediterranei, passionali… L’orgasmo l’ho raggiunto solo coi napoletani, coi milanesi mai!
Rompo le risatine perplesse con un azz, e allora mi guarda.
– Perché, a te i napoletani non ti fanno godere?
Tutti gli occhi su di me, trascurando un momento il San Paolo ancora sul 2-1. Guardo i corpi massicci o esili dietro al bancone, i volti sbarbati e freschi che mi fissano dagli sgabelli vicini:
– S-sì…
Sorride soddisfatta e comincia ad appiccicarsi col cameriere, mentre dichiara a un’altra che Napoli es Cataluña [sic], la pelle cotta dalle lampade,i capelli ancora neri svogliatamente raccolti, gli occhi belli di prima che si bevesse il cervello chissà come, chissà dove. Non sa che la guardo e che il giorno dopo le dedicherò quest’articolo, che per giunta non è il solito resoconto di una partita di cui descrivo più il panuozzo che il risultato (anche perché meglio stendere un velo pietoso). No. S. è la prima di questa breve galleria di donne a Barcellona.
Ci pensavo da un po’, a tutte loro.
A quella che mi sorride sotto il mio palazzo, a un mese di distanza. Magari l’ho già vista, ma non la riconosco coi capelli, l’onda nera sul viola cangiante del sari. Nera come il foulard a fiori che dovrebbe avere in testa, o ben accomodato intorno al collo, e invece avanza svogliato con lei mentre si sistema senza fretta, sorridendo a me che cerco di non guardarla troppo.
Un’altra mi viene incontro dalla calle Robadors, ma non è in servizio. Cellulare rosa alla mano, esce in fretta dall’angolo di luce sui sandali aperti coi tacchetti, ma faccio in tempo a vederle i capelli troppo biondi, quasi gialli, sul volto arabo con le labbra troppo rosa e la maglia acquamarina sui jeans troppo scuri. Respiro il suo profumo troppo dolce e mi giro per un’ultima volta, rapita da quell’eccesso di femminilità che è quasi una parodia, un modo di dire che è tutto uno scherzo.
Un’altra mi guarda fisso e mi chiedo quanti anni ha. Certo più di 25, anche se può ancora far fesso qualcuno, se ci tiene, nascondendo le occhiaie pesanti che rompono l’armonia che però persiste, cocciuta, sui tratti forti del viso tondo. I capelli non sono suoi, ma devono essere biondicci uguale, anche se meno, quasi castani. Le sorrido e le labbra carnose le si increspano sui denti dritti ma troppo grandi, troppo avanti. Fortuna che sorridono anche gli occhi, di un colore liquido indefinibile, sempre sorpresi, un po’ strabici per chi sa guardare.
L’ho sentita cantare al concerto delle Questioni Meridionali, la voce coperta da quella bella del calabrese, ma l’accento era buono:
– Avesse voluto cchiù ‘ind’ ‘a chesta parte ‘e munno apprezzata no p’ ‘e mascule sgravate e no pe’ chistu cuorpo bello, no p’ ‘e mazzate che aggio dato, sulamente pecché femmena so’ stata, e ‘nu catenaccio ‘o core nun me l’aggio maje ‘nzerrato sulamente pecché femmena so’ stata, sulamente femmena.
Poi apro l’armadio e lei scompare insieme allo specchio.
È come la domenica, ma più allegro, c’è sia la festa che l’attesa, tra lavoratori che aspettano che cominci il finde, per la settimana corta (il famoso venerdì del villaggio, scusa Giacomo) e pakistani che quando esco alle 15 già tornano dalla moschea.
Ma io sono in missione speciale, così ignoro le loro tuniche immacolate, attraverso rapida Joaquín Costa, per i catalani Joaquim, e scendo il Carme. L’associazione marocchina appena aperta sembra già ben avviata, tra gli annunci illeggibili ne spicca uno in spagnolo: “Domani cominceremo le lezioni di catalano”.
Su Riera Baixa c’è il mercatino vintage, coi negozianti che mettono fuori le bancarelle hipster e si sentono più in dovere che mai di vestirsi come i loro manichini (pure quello degli articoli di guerra). Il negozio di dischi resiste ancora, nonostante il cartello “Si cede per pensionamento”. Una volta mi uccise, mentre tornavo a casa, facendo esplodere nell’aria Il nostro concerto di Bindi, e allora mi fermai a comprare due orecchini alla bancarella vicino, 3 euro, a forma di chiave, ma avevo perso da tempo la serratura.
Ora però tutto tace, e cerco d’intrufolarmi davanti a un carrozzino. Ma la ragazza che lo spinge mi sorride da sotto il velo e mi fa passare, mentre il bimbo, un piede sul poggiamani, balbetta: – Hooo-laaa…
Hola, ripete la mamma, con accento più incerto ma dolce.
– Hola, rubia! – mi fa, 3 minuti dopo, il cameriere algerino.
Rubia o bionda, a seconda del ristorante “etnico”. Il mio vero nome è così facile da ricordare, così facile da dimenticare.
– Hola, dimmi che ce n’è ancora.
– Per te sempre. Chicken, vero?
– Sì, con verdure, senza cipolla.
Non ho chiesto il brodo, ricordo scoprendo che il pollo me lo prende con le mani, dalla casseruola, ma continuo a guardare la televisione, una signora in chador rosa che parla con un’altra più anziana. Chissà che si dicono, penso sfilando per il corridoio di occhi nocciola, a volte neri, che nel locale senza donne ti scrutano quasi rispettosi e fuori, invece, diventeranno “Jooodeeerrr“. Ogni città mediterranea ha la sua imprecazione per le donne.
– 6 euros, por favor.
– 6 euros, italiana? – mi fa poco dopo l’alunno di posteggia. – Mica male per un cous cous. Non mi inviti?
Poso la busta sul bancone del panificio, offrendogliela. Lì mi chiamo italiana. E l’ho incrociato sulla soglia ma ha abbassato gli occhi. Allora in francese ho pensato sta chiavanno.
– Grazie, italiana, ma l’ho portato anch’io.
– Quanto hai speso, tu?
Sorride.
– Lo fai a casa, vero?
– Certo!
– Ti odio.
Per Robadors non ci sono passata.
Non ci passo, forse, dalla scena del bambino. Un altro venerdì.
Di sera, però, tra le putas più castigate di me, che le multe sono salate. Passando in fretta ne avevo trovato un gruppetto a discutere, in uno spagnolo strano, Tú uno buscar, tú uno follar. Poi i senegalesi che ti chiamano oye (qui sono oye, come dire ue’), e ancora occhi, sempre occhi, a trafiggere la poca carne gratis.
Finché dal bar più squallido era spuntato questo miraggio in maglietta a righe, un po’ larga sulle maniche. Testolina nera, pelle bianca quasi come il pallone tra le mani. Aveva giocato un po’ vicino al marciapiede, accanto a un’araba coi capelli biondi, poi era sparito in tempo per farmi domandare se non fosse stato una visione, tra l’imponenza della Catalogna che ti scruta dalla vicina Filmoteca, e il viados fuori al baretto che scuote le tette al ritmo di Mossa, mossa, assim você me mata…
Colpa del vicino del terzo piano, che lo spara a tutto volume per rappresaglia verso i discotecari del piano di sopra.
Saltello ancora per strada quando scanso per un pelo la pazza con le stampelle.
– Puta! – mi saluta.
– Gracias! – rispondo.
Buon pomeriggio, Raval.
Stavolta la prof. c’è, all’università. È il terzo tentativo di farmi scrivere la lettera di raccomandazione per una borsa a Napoli.
Lunedì se n’è andata prima per non so che problemi, ho letto la mail solo dopo aver percorso il dipartimento deserto. Magari la polvere c’era solo per l’estate non ancora finita, ma mi piace pensare che la crisi sia anche questo, le orme sul pavimento di un dipartimento deserto.
Martedì, almeno, mi ha risparmiato le orme. Se è urgente vieni a casa mia, mi ha invitato per telefono, altrimenti domani stessa ora.
Come dice un’amica siciliana: a la tercera va la vencida.
La prof va di fretta perché vuole comprare non so cosa, prima che aumenti l’IVA. È una frenesia che prende tutti. Mi chiede l’indirizzo preciso dell’ente e non lo so. Sono sempre la solita. All’esame di dottorato andai senxa carta d’identità.
Passiamo dallo spagnolo al catalano all’inglese, e per fortuna la lettera me la scrive in quest’ultima lingua.
– Grazie, per qualsiasi cosa già sai.
– A novembre c’è il convegno del mio istituto, serve aiuto a livello logistico. Certo, avresti potuto fare da relatrice…
– Ehm, non so nemmeno se ci sono, a novembre, è capace perfino che mi diano sta borsa!
In realtà non sapevo del convegno, non sapevo di nessun convegno. Mi ero scordata di aver studiato da ricercatrice, di aver fatto un dottorato. A che pro, con meno di 1000 euro al mese, quando te li danno, se nemmeno è la mia vocazione?
Tanti colleghi con cui parlo sono innamorati della ricerca. Io voglio scrivere, sto scrivendo. Il problema è guadagnarsi il pane scrivendo, e la ricerca mi sembrava una buona soluzione, premesso che non mangio più come un tempo.
Ma ho trovato un compromesso. Voglio occuparmi di lettere. Sì, quelle dei soldati. Quelli con cui ammorbo i miei due lettori e mezzo tra un articolo e l’altro.
Se devo riprovare con la ricerca, voglio che sia con qualcosa che mi piace. I miei soldati catalani nelle trincee francesi, quelli scordati dalla storia dopo che erano stati moltiplicati, fraintesi, strumentalizzati per propositi nazionalisti.
Se mi fanno tornare in un archivio, voglio che sia per loro.
Che bello, per una volta m’impunto e dico, o questo o niente.
Forse è la cosa più importante che ho imparato in questi anni barcellonesi, penso entrando nella Biblioteca de Catalunya.
D’estate mettono fuori due scacchiere giganti, da usare per la dama o per gli scacchi. Ci vanno a giocare gli stessi, quasi sempre, due ragazzi che mi sembrano cingalesi e una signora anziana, col codino e una sporta verde.
Io percorro tutta la biblioteca e faccio un’altra cosa che non osavo più fare: tornare alla letteratura. La mia laurea in Lettere è del 2005, quando i libri erano ancora una via di fuga.
Ora li guardo con gli occhi che mi ha regalato la Storia. E voglio che invece di portarmi via mi aiutino a stare qui, presente. Pronta.
Ma prima scrivo il mio, di libro, un’ora o due. Il titolo me l’ha suggerito un sogno. Il manoscritto me lo consegnava un amico che non vedo da un po’. Uno che mi faceva un sacco di regali.
Forse questo è il regalo più bello che mi ha fatto.