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I miei amici sì.

Se lo possono permettere. Nella precarietà dei licenziamenti di massa e dei lavori cancellati dall’AI, non possono concedersi le certezze dei genitori, ma i sogni sì.

Dopo i 30 sono gli unici ad avere ancora un ideale di donna a cui paragonano quelle, reali, che incrociano sulle app o nei loro viaggi zaino in spalla, in un mondo reso piccolo dalle compagnie low cost.

E rimandano la paternità a quando avranno il primo stipendio fisso: decisamente, ci sarà da aspettare.

Ho pensato a tutto questo mentre descrivevo il personaggio di Aqil, in Quando torni, avvisa.

Aqil esiste, come può esistere il personaggio di un romanzo: l’uomo che me l’ha ispirato ha profili social, e ci posta foto, a cui metto mi piace. Famiglia sorridente, posti visitati, tanto cibo di tutto il mondo, fotografato nelle pause dal lavoro.

Cosa c’è sotto, forse, lo so soltanto io.

Aqil non si è mai potuto permettere di essere romantico, o di “capire” che volesse fare nella vita. Da piccolo si è visto risolvere a tavolino il problema di scegliere la donna giusta: una lontana parente, da sposare a studi finiti.

Ma neanche gli studi, condotti a Londra, gli hanno dato occasione di esplorare gli stati di ebbrezza che si concedevano i suoi coinquilini: papà dal Kashmir mandava i soldi che bastavano a laurearsi e trovare un buon lavoro, per mantenere la famiglia. Tutta. Con una pressione del genere addosso, Aqil non faceva che studiare.

Le tentazioni? C’erano, ma lui non sempre le riconosceva. Nella sua vita precedente non c’era spazio per l’esplicito. Tutto era nascosto, o pianificato per tempo.

In tempi recenti l’ho rivisto: meno devoto, con più rimpianti e voglia di recuperare un tempo perduto che, però, gli suscita ancora un misto di curiosità e repulsione.

Forse gli succede ciò che affronta chiunque quando si guarda indietro e ripensa alle strade che non ha preso, alle decisioni che ha rimandato fino a negarsele per sempre.

Perché Aqil è stato felice, tanto, con la vita che gli è toccata in sorte. Ha amato la moglie scelta da altri più di quanto io abbia visto amare donne conosciute in una notte barcellonese e seguite liberamente, per un “sempre” che poi è durato poco.

Invidio Aqil? Per niente. Il lusso delle scelte mi è molto caro, a costo di sbagliarle tutte.

Ma dopo anni a confronto con tante culture,  capisco perché la vita  può scivolarti addosso più leggera, se sai fin dall’inizio cosa farne.

E un amore di qualsiasi tipo, ma che sia costante, e forgiato per durare, non mi sembra un destino così sacrificato.

Ad Aqil sì, però. 

Almeno ogni tanto.

Poi prende un altro volo, scatta un’altra foto al ramen in un localino di Osaka, e pensa quasi che va bene così.

Quando torni, avvisa è disponibile su Amazon a questo link. Fatemi sapere cosa ne pensate!

È da un po’ che scrivo solo romanzi.

Di giorno non faccio altro, più che un lavoro è un’ossessione.

Ho bisogno di riordinare dei fatti al limite del surrealismo che sono accaduti a me, a gente che conosco, e a qualcuno di cui ho letto.

Nessun dramma irreparabile, solo le contraddizioni di una città in cui avere una casa diventa un privilegio, e occuparla… una barzelletta.

Solo oggi, 6 novembre, il mio libro è gratis in formato ebook. Ecco il link.

Non fingerò di aver scritto un horror classico, il vero orrore è il precariato. E il barbiere assassino, a Barcellona, era una leggenda prima di Sweeney Todd.

Forse il vero mostro non è lui.

È da un po’ che scrivo solo romanzi.

Di giorno non faccio altro, più che un lavoro è un’ossessione.

Ho bisogno di riordinare dei fatti al limite del surrealismo che sono accaduti a me, a gente che conosco, e a qualcuno di cui ho letto.

Nessun dramma irreparabile, solo le contraddizioni di una città in cui avere una casa diventa un privilegio, e occuparla… una barzelletta.

Solo oggi, 6 novembre, il mio libro è gratis in formato ebook. Ecco il link.

Non fingerò di aver scritto un horror classico, il vero orrore è il precariato. E il barbiere assassino, a Barcellona, era una leggenda prima di Sweeney Todd.

Forse il vero mostro non è lui.

A me la serie sul Gattopardo è piaciuta, ma niente paura, non volevo parlarvi di questo.

È che a un certo punto Tancredi, che è infelice con Angelica ma almeno ha una moglie bella e ricca, dice a Concetta che “È andato tutto come doveva andare”.

A me ‘sta storia ha sempre fatto imbestialire.

Vi cito un’altra pietra miliare: Dirty Dancing. Non fate quella faccia, Baby fa al padre un discorso esemplare, una roba tipo: “Volevi che cambiassi il mondo, ma ciò che intendevi era che io sposassi uno di Harvard e fossi come te”.

Oppure in Dogma, la tizia che si sente dire “Dio ha un piano” grida: “Che c’era di sbagliato nel mio, di piano?”.

Amen, sorella.

Perchè quando io ho voluto essere ragionevole e cercarmi un lavoro, invece di scrivere, la crisi economica ha spazzato sia il lavoro che gli anni sottratti alla scrittura.

Da quando sono folle e faccio scelte che nessuno capisce, scrivo una bellezza e sono contenta.

E poi c’era il tipo catalano multiculturale, e simpatico, gentile frontman di un’associazione che promuoveva scambi culturali e commerciali (più commerciali, sospetto) tra Spagna e Asia. Quando conobbe il mio ex del Raval, e il riferimento da solo dovrebbe farvi capire che si trattava di un pakistano, mi manifestò il suo sgomento, senza spiegarmene il perché. Non riusciva neanche a credere che non capissi, ripeteva: ma tu fai studi di genere! 15 anni dopo, provo a tradurre: tu sei un’emancipata donna europea, che ci fai con un pitocco ignorante che probabilmente ti vuole in casa a figliare? (Ehm, no, era fiero del mio dottorato). Ed era stato questo tipo ad avvicinarci, in cerca di coppie miste. Le voleva, suppongo, miste ma non troppo. Con lui che di pakistano avesse solo la pelle, capi’? Uno che intanto si era “sgrossato”.

Non voglio essere assurda, negare che sia stata meglio con uomini più affini a me per gusti e aspirazioni (le origini c’entrano poco). Ma con loro è finita uguale, e senza i figli che quel tipo così diverso da me, invece, voleva.

Lo so, il mondo va così. Diciamo tanto che gli opposti si attraggono, ma gli studi ci dicono che finiamo per fare ciò che ci si aspetta da noi, con la gente a noi più vicina. E bene così.

Ma davvero le cose funzionano di più, se vanno “come dovevano andare”?

Non nego che abbiano più senso. Solo che forse non è tutto il senso che crediamo.

Forse non è abbastanza da giocarci la felicità.

Traduco in fretta, ma volentieri, questo articolo necessario di Gemma Herrero, sull’ambiente in cui devono lavorare le giornaliste sportive.

Da Telecinco

Nel corso dell’ultima settimana, mi è risuonata un’idea in testa senza sosta, senza tregua. E poi le domande. Come è stato possibile arrivare a questo punto? Com’è successo che noi della stampa sportiva non abbiamo denunciato a sufficienza le azioni di Rubiales e compagnia? Come abbiamo potuto tollerare, normalizzare, applaudire, reggere il gioco quando c’erano tanti segnali allarmanti, sotto gli occhi di chiunque? Come abbiamo creduto con tanta facilità al discorso sulle quindici giocatrici giudicandole delle bambine viziate, capricciose, maleducate, ricattatrici, e lo abbiamo diffuso generando una condanna generalizzata nei loro confronti? In definitiva, come abbiamo potuto lasciarle sole, e soprattutto perché? E la risposta arrivava chiara, spietata, secca: perché anche nella stampa sportiva ci sono tanti Rubiales. Per questo non le abbiamo sapute raccontare, perché i muri, i pregiudizi maschilisti – se non misogini – si trovavano, si trovano, anche nelle redazioni.

Quelli che ci hanno toccato e baciato senza permesso né consenso, e il giorno dopo ci hanno informato, avvertito, che non era niente di grave, non esagerare e non ingrandire le cose. Quelli che ti hanno mandato messaggi vocali spiegandoti quanto gli piacevano le tue tette, e dopo fanno finta che non si ricordano, che non è successo proprio niente, e con costoro continui a condividere spazi di lavoro. Questi altri che ora sono famosi, e qualche anno fa ti chiedevano il numero di telefono per passarlo a un giocatore “perché vuole parlare con te e che ti costa, che fa”, questi che spiegavano ad alta voce nell’autobus che ci portava allo stadio come si erano divertiti la notte precedente andando ‘a puttane’, ed era tanto divertente, tutti ridevano, quelli che annunciavano guardando l’orologio che restavano un po’ di più in redazione perché così arrivavano a casa quando i loro figli avevano già fatto il bagnetto e cenato.

Quelli che si indignavano quando gli facevi notare che avevano comportamenti maschilisti, perché loro non hanno ucciso né picchiato nessuno, e come osi dire questo a me, che ho una madre, una moglie e delle figlie. Quelli che indicavano te come una donna acida, una pazza, stai dando i numeri. Quelli che ti davano una bella ripassatina con gli occhi, da capo a piedi. Quelli che quando ti salutavano stringevano più del dovuto. Quelli che ci hanno relegato ai nostri posti di lavoro e ci hanno ammonito perché abbassassimo il tono, perché stai esagerando, calmati, non ti arrabbiare. Quelli che hanno condiviso sui loro social foto di giornaliste con la bocca aperta in una chiara allusione sessuale, e ancora hanno colonne sui giornali, e spazio nei mezzi di comunicazione generalisti perché era uno scherzo, perdio. Quelli che non hanno mai te come punto di riferimento, come modello da imitare, e non ti citano né ti menzionano, ma in compenso si dedicano grandi elogi tra loro. Quelli che addirittura sono arrivati a imitarti, burlandosi di te, in un programma in diretta TV. Quelli di cui parliamo quando noi, le donne, le giornaliste, ci riuniamo per infonderci forza, trasmetterci calore, comprensione, amore, compagnia, affetto, quando ridiamo, ci liberiamo e iniziamo a fare una lista coi loro nomi per avvertirci tra di noi.

Soprattutto, quelli che non abbiamo denunciato perché come ti vai a mettere in guai del genere, non ti crederanno, dovrai dare tante di quelle spiegazioni su cosa ci facevi tu con un bicchiere di troppo, e questa storia ti perseguiterà per sempre. Se già lo sapevi che il giornalismo sportivo era così, perché ti impegoli. O ti ci abitui o non ti lamenti, non parli, taci. Perché non sarai mai più solo una giornalista, ma quella che ha denunciato, e per tutta la vita ti perseguiterà uno stigma, ti sbatteranno le porte in faccia, non ti assumeranno. Porterai la nomea di problematica, esagerata, pazza, mentre loro fanno i padroni, hanno incarichi con nomi lunghi in inglese, fanno carriera e si proteggono tra loro perché niente di ciò che fanno è in malafede, non fare così, che basta una denuncia di queste e gli rovini la vita con la tua testa calda. Il patto tra gentiluomini, l’omertà. Quelli che… not all men, che invece di mettersi dalla tua parte si impegnano a sottolineare che in fondo l’altro è un brav’uomo, un po’ pesante è vero, uno che fa tanti errori, ma una brava persona. Quelli che dubitano della tua parola, della tua esperienza, quelli che la sottovalutano, quelli che sono incapaci di provare empatia, di comprendere l’effetto che ha su di te, sulla tua autostima, sulla tua salute fisica e mentale, e continuano a farti sapere che hai la pelle troppo fina, la devi indurire di più e meglio. Perché, vediamo un po’, cos’è che ti sarebbe successo? Di cosa ti lamenti esattamente?

Non è la prima volta che racconto, che scrivo, che arrivai a Barcellona un settembre, e tre mesi dopo, quando ancora mi stavo ritagliando il mio spazio e stavo conoscendo la città, il lavoro e i miei colleghi, il Barça celebrò una cena di Natale e mi toccò sedermi al tavolo con un dirigente con cui non mi ero mai incrociata, e che passò tutto il tempo a fare commenti sessisti, presunti scherzi, doppi sensi, davanti ai quali i miei colleghi si scompisciavano: commenti tipo che era una buona cosa avere delle donne giornaliste, perché potevi far cadere a terra il tovagliolo e te l’avrebbero succhiato sotto il tavolo. Addirittura mimò la cosa a gesti. Lo shock e il mio desiderio di far parte dell’ambiente, di non rovinare tutto dall’inizio, mi spinsero a tacere in un primo momento. Sedute al tavolo c’eravamo due donne, due giornaliste, e quando l’altra dopo la cena si alzò per registrare il discorso del presidente, il dirigente se ne uscì con: “Che tette!”. E tutti risero. A quel punto esplosi ed esclamai, furiosa, che quando la mia collega tornava al tavolo doveva dirglielo in faccia. Il silenzio fu brutale. Il presidente cominciò in quel momento a parlare e, dopo aver terminato, un giornalista, uno solo, mi disse nell’orecchio: “Qui non siamo tutti così”. Il resto se ne andò senza salutarmi e la mia sensazione fu che avevo sbagliato. Io. La guastafeste. Si stavano divertendo così tanto…

Questa storia l’ho spiegata diverse volte in pubblico, e aspetto ancora che i miei colleghi mi chiedano scusa. So che gli è arrivata, so che mi hanno sentita, so che mi hanno letto, so che si sono avvertiti tra loro. E nessuno è stato capace di esprimermi in privato né le sue scuse né, ovviamente, nessun rimorso per quanto fosse successo, vent’anni dopo: il tempo non gli è mancato. Adesso già li vedo, li ascolto e li leggo mentre pontificano dai loro rispettivi spazi sul maschilismo, sull’avanzare del femminismo, sull’abuso di potere, sul patriarcato e sul sistema arcaico della Federazione spagnola di calcio che ha sostenuto Rubiales. Solennemente indignati.

Due anni fa, Maria Tikas ha pubblicato un reportage su Sport intitolato “Le giornaliste dicono basta”, in cui quindici giornaliste sportive – tra cui c’ero anch’io – raccontavano le mancanze di rispetto, gli abusi, gli insulti e le minacce che facevano parte della nostra vita quotidiana e che erano visibili, ben visibili, sui social. Quindici, che coincidenza. Le nostre esperienze erano identiche, dei veri e propri calchi, ma non è successo nulla. Qualche messaggio privato e pubblico qua e là, e molti silenzi, perché per i più non era niente di clamoroso; già sai come sono i social, anche agli uomini succede. Puttane, zoccole, non sai di cosa parli, non sai un cazzo, sei un’incapace e sei lì grazie a tuo marito, perché sei raccomandata, per le tue tette, per i capelli lunghi, perché lo stai succhiando al capo, che ne sai tu, grassona, spaventapasseri, vecchiaccia, ragazzina, scema. Insulti senza alcun dubbio misogini e maschilisti che sono stati, in generale, ignorati del tutto. Erano il prezzo che bisognava pagare.

Ambienti maggioritariamente maschili o mascolinizzati – con tutto ciò che questo comporta, uomini bianchi eterosessuali che da anni si applaudono tra loro ed espellono dall’ecosistema qualsiasi dissidenza. Quelli che fanno gli offesi quando li accusi, e poi i complici silenziosi, necessari per sostenere una struttura tossica, che adesso cercano di mantenere la loro patina di dignità. Quelli che applaudirono al grido di “sono con te” a Rubiales, nella notte degli sfigati e degli imbecilli totali. Quelli che il lunedì, dopo le scuse inaccettabili nelle quali il presidente della Real Federazione Spagnola di Calcio si stava giustificando, volevano già chiudere il caso perché “ha chiesto scusa e questo gli fa onore”, e che ancora sostenevano che il gesto in sé era una sciocchezza e la caccia alle streghe che si era sollevata era uno scandalo. Quelli che da un giorno all’altro, abracadabra, hanno sviluppato una coscienza femminista. Quelli che fingeranno ancora di non leggermi, quelli che risponderanno irritati a questo articolo esigendo che faccia nomi, perché altrimenti ne escono tutti infangati, che vergogna, che modi sono, che prove avrei?

Quelli che ti incitano a scrivere arrabbiata perché così lo fai meglio, senza rendersi conto, senza che gli importi il tuo logorio fisico e mentale. Perfino quelli che hanno bisogno della femminista di guardia al loro fianco perché poveretti, loro non sanno, è che li disegnano così, ed è uno sforzo titanico capire, leggere, ascoltare, rivisitarsi, e non hanno nessuna cazzo di voglia di guardarsi allo specchio perché in fondo molti sanno che sì, che sono così anche loro, e decidono consapevolmente di fregarsene. Quelli che torneranno oggi alle redazioni dove la presenza femminile è scarsa o inesistente, senza nessuna prospettiva di genere, e torneranno a spiegarci tutto, di nuovo. E non è finita, no. Magari lo fosse. Così che, alla fine, torno all’inizio, alla domanda martellante che mi perseguita da giorni: come facevamo a raccontare loro, se anche noi siamo circondate? E provo molta vergogna.

Ho passato l’estate scorsa a scrivere Fame. Mi riprendevo dalle presentazioni di Sam è tornato nei boschi: le difficoltà logistiche avevano contribuito a regalarmi la mia prima colica biliare, e a farmi riflettere sul desolato mondo dell’editoria italiana.

È stato anche per questo che mi sono sentita libera di scrivere il testo più autobiografico della mia vita, senza preoccuparmi troppo: se non me lo pubblicava nessuno, lo avrei fatto io. Questa era una storia che volevo raccontare, l’avevo promesso.

Che fosse interessante o meno, vi ringrazio per la pazienza.

Trovate il testo integrale qui, scorrendo dal basso, e lo sto inserendo tutto anche qui, nell’ordine giusto. È una versione riadattata per i social, forse il manoscritto intero non vedrà mai la luce, ma è meglio per voi, no? Così avete meno roba da leggere! Qui ve lo presento a voce, la prima volta: se seguite tutti i video arrivate pure a quello in cui vi ringrazio.

Giuro che il pomeriggio in cui ho finito la prima bozza ero a casa mia, nel centro storico di Barcellona, e da un DJ set lontano è partita la schitarrata iniziale di Mr. Brightside: la accoglieva un coro entusiasta di gente che conosceva il ritornello a memoria.

Ormai saprete che lo conosco anch’io, per i motivi sbagliati.

Quella volta però ho pensato alla storia che non era più mia, che riposava in un documento Word, salvata due volte in attesa che ve la raccontassi, e mi sono alzata in piedi.

Quella volta ho cantato anch’io.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Sorpresa

Ci risiamo.

Sapevo che l’avrei trovato allo Spazio per il tirocinio improvvisato, ma ora lo vedo concentrato davanti ad appunti presi prima che la lezione abbia inizio, e sento di nuovo quella strana affinità. Sia Bruno che io abbiamo inseguito qualcuno che ci ha fatto a brandelli, e ora proviamo a rimetterci in sesto. Il piano di lui passa per rimediare un “pezzo di carta” che gli faciliti il trasferimento in un altro paese, e si è già letto tutti i libri consigliati per il corso. A modo suo ce la sta mettendo tutta, come me d’altronde.

Mi fa sorridere l’insegnante ingaggiata per l’occasione, che fa esempi di grammatica contrastiva nella lingua della Biondissima e poi dichiara di “non percepire nessun attrito tra noi”. Durante la pausa, invece, le altre tirocinanti mi prendono da parte appena Bruno si allontana. Tra poco è il suo compleanno, mi ricordano come se ce ne fosse bisogno, ma lui non vuole celebrarlo “per ovvi motivi”. Prima che possa scappare vengo messa all’angolo: la sera del compleanno lo Spazio è occupato… Chi avrebbe casa libera per ospitare una festa a sorpresa?

No, eh! Per una volta sono io che “ho da fare”, come ripete sempre Bruno. In attesa della ripartenza promessa a mia madre, sto traslocando a puntate con un furgoncino che costa meno dei carrelli, anche se a guidarlo sono gli stessi della mudanza. Sono stanca, dico alle ragazze, non ho le energie per organizzare pure questa roba… Insistono, ignare di ciò che mi stanno chiedendo. Portano loro da mangiare, puliscono loro. Per favore. Sarà anche un bel modo di inaugurare casa mia!

“Bruno non sospetterà nulla” conclude una. “Sta così male che ha bisogno di noi”.

Beh, se lui sta così male.

Ho il tempo di godermi la prima sera in casa nuova: sulla finestra che dà sul terrazzino, una piccola lanterna avvolge tutto in una luce calda. L’aria è intrisa d’acqua, odora di resina e fiori estivi. Sognavo da un po’ di vivere in quel quartiere inerpicato sulla collina, e ci sono riuscita quasi per caso.

Niente accade per caso, mi rimproverano le autrici junghiane dagli scatoloni che non ho ancora aperto: i loro libri già ammuffiscono in quell’umidità, ma finalmente mi addormento serena. Restituendomi le chiavi di casa vecchia, il conducente del “furgoncino per traslochi” (che però odorava di frutta) mi ha chiesto sorpreso perché vivessi da sola. Non ce l’avevo un marito? Ho risposto con una risatina falsa.

La sorpresa in sé riesce senza intoppi, grazie ai leggendari ritardi di Bruno: tanto crede di dover “solo” inaugurare il mio attico gelido, non c’è mica fretta. Così gli viene un colpo davanti al coro stonato degli auguri, e dopo qualche sorriso e due strette di mano passa la serata a giocare coi pochi invitati sotto i dieci anni, che in realtà vorrebbero uscire a correre nei parchi vicini. Come in una favola, si alza dalla sua sedia solo prima di mezzanotte.

“Mi sembra di essere rimasto il tempo adeguato” borbotta tra sé, e allora capisco: non è solo la condiscendenza con cui risponde alla generosità altrui.

La festa l’ha privato del suo lutto, del lusso nefasto di non celebrare perché non se la sente. Il bello è che forse l’unica che può capirlo, là in mezzo, sono io.

Mi manda un messaggio di ringraziamento la sera dopo, mentre ritorno dal mio giro di ricognizione del quartiere: nella parte alta, su scalette di pietra costeggiate da rampicanti, dei gatti selvatici vivono liberi e ben sorvegliati. Un bel ragazzo seduto a un tavolino del carrer Blai ha fatto una faccia sorpresa nel vedermi avanzare nel tubino bordeaux: sembrava davvero contento di ammirarmi le ossa, che si vanno rimpolpando piano piano. Per un po’ ci siamo inseguiti con lo sguardo, sorridendo delle frasi di incoraggiamento degli amici di lui. Poi sono passata oltre, e il messaggio di Bruno mi ha fatto ripescare il telefonino dalla borsa. Già che ci sono, sulla salita per tornare a casa nuova mi metto a cercare anche le chiavi.

Non ci sono.

Per antica abitudine sono uscita con le chiavi della Casa degli spiriti, e l’indomani ho l’aereo per tornare da mia madre a consolarla del lutto. L’attrice che mi aveva segnalato l’attico gelido è fuori città, e il padrone di casa, che mi affretto a contattare, può vedermi solo l’indomani.

Eccomi di nuovo esclusa da casa mia.

Penso in fretta. Ho in borsa il documento per partire, e nella Casa degli spiriti mi è rimasto qualche vestito… Ma no, io lì non ci voglio tornare a dormire, mai più. E poi che ansia, partire senza le chiavi giuste!

Quando alla fine mi viene aperto almeno il portone, i vicini del palazzo di fronte mi vedono sollevare fino ai fianchi il bel vestito bordeaux, nel tentativo di calarmi sul terrazzino attraverso la staccionata a rombi: mi si pianta una scheggia di legno nella scollatura. Mentre attendo il “fabbro h24” reclamizzato da un bigliettino all’ingresso, me ne rendo conto. Eccomi di nuovo chiusa fuori dalla mia vita, come quella volta che erano arrivati i pompieri.

Stasera il problema si è invertito: ho il mondo a disposizione, e l’unica parte che mi preme occupare è lo spazio angusto della mia nuova casa.

Ma il sedicente fabbro non arriva mai, e anche Bruno è sparito. Gli ho spiegato cos’è successo e lui, dopo un attimo di sorpresa, ha smesso di messaggiare. In fondo, che gliene frega?

Nonostante le mie sollecitazioni, e gli accenni alla partenza da organizzare, i “fabbri” giungono dopo più di un’ora: tre ragazzi latini, che mi imbottiscono di chiacchiere per fare un lavoro a metà e chiedermi una cifra spropositata, che con loro alle calcagna devo prelevare apposta al bancomat. Se mi ribello, che ne so di come reagiranno?

Una volta intascati i soldi, quello che sembra essere il capo (e l’unico che sappia il mestiere) mi rivolge la stessa domanda del facchino pakistano: abito tutta sola, come mai? Gli uomini che conosco non hanno gli occhi?

“Domani ti accompagno all’aeroporto” si offre. “Per te il passaggio sarebbe gratis, eh”.

Me lo ripete due volte, che è gratis. Proprio non capisce perché gli dica di no.

A venerdì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Lividi

Da behr.com

Mamma nota subito i lividi.

Neanche il tempo di disfare la valigia e già mi ha squadrato le braccia, incerta se fare una battuta o preoccuparsi sul serio.

Non le sto a spiegare che la morte della gatta mi ha fatto scattare qualcosa, che voglio cambiare tutto. Aspetto che lei e papà ripartano per agire.

I miei sono lividi cocciuti, persistenti sulla mia pellaccia di gommapiuma: forse sono gli stessi notati, quando erano ancora freschi, dall’agente immobiliare milanese che sta diventando mio amico. “Ma che, te menano?” ha sdrammatizzato lui, facendomi pentire di non aver indossato una giacchetta. No, non “me menano”, e sul momento neanche ci faccio caso, ma mi diverte il paradosso: chi mi lascia addosso i lividi fa finta che non sia successo niente, e quelli restano lì a dimostrare il contrario.

Ho contattato l’agente per “farmi un’idea” sulle case in vendita: nella quasi impossibilità di affittare un buco a nome mio, l’aspirazione balzana è quella di spuntare un mutuo, o almeno scoprire come si fa. I miei si sono offerti di farmi da garanti e, magari, versare la cifra iniziale. Chi non ricorre all’aiutino da casa, per potersi aggiudicare un appartamento a Barcellona? Perfino i miei amici medici devono farsi anticipare qualcosa…

“Portami una sola busta paga, e il mutuo è tuo”.

Questa è la promessa del direttore, quando i miei mi accompagnano in banca e proviamo a capirci qualcosa in quattro lingue diverse (napoletano incluso). Però il mio contratto di lavoro dev’essere a tempo indeterminato, avverte dispiaciuto questo cinquantenne gentile, che a giudicare dall’accento barcellonese sarà passato dalla casa dei suoi a quella ereditata dalla nonna.

Uscendo dalla banca, mia madre mi dice che basta così. Ho un vicino di casa che forza serrature e fa volare le gatte dai balconi, dunque devo andarmene da quel posto. Vorrà dire che troveremo una casa economica, e invece di lasciarmi i soldi in eredità i miei mi vedranno proprietaria, e al sicuro, adesso che possono ancora venire a farmi visita.

L’uomo col mastino ci fa trovare le scale addobbate dalle sue scritte minacciose, e dai bisogni del cane. Stavolta non ha lasciato ricordini nella cassetta della posta. L’amministratore si rifiuta di cambiare ancora la serratura del terrazzo condominiale, e la polizia ci ha fatto sapere che “basterà aspettare lo sfratto”, ormai è questione di tempo: il soggetto non se ne andrà per il pericolo che costituisce, ma perché non riesce più a pagare il suo antico affitto calmierato. Lo prenderanno per povertà.

Nel frattempo, liberarsi di lui è diventato un privilegio. L’amico agente scova una casa che i miei “capiscono” (quella che avrei voluto io era grande un terzo e costava uguale), e festeggiamo condividendo una birretta con gente dello Spazio, che si è data appuntamento in un pub del Born.

Bruno fa la sua apparizione in ritardo, schiacciato dallo zaino che si porta sempre dietro, e al momento di ordinare dichiara: “Per me niente”. “Lo vuoi con ghiaccio o senza?” scherza il cameriere, e Bruno non coglie, ma poi si avventa sulle mie patatine e su quelle extra che si premurano di offrire i miei.

All’uscita del pub si prende papà in un angolo e gli spiega le sue varie ipocondrie, e papà, che è medico, inizia a sbrogliargliele. Sembrano intendersela a meraviglia, e mamma è quasi divertita da quella consulenza medica che non finisce più.

“Tu avresti preferito studiare da infermiera” scherza, con una traccia di allarme nella voce.

Poi si rende conto che papà ha lasciato al tavolo la giacca e le chiavi, e senza una parola gliele va a recuperare.

A mercoledì per il seguito!

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Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Non convinco

Si addormenta dopo cena.

Dopo la sua breve performance da fidanzato si è incupito: è stanco, dice, il giorno dopo deve tornare a casa presto. Mi appare davanti un’immagine che mi perseguita da un po’: un gatto a cui provo invano ad abbassare la testa. La bestiola gira il collo, mi schiva la mano. Ogni volta l’immagine svanisce prima che io sappia se ci sono riuscita, se il gatto è domato.

Perché Bruno è rimasto a dormire, visto che deve fare una levataccia? Ma quando si alza è giorno fatto, e io sono al computer.

Mi è arrivata la risposta della casa editrice appena fondata, che mi aveva richiesto la scheda di un libro. La mia intermediaria è dispiaciuta: le editrici non sono convinte. Manca il confronto tra il libro che mi hanno incaricato di leggere (un romanzo di cinquecento pagine sui lupi mannari) e altri volumi del genere. Sono livida: per cinquanta euro a scheda volevano pure un trattato di letteratura comparata sulla licantropia?

Eravamo rimaste che mi pagavano, chiede l’intermediaria, o la prova era gratuita? Nel primo caso, mandassi pure il mio conto corrente.

Segnalo a Bruno di farsi il caffè, poi inizio a martellare la tastiera: quelle pezzenti delle “editrici” si tenessero pure i loro quattro soldi! Pretendevano di sfruttarmi a cinque euro l’ora e si chiedono pure se mi devono pagare… Sono già alla frutta prima ancora di iniziare, e in ogni caso si meritano la rovina.

Mentre serve il caffè nelle tazze, Bruno si unisce alla mia indignazione: le delusioni lavorative sono un argomento che riesce a unirci. Ma lui è svogliato nel consolarmi, e io sono furibonda. Non è solo per la mail, o per le ore perse a leggere un libro di cui non mi fregava niente. Lui siede davanti a me, finisce la colazione e poi annuncia: “Rimango un altro po’”. Come se il tempo che si è prefissato di dedicarmi non fosse ancora scaduto. Ma ha lo zaino già in grembo, gli auricolari pronti.

Esito a lungo. Se sto zitta andrò a cena da lui, conoscerò quell’amica che a quanto ne so è dalla mia parte. Dimostrerò a Bruno che è il caso di ammettermi ufficialmente nel suo mondo, visto che lo abito già da un pezzo.

Invece non riesco a tacere. Sento qualcosa bloccarmi il respiro, come il residuo vischioso di un raffreddore. Se non lo sputo via resterà lì anche dopo la benedetta cena con l’amica di Bruno. Resterà sempre, non potrò più respirare.

Punto gli occhi su di lui e sparo. Non sono arrabbiata solo per il lavoro perso: c’è qualcosa di strano nel modo in cui lui mi ha trattata l’altra notte, e mi sta trattando adesso. Sta recitando un copione che non sembra neanche aver letto. È evidente che non crede a una parola di ciò che dice.

Non dimenticherò mai lo sguardo che mi rivolge. I suoi occhi si spalancano un istante, poi si fanno tristi, rassegnati. L’ho colto sul fatto.

Per quanto si sforzi, in fondo di me non gliene frega niente.   

A venerdì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

A imperitura memoria

Ciao! Questo è il solito post in cui vi invito a non sprecare troppo tempo in una cosa inutile, però stavolta c’è un colpo di scena. E pure un esempio, che deciderete voi se leggere o no.

Vedete, a Barcellona un mio amico molto nordico inizia ora una relazione con una “lokal”, e l’ho avvertito sulle possibili sfide di certe differenze culturali, che a volte portano a divergenze politiche (e sull’argomento ci ho scritto un romanzo, perché qualcosina ne so).

Il mio avvertimento/spoiler conteneva forse un pregiudizio su guiri e lokalz? Spero di no. Non ho detto in nessun momento: “Andrà a finire di sicuro così”. Ho solo precisato: “Se andasse a finire così, saprai cosa aspettarti e supererai meglio il problema”.

Ebbene, abbiamo discusso un’ora, l’amico è andato un po’ in ansia e io, oltre ad aver perso sessanta minuti che non riavrò mai, sono passata per la pettegola prevenuta che non si fa i fatti suoi. Quindi il mio consiglio stavolta è: se ci tenete all’amico perdetecelo, ‘sto tempo! Ma che non sia un’ora, cavolo. Gli aiuti non richiesti possono risultare odiosi e poco utili, oltre a sprecare le energie di chi li elargisce. A quel punto io metterei giusto la pulce nell’orecchio, e poi l’amico deciderà se alimentarla o meno: in fondo la vita è sua!

Una delle grandi svolte della mia, di vita, è stata quando ho smesso di voler controllare le esistenze altrui.

Qui finisce il post e comincia l’esempio (nooo, l’esempio no!). Proseguite solo se siete in vena di immergervi in un pezzo di cultura napoletana. Siete ancora lì? Bene, cominciamo!

Prendiamo il signore “sceso dalla Val Brembana” (semicit.) che con accento lombardo mi chiedeva, all’uscita della trattoria Da Nennella, se ormai fossero in chiusura: in fondo erano le due del pomeriggio! Inutile dirvi che quel signore veniva subito segnato come “Fuffi” nella lista d’attesa del mitico Ciro.

Mettiamo che Fuffi venga da noi e ci dica: “Sai? Ho conosciuto una tale Mariarca, detta ‘a Pulitona, che mi piace molto. Vive proprio ai Quartieri, dove lavora quel signore un po’ nervoso che mi chiama Fuffi. Non so in cosa sia laureata, anche se mi sembra che lavori nell’hi-tech, però vorrei approfondire la conoscenza: ho pensato quindi di andarci insieme a un apericena con finger food, poi a una rassegna di Kiarostami“.

Capirete che, per amore di Fuffi, potremmo anche prenderci la briga di precisare: “Magari hai capito tutto di Mariarca, Fuffi, ma metti che invece organizza i pullman per la Madonna dell’Arco, e a Kiarostami preferisce Maria Nazionale! E qualcosa mi dice che la grotta del suo presepe ha la vista sul Golfo di Napoli…”.

A quel punto Fuffi, che è una personcina un po’ ansiogena, potrebbe interromperci: “Grazie ma non voglio sapere tutte queste cose! Preferisco che sia una scoperta quotidiana, sai? Conoscersi a poco a poco, assaporarsi piano come un marron glacé…”.

E noi ci sentiamo un po’ scassagonadi e un po’ “capere”, cioè gente che non si fa i fatti suoi. Avremmo dovuto tacere? Forse. Però cavolo, mettiamo che Mariarca sentendo nominare Kiarostami sbraiti: “Come? ‘Ccà aro’ stamme?’. E si nun ‘o saje tu…”. Oppure commenti il finger food con frasi tipo: “Gli uomini da me vogliono solo una cosa: ‘a marenna p’ ‘a fatica!”. In tal caso io spero che Fuffi e Mariarca si sposino comunque di lì a un anno, e si trasferiscano insieme in Val Brembana, o sul presepe con vista sul Golfo di Napoli (che tanto è in scala 1:1). Forse, però, quella parolina che abbiamo detto a suo tempo al nostro Fuffi potrebbe propiziare il felice esito!

Quindi sì, facciamoci i fatti nostri che è sempre meglio, e soprattutto smettiamola coi pregiudizi: per esempio, l’intramontabile Mariarca è un mito a sé stante, e “le donne di Napoli” sono un mondo variegato, come tutte le donne.

Ma inso’, c’è una regola che vale anche per Fuffi: più ne sappiamo di una situazione/località/cultura, e meglio è.

Specie se siamo capaci in ogni momento di prendere ciò che crediamo di sapere, metterlo da parte e lasciarci stupire dalle cose, per come sono davvero.

(La mia prima Mariarca. In memoria di Loredana Simioli, che ci manca).

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