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Nostalgic cat Stock Photo - Alamy

Perfino Barcellona si è rassegnata all’autunno.

Voglio dire, è passata la Mercè, Puigdemont è stato preso e liberato nello spazio di una giornata, e perfino gli uffici che avevano iniziato a spopolarsi a giugno non sanno più che inventarsi per non riprendere le attività.

Sono iniziate anche le confidenze della mia amica, che è rimasta a Napoli perché un lavoro ce l’ha. Un lavoro e un fidanzato, con cui c’è un tira e molla da una decina d’anni. Per fortuna i due sono di paeselli diversi, altrimenti sarebbero al secondo figlio e alla terza tresca, da consumare nei motel rosati che fioriscono da quelle parti: figli anch’essi dell’amore romantico, e dei sotterfugi su cui a volte si regge.

Ma no, a ‘sti due tocca prendersi e lasciarsi. Conoscersi a vent’anni non significa che sarete le stesse persone a trenta, e non è detto che nel frattempo cresciate insieme. Ma che fai, ti lasci dopo tanto tempo? Non sia mai! Infatti quel gran genio della mia amica si è “fatta lasciare”: un’opzione che vanta tutto un filone di ricerca su Google, con perle come questa.

D’altronde, lui si è pentito quasi subito del momento di determinazione. Gliel’ha detto? Macché. Ha adottato la seguente tabella di marcia. I numeri dell’elenco indicano i giorni di esecuzione del piano.

  1. Il tipo passa a salutare il portiere dell’ufficio di lei. I due giocavano al fantacalcio insieme, ma non si vedevano da un po’. Come ho preso la rottura? Bene, figurati. Volevo solo dirvi che per gli amici in comune (?) ci sono sempre. So che la signorina oggi è in riunione, ma ditele che sono passato. La “signorina”, beneducata, gli manda un messaggino.
  2. Il tipo risponde al messaggino con una foto del suo gatto. Ritratto accanto a lui, in una posa che sembra malinconica. Ricorda “il cane che non dorme più”, nella canzone che posto alla fine del testo. Il gatto ti è affezionato, scrive lui. Non sparire, che gli manchi. Capito? È al gatto, che lei manca.
  3. La fregatura di un gatto a cui manchi è che devi andare tu a trovare lui. La mia amica orchestra una visita-lampo, munita dei croccantini preferiti del gatto. Che fai, protesta lui, non resti a cena? Lei un po’ va in sollucchero: lui non se la filava così dai tempi della prima fedina. Niente cena, ci mancherebbe. Però un aperitivo sì.
  4. Ah, senti, informa lui durante l’aperitivo, ci sono questi miei amici che vorrebbero uscire con noi. Gli manchi, come al gatto. I tuoi amici, invece, non mi hanno mandato neanche un messaggio per sapere come stessi. La tua amica che sta a Barcellona, non la sento da una vita.

L’amica che sta a Barcellona si è messa a sventolare a distanza un’enorme bandiera rossa: questo, ha detto alla Giulietta de noantri, sta usando tutte le strategie possibili per tornare con te. Tranne quella di dirti: “Voglio tornare con te”. Il giorno che non rispondi alle sue esche come vorrebbe lui, ti rinfaccerà di “averlo illuso”.

Lo so, questi giochetti non li facciamo solo dalle mie parti. Ma, la prima volta che mi hanno convinta che l’onestà è l’unica strategia possibile, lo hanno fatto in spagnolo.

In italiano ho sentito cose tipo: “se lei voleva davvero che ci sposassimo, mi avrebbe costretto”, “un po’ di gelosia fa bene, vuol dire che ci tiene”. Soprattutto, “se due si vogliono davvero, un modo per stare insieme lo trovano”: discorso che prende le frenesie della luna di miele e le estende a un rapporto in cui l’incompatibilità è ormai evidente, oppure le distanze non sono vissute bene da entrambi i membri, e anche lì è questione di compatibilità. Vivendo all’estero, vedo che c’è chi si fa bastare la settimana di fuochi d’artificio ogni tre mesi, e chi vuole meno pirotecnia e più “Compri tu il pane, al ritorno?”.

Forse c’è un problema di fondo, nelle strategie: l’idea che non poter realizzare i propri desideri con quella persona sia una sconfitta. Eppure, i sentimenti altrui non li controlliamo, e i nostri desideri, quelli sono. Il no di chi non può aiutarci a realizzarli fa spazio ad altre persone che potrebbero. Forse non si è mai trattato di volere quella persona lì, quanto di dimostrarci che potevamo averla.

Secondo i pronostici, la mia amica ha un mese di tempo per tornare col tizio e sentirsi al centro delle sue attenzioni, prima che lui, ormai rassicurato, torni a trascurarla. A quel punto, visto che ‘sti due si butterebbero a mare piuttosto che parlare chiaro, spero si lascino una volta per tutte.

Comincio a contare i giorni.

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Ho impiegato le ultime due settimane nel mio passatempo preferito: sentirmi invasa.

Devo dire che sono stata molto aiutata dalle seguenti circostanze:

  1. Archie ha deciso che produco latte dai vestiti, e si fa le poppate come un lattante, ma con gli artigli;
  2. per mettere le reti alle finestre (Archie voleva anche inaugurare la carriera di kamikaze), ci sono volute quattro visite del tecnico. Quattro;
  3. il comune, a cui avevo scritto per accogliere persone rifugiate, mi ha proposto nell’ordine:
  • migranti minorenni da tenere come in famiglia (preciso che offrivo una dépendance di 25 mq, piuttosto oscura e con una sola camera da letto);
  • una famiglia già inserita, con un bambino piccolo (rileggete le caratteristiche della casa);
  • una famiglia monoparentale con tre bambini, uno in sedia a rotelle (la proposta che ha vinto tutto);
  • un macellaio catalano che ha perso il lavoro.

Mi sono presa il macellaio. Sono vegana: era troppo paradossale perché dicessi di no. Tanto più che C., accompagnato dai servizi sociali, sta frequentando i corsi di cucina vegana del Veritas. Almeno qualcuno, a casa mia, sta svoltando.

Io corteggio i corsi di coaching, e continuo a scrivere nella lingua sbagliata. Non mi decido a passare all’inglese. Soprattutto, mi sento spompata a settembre, che è un mese che adoro. Nei momenti indefiniti succede questo: ripensiamo a quando avevamo una tabella di marcia. Che fosse figlia di circostanze diverse, è un’altra storia.

Ieri mi sono imbattuta in questo articolo: avere figli non procura di per sé la felicità, come non la procurano una casa di proprietà o un lavoro redditizio. Questi fattori sono felici o meno a seconda delle circostanze (nel caso dei figli, ahimè, inciderebbe ancora molto il reddito dei genitori). Il problema è che, come già mi informava questo corso di Yale, noi esseri umani facciamo schifo a prevedere cosa ci farà felici sul lungo termine.

Però mi è piaciuta la conclusione dell’articolo, che traduco a sentimento:

Invece di fossilizzarti con l’immagine di come dovrebbe essere una vita felice in confronto con quella attuale, potresti permettere alla vita di riservarti momenti inaspettati di felicità. Ciò che ci impedisce di sperimentare la felicità non è ciò che la vita ci offre, ma ciò che crediamo ci debba offrire.

Lo so. Felicità in italiano sembra una parolaccia, o un concetto che fa paura evocare. Io invece me la auguro: che sia la prossima intrusa a invadermi casa. Quel che è peggio è che auguro lo stesso a voi.

File:Earthlights 2002.jpg
https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Earthlights_2002.jpg

Da oltre un decennio, frequento corsi di scrittura in varie lingue. Ecco un bilancio, a seconda della nazionalità del corpo docenti. Comincio con la Spagna, per liquidarla subito: i corsi che ho seguito erano molto concreti, finalizzati a pubblicare in fretta o scrivere romanzi che accattivassero il pubblico. Erano tenuti o da editor di altissimo livello, che però non avevano mai finito un romanzo proprio, o da prof. che avessero pubblicato con piccole case editrici.

In Italia, invece, mi sono giovata di finaliste a premi famosi e di “Quelli che… Baricco” (cioè, gente uscita da qui).

Per gli USA: autrici di best-seller, vincitori del PEN.

Passiamo agli insegnamenti: per esempio, come affrontare le descrizioni.

Italia: eh? Non mi fai una planimetria della casa della protagonista, compresa di numero catastale e inventario dei mobili? Cosa direbbe Marguerite Duras?

USA: descrivi solo ciò che ti è necessario alla trama. Vedi, una volta Mark Twain

Ok, un altro aneddoto su Twain e mi ammazzo. Piuttosto, cosa devo raccontare del passato dei personaggi?

Italia: tutto! Altrimenti cosa scrivi, una brutta serie americana? Come si chiamava la zia di terzo grado della protagonista? Che numero di scarpe portava la sua compagna di banco alle medie? Non quella che se ne andò a metà quadrimestre, ma la brunetta che le fregava la merenda.

USA: show, don’t tell.

Grazie. Come affrontare i monologhi interiori?

Italia: più introspezioneee! Dov’è il flusso di coscienza di quaranta pagine dopo che la protagonista si è rotta un tacco? Le liste di azioni lasciamole a Umberto Eco, che non era mica uno scrittore.

USA: show, don’t tell.

Vabbè, ma in generale, cosa è meglio spiegare e cosa no?

Italia: mai dare per scontate le informazioni. Chi ti legge che ne sa, se una che sbatte porte e distrugge mobili è arrabbiata?

USA: show, don’t tell.

Scherzi a parte, mi piace l’idea ‘mericana di non trattare il pubblico con condiscendenza. Ciò che non afferreranno al primo colpo, verrà spiegato meglio nei paragrafi successivi. Stavolta il modello non è Mark Twain, ma Naipaul.

Però in che lingua scrivo? In italiano. Della mia alienazione dalle cosiddette radici ho già parlato qui.

Quindi cosa so fare, io? So fare l’Europa. Qualsiasi cosa significhi, d’altronde il prof. americano dice che non devo essere condiscendente. Allora mi capite, se vi dico che so fare l’Europa? Sono italiana, ma sono anche altro. Forse sono più “altro”, adesso. Lascio i libri italiani a metà, sospesi al monologo interiore della protagonista su quanto rifarsi le tette al liceo le avrebbe potuto aprire le porte dell’amore.

Adoro Hilary Mantel. La storica fallita in me la detesta, per come tratta le fonti, ma come scrittrice è grandiosa. Meglio mille romanzi storici che di storico non abbiano niente, che l’ultimo sproloquio dell’ex sessantottino che crede ancora in Freud, ma non nell’asterisco.

Cos’è questa Europa, al di là delle frontiere chiuse? È privilegio, e pure libertà, se hai il passaporto giusto.

E nonostante tutto sono felice di abitarla, di spiegarvela un po’.

Magari un giorno lo farò senza che nessuno pretenda di insegnarmi come.

Ramen With Cheese Taste Test: Korean Dish Is Perfect Comfort Food

Carboidrati! Il mio corpo premestruale ha un sussulto. Come un gamberetto, arretro di due passi per piazzarmi di nuovo davanti allo scaffale del negozio cinese, che tra l’altro sta per chiudere. Ma che importa? Io ho fame! E questa confezione di tagliolini dorati, su sfondo dorato, mi sembra la fonte di ogni felicità.

Poi osservo meglio: noodles istantanei. Cerco le istruzioni per la cottura, e trovo un’elaborata procedura che consiste per lo più nello spacchettare strati di plastica, e bollirne il contenuto insieme a una polverina. No, grazie. Mia madre, prima di ripartire, mi ha comprato i fedelini De Cecco: applausi in piedi, per favore!

Ma il punto è che vediamo solo ciò che stiamo già cercando. Ne parlavo con il compagno di quarantena, mentre optavamo per una bibita da Anduriña (che pure stava chiudendo, come il negozio cinese). Per dimostrare questa affermazione a lui, che era scettico, avevo tirato fuori:

  • le lezioni di fisica che seguo su Coursera: se non hai neanche una teoria su cosa ci fosse prima del Big Bang, non sai nemmeno cosa tu stia cercando;
  • John Locke: non possiamo immaginare cose che non conosciamo già. Anche il concetto di angelo è una combinazione di esperienze che già possediamo, perché è un essere umano a cui abbiamo appioppato le ali;
  • soprattutto, le canzoni travisate e la pareidolia! Lascia entrare Ascanio (vedete sotto), oppure Benny Lava per chi capisce l’inglese. Se non leggi i sottotitoli, ti rendi conto subito che sono canzoni in una lingua che non conosci.

È l’eterna difficoltà di pensare fuori dagli schemi. “Hai mai avuto la sensazione di non avere nessuna scelta?” mi ha chiesto, a sproposito ma non troppo, il compagno di quarantena. Io: “Sì, da adolescente”. Sarà stata colpa di Verga, oppure di Sciascia cento anni più tardi, ma avevo la sensazione che dalle mie parti, come diceva ‘n antro, “tutto deve cambiare perché tutto resti come prima”.

“E invece la soluzione era andarsene” ha sorriso lui con aria furba. Uhm, non è così semplice, ho risposto. Nel mio caso specifico, però, trasferirsi altrove era parte della soluzione. Il fatto è che, come per i nove punti di Watzlawick, ci costa una fatica terribile uscire da certi schemi: quelli che il nostro contesto di appartenenza, o la sindrome premestruale, ci rendono difficile eludere.

Però oh, su una cosa io e il compagno abbiamo concordato: una scelta c’è quasi sempre. Io, per esempio, posso leggere meglio la confezione dei tagliolini cinesi bramati dai miei estrogeni, e scoprire che a casa ho molto di meglio! Alzare gli standard non è sempre una cattiva idea, anzi.

E pure Ascanio, ogni tanto, evitiamo di lasciarlo entrare.

Cuando la ensalada te cuenta chistes meme - Español Memes

´”Guarda, Maria, secondo me dovresti fare una bella dieta…”

“E tu, papà, dovresti fare meno body-shaming“.

“Che?”

Gli spiego cosa significhi, e allora lui:

“Ma è il mio lavoro di medico, segnalare quando ci sono quei tre o quattro chili di troppo…”

“Il salutismo è stato confutato da tempo, come scusa per la grassofobia.”

“Eh?!”

“Le femministe millennials stanno appizzatissime, papà” passo al napoletano “avite fernuto ‘e fa’”.

No, scherzi a parte: qualche mese fa, un paio di persone mi hanno creduta incinta, con tutti i connotati emotivi che per me può assumere la cosa. Ne ho parlato con un medico (non mio padre) che mi ha spiegato il problema: mi sono messa a fare addominali e plank senza prima perdere i chili accumulati durante la quarantena. Risultato: sul grasso si è formato uno strato di muscoli, così sembro più o meno magra, ma con la panza. Adesso che perdo peso spontaneamente, perché sono tornata al solito moto pre-lockdown, la cosa si va ridimensionando, ma a poco a poco.

La questione esilarante è che in paese, invece, mi trovavano troppo magra. Come ho già scritto qui, l’ideale di bellezza paesano si assestava ancora sulle maggiorate anni ’50, con variazioni sul tema che diventano consistenti solo oggi. In Catalogna, invece, e soprattutto a Barcellona, una donna cis etero che porti la 44 può essere tranquillamente percepita come obesa. Questi si mangiano l’insalata come primo piatto, fate voi.

Mi fa ridere, ad esempio, il tizio in strada che provava a molestare una mia amica, e reagiva così davanti al mio intervento: “Ma io voglio scoparmi lei, mica te, che sei grassa!”. Mi fa ridere un po’ perché me lo comunicava come se dovessi dispiacermene, e un po’ perché in paese, da adolescente, ero intervenuta in circostanze analoghe contro un tipo che infastidiva mia cugina, e quello per tutta risposta mi aveva chiamata “Uosse ‘e prune”: osso di prugna, stecchino.

Ieri un altro tipo che mi camminava proprio dietro ha cominciato a gridare: “Gordita! Gordis!”. Che è come dire, cicciottella. Mi ero girata per vedere se ce l’avesse con me, e l’avevo sgamato a parlare da solo, guardando fisso davanti a sé. Ma era credibile che l’insulto fosse rivolto proprio a me, e che, ahimè, fosse un insulto.

E mio padre, classe ’48, è un medico di quella generazione che crede tantissimo nelle diete: non solo quelle necessarie a pazienti che devono evitare sul serio certi tipi di cibo. Siccome è un pediatra e non un dietologo, gli ho consigliato di leggere le teorie più moderne di Silvia Goggi, ma non sarò io a fargli cambiare la sua ossessione con il peso-forma.

Però, vedete? Uosse ‘e prune, gordita… È fantastico come uomini di ogni età e origine si credano in diritto di spiegarti come dovresti essere fatta. Magari, come mio padre, credono di farlo “per il tuo bene”.

Silvia Goggi scrive che, più che una dieta, ci serve un’anti-dieta, cioè una corretta educazione alimentare. Sono d’accordo con lei.

E perdonatemi la frase boomer (in omaggio a mio padre!), ma a certa gente, invece, servirebbe una buona educazione e basta.

Cherry Merry Muffins - Home | Facebook

Nell’ordine:

  1. affittare per un mese una casa in Costa Brava, meglio se con piscina (“solo” 12.000 euro!);
  2. affittare un villino a La Floresta, magari da gente che partisse in ferie ad agosto;
  3. piazzare a tradimento il compagno di quarantena da un amico in partenza, che mi aveva chiesto di fargli da cat sitter.

Sono tutte le soluzioni che ho vagliato quando mi sono accorta che i miei erano lì lì per venire, come previsto, e il compagno di quarantena stava rimandando all’infinito la sua solita partenza per il Cammino di Santiago. Adesso, quattro persone in una cinquantina scarsa di metri quadrati non sono l’ideale. Specie ad agosto, specie se una delle due stanze da letto è una singola senza luce. Così, eccomi a cercare le soluzioni più strampalate!

Poi, però, è successo qualcosa: all’improvviso, uno dei due appartamentini che affitto in casa mia (che, ricordiamo, è divisa in tre casette indipendenti) è stato sgomberato nel giro di cinque giorni. La persona che lo occupava mi ha comunicato che, per una serie di ragioni, sarebbe stata meglio altrove. Meglio così, allora, e meglio fare buon viso a cattivo gioco: i miei hanno trovato ad accoglierli una camera da letto vera, invece del mio loculo con il materasso addossato alla parete! Nell’appartamentino vuoto è come se fossero in un residence: una camera con salottino e bagno, con la possibilità di entrare nella mia parte di casa quando vogliono. In questo modo, hanno anche a disposizione due cucine, e di converso le ho a disposizione anche io: troppa grazia, Sant Antoni!

Ok, i miei d’estate usano poco la cucina, perché preferiscono andare di insalate e frutta fresca, ma se seguite questo blog da tempo (la Madonna ve lo rende!) saprete pure che l’ho sempre detto, anche per questioni più importanti: inutile preoccuparsi per situazioni che sfuggono al nostro controllo. Se è vero che controlliamo solo il 40% di ciò che succede, vuol dire che non abbiamo mai tutti i dati per risolvere il problema. Che fare, allora? Beh, ci arrangiamo con quello che possiamo gestire, e ci prepariamo (con fiducia) a ogni evenienza.

È il caso di dire che si cucina con quello che si ha.

Quest’anno mi toccano ben due angoli cottura! Mi sa che scelgo comunque il mio, che c’è un po’ più di luce.

Nessuna descrizione disponibile.

Se WordPress la elimina, sappiate che la foto qui sopra raffigurava gli alberi del carrer de Trafalgar, che nei pomeriggi di agosto sono una manna dal cielo.

Infatti li ho scelti per quantificare una volta per tutte il tempo che risparmiamo, quando facciamo spazio ad attività che ci ritemprino. Non sto parlando di ere geologiche, eh. È il tempo di un tè ghiacciato, che io, ad esempio, ho sorseggiato in un bar di questa strada: una catena, purtroppo, perché in questa zona tra via Laietana e Arc de Triomf, che precede la Chinatown vera e propria, trovi o la bettola post-franchista con le macchinette per ludopati, o il lounge fighetto per turisti. Ma tant’è: avevo il pc dietro, seguivo i miei corsi pazzi e, appunto, bevevo il mio tè ghiacciato.

Nelle ore precedenti, tra me e quel tè si erano frapposti diversi ostacoli: l’amico dottorando in fisica che sui social provava a spiegarmi come si faccia ricerca storica, lamentandosi perché nelle mie repliche “non scrivevo frasi di senso compiuto”; la filologa gourmet che, sempre sui social, mi spiegava perché una varietà di minestra che prepariamo dalle mie parti non segue la ricetta originale del 1297, dunque l’intera area sarebbe da bruciare una volta per tutte. Altro che terra dei fuochi!

Sapete qual è la soluzione? Disattiva le notifiche. Quell’opzione sta diventando la mia migliore amica. Perché capisco che l’amico dottorando deve avere un problema serio di autostima, per cui guai a chi lo contraddice (specie se è una donna). Pure la filologa gourmet avrà qualche ragione tutta sua per ossessionarsi su ricette che sono cangianti, figlie della disponibilità di ingredienti di ogni singola epoca. Sul serio, il famoso corso buddista mi ha convinta a non prenderla sul personale, e a empatizzare con i miei scocciatori, a cui auguro di trovare una qualche forma di serenità.

Però lo facessero lontano dal mio tempo, dal mio pomeriggio, dal mio tè.

Quali sono, invece, i vostri alberi? Sono sicura che avrete anche voi un’immagine che vi ricordi ciò che vi state perdendo, se decidete (in tutta legittimità) che il minchiaritore di turno merita una lezione, o che la filologa gourmet deve imparare, mo’ ci vuole, a farsi i cavoli suoi. È vero che i guru contemporanei ci dicono di concentrarci sul “qui e ora”, sul presente, ma attenzione a non dimenticare tutti i presenti possibili.

Quindi, visualizzate i vostri “alberi”: il libro che avete lasciato in sospeso per sorbirvi le chiacchiere di un vicino sborone, o la deliziosa cena che vi si raffredda perché non siete in grado di interrompere una telefonata inutile

Visualizzate il tempo che state regalando a qualcuno che non sa che farsene, a parte usarlo per alimentare le proprie idiosincrasie. Quando lo avrete fatto, vi aspetterò al bar con un bicchierone di tè ghiacciato.

Dai, che vi tengo il posto.

(L’uomo che mi ha fatto scoprire il tè ghiacciato).

Las impactantes imágenes del funeral de Raffaella Carrà en Roma | MDZ Online

Immaginate Raffaella Carrà, sparata a palla alle 5 del mattino.

È vero che ogni momento è buono per ricordare Raffa, ma gli hipster del primo piano sono stati fortunati, perché l’hanno omaggiata proprio ora che sto seguendo un corso online di Buddismo e psicologia evoluzionistica, come già accennavo qui.

In un altro momento, i miei cari vicini sarebbero morti male, se non altro perché l’uocchie so’ peggio d’ ‘e scuppettate (ovvero, gli strali che lanci col solo mirare sono più perniciosi di un’arma da fuoco).

Adesso, invece, sto mettendo alla prova quanto apprendo al corso di cui sopra. Chiariamoci: continuo a sottoscrivere la massima di Gianfranco Marziano, per cui “Se esiste un club di padreterni, Buddha è chillo che mannano a piglia’ ‘o cafè”. Scherzi a parte, non ho niente da dire contro Siddhartone e le sue vivide descrizioni di cadaveri nei fossi… Diciamo, però, che per i miei gusti il buddismo ha lo stesso difetto di altre filosofie e religioni nate in tempi di indicibili sofferenze, e di piaghe inconcepibili anche per noi che abbiamo Enrique Iglesias. Quale sarebbe il difetto? Beh, sostenere che la vita è dolore, che dobbiamo condurre un’esistenza distaccata, e rimandare la gioia alla prossima reincarnazione (o all’aldilà). Intuirete che le autorità al potere si fregano le mani: “Ecco, bravi, statevene lì a meditare/aspettare il paradiso e non rompete troppo“.

Lo so, lo so, Buddha non diceva questo, anzi: solo che mi pare lo affermi spesso il suo fan club, a parte quell’esperto di Ashtanga Yoga che mi ha confessato che si vedeva sempre circondato da esauriti. “D’altronde” ha aggiunto con una punta di autoironia, “chi pensi che venga a fare meditazione? I tranquilloni?”. Uhm, no.

Però, grazie al corso di cui sopra, ho scoperto un aspetto interessante che accomuna buddismo e psicologia evoluzionistica: le emozioni sono “ingannevoli”, cioè influenzano pesantemente la nostra percezione delle cose (e dunque, i nostri pensieri); tuttavia, se impariamo a osservarle da fuori, saremo noi a dominare loro, e non viceversa.

Sì, sotto sotto c’è sempre questa demonizzazione della rabbia che puzza di privilegio da qui al Tibet: difficile trovare una religione antica e ancora in auge che non dia a Cesare quel che è di Cesare, pure quando Cesare è ‘nu scurnacchiato. Però l’idea di vivere in armonia con le emozioni non è affatto male! E avrebbe pure qualche fondamento scientifico. Da un punto di vista evoluzionistico, abbiamo un cervello supereroe che ci ha fatto sopravvivere all’era glaciale, ma a che prezzo? Quello del mainagioia! I nostri neuroni seguirebbero regole del gioco vecchie di ventimila anni, per cui:

  • perseguiamo piaceri che ci creano dipendenza (senza sesso e zuccheri, col cavolo che assicuravamo la conservazione della specie!);
  • vediamo minacce anche dove non ci sono, con l’eccezione di Enrique Iglesias che è una minaccia oggettiva;
  • per motivi piuttosto singolari, ci conviene distrarci spesso.

In un quadretto così allettante, il buddismo sfiderebbe le regole della nostra mente: cominciamo a osservare da fuori le nostre emozioni, e decideremo noi quali lasciar entrare e quali no. Continuo a vederci la paranoia per cui “il desiderio è sofferenza” (letto davvero in un articolo sulla meditazione), ma oh, mi piace un sacco il principio di gestire le nostre emozioni, prima che loro gestiscano noi.

Vorrà dire che, la prossima volta che i vicini hipster omaggeranno Raffa in terrazzo, farò cinque minuti di meditazione, poi prenderò un secchio d’acqua e glielo getterò addosso.

Però l’acqua sarà tiepida.

Tommy Hilfiger Vestido de cuello redondo para mujer
Una versione quasi “pastello” dell’abito di cui parlo nel post: l’originale vi avrebbe creato problemi alla vista.

“Allora ricordo bene, che sei italiana!” mi fa il cameriere.

Il Buenas Migas è una catena che vuol essere un connubio tra gastronomia italiana e inglese (sì, avete letto bene). Ci vado ogni tanto col compagno di quarantena, perché ci sembra il modo migliore per punirci a vicenda. Per esempio, io ordino un tè Earl Grey ghiacciato con pezzi di mela, e al compagno di quarantena dichiaro: “Questa è la vendetta per il frappuccino!”. Lui risponde ordinando un caffè con otto litri di latte dentro.

Adesso il cameriere mi ha riconosciuta dopo avermi vista solo un’altra volta, nonostante la nutrita clientela del locale. La mia prima reazione è stata lisciarmi i capelli con fare suadente e dirmi: “Eh, il mio fascino senza tempo mi rende indimenticabile!”.

Poi mi sono resa conto che, sia stavolta che nella mia visita precedente al locale, indossavo un vestito di colore viola, arancione, rosa shocking, fucsia e giallo. Con mascherina rosa shocking abbinata. Diciamo che almeno su un particolare avevo ragione: ero impossibile da dimenticare.

La parte ironica è stata che al tavolo, insieme al compagno di quarantena, mi aspettava il portatile aperto su una lezione del corso di Buddismo e Psicologia evoluzionistica dell’Università di Princeton: la nostra mente, per interpretare ciò che ci capita, tende sempre a trovare la spiegazione più lusinghiera per noi. Insomma, ci abbiamo i bias (una parola che va di moda), e a volte abbiamo pure i bias sui bias.

Devo dire, però, che in un’occasione mi andò anche peggio (oppure meglio?) con una collega di questo cameriere “abbagliato” dalla mia persona. Con la ragazza, pure italiana, al momento di pagare ci fu un malinteso sulla consegna del resto: la mia genuina confusione sui soldi che mi spettassero mi fruttò un’occhiata ambigua, e la sensazione di essere stata scambiata per una furbacchiona che volesse intascare di più…

E invece no! Di lì a poco la tizia, dopo avermi riconosciuta su un gruppo Facebook di italiani, mi aggiunse ai suoi contatti. Visto? Ok, magari si illudeva che come veterana a Barcellona (particolare che si evinceva dai miei post), potessi esserle utile… Oppure chissà, forse le stavo davvero simpatica!

Ebbene sì, il nostro cervello giunge a conclusioni affrettate e non sempre realistiche, in un senso o nell’altro. La soluzione sarà davvero il buddismo, come suggerisce il corso che sto seguendo? Ci ritornerò.

Intanto confesso di non esserne troppo convinta, ma mi sa che anche quello è un mio bias.

(Vabbè, a mali estremi…)

Inventato il "cerotto intelligente" che cura le ferite | JustNews.it

Mica era per il vaccino in sé.

Se sono andata con un pizzico di timore all’appuntamento col signor Janssen (per gli amici, Johnson & Johnson), è stato per tutte le secce che mi avete tirato! (Per chi ci seguisse da fuori Napoli: “per tutta la sfiga che mi avete portato”).

Perché, oh, nel momento in cui ho comunicato in famiglia il vaccino che mi toccava, apriti cielo. Mio padre, che a suo tempo mi aveva rilasciato questa intervista sui vaccini, era passato da: “Otto casi avversi su sette milioni dimostrano che ne vale la pena!”, al dubbio: “E se tra quegli otto casi ci fosse proprio mia figlia?”. Che è un po’ il punto debole di certi… burionici idoli delle masse. In realtà, papà mi ricordava solo che Astra Zeneca e Johnson erano sconsigliati alle donne sotto i 60, quindi perché non rimandavo la vaccinazione? Peccato che, per spuntare anche un solo appuntamento a Barcellona, avevo dovuto tentare alle due di notte, ubriaca di tè alla menta e mezza stordita dalla shisha!

Quando poi ho spiegato le perplessità di mio padre su una pagina di italiani, il commento più incoraggiante che ho letto è stato: “Sei coraggiosa ad andare lo stesso”.

E vabbè, come direbbe Einstein: “Aglie e fravaglie, e fattura ca nun quaglia”, che è una formula matematica in tedesco. Con quella come amuleto, sono approdata alla Fira de Barcelona cinque minuti prima, come raccomandavano nella prenotazione, per poi scoprire che mi dovevo fare mezzo chilometro a piedi, perché si entrava dal retro. Dopo che la guardia mi credeva l’accompagnatrice di una signora anziana (e io lì a pensare che fosse perché non dimostravo quarant’anni…) mi sono resa pure conto che dovevo mostrare il mio codice di prenotazione. Meno male che avevo fatto uno screenshot: scaltra come una faina!

Che esperienza incredibile, starcene in fila in centinaia in un cortile, lungo una serpentina di transenne. Lo so, ci vaccinano perché non collassi il paese, ma mi si inumidivano gli occhi (o forse era il sudore?) a vedere gente di ogni origine e nazionalità, di ogni età e costituzione fisica, in fila gratis per salvare la pelle. Ovvio che dovrebbe essere sempre così: altrimenti scatta un’altra pandemia e poi ci tocca “fare ‘uh’ e ‘ah'”, che è l’espressione magnifica che mia madre usa al posto di “piangere sul latte versato”.

Confesso che è stato poco incoraggiante, vedere la scritta “Ricoveri urgenti” proprio sotto il padiglione che mi era stato assegnato! Ma la puntura in sé è durata un secondo: l’infermiera è stata gentilissima e mi ha applicato il famoso cerotto, che mi pare di capire vada di moda. Io me lo sono stretta al braccio per il quarto d’ora di prammatica, seduta sulla seggiola di una nuova anticamera: tutt’intorno, gente che avevo già visto in fila attendeva con me, facendo scongiuri, eventuali reazioni negative. Nessun incidente, per fortuna! Adesso la vera domanda era: come avrei trascorso quello che per tanti secciatori (vedi sopra) era l’ultimo giorno della mia vita?

Innanzitutto, bando alla metro! Dietro alla Fira c’era il Poble-Sec, il quartiere che amo! Mi sono goduta le sue strade scoscese e assolate, senza capire subito perché mi sembrassero così diverse… Ah, già: stavolta ero senza mascherina! Godevo perfino a respirare le stesse piante profumate che, quando vivevo lì, mi ammazzavano di allergia.

E poi il carrer del Parlament, le ombre lunghe degli alberi tra il mio bar preferito e il mitico supermercato di prodotti italiani: ho ricordato Mubarak, alla cassa, che per miracolo mi faceva uno sconto di venti centesimi. Un mio collega siciliano, in fila per pagare, s’era messo a protestare: “E che, bisogna essere di Napoli per avere uno sconto qua dentro?” (sorrisetto insinuante). Ehm, frate’, io eviterei certi scherzi, visto che sei di Palermo…

Aveva un suo perché addirittura la piattaforma dell’ex mercato in Ronda de Sant Antoni, tra i monopattini dei bambini e il mercatino delle pulci più pezzente di sempre: era una scarpa sola, quella che un ambulante stava esponendo sulla sua tovaglia? Prima di scoprirlo sono tornata al Gotico, il mio nuovo quartiere. Lo detestavo soprattutto all’inizio, ma in quel momento ho apprezzato la promessa infinita delle sue strade, il loro essere tutto e niente: falso Medioevo e passerella per turisti, con accanto almeno tre linee della metro per andare subito altrove.

Quella possibilità, al momento, non m’interessava. L’ultimo giorno della mia vita me lo sono vissuto nel “qui e ora”, come predicano certi guru della spiritualità.

E il giorno dopo, guarda un po’, ero ancora lì.

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