Ce lo chiede Amia Srinivasan nella sua raccolta di saggi che prende il nome dal testo più acclamato: Il diritto al sesso (pubblicato da Rizzoli nel 2022).

Del libro mi piace il fatto che l’autrice, con un rigore dialettico che (lo dico?) a volte mi pare addirittura pilatesco, pone più domande che risposte su tematiche importanti per il femminismo, specie nella sua corrente intersezionale.

C’è questo saggio in cui Srinivasan, che tra le altre cose tiene seminari sul porno, discute con la sua classe di over 18 del rapporto tra il porno stesso e la cultura dello stupro.

Eppure era iniziata così bene: negli anni ’60, la pornografia si presentava come un inno alla libertà sessuale, finché non è stato chiaro che sembrava perlopiù ignorare, se non reprimere, il piacere di un… genere a caso! (Il mio). Il contrasto di visioni è evidente anche nella Spagna polarizzata tra pasionarie e nostalgici del franchismo: molti anni fa, mentre vedevo un film spagnolo che celebrava il destape post-franchista, sentii mezza sala sussultare davanti alle comprensibili rimostranze di una giornalista, che sullo schermo criticava i film soft porno e l’immagine subordinata che davano delle donne. Poi capii l’ilarità generale: la giornalista era interpretata da un’attrice resa famosa proprio da quei film!

Srinivasan osserva laconicamente che la questione sul proibire o meno il porno è stata risolta da Internet: stiamo ancora a illuderci che ci riusciremo?

Pensiamo piuttosto alla domanda che poneva la giornalista polemica del film, anche se poi era l’Edvige Fenech de nosotros: è liberazione un’immagine del sesso che non tenga conto del desiderio femminile? A questa domanda, una mia conterronea molto orgogliosa delle sue origini magnogreche ci illuminava sull’etimologia della parola porno, che secondo lei ignoravamo, e sosteneva che era ovvio che l’industria in questione fosse al servizio del piacere maschile. Si sentiva molto “avanti”, in questo postulare che il piacere di un uomo etero dovesse prescindere da quello femminile, se non sopraffarlo. A suo modo era avanti sul serio: è stata precorritrice di articoli imbarazzanti e delle loro ignave esegesi.

Il fatto è che a un certo punto ci si è chieste se il porno si limitasse a descrivere immaginari maschili, o li creasse: la seconda che hai detto, rispondeva Catharine MacKinnon nel 1993. La subordinazione delle donne viene erotizzata, dunque resa reale. “La pornografia è la teoria, lo stupro la pratica” dichiarava Robin Morgan già nel 1974.

Non vi dico alcune femministe nere: ah beh, siamo di nuovo alla Venere ottentotta, all’esibizione delle schiave al mercato? All’anima della rivoluzione del piacere! Aiutami a sbadigliare.

Ma ancora una volta non è così semplice: secondo Jennifer Nash, la rappresentanza nel porno di donne nere fa della loro condizione “un locus di piacere ed eccitazione sessuale”, sia per lo spettatore bianco che per la spettatrice nera (un discorso portato avanti anche da Leslie Green a proposito del porno gay). E poi la mancata rappresentatività nel porno può diventare un ulteriore segno di oppressione: la scarsità di native americane o donne dalit non significa certo che queste categorie se la passino benissimo! Allora mi sono ricordata di quando cercavo su Google il significato del termine Beurette, trovato in una serie francese, ed era venuta fuori una profusione di video porno! Non avevo neanche dovuto cliccare per capire si trattasse di donne arabe, un feticcio dei cugini d’Oltralpe che magari di mattina le consideravano “poco francesi” e arretrate. Però Srinivasan, che è di origini indiane, si chiede: perché devo assistere alla sottomissione sessuale di una persona che mi somiglia, per sapere di essere desiderabile? Quando si appartiene a una categoria discriminata, non bisogna scambiare il dover scendere a compromessi per un segno di emancipazione!

Invece le sex-positive, come le abbiamo chiamate in tempi recenti, insistono sul diritto delle donne al proprio piacere, che sì, può passare anche per il porno mainstream.

Come la pensa la classe interpellata dall’autrice, una congerie di over 18 che è cresciuta a pane e Internet? Sorpresa: sposano in pieno le motivazioni delle abolizioniste! Sì, il porno non descrive solo l’oggettivazione delle donne, ma aiuta a realizzarla. E sì, rende più difficile per le donne dire di no, e per gli uomini “dare ascolto a queste proteste”. Il porno femminista? “Mica guardiamo quello” commenta uno studente (d’altronde, osserva Srinivasan, non è quasi mai gratuito e non può essere certo usato nell’ora di educazione sessuale). Ai ragazzi annoia (!) la performance trita e ritrita che esclude ogni reciprocità e azzera del tutto quella roba lì, l’aff… affett… Niente, devi fare solo il trapano vivente. Non si potrebbe cambiare copione, ogni tanto?

Avoja, rispondono le studentesse, ma se nessuno ti parla di sesso impari “studiando” i porno, apprendendo un copione in cui il tuo piacere non è mai il punto focale: al massimo serve a dimostrare al macho che ci sa fare.

Insomma, per la prima generazione “formatasi” guardando porno, c’è un copione che non detta solo gesti e movimenti, ma anche “lo stato d’animo appropriato, i desideri appropriati, l’appropriata distribuzione del potere”.

L’obiezione sarebbe: il porno è una forma di intrattenimento, se adolescenti a digiuno di informazioni lo prendono per un’autorità, di chi è la colpa? La pornostar Stoya punta il dito contro il sistema americano di educazione sessuale, che brillando per la sua assenza ha trasformato lei nell’autorità che non ha mai preteso di essere (al lavoro sessuale è dedicato un complesso saggio a parte nel volume).

D’altronde, avverte Srinivasan, attenzione a non fare il gioco dei conservatori, dei loro appelli a “preservare l’innocenza” di un’infanzia slegata dal mondo adulto che non è mai esistita, che diventa anch’essa una fantasia: “Ai miei tempi…”. Quei tempi lì non sono mai esistiti, Donald. E comunque non ha senso credere che le nuove, ultraconnesse generazioni siano sprovvedute come lo saresti stato tu, negli anni ’60. L’autrice sembra molto determinata ad apprezzare lo spirito critico della sua classe o della GenZ in generale, e cita esempi di ribellione aperta a presidi e insegnanti che cercavano di colpevolizzare le vittime di stupro nei campus, criticandone l’abbigliamento.

Il discorso dunque non è bianco o nero: come avviene (spoiler) per il lavoro sessuale, ciò che in realtà sostengono diverse femministe pro-porno non è che il porno sia ‘sta favola da preservare, ma che è inutile legislarci contro in un mondo in cui ogni tentativo di mettere paletti è stato strumentalizzato per colpire le minoranze sessuali, o rafforzare, in nome di un femminismo bianco egemonico, la differenza tra “donne rispettabili” e prostitute.

“Qualsiasi cosa dica la legge, il porno sarà realizzato, comprato e venduto. Ciò che dovrebbe interessare di più alle femministe non è ciò che la legge dice del porno, ma ciò che la legge fa per le donne che ci lavorano”.

E insistere sull’educazione sessuale, come fa anche la classe “GenZ” dell’autrice. I genitori che vi si oppongono, rivendicando il diritto di istruire i propri figli sull’argomento, ignorano la semplice realtà che i figli in questione “vengono già istruiti in materia di sesso, e non da loro”.

Basterà l’educazione sessuale a cambiare immaginari dettati da vere e proprie multinazionali (vedi PornHub), e da un algoritmo che arriva perfino a penalizzare le attrici dai 23 ai 30, perché non rientrano né nella categoria MILF né in quella teen?

La tanto agognata educazione sessuale, dunque, non dovrebbe presentare “una via alternativa” al porno mainstream, insegnandoci cosa dovrebbe piacerci e cosa no, ma dovrebbe promuovere uno spirito critico e, soprattutto, l’immaginazione che algoritmi e stereotipi consolidati hanno sottratto alle generazioni precedenti.

Già che ci sono, termino qui i commenti sul libro e vi appioppo un aneddoto finale sugli immaginari sessuali.

Tempo fa ho commentato una cosa tipo “Preferirei che non parlassi anche a nome mio” sulla pagina Facebook di una nota fumettista, che scherzando presentava una fantasia di sottomissione (“quando mi faccio sbattere”) come qualcosa di comune a tutte le donne. Allora una persona non binaria mi faceva sapere che a sua volta adorava “farsi sbattere”, ma non veniva a rompere “le palle” a me se non condividevo i suoi gusti! Nella replica, consapevole del mio privilegio cis (la fumettista è trans), ho spiegato che chiunque poteva fare ciò che voleva, ma la reverse logic (cioè, rigirare la frittata) non funzionava su un argomento per cui tante donne sono stufe di fingere orgasmi su fantasie di questo genere, che evidentemente non funzionano in maniera universale, e se sono cis scoprono quanto la penetrazione sia un di più e mai “il punto” (e non mi riferivo certo al mito del punto G, pure costruito intorno al piacere maschile). Quindi dicevo solo: in materia di fantasie, sesso, e a questo punto anche di porno, cerchiamo di non parlare per “tutte”, come recitava il post originale benché usasse un tono ironico. E mi permettevo di consigliare un libro ad hoc.

Indovinate quale? Il diritto al sesso, ovvio!

Leggetelo anche voi.

Te la sei cercata? Non basta: te la devi meritare.

Ma l’avrei scoperto solo a casa, il tempo di far cadere dal pero due commesse de La Central in c. Mallorca, che sembravano ignare di cosa fosse la… Cultura de la violación (2019, pubblicato inizialmente da Flâneur nel 2017). Poi una delle due ha scoperto quale fosse la casa editrice, e in un balzo mirabile ha sottratto alla mensola più alta questo libricino, che pareva un pamphlet. Sette euro.

Ero già pronta a leggerlo nel bar della libreria ma, quando mi sono arresa all’afa della terraza e mi sono installata all’interno, ho sperimentato la carrambata del secolo: seduto accanto a me c’era un compagno delle medie di mio fratello! Avevamo venticinque anni da riassumerci davanti a un café con hielo, e tra le tante novità c’era il fenomeno descritto da Giulia Blasi: sempre più uomini si fanno sentire anche in Italia contro la cultura dello stupro.

Dunque mi toccava tornare a casa, coi capelli appiccicati alla schiena sudata, per poter aprire il libro e… leggere della violenza a Brigitte Vasallo.

L’attivista non ne aveva mai parlato prima, ma ha ricevuto la prima gogna mediatica per le sue riflessioni sul caso de La Manada: una profusione di commenti sul fatto che a Vasallo, una “bollera malfollada” (“lesbicaccia che non scopa”), non poteva mai succedere ciò che era accaduto alla ragazza violentata (letteralmente) dal branco. E allora, avverte l’autrice, se le donne sono disumanizzate e considerate un oggetto, e se “l’unica possibilità di esistenza dell’oggetto è attraverso il soggetto”, si arriva al paradosso: te la devi meritare, la violenza. Devi esserne degna, perché nella cultura dello stupro diventa un “regalo di esistenza, una ricompensa per l’oggetto”. Le prove? L’immagine dei tweet ricevuti a proposito de La Manada, tra i quali per me vince ZoteParo: “A questa lesbicona femmigrulla non la stupra neanche il moro più in astinenza, aaarrrgggggg” (p. 17, l’ultima parola è copiata paro paro, il resto qui e in seguito è una traduzione mia).

Non è mica una questione di uomini e donne, spiega Vasallo: secondo il CDC, un bambino su sei e una bambina su quattro subiscono abusi sessuali prima di compiere 18 anni. Dunque, ciò che le vittime di stupro hanno in comune “non è il fatto di essere donne, ma il fatto di essere state violentate da uomini”. Lo stupro non si riduce a “uomini stupratori e donne stuprate”, ma a una questione di “potere strutturale spalleggiato da meccanismi di cosificazione”, che hanno come bersaglio le persone in posizione subalterna. Nelle campagne antistupro c’è il mostro cattivo, o la vittima che piange: mai che impugnasse una pistola, perché, come Vasallo segnala altrove, decostruire la mascolinità significa che gli uomini ora possono piangere, ma decostruire la femminilità non include l’idea che le donne possano usare la violenza. No, devono essere le vittime perfette. “Per poter disporre di un’altra persona, bisogna disumanizzarla, renderla irriconoscibile, esogena, alterizzarla” (p. 15). Mi viene da pensare all’immagine del “pezzo di carne” (che di certo, postilla vegana, non “alterizza” solo gli individui della mia specie!), ma Vasallo imperversa: c’è una dinamica dello stupro come castigo, come affronto che uomini di origini geografiche diverse si fanno tra loro, attraverso i corpi delle donne che rappresentano la patria. Ecco qua la prospettiva “razziale”: a Colonia quanti uomini bianchi commisero abusi? Quante donne razzializzate subirono quegli abusi? E Abu Grahib non è stato il tipico esempio di stupro usato verso degli uomini (anche da militari donne) come arma da guerra?

A questo punto entra in contropiede Úrsula Santa Cruz Castillo, nel secondo saggio del volumetto: può il genere come categoria di oppressione spiegare la violenza esercitata su donne razzializzate e impoverite dai colonialismi? “Continueremo a insistere sul patriarcato come sistema di oppressione comune a tutte le donne?” si chiede Castillo a p. 27, e mi ricorda la giovanissima attivista latina che non riesco più a rintracciare, ma che ironizzava su TikTok: “Beata te, se il massimo dell’oppressione che ricevi è per il fatto di essere donna!”. Anche Castillo non le manda a dire: “Il vostro universalismo ci nega e ci annulla”, in quest’Europa che promuove il modello della femminista egemonica “emancipata”, che l’8 marzo grida “Se toccano una, ci toccano tutte” intanto che lo stato guatemalteco assassina proprio un 8 marzo 43 ragazzine e adolescenti che non erano bianche, né europee, dunque non erano “donne”. Non sono donne neanche le molte migranti cis e trans che “si definiscono come lavoratrici sessuali, mettendo in discussione e decostruendo il discorso stigmatizzante, moralista e vittimista del femminismo abolizionista e molte associazioni di ‘salvatrici delle puttane'”.

Castillo è arrabbiata e sa che è un problema (vedesse quanto lo è in Italia, dove il tone policing la fa da padrone!): le femministe bianche si sentono “aggredite” dai sistemi di lotta delle razzializzate, ma se fossero nei panni di queste ultime capirebbero la necessità di togliersi “questi occhiali che vedono solo il genere” (p. 35), e ripenserebbero un po’ la tanto nominata sorellanza.

E qui, non venitemi a picchiare apposta, ho pensato all’ultimo accorato appello della scrittrice che ha unito e commosso mezza Italia, e che ci invitava a non dividerci tra noi facendo il gioco dei misogini: l’idea in sé mi trova d’accordissimo, anche perché non ho motivi particolari per sentirmi esclusa o incazzata più del dovuto. Ma capisco l’attivista di cui sopra che su TikTok chiosava: scusate, ma la sorellanza io ce l’ho con le mie compagne di lotta.

Certo, è così umano pensare che i “veri problemi” sono (letteralmente) i cazzi nostri. La moglie spagnola di un amico considerava delle piagnucolone quelle che non apprezzavano il catcalling, mentre spiegava a un mio ex che il suo problema era quello di mettersi sempre con delle femministe (ehm). Poi è scesa in trincea per i diritti delle donne (o meglio, i suoi), quando ha capito che nella sua azienda non l’avrebbero considerata al pari dei colleghi uomini. Antifemminista, mica scema.

Non so cosa risponderebbe a Deyanira Schurjin, che mi chiede: quella per arrivare in Europa è una “rotta” o un’avventura? Perché nel secondo caso chiunque può essere il tuo stupratore, torturatore o prosseneta, e nel primo, con un po’ di fortuna, ti violenta solo il tuo protettore, o al massimo qualche amico suo. In quelle che furono colonie occidentali, lo stupro è un’arma da guerra, o uno strumento perpetrato da organizzazioni criminali, mentre nel cosiddetto Occidente la vecchia struttura di dominazione maschile è presente “in un formato di minore intensità” (p. 41), reso invisibile e naturalizzato: la maggior parte della violenza di genere è costituita da atti individuali. Ma non ci inganniamo: anche quello porta alla vessazione e denigrazione e può degenerare nel femminicidio, perché “gli elementi centrali nella configurazione del dominio maschile sono esattamente gli stessi”. Nelle zone di conflitto, invece, “il corpo della donna si trasforma in un’ulteriore parte del territorio”, con un’aggravante in quei casi in cui le donne subiscono anche la violenza privata dei propri compagni, “allo stesso modo delle donne occidentali” (p. 42).

Inutile indignarsi con condiscendenza, formare associazioni al grido di “Mai più!”, e denunciare la violazione dei diritti umani, che ormai sono soprattutto “la base teorica del modo in cui si produce la ricchezza”, e invece di promuovere una distribuzione equa del potere perpetrano “i processi dominanti di divisione sociale, sessuale, etnica e territoriale” (p. 45). Dell’excursus, per me sconcertante, che l’autrice fa su Camille Paglia e le sue critiche al “femminismo egemonico”, vorrei segnalare soprattutto questa idea: per le donne razzializzate l’unica opzione è difendersi, invece di finire distrutte e senza risorse. D’altronde esiste un femminismo bianco “della vendetta”, che Schurjin individua in Despentes, Solanas, Salander e altre. Confesso che qui mi è venuto da pensare alle trappole del cosiddetto empowerment, tra cui quella di colpevolizzare le vittime, ma ancora una volta mi devo ricordare che, se violentano me, almeno ho il passaporto giusto per recarmi dalla polizia.

Concludo con i quesiti di Ana Llurba, che fa un excursus sul mito della partenogenesi nel Mediterraneo e mi ha messo in crisi sul “consenso” di Maria di Nazareth: non so il vostro parroco, ma il mio al catechismo lo dava per scontato! Ok, quell'”Io sono la serva del signore” arriva ex-post, però Dio è onnisciente… Vabbè. Da tutto questo retaggio culturale, secondo Llurba, ci è rimasta “un’eco misogina che difende la vittima solo se è stata previamente santificata” (p. 58), nella collaudatissima dicotomia (denunciata perfino da Jovanotti!) tra la vergine e la puttana.

Questo libro mi ha fatto riflettere anche nei punti in cui non sono d’accordo: è minuscolo ma ben compatto, su tutti i fronti. Spero venga tradotto presto in italiano, e…

… Ok, non resisto e concludo con un ultimo auspicio di Brigitte Vasallo:

“La decostruzione del razzismo, del maschilismo, della omo-lesbo-transfobia ecc. non è un privilegio di gente benestante con vite facili e stupide, senza nessun trauma e senza altre occupazioni che quella di psicanalizzarsi in eterno. Al contrario. Delle nostre ferite, possiamo farne un rizoma” (p. 13).

Per il ciclo “Niente fiori, ma opere di bene”, qui sotto traduco male gli spezzoni di un’interessante intervista a Brigitte Vasallo, autrice di un libro importante sulla decostruzione della monogamia che in Italia è stato pubblicato da Effequ. Per me l’intervista è una chicca: sollecitata da domande poco accomodanti, Vasallo spiega ciò che *non va* del poliamore.

Fin dall’introduzione del suo nuovo libro, lei avverte che il poliamore è rientrato alla perfezione nel discorso neoliberale: consumiamo corpi.

Il poliamore può anche essere una monogamia con un altro nome. È successo che ci siamo messi a smontare la monogamia senza capirla. Ci siamo ritrovati molte volte con una questione numerica – con quante persone stai – senza addentrarci a definire “chi era costei” [la monogamia, n.d.R.].

Ci piace parlare delle relazioni poliamorose, ma non delle ferite che lasciano. Cosa si fa con questa persona, una volta che si utilizza nella “poligamia di mercato”?

Si sostituisce. Come si fa con il cellulare: ne esce uno nuovo sul mercato e, senza chiederci se ne abbiamo bisogno o no, lo sostituiamo. Perché la novità, nelle relazioni, è un valore in sé. Dunque, quando parliamo di libertà nel libro bisogna considerare due linee: quella libertaria, che è un esercizio filosofico classico; un altro tipo di libertà, quella capitalista, nella quale cadiamo costantemente nel poliamore… Una perversione della parola. Se la libertà nell’amore è fare ciò che ti pare e badare solo ai tuoi desideri, dobbiamo ridefinire cosa significa “libertà” e dobbiamo affrontarla da una prospettiva politica.

Nel libro metti una © di copyright a concetti como amor, amor-de-mi-vida, ecc. Alla fine, se non si ridefiniscono, tutti questi concetti sono semplici marchi registrati?

Sì, è così. Faccio lo stesso quando parlo di uomo, lo indico come marchio registrato, o di donna, a sua volta un marchio registrato. È una lettura semplice, di forte impatto visivo. Non stiamo parlando di ciò che ciascuno fa nella sua vita con le proprie decisioni. Il sistema ci impone molte cose attraverso queste etichette.

Tutto questo si combatte facendo dell’amore uno strumento politico? Non è naïf pensare che smontare le relazioni private possa cambiare un sistema?

Non so se si tratta tanto di pensare che dalla sfera privata si possa smontare un sistema, e la risposta è sì, quanto di pensare fino a che punto i sistemi si ficcano nella nostra sfera privata. È il primo passo per capire tutto ciò. Con l’amore continuiamo a credere che sia una cosa naturale, spontanea e libera da qualsiasi condizionamento. Come se non fosse la costruzione sociale che è. Il nostro modo di provare sentimenti è costruito socialmente.

Nel libro parla di come, per mantenere l’esclusività sessuale, è necessario generare un “terrore costante”. Dice che a un/a partner si potrebbe spiegare facilmente una notte brava, il fatto di bersi un whisky di troppo, ma non una notte di sesso.

Il sesso è trascendete perché ha una serie di connotazioni [cargas]. Però ciò che mi sembra importante è che bisogna aprire il ventaglio delle definizioni di desiderio. Il desiderio si trasforma nella costruzione di un’identità chiusa, e questo presenta alcune condizioni. Quante decisioni che ci vengono date di default potremmo prendere, se definissimo di nuovo questo desiderio? Viviamo una grande penalizzazione della sessualità, ed esiste una alimentazione della sessualità promiscua come conquista, capitale sociale… Ciò che abbiamo bisogno di smontare non è la pratica in sé, ma i fattori condizionanti che portano la pratica a essere così.

La monogamia è definita dall’esclusività. Lei precisa: “Ciò che definisce la monogamia non è l’esclusività, ma la gerarchia di alcuni tipi di affetto sugli altri”.

La base di tutto ciò è la gerarchia. Questo non è un libro di shortcuts, di scorciatoie, ma mi sembra importante pensare che l’argomento dell’esclusività è conseguenza e non causa della monogamia. Perché questo sistema gerarchico funzioni, l’esclusività sessuale è necessaria, perché bisogna costituire un’identità sessuale chiusa.

Il sistema fa competere le relazioni tra loro?

Sì. Puoi avere una relazione di coppia, una relazione a tre, ma senza problematizzare questa gerarchia e cercare un equilibrio. E non si tratta del tempo che dedichi a ogni persona, ma del peso che viene dato ad alcune relazioni rispetto ad altre. Soprattutto se sappiamo e abbiamo incorporato la idea che la costruzione romantica dell’amore, che a me piace amare “amore Disney” (perché non ha niente di buono), è attraversata dalla violenza, e gli occhi che ci servono per vederlo non sono contaminati da questo romanticismo.

A quale violenza si riferisce?

Gli squilibri che si verificano nelle relazioni sono intrinseci alla romanticizzazione delle stesse. Non è una deviazione dal sistema, non è qualcosa di aneddotico, è il sistema in sé a essere così. Questo non vuol dire che non possiamo costruire una relazione. Vuol dire che dobbiamo costruirla in un altro modo. Perché dico questo? Viviamo in un mondo di merda e nell’ora della verità, quando sei malata, inevitabilmente chi si prende cura di te è la famiglia o la persona con cui hai una relazione*. Ma questo è parte delle conseguenze di star costruendo così gli amori: alcuni vincoli hanno la responsabilità di prendersi cura di te, e altri no. Nei contesti queer ci è chiaro, perché continuiamo a essere espulse e dobbiamo costruirci un cuscinetto a partire da altre prospettive che non includano la romanticizzazione. Una delle perdite più gravi che ha provocato questo sistema monogamo è il fatto di disgregare la comunità in atomi molto piccoli: la famiglia nucleare o la relazione normativa, coi suoi annessi e connessi.

(Continua)

*Da donna etero mi sono divertita a questa affermazione perché, hashtag not all men ecc., ci sono studi decennali sulla frequenza con cui gli uomini abbandonano la partner quando questa ha una malattia debilitante.

Ho passato l’estate scorsa a scrivere Fame. Mi riprendevo dalle presentazioni di Sam è tornato nei boschi: le difficoltà logistiche avevano contribuito a regalarmi la mia prima colica biliare, e a farmi riflettere sul desolato mondo dell’editoria italiana.

È stato anche per questo che mi sono sentita libera di scrivere il testo più autobiografico della mia vita, senza preoccuparmi troppo: se non me lo pubblicava nessuno, lo avrei fatto io. Questa era una storia che volevo raccontare, l’avevo promesso.

Che fosse interessante o meno, vi ringrazio per la pazienza.

Trovate il testo integrale qui, scorrendo dal basso, e lo sto inserendo tutto anche qui, nell’ordine giusto. È una versione riadattata per i social, forse il manoscritto intero non vedrà mai la luce, ma è meglio per voi, no? Così avete meno roba da leggere! Qui ve lo presento a voce, la prima volta: se seguite tutti i video arrivate pure a quello in cui vi ringrazio.

Giuro che il pomeriggio in cui ho finito la prima bozza ero a casa mia, nel centro storico di Barcellona, e da un DJ set lontano è partita la schitarrata iniziale di Mr. Brightside: la accoglieva un coro entusiasta di gente che conosceva il ritornello a memoria.

Ormai saprete che lo conosco anch’io, per i motivi sbagliati.

Quella volta però ho pensato alla storia che non era più mia, che riposava in un documento Word, salvata due volte in attesa che ve la raccontassi, e mi sono alzata in piedi.

Quella volta ho cantato anch’io.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Da healthshots.com

Prima del silenzio

“Uno fa degli errori, ma poi si può anche correggere”.

Lo dice con un mezzo sorriso, ma ha gli occhi bassi. Lo dice perché mentre tirava un predicozzo dei suoi contro l’amore mordi e fuggi, e i corpi usati come passatempo, ho piantato i miei stivali sulla sedia (indosso di nuovo i jeans) e ho mormorato: “Come sei nobile”.

È l’unico momento di imbarazzo tra me e Bruno, alla festa di arrivederci a Già: il mio ragazzo starà via diversi mesi, per le ricerche relative al dottorato che sta finendo. Dopo, però, verrà a vivere con me, o magari ci troveremo un posto meno gelido e più grande, senza lutti a impregnarne le pareti.

A Già ho mostrato i quadri, i divani in penombra e i gatti stesi sui davanzali dipinti a olio. Gli ho detto che adesso ho fame di quelli, della serenità che mi trasmettono. Gli ho detto anche di Bruno, e del fatto che non so se mi riprenderò. Ma ce la metterò tutta, nell’ultimo anno non ho fatto altro che provarci. Anche questo mi sembra un tradimento, il più strano di tutti: cedo a Bruno la dignità di amante abbandonato, la palma di martire truffato dalla vita.

“Uno fa degli errori, ma poi si può anche correggere” mormora Bruno senza alzare gli occhi.

Siamo diventati l’uno l’errore dell’altra.

Alla fine un po’ ci riesco, a cambiargli la vita. Lo faccio quando ho smesso di provarci, e convivo con Già in una bella casa che, rispetto all’attico gelido, era giusto dietro l’angolo, come tante cose che cercavo invano. Dopo tutti i miei sforzi inutili, per cambiare la vita di Bruno mi basta girargli un’offerta di lavoro, che avevo rifiutato perché ormai ero insegnante. Stavolta quello di segnalargli offerte era un favore che aveva chiesto lui, una cosa che voleva, e a me ritornano in mente le parole che avevo sibilato a mio padre prima di quella assurda risonanza elettromagnetica: possiamo aiutare solo chi lo desidera.

A me ci pensa Già, che mi adora. E comunque non ha bisogno di farlo, per trattarmi bene. Nei mesi trascorsi lontano da Barcellona ha ascoltato spesso una canzone dei 24 Grana, gli stessi che cantavano “Uccidimi”. Questa di Già però era una canzone buffa, quasi allegra: da che neanche mi piaceva, è diventata pure mia. 

A un certo punto mi giunge voce che per Bruno c’è stata un’altra ragazza, dopo la Biondissima. Ma è finita presto, e con gran sorpresa dell’amico dello “scoop” (sempre lo stesso!) completo io il racconto: Bruno trovava che le mancasse qualcosa, e in ogni caso non poteva vederla spesso perché “aveva da fare”.

Ormai ho imparato che è inutile prenderla sul personale, chi ci ferisce non lo fa solo con noi. Non siamo “speciali” neanche in quello, ed è meglio così.

Questa storia finisce quando ritorno a sorpresa allo Spazio. Ho rinunciato da tempo a quell’incarico di rappresentanza e temo di non conoscere più nessuno, così ho chiesto a Già di accompagnarmi al concerto programmato per la serata. Con lui mi sono assegnata un progetto speciale: creare un rapporto così bello che, anche se finisse in malo modo (come succederà), vorremmo continuare a esserci nelle rispettive vite (come succederà).  

Tenendoci la mano salutiamo Bruno, intrappolato in una conversazione con una sconosciuta che gli piace, ma che trova noiosa. Mi accorgo all’istante di entrambe le cose, e mi ritrovo a lanciargli un’occhiata ironica, di quelle che ti aspetteresti dalla fidanzata di un amico. Mo’ ti arrangi, testone.

Bruno si svincola solo quando inizia il concerto del suo amico cantautore, lo stesso che era in visita la prima volta che lui mi ha spiegato che non ero niente di che. Un giorno scoprirò che dopo il concerto il cantautore, ignaro del fatto che nessuno sapesse, aveva detto di me: “È l’unica con cui ho visto Bruno star bene. Solo che con lei non ci voleva stare”.

Intanto, però, l’artista chiama Bruno dall’angolo che fa da palco: loro due, annuncia al pubblico, hanno scritto qualcosa insieme.

L’interpellato rifiuta di accostarsi al microfono, ma dall’angolino in cui me ne resto con Già lo vedo incurvare la schiena e capisco, mentre la canzone comincia.

Prima che inizi il silenzio, ho una cosa da chiederti.

La canzone parla di Bruno, e anche di me. Parla del suo dolore per la Biondissima, e del mio per lui. Non può farci niente, in quella canzone ci sono anch’io. C’è la sequenza del lutto che abbiamo provato entrambi in stanze separate, ugualmente buie e lontane: abbandono, incredulità, e una solitudine che verso la terza strofa diventa la tentazione oscena di andare avanti.

Prima che inizi il silenzio, tu vattene via.

Ogni nota mi risuona nel ventre che si contrae un momento, poi si distende insieme a me che già canto.

È qui che finisce la storia. Finisce col dolore di Bruno che è anche il mio, e finisce con la speranza che, per una volta, pure ci unisce. Ormai so che la nostra canzone non esiste, ma non importa.

Finalmente ho trovato una canzone per noi.

Grazie per aver letto Fame!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Di Già

Dove "sembro più io", ma ormai lo so già.
Da online.scuola.zanichelli.it

Certe cose non riaffiorano più.

Si sono perse nel pozzo da cui risalgo a poco a poco. Resta una frattura tra me e il mio corpo nudo, e l’idea di condividerlo con qualcun altro. Ma succederà di nuovo, ora lo so. Solo che non sarà più come prima.

A volte mi guardo le braccia e mi sembra che i lividi siano ancora lì. Almeno sono spariti da un pezzo alla vista. Con questo “almeno” qui, posso far pace.

Con l’anno nuovo inizio a insegnare italiano, e saluto l’Amico che non tornerà. Lui non lo sa ancora, è convinto di dover allontanarsi qualche tempo per questioni familiari. In realtà è entrato di diritto nell’esercito di indecisi che arriva a Barcellona in estate, prova svogliato ad ambientarsi, e infine approfitta delle vacanze di Natale per svignarsela di nuovo in Italia, a raccontare a chiunque come sia difficile vivere “fuori”. Però mi ha aiutato tanto nei mesi più difficili: quelli di assestamento, dopo un lutto.

Prima che se ne vada usciamo con l’Amica che mi aveva presentato Bruno, e lei si porta dietro la Divina, quella che era troppo bella perché lui la aggiungesse a Facebook in contemporanea con me. È sopravvalutata, sentenzia l’Amico, e allora gli mollo uno scappellotto mentre le sbircio il vestito lungo e prego che sia così alta perché si è messa i tacchi: davanti a una che piace a Bruno, entro ancora nella spirale ossessiva.

Lei a sua volta mi osserva l’abito senza fronzoli, e i capelli corti che sono tornati al loro biondo ambiguo, oscurato dal tempo.

“Stai molto meglio così” si complimenta. “Non che stessi male prima, è che adesso… come dire? Sembri più tu”.

Vorrei abbracciarla e chiedere scusa, non solo a lei: anche all’amica Occhiblù, alla Bella Stronza, alla Biondissima… A tutte quelle che ho considerato mie rivali in una gara che non esisteva. Ma riesco solo a dirle che ha ragione, adesso sembro più io.

E questa me che impara di nuovo a camminare smette pure di voler risolvere le vite altrui: lascio partire l’Amico senza fare storie, abituandomi al pensiero che non tornerà.

È appena arrivato, invece, il ragazzo alto e serio che a una conferenza dello Spazio alza la mano per fare un’osservazione antipatica: manca qualcosa, il conferenziere ha trascurato un argomento importante. Che faccia tosta! La conferenza è durata un’ora, come si fa a concentrarsi solo su “ciò che manca”? Poi lo sconosciuto si vede offrire un microfono, e a quel punto si prodiga in un ragionamento che mi sorprende. Ciò che invece mi spaventa di Giacomo, detto Già, è che leghiamo soprattutto per l’affinità di pensiero: quello lì è un mondo in cui mi perdo, e poi viene fuori che ho fame. Manca la connessione improvvisa, la notte perfetta in cui ho riso con Bruno fino alle quattro… Ed ecco che sto facendo lo stesso errore di Già alla conferenza: mi concentro anche io su ciò che manca.

Perché, stavolta, non bado un po’ a quello che c’è?

Ci rifletto su mentre contemplo una vetrina, all’uscita della scuola di lingue in cui ho ottenuto il mio primo incarico come insegnante. Nessuno sembra comprare quei quadri, eppure mi rilassano: interni domestici molto stilizzati, con vasi sul tavolo e gatti acciambellati sul divano. All’improvviso voglio abitare anch’io quella serenità, ma senza dover frequentare corsi di danza Bollywood, o bramare a tutti i costi un ascensore nel palazzo! Deve esistere una mia via alla felicità, e la troverò.

Una sera Già, ignaro di ciò che sta facendo, trascina Bruno fino a casa mia dopo una riunione allo Spazio: l’ora di cena è passata, e io ho ancora un po’ della zuppa avanzata a pranzo. Una volta che si è riempito lo stomaco, Bruno inizia a lamentarsi del lavoro che ha dovuto accettare per non rimanere in bolletta. Già e io lo ascoltiamo poco, intenti a passare in rassegna i pochi libri che ho portato nell’attico gelido: ho ancora difficoltà a leggere narrativa contemporanea, ma Già non mi sfotte per questo, anzi. Scopriamo di amare lo stesso personaggio di Trono di Spade, che è anche il più odiato dai nostri amici italiani.

“Che ossessione, con Trono di Spade!” insorge Bruno. Lui non legge “quelle robe lì”, e non guarda neanche la serie, okay? Lo lapidassimo pure!

Invece lo ignoriamo. Non ho neanche il tempo di sperare che Bruno si ingelosisca: mi interessano davvero le opinioni di Già. Sarà lui a confessarmi che uscendo da casa mia aveva chiesto: “Secondo te ho delle speranze, con lei?”. C’era dell’affinità, aveva borbottato Bruno, che si traducesse in qualcos’altro era tutto da verificare.

Lo “verifichiamo” a un concerto che si tiene allo Spazio: uno di quelli che di solito Bruno diserta, perché si balla. Nella foto che posteranno poi sul sito risulto sfocata, un faretto rossiccio mi trasforma il sorriso in uno scippo sul volto. La mia felicità è quasi oscena, ma la vita non è certo tornata con Già: è entrata solo quando ero pronta ad accoglierla di nuovo.

Alla fine Bruno è venuto al concerto, ma nelle foto non c’è mai. Rimaneva immobile accanto a noi mentre Già mi avvolgeva le spalle, poi scambiava la mia confusione per abbandono e mi cingeva la vita. Quando mi ha vista impallidire, non ha avuto bisogno di chiedermi nulla: a un mio cenno ha avvisato Bruno che andavamo a prendere “una boccata d’aria”.

Quando sono tornata a scorgere Bruno, lui usciva dal portone dello Spazio e io ero lì fuori, che baciavo Già. Era un bacio da ragazzini, così lungo che a un certo punto ho riaperto gli occhi.

Ho fatto in tempo a intravedere Bruno che indugiava un momento, come a valutare se raggiungerci o no. Era rimasto solo e forse era seccato, o un po’ geloso, o inesorabilmente contento per me, e soprattutto per il suo nuovo amico.

Poi a un certo punto non l’ho visto più.

A venerdì per l’ultimo capitolo!

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Ricambio

Nella stanza mi assale l’aria.

Mi arroventa la pelle con un odore dolciastro, e la sua immobilità mi colpisce più della stanza stessa: è rimasta uguale a quando ci dormivo e venivo svegliata dalle auto che correvano in strada. Bruno non mi ha aperto la porta coi libri già in mano, come avevo sperato, poi si è sorpreso di vedermi nei jeans che all’improvviso preferisco ai soliti abitini. Adesso si stende sul letto, gettandosi addosso la coperta che doveva avvolgerlo un istante prima. Dà per scontato che siederò alla scrivania, di fronte a lui, ma non mi osserva per sincerarsene. Con lo sguardo fisso davanti a sé, come quando mi stava mollando, mi parla di una malattia che di solito è innocua, ma che a sentirlo quasi lo ammazzava.

La vera malattia è un’assenza che io non posso colmare. Posso solo agguantare i libri e trovare una scusa per filarmela, ora che sul serio mi viene l’affanno. Almeno non ho bisogno di chiedergli dove sia il bagno. Mi fa sorridere la tazza sbreccata, orfana del mio spazzolino. Poi poso gli occhi sullo specchio e soffoco un grido.

Ho delle macchie rosse sul petto. Anche il collo è picchiettato da puntini dello stesso colore. Che sia una risposta cutanea alla mia agitazione? Ma no, mi succede anche quando faccio docce troppo calde… In ogni caso, pochi minuti in quella stanza mi hanno lasciato quei segni addosso.

Tornando in camera non resisto: mi offro di aprire la finestra. Bruno non risponde subito, l’idea sembra spaventarlo un po’. Ma non si oppone, abituato com’era a me che provavo a fargli del bene. A volte ci riuscivo pure. Mentre recupero la borsa, un fruscio smorzato mi ricorda l’altra missione da compiere.

“Biancheria!” grido come un’imbonitrice, mentre la bustina cade sul letto. “Tienili pure, che non sono della mia misura…”.

Lui osserva i boxer puliti che aveva lasciato a casa mia una delle ultime volte. Non sono stata in grado di buttarli, né di restituirglieli prima di adesso. Non cambia espressione, sembra riflettere.

“Meno male” sentenzia infine. “Un ricambio mi serviva proprio”.

Adesso ho abitato il suo dolore.

Me lo sono visto addosso, e mi sono accorta che ne conoscevo ogni tratto. Tutto ciò che posso fare è lavorare il mio, di dolore: trasformarlo in noia, nell’esercizio quotidiano che ci vuole a star bene. È una routine impeccabile, interrotta solo dai nostri incontri sporadici. Tutti ridicoli.

“Dobbiamo trovare una fidanzata al nostro Bruno!” ammicca una ragazza alla festa di tesseramento dello Spazio. Lo dice come se progettasse una spedizione in Antartide. Mi limito a un sorriso e a un’alzata di spalle: in quel caso perfino lui, a evento finito, mi manda un messaggio per dirmi che gli dispiace per “l’incidente”.

Ma sono esposta di continuo a situazioni del genere. Una settimana prima, dei Morti di Figo mi avevano proposto davanti a tutti, a mo’ di sfida, di “sedurre Bruno”, che aveva gli occhi altrove. Io avevo scherzato: “Ah, no, Bru’, lo sai che con me non hai nessuna speranza!”. Non avevano riso, ero passata per una che se la tirava.

Un’altra sera lui è molto loquace, mi afferra le spalle come se ci si volesse appoggiare, e io mi irrigidisco a quel tocco ormai estraneo. Poi mi scopro a osservarmi le braccia come se quel gesto, da solo, potesse lasciarmi addosso dei lividi.

Un istante dopo, dalla piazza su cui affaccia lo Spazio ci giungono accordi che riconosco subito, e Bruno deve interrompere il suo sproloquio per osservarmi. Scusa, faccio, questa canzone mi mette un po’ d’ansia. Lui sorride all’idea: perché Mr. Brightside dovrebbe mettermi ansia? Non rispondo. In testa mi risuona il rullare monotono della cyclette, lo strusciare delle mie gambe magre, la battuta d’arresto delle ruote mentre visualizzo lui a letto con la Biondissima, a schermi unificati.

Prima o poi parleremo sul serio, ora lo so.

Il momento arriva quando meno me lo aspetto, a una serata in cui siamo complici almeno nella determinazione a sentirci esclusi. La padrona di casa se ne accorge, e ruba tempo ai suoi ospiti fighetti per parlare con noi due: forse ci tiene entrambi nel suo elenco di persone strane, e ci intrattiene come i bimbi che siamo (o eravamo), fino alla fine della festa.

La questione viene fuori all’improvviso, mentre sotto i lampioni di Gràcia dividiamo la strada per la metro. C’è subito accordo su una cosa: lui non vuole parlare della Biondissima, e io approvo in pieno la sua risoluzione.

Riusciamo lo stesso a fare le quattro, davanti alla metro ormai chiusa. A un certo punto lui alza la voce:

Dopo non sono mica tornato da te con la coda tra le gambe!”.

Lo rivendica come se quella fosse una gran prova di rigore morale. Io non gli dico che mi sono scoperta a scrutare le invitate anche alla festa di quella sera: di sicuro gliene piacevano almeno un paio, se soprassedeva sulla scarsa altezza di una. Non gli parlo dei digiuni, né dell’istante sul balcone. Inizio a indottrinarlo sulla vulgata junghiana, come farei con le “seguaci” del mio blog.

Non fare come me, gli dico, non restare con la fame. Prima o poi, la parte di te che stai ignorando si libererà dall’angolo in cui l’hai rinchiusa, e ti trascinerà nella prima esperienza insalubre che le dia l’illusione di saziarsi. Tanto vale che la nutri tu, concludo. È l’unico modo per non esserne schiavi.  

La parte più convincente della predica è quella in cui scoppio a piangere.

Un istante dopo, mi ritrovo premuta contro i bottoni della sua giacca. È un abbraccio diverso da tutti quelli che mi ha dato. È l’abbraccio di due che hanno sofferto insieme senza accorgersene.

Quest’abbraccio qui non lascia lividi.

A mercoledì per il seguito!

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I will survive

Va a finire che rimando sempre.

Non vado mai da Bruno a prendere i libri per l’esame di omologazione: ogni giorno sfido me stessa a non contattarlo, e comunque sono troppo occupata a litigare con la coordinatrice del corsetto online, che avrei dovuto iniziare quando era cominciata la crisi. A quanto pare sarei stata offensiva nei toni con cui ho criticato una delle letture obbligatorie: l’accusa non mi è arrivata in privato, ma è stata postata nel forum virtuale condiviso con gli altri alunni. La coordinatrice è una dottoranda senza titoli per insegnare. La sua professoressa, una figura carismatica nel mondo delle lettere catalane, finirà nei guai per il suo ruolo nell’organizzazione del referendum indipendentista. Intanto dalla segreteria mi fanno sapere che non riavrò neanche un centesimo, se mi ritiro ora che il corso volge al termine.

Anche l’estate sta per finire. L’Amico per eccellenza mi ha raggiunta a Barcellona, ma invece di cercare lavoro come si proponeva se ne sta perlopiù tappato in camera, spaventato all’idea di parlare male lo spagnolo. Ogni tanto perdo le staffe anche con lui.

La parte più odiosa di quando provi a cambiare vita è scoprire che questo non cancella le vite precedenti, e soprattutto le loro conseguenze, che ti accolli come se fossero minori a carico. Resta una punta di rancore verso questa te che prima te le ha affibbiate, poi si dilegua a poco a poco. D’altronde, neanche lei sparirà dalla sera alla mattina.

A un certo punto mi scrive la Divina, quella troppo bella perché Bruno la aggiungesse subito a Facebook: mi racconta di essere venuta alla festa del Poble-sec, il mio nuovo quartiere, e che tra le persone che la accompagnavano c’era Bruno. Peccato non esserci viste, credeva che lui mi avesse avvisata! Forse è stato dopo quel messaggio che ho inviato la critica “offensiva” al corso virtuale.

Ne sa qualcosa anche l’Amico, specie quando lo lascio tre minuti a governare una pasta risottata che mi sto sudando da mezz’ora, e lui la fa scuocere. Mi trattiene a stento dall’afferrare la borsa e piombare fuori, in cerca di una pizzeria da asporto. Io quella roba non la voglio, dichiaro: d’ora in avanti non manderò giù mai niente che non mi piaccia sul serio! Poi finisco per decidere che la pasta non è poi così scotta.

La rabbia è buona, mi ripeto, basta saperla usare. E poi se ce l’ho è perché non ci sto: non trovo più normali delle situazioni che, prima, mi lasciavo scorrere addosso.

Così cerco attività che mi facciano bene. Nelle pause studio sto passeggiando molto per i parchi, e prendo lezioni di lingue negli istituti comunali: in metro, mentre scappo al corso di francese, vedo dei ragazzi francesi andare in spiaggia e penso che vorrei essere loro, conoscere già la loro lingua per saltare il corso, andare a farmi un bagno… Ma non so più affidarmi alla gioia, ai piccoli piaceri imprevisti: mi fa paura l’idea che non dureranno, che all’improvviso mi si ritorceranno contro. Così risolvo prima le incombenze noiose.

La Casa degli spiriti è stata affittata con un contratto regolare, e con un forte sconto perché l’inquilino soprassedesse sulle condizioni disastrate. Non sento troppo l’esigenza di uscire, dunque rientro sempre nelle spese, anche se non arrivo a risparmiare niente. Sono così pallida che sembro anemica, studio tutto il giorno e rimando sempre il momento di sentire Bruno: i pochi contatti con lui non sono stati incoraggianti.

L’ho visto allo Spazio, a una proiezione di inizio estate: il Figo, che ormai spadroneggiava senza me a fargli concorrenza, ha buttato tutto in caciara, con tanto di DJ set finale. Io mi sono ritrovata accanto alla borsa un bigliettino anonimo, che si è rivelato un invito a ballare, e per scoprirne l’autore è partita una caccia all’uomo che ha finito per divertirmi. Bruno non partecipava: attendeva sul ciglio della pista improvvisata che finisse l’ennesimo tripudio swing, messo su a beneficio degli invitati catalani. Quando è scattata l’immancabile I will survive mi sono unita alle danze, iniziando a cantare a pieni polmoni. Ci ho messo un po’ ad accorgermi che non ero l’unica: alle mie spalle, con voce più potente della mia, Bruno masticava le parole di Gloria Gaynor con una furia che non gli conoscevo. Anche in una festicciola scema, l’unica cosa che ci univa era il dolore.

Allora ho abbandonato la pista, e mi sono accorta della coppia.

Si sarebbero sposati di lì a poco, per questo lui non frequentava lo Spazio come prima: lei lo aveva coinvolto nei corsi di danza così in voga tra le ragazze barcellonesi, e lui dichiarava ridendo che, se non ci andava, poteva dire addio alle nozze. Ma ora eccoli che danzavano insieme, trasformando I will survive in una canzone swing. La musica che ballavano, la sentivano solo loro.

Tornando a casa non ho fatto girare subito la chiave nel portone: mi sono allungata sul vicino Passeig de l’Exposició, tra gli alberi che ondeggiavano e le ultime cicale. La voglio anch’io quella danza, mi sono detta, Bruno e io siamo buoni solo a gridare schiena contro schiena, giurando a noi stessi che sopravviveremo.

Solo allora ho ripensato sul serio alla donnina in camicia da notte, che urlava al di là del cancello. L’avevo sorpresa a tentare la fuga dall’ospizio il giorno in cui la storia con Bruno doveva iniziare davvero. Avevo promesso di farle visita.

Quando trovo il numero della casa di riposo, non mi risponde nessuno.

Ci penso un intero pomeriggio prima di scrivere a Bruno: magari può bussare lui un attimo? È ridicolo estendere al di là di ogni logica la mia lotta quotidiana per non scrivergli! Un messaggino veloce mi risparmierebbe il viaggio fino alla strada di casa sua, e pure l’ansia nell’intraprenderlo dopo tanto tempo (ma questo non glielo dico). Lui risponde quasi subito, gentilissimo, e si impegna ad aiutarmi: mi assicura che non gli costa niente.

Quando svanisce nel nulla lo sollecito solo una volta, poi aspetto altri giorni. Infine scovo un numero alternativo, poi un altro, finché la figlia della donnina in camicia da notte non mi informa personalmente, e con molta diffidenza, che a giorni trasferirà la madre in un istituto migliore, appena fuori città. Meglio non destabilizzarla con la visita di una sconosciuta.

Riattacco avvilita da quella mia promessa non mantenuta, e al rimorso si unisce una rabbia improvvisa verso Bruno: perché impegnarsi ad aiutarmi, per poi farmi perdere altro tempo? Alle mie accuse in chat, lui reagisce attaccando.

“La tua era una scusa” sostiene con una sicurezza che mi manda in bestia. “Cercavi solo un pretesto per parlare con me. Lo so perché sto passando anche io per un’esperienza simile”.

Non trovo la forza per rispondere. Dopo settimane trascorse ad annegare nei libri, e a passeggiare con l’Amico, e a lottare con l’ansia pur di non chiamare lui, per una volta che faccio uno strappo alla regola e chiedo un favore (entrambe operazioni che mi costano tantissimo), scopro che non ho neanche diritto a un dolore che sia mio! Ma già, l’unico a soffrire al mondo è lui, per una che ci ha messo trenta secondi a lasciarlo perdere… Ah, beata lei! Stavolta la rabbia ci mette un po’ a trasformarsi in singhiozzi.

L’Amico si rassegna a entrare in camera senza bussare, sapendo di trovarmi rannicchiata sul tatami che già marcisce per l’umidità. Mi accarezza la fronte come se fossi una bambina malata.

“Perché ti accanisci, cazzo?”.

Non so spiegarglielo: forse voglio una prova che con Bruno non sia stato tutto vano, uno schifo che mi abbia sottratto solo tempo e salute mentale.

Ma queste prove si trovano solo in fondo a certe sabbie mobili: ti danno l’illusione di potertici aggrappare, e invece ti rendono così pesante che cadi ancora più giù.

Adesso so che facevo bene a evitare contatti, che voglio restare nel mio mondo sicuro, coi parchi vicini e l’Amico che si occupa di me.

Quando mi sarò rimessa un altro po’, andrò a prendermi i maledetti libri.

A lunedì per il seguito!

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Sorpresa

Ci risiamo.

Sapevo che l’avrei trovato allo Spazio per il tirocinio improvvisato, ma ora lo vedo concentrato davanti ad appunti presi prima che la lezione abbia inizio, e sento di nuovo quella strana affinità. Sia Bruno che io abbiamo inseguito qualcuno che ci ha fatto a brandelli, e ora proviamo a rimetterci in sesto. Il piano di lui passa per rimediare un “pezzo di carta” che gli faciliti il trasferimento in un altro paese, e si è già letto tutti i libri consigliati per il corso. A modo suo ce la sta mettendo tutta, come me d’altronde.

Mi fa sorridere l’insegnante ingaggiata per l’occasione, che fa esempi di grammatica contrastiva nella lingua della Biondissima e poi dichiara di “non percepire nessun attrito tra noi”. Durante la pausa, invece, le altre tirocinanti mi prendono da parte appena Bruno si allontana. Tra poco è il suo compleanno, mi ricordano come se ce ne fosse bisogno, ma lui non vuole celebrarlo “per ovvi motivi”. Prima che possa scappare vengo messa all’angolo: la sera del compleanno lo Spazio è occupato… Chi avrebbe casa libera per ospitare una festa a sorpresa?

No, eh! Per una volta sono io che “ho da fare”, come ripete sempre Bruno. In attesa della ripartenza promessa a mia madre, sto traslocando a puntate con un furgoncino che costa meno dei carrelli, anche se a guidarlo sono gli stessi della mudanza. Sono stanca, dico alle ragazze, non ho le energie per organizzare pure questa roba… Insistono, ignare di ciò che mi stanno chiedendo. Portano loro da mangiare, puliscono loro. Per favore. Sarà anche un bel modo di inaugurare casa mia!

“Bruno non sospetterà nulla” conclude una. “Sta così male che ha bisogno di noi”.

Beh, se lui sta così male.

Ho il tempo di godermi la prima sera in casa nuova: sulla finestra che dà sul terrazzino, una piccola lanterna avvolge tutto in una luce calda. L’aria è intrisa d’acqua, odora di resina e fiori estivi. Sognavo da un po’ di vivere in quel quartiere inerpicato sulla collina, e ci sono riuscita quasi per caso.

Niente accade per caso, mi rimproverano le autrici junghiane dagli scatoloni che non ho ancora aperto: i loro libri già ammuffiscono in quell’umidità, ma finalmente mi addormento serena. Restituendomi le chiavi di casa vecchia, il conducente del “furgoncino per traslochi” (che però odorava di frutta) mi ha chiesto sorpreso perché vivessi da sola. Non ce l’avevo un marito? Ho risposto con una risatina falsa.

La sorpresa in sé riesce senza intoppi, grazie ai leggendari ritardi di Bruno: tanto crede di dover “solo” inaugurare il mio attico gelido, non c’è mica fretta. Così gli viene un colpo davanti al coro stonato degli auguri, e dopo qualche sorriso e due strette di mano passa la serata a giocare coi pochi invitati sotto i dieci anni, che in realtà vorrebbero uscire a correre nei parchi vicini. Come in una favola, si alza dalla sua sedia solo prima di mezzanotte.

“Mi sembra di essere rimasto il tempo adeguato” borbotta tra sé, e allora capisco: non è solo la condiscendenza con cui risponde alla generosità altrui.

La festa l’ha privato del suo lutto, del lusso nefasto di non celebrare perché non se la sente. Il bello è che forse l’unica che può capirlo, là in mezzo, sono io.

Mi manda un messaggio di ringraziamento la sera dopo, mentre ritorno dal mio giro di ricognizione del quartiere: nella parte alta, su scalette di pietra costeggiate da rampicanti, dei gatti selvatici vivono liberi e ben sorvegliati. Un bel ragazzo seduto a un tavolino del carrer Blai ha fatto una faccia sorpresa nel vedermi avanzare nel tubino bordeaux: sembrava davvero contento di ammirarmi le ossa, che si vanno rimpolpando piano piano. Per un po’ ci siamo inseguiti con lo sguardo, sorridendo delle frasi di incoraggiamento degli amici di lui. Poi sono passata oltre, e il messaggio di Bruno mi ha fatto ripescare il telefonino dalla borsa. Già che ci sono, sulla salita per tornare a casa nuova mi metto a cercare anche le chiavi.

Non ci sono.

Per antica abitudine sono uscita con le chiavi della Casa degli spiriti, e l’indomani ho l’aereo per tornare da mia madre a consolarla del lutto. L’attrice che mi aveva segnalato l’attico gelido è fuori città, e il padrone di casa, che mi affretto a contattare, può vedermi solo l’indomani.

Eccomi di nuovo esclusa da casa mia.

Penso in fretta. Ho in borsa il documento per partire, e nella Casa degli spiriti mi è rimasto qualche vestito… Ma no, io lì non ci voglio tornare a dormire, mai più. E poi che ansia, partire senza le chiavi giuste!

Quando alla fine mi viene aperto almeno il portone, i vicini del palazzo di fronte mi vedono sollevare fino ai fianchi il bel vestito bordeaux, nel tentativo di calarmi sul terrazzino attraverso la staccionata a rombi: mi si pianta una scheggia di legno nella scollatura. Mentre attendo il “fabbro h24” reclamizzato da un bigliettino all’ingresso, me ne rendo conto. Eccomi di nuovo chiusa fuori dalla mia vita, come quella volta che erano arrivati i pompieri.

Stasera il problema si è invertito: ho il mondo a disposizione, e l’unica parte che mi preme occupare è lo spazio angusto della mia nuova casa.

Ma il sedicente fabbro non arriva mai, e anche Bruno è sparito. Gli ho spiegato cos’è successo e lui, dopo un attimo di sorpresa, ha smesso di messaggiare. In fondo, che gliene frega?

Nonostante le mie sollecitazioni, e gli accenni alla partenza da organizzare, i “fabbri” giungono dopo più di un’ora: tre ragazzi latini, che mi imbottiscono di chiacchiere per fare un lavoro a metà e chiedermi una cifra spropositata, che con loro alle calcagna devo prelevare apposta al bancomat. Se mi ribello, che ne so di come reagiranno?

Una volta intascati i soldi, quello che sembra essere il capo (e l’unico che sappia il mestiere) mi rivolge la stessa domanda del facchino pakistano: abito tutta sola, come mai? Gli uomini che conosco non hanno gli occhi?

“Domani ti accompagno all’aeroporto” si offre. “Per te il passaggio sarebbe gratis, eh”.

Me lo ripete due volte, che è gratis. Proprio non capisce perché gli dica di no.

A venerdì per il seguito!

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Fiori da un’amica

Ottocento è troppo, seicento è giusto.

Ma un fesso disposto a cacciare mille euro sarebbe facile da trovare, per il bell’uomo brizzolato che mi mostra l’attico gelido. È una casa che funziona per esclusione. L’unica stanza degna di questo nome va adibita per forza a camera da letto, trasformando così in salotto lo spazio che la unisce a una sorta di insenatura oblunga: la cucina. Da quella, tre gradini portano a una piattaforma spoglia che è stata sottratta al terrazzo condominiale, insieme a un terrazzino delimitato da una staccionata a rombi. Al di là della staccionata intravedo piantine di marijuana, e la bandiera indipendentista che, mentre arrancavo sulla strada in salita, ho visto svettare sulla facciata color bianco sporco. Le pareti sembrano fatte di carta velina: sentirò tutto ciò che dicono e fanno i vicini. A quanto pare sono pochi, e quasi tutti musicisti, il che non mi rassicura sui rumori molesti… Ma sarà una convivenza pacifica, mi promette il proprietario, e capisco che è cresciuto lì dentro come l’uomo col mastino era cresciuto nel palazzo che reclamava come suo. Solo che questo bell’uomo brizzolato, che nel profilo gmail sta facendo yoga, possiede il suo palazzo per davvero, l’ha ereditato dal padre. Forse è per questo che sfodera un sorriso zen, quando gli chiedo il prezzo e mi preparo a trattare: ottocento è troppo, seicento è giusto.

“Voglio solo quattrocentosettanta euro” annuncia lui.

Ho la faccia di culo di chiedergli uno sconto.

Ovviamente respinge la richiesta, ma si vede che gli sto simpatica. Quello che non sa è che, due ore prima del nostro incontro, mia madre mi ha chiamato per annunciarmi che la nonna era morta. Poche settimane prima, a Pasqua, nonna mi aveva rimproverato benevola perché non ero andata da lei.

La reazione immediata alla notizia è stata quella di “fare cose”: dopo una ricerca folle quanto vana per partire quella notte stessa, ho acquistato il biglietto aereo per presenziare almeno al funerale. Poi mi sono sciacquata il viso: non potevo permettermi di aspettare oltre, dovevo aggiudicarmi l’attico prima di partire.

Salutato il mio nuovo padrone di casa, per omaggiare la nonna visito tutte le chiese che trovo: mi incuriosiscono le madonne sugli altari. Quella del Carme quasi si dimentica di reggere il bambino, che sembra schiaffato lì a giustificare la presenza di una donna su un altare cristiano. La Grande Madre è ancora tra noi, direbbe la junghiana.

Mia nonna era la grande madre della “famiglia degli gnocchi sfatti“. La sua, di madre, l’aveva messa a balia quando era ancora più piccola di quel bambino sull’altare, e la balia era come una madre per lei. Quando la famiglia di sangue se l’era “ripresa”, lei aveva pianto molto. Ti riportiamo a casa, le avevano promesso. Chissà se nonna si sentì mai a casa da qualche parte.  

È come uno strappo che nella mia famiglia, saltando qualche generazione, si trasmette di donna in donna: la separazione da una casa reale o immaginaria, che resta lontana anche quando ci siamo dentro.

Gli uomini che ci procuriamo “noi dello strappo” sembrano più brillanti, più interessanti di noi, ma è così evidente che siamo noi a sostenerli che mi chiedo come il particolare sfugga ai più. Mentre accenno un inchino alla madonna del Carme, mi rendo conto che da quando sono adulta mi deve ancora succedere, che uno sostenga me.

***

Chi vive fuori arriva sempre tardi.

Ammesso che fai in tempo per l’addio, non sei stata lì fin dalle prime ore. Sei eternamente in difetto con chi resta.

Io sostengo mia madre nella camminata rituale dietro al feretro: vedere mamma struccata in mezzo a tanta gente mi dà la misura del suo dolore, dello scompiglio portato da un lutto. Stringo mani, mi faccio strada tra volti che non riconosco più, mentre cerco una risposta adeguata alle condoglianze.

Quando mamma annuncia al cimitero che le ossa del nonno riposeranno insieme alla moglie, senza pensarci commento: “Certo che lui sarà entusiasta!”. Lo dico perché coi cugini, passeggiando tra i viali costeggiati da lapidi, abbiamo appena rievocato i litigi un po’ comici di quella coppia d’altri tempi. Anche mamma risponde con uno scherzo, ma si vede che c’è rimasta un po’ male.

“Too much” commenterebbe forse Bruno. Penso a lui solo in quel momento, e penso pure allo Spazio. Devo ripartire la mattina presto per quella sorta di tirocinio che inizia proprio l’indomani: perché l’omologazione funzioni, la frequenza dev’essere obbligatoria. Mia madre è livida al pensiero che io riparta già, ma le ho promesso che tornerò.

Penso a tutto questo mentre vedo la nicchia richiudersi sulla mia infanzia, sui nonni e sui loro litigi davanti agli gnocchi che si sfrangiavano nel cucchiaio. A riscuotermi è una voce che ricordavo giovane. Girandomi mi trovo davanti un uomo distinto, dai capelli bianchi.

“Questa signorina da piccola era splendida, e adesso è solo bellissima!”.

Ci metto un po’ a riconoscere il mio “primo amore”: così lo chiamavano ridendo, in famiglia, quando a quattro anni lo invocavo per giocarci insieme. Lui di anni ne aveva una ventina, e mi trovava molto buffa, e adesso che ha una moglie della mia età è tra quelli che ancora mi ricordano come “una delle più belle bambine mai incontrate”.  

“E poi cos’è successo?” provo a sorridere.

Ma lui me l’ha appena detto con adulazione affettuosa: da bambina ero meravigliosa, adesso sono “solo” bellissima. Tra me e me lo correggo: più che altro sono “solo” io, io e basta.  

Prima di lasciare il cimitero, un fratello di mio padre ha sottratto dei fiori freschi alla nicchia appena chiusa: li ha portati alla mia nonna paterna, che non ho mai conosciuto. Le mie due nonne erano colleghe a scuola, ed erano cresciute insieme come sorelle. Lo zio è soddisfatto del suo furto innocente:

“A mamma ho detto: ‘Te li manda l’amica tua’”.

Il giorno dopo, mentre scendo dall’aereo che mi ha ricondotta a Barcellona, mi accorgo che non sono tornata da sola: mi sono portata dietro tutte le donne della mia famiglia.

D’ora in avanti camminano tutte insieme a me.

A mercoledì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

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