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Salsa romesco. Da tierra.it .

No, paiella e sangria a Plaça Reial proprio no!

Ok, all’inizio ci caschiamo proprio tutti (ehm…), ma se i primi tempi non avete una cucina a disposizione e non volete farvi un fegato così di pinchos, elaborate un piano B (tanto più che il più turistico dei menù, ultimamente, sotto i 10 euro non tanto va).

Allora per non ritrovarvi alla fatidica “cita previa” del Nie con l’apparato digerente che grida aiuto in catalano, mi permetto di suggerirvi una serie di proposte low cost per mangiare relativamente sano (ok, per non avvelenarvi) e allo stesso tempo affrontare i km che vi toccheranno per consegnare curriculum.

Cominciamo!

  1. A scrocc’. Ok, questa opzione la scarterei ma in tanti la seguono, quindi riferisco. C’è un tempio sikh in c. Hospital 97. Chi si presenta per pregare viene rifocillato con tè e un dolcetto, e una palla di acqua e farina con tutto un valore simbolico. Sotto il Ramadan, invece, la comunità musulmana di Barcellona organizza spesso degli iftar (cene post-digiuno) collettivi, che potrete rintracciare su Internet. Tutti benvenuti, sono molto ospitali e cucinano, mo’ ci vuole, da Dio. Anche alla Festa della Luna Nuova in Casa del Tibet c’è un piccolo buffet dopo l’oretta abbondante di mantra. Capirete che questi sono più che altro eventi sporadici per conoscere culture e religioni presenti a Barcellona. Vipregovipregoviprego, la mancanza di rispetto e l’umorismo d’accatto lasciateli a questa qui.
  2. Per pochini pochini soldini. Scusate la citazione di Concetta Mobili, ogni tanto le radici chiamano. Di ristoranti “sozzi ma economici” ce ne sono a bizzeffe, Romesco è pure vicino alla Rambla e potete vedere cosa combinano nella cucina “esposta” agli sguardi. Ma come miglior rapporto qualità prezzo raccomando sempre la cucina di Xandri, casereccia e buonissima! Tre portate, con dolce e acqua o vino inclusi (ricordate però che per “postre” si può intendere anche un frutto), consumate nello stesso “vascio” in cui vivono i proprietari. Frequentatissimo dai muratori, che com’è noto sono le migliori guide gastronomiche!
  3. Ma tu vulive ‘a pizza? Prova questa! Mentre scrivo ci trovi marinara a 4,50, margherita e a portafoglio a 5. Ed è ottima! (Per dirlo io, che so’ ‘na cacaca’…)
  4. Esotico a chi? Breve rassegna innamorata dei ristoranti più economici (senza avvelenare) di cucina non europea. a) L’equivalente cinese di Xandri, in c. Nàpols 97, è fantastico: famigliola che vive in un soppalco dello stesso ristorante in cui lavora, marito in cucina e moglie in sala. Perfino vostra madre rischia di gradire le tagliatelle cinesi fatte a mano! Se pagate più di 7 euro un piatto con una bibita, vuol dire che avete scialato. b) A proposito di 7 euro, fino a qualche anno fa era questo il prezzo del menù del Tempio Hare Krishna vicino alle summenzionate paellas surgelate di Plaça Reial. Non so se funzioni tutto come una volta, ma io proverei a bussare, prima di buttarmi su quelle! E sì, colleghi veg, qui potete mangiare quasi tutto anche voi (ma continuate a leggere, ho buone notizie!). c) Cous cous fresco ogni venerdì in c. Hospital all’angolo con Riera Baixa (quello col nome solo in arabo). 7,50 a piatto e mangiate in due! Menzione speciale anche per il maghrebino di fronte alla chiesa di Sant Pau, che pure lo fa “a livello”. Non tornerete mai più al precotto Barilla. Non sono fan della Paloma Blanca, ma durante il Ramadan provate il menù apposito a 7 euro circa. d) Chiudo questa sezione con due pakistani ultraeconomici: Bismillah su c. Joaquin Costa, e il girarrosto/take away su c. Riera Alta, nei pressi di Tecnocasa. In entrambi riso ottimo e abbondante, anche in versione vegana, sui 2 euro! Magari nel secondo, se chiedete “dove potete sedervi un attimo a mangiare”, vi lasciano il retrobottega, ma chi lo sa. Per inciso: di fronte, angolo con Bisbe Laguarda, ci sarebbe il take away del mio ex, con dell’ottimo pane naan anche condito e il miglior palak paneer (spinaci e formaggio fresco) di Barcellona. Ma forse è meglio che non facciate il mio nome.
  5. Alimentatevi di cultura! Ok, le mense universitarie non sono esattamente la prima scelta per mangiare sano, ma in giorni speciali hanno piatti a 2,50 e il menù, se vi attenete a quello, viaggia anche sotto i 7 euro. Inoltre sono spesso rifornite di forni a microonde in cui potreste scaldare dei piatti pronti comprati ai banchi del mercato (Sant Antoni e Santa Caterina sono più economici della Boqueria), in negozi specializzati o al massimo, se di buona marca, al supermercato.
  6. Solo insalata? Ma manco per il ca’: vegetariani e vegani, benvenuti nella prima città dichiaratamente vegan friendly d’Europa! Per festeggiare davvero a prezzi popolari, correte alla mensile Fiera vegana (raccomandata anche agli onnivori, specie lasagne e piatti vari dell’italiano Horno del Silenzio), e tenete presenti i ristoranti che fanno menù vegetariano con opzione vegana anche per 8 euro. C’è perfino un cinese totalmente vegetariano, o vegano su richiesta. Sotto i dieci euro, oltre al tempio di cui sopra, potete anche mangiarvi un buon ramen. E la cucina locale? Tranquilli, ogni giorno c’è una novità, anche fuori Barcellona, ma a portata di metro. E a proposito di novità…
  7. Sapete che c’è di nuovo? A mali estremi, estremi rimedi! a) Andate in uno dei numerosi forni a legna che facciano pane vero, più caro di quelli precotti di catene e minimarket, ma ne vale la pena. b) Comprate qualcosa di facile da maneggiare senza coltello (o, per le forme tonde, ve lo fate tagliare). c) Passate in uno dei mercati di cui sopra, o un negozio di frutta a km 0, o altri negozi “de barrio”. Comprate il vostro companatico preferito. d) Andate in un parco o in spiaggia. e) Godetevi uno spuntino rapido tra l’erba o con vista sul mare… E poi di corsa a distribuire curriculum! Lo farete con un sorriso invitante, qualche avanzo per la cena, e il portafogli felice.

Risultati immagini per barcelona es bona si la bossa sona Ok, ste dritte che vi scrivo qua sotto sono andate bene a me e/o a chi mi ha circondato in un momento o nell’altro della mia vita barcellonese. Come scoprirete leggendo, alcune mi sono simpatiche e altre no, alcune sono rischiosette su vari livelli e altre meno. Scegliete voi quali seguire!

  1. Scartoffie in vista? Provate la PEC! Mi sono iscritta all’AIRE con la Posta Elettronica Certificata. Quella di Aruba, le Poste Italiane non mi lasciavano accedere. Circa 5 euro all’anno, non capisco chi voglia comunque sottoporsi alla sfibrante prova di nervi che sa essere il Consolato. Basta inviare i documenti richiesti scannerizzati, e amen. (Attenzione, per l’AIRE: i requisiti nel modulo non sono aggiornati, l’empadronamiento non è facoltativo).
  2. Andare in aeroporto col biglietto della metro? Si può! La L9 non sempre è conveniente, se date un’occhiata alla mappa. Per chi vive vicino al centro, spendere i 6 euro di aerobus risulterebbe poco più caro rispetto ai 4,50 della metro per l’aeroporto, magari senza lo sbattimento del cambio di terminale. Ma se il vostro aereo parte a un orario comodo, avete poco bagaglio e non vi dispiace anticiparvi, potete prendere il treno o l’autobus. Al costo di una corsa normale.
  3. Vi servono mobili? C’è il dia dels trastos! Un giorno alla settimana, in ogni quartiere si raccolgono i mobili da buttare. Un’idea comune anche agli autoctoni è munirsi di auto e andare a caccia nei “pijibarrios” (i quartieri ricchi: Sarrià, Sant Gervasi…). A volte, invece, non c’è bisogno di uscire dal vostro quartiere, per trovare. Attenzione a disinfettare bene, sul serio: le invasioni di cimici negli appartamenti sono pane quotidiano! È per questo che io preferisco evitare e rivolgermi ai negozi dell’usato che disinfettano e riparano trastos e scarti di trasloco. Ce n’è uno di un vecchio vicino in c. Riera Alta, ma mezzo Raval ha negozi così. E ne trovate un bel po’ anche altrove.
  4. Parles català? Qua imparare il catalano è gratis, o quasi. Con poco più di 10 euro (per il libro) fate il corso base (B1) al Consorzio. Potete anche studiare online nell’ottimo parla.cat. C’è inoltre il servizio di Volontariato linguistico, organizzato anche a livello universitario. Ma come italiani potremmo sfruttare l’affinità linguistica per studiare seriamente per conto nostro (e parlare molto!): io a due anni dal B1, superando un test del Consorci, sono finita direttamente in un intensivo del C (il livello richiesto negli impieghi pubblici), senza fare altri passaggi.
  5. Hablas castellano? Di corsi di spagnolo gratis o giù di lì si favoleggia a proposito del centro Pere Calders: mai capito come funzioni e immagino file apocalittiche. Prezzi ultramodici anche a CatNova e in altri centri. Io mi sono rivolta direttamente all’intercambio de idiomas, concordato con gente trovata tramite annunci privati. Attenzione a chi vuole solo rimorchiare: incontri in zone affollate a orari pomeridiani, e poi decidiamo se proseguire! Per gli italiani ci sono pure un paio di corsi fatti su misura: è bella, l’atmosfera di una classe multiculturale, ma per me è meglio imparare lo spagnolo con gente che sappia cosa sia un articolo. Fate vobis.
  6. Do you speak English? (E Français, Deutsch ecc.) Oltre alle ottime scuole e agli scambi linguistici gratuiti (pure l’urdu e l’hindi!), tra i mille modi di migliorare l’inglese c’è quello di fare volontariato per i senzatetto con quest’associazione, e andare agli incontri di lettura/conversazione di qualche bar tenuto da madrelingua. Ultima dritta sulle lingue: tenete sempre d’occhio la programmazione dei centri civici!
  7. Ricicliamo alimenti. Ok, io sta cosa l’ho fatta una sola volta, costretta da una decisione collettiva in un Comitato, e non la ripeterò mai più. Ma dietro la Boqueria aspettano in tanti quelle cassette di frutta in stato ancora decente, destinate ai bidoni solo perché l’aspetto non è più invitante. Qualcuno invece scopre gli orari in cui al supermercato sotto casa buttano certe derrate unicamente perché si avvicina la data di scadenza, e devono fare spazio a prodotti più freschi e appetibili. Se invece avanza cibo a voi o volete fare una buona azione, portatelo all’associazione Amásdes o chiamateli: vengono a domicilio!
  8. Mangiare bo i barat? Attenzione alle trappole turistiche. Quanto alla cucina locale, nel quartiere è facile individuare la trattoria che ancora cucina alla buona, persino in centro centro. Quanto alla cucina internazionale, mai capito perché si debba andare a un indiano pretenzioso in zona chic se nel Raval ci sono i migliori ristoranti pakistani che abbia provato (e ho vissuto in Inghilterra). Stesso discorso per i maghrebini di c. Hospital all’angolo con Riera Baixa, e il venerdì il couscous è fresco: con 7 euro circa mangiate in due! Infine, dimenticatevi degli involtini primavera, in zona Arc de Triomf ci sono ristoranti cinesi per cinesi. Il mio preferito, in c. Nàpols 97, è così “casereccio” da essere la casa della famiglia che ci lavora. Se infatti al cuoco non gira di lavorare quel giorno, più che a quello famoso di c. Ali Bei  riparerei in c. Roger de Flor. Occhio poi alle tante iniziative con “degustació gastronòmica” che organizzano i centri culturali. E ovviamente alle fiere e ai mercati! Mi sorpende sempre l’idea italiana che vegano significhi hipster. Alla popolarissima Feria vegana c’è la bancarella di un italiano che per pochi euro (3,50 la lasagna) vi farà leccare i baffi qualsiasi dieta seguiate!

Sono ben accetti altri consigli di veterani e neoarrivati, uniti sopravviveremo!

Risultati immagini per matcha latte … E che vi strapperete i capelli per non averci pensato prima! Sempre che ce li abbiate, i capelli. Altrimenti potete fare come Rockerduck, e mangiarvi il cappello! Magari ve lo procuro io, perché, tanto per cominciare…

1. Mi faccio i cappelli guardando Netflix! E li battezzo a seconda di ciò che vedo mentre lavoro a uncinetto. Sono orgogliosa del cappello Orange is the New Black, anche se in tutta sta macedonia di colori è venuto fuori blu! No, gente, non ci vuole davvero niente. Non dovete neanche staccare gli occhi dal video. Amazing Grace mi dà splendidi gomitoli infiniti a 2 euro, e invece di cucirci toppe e gingilli per abbellire faccio di meglio: ci attacco spillette! Al mio ragazzo ho comprato due “A” diverse alla libreria della CNT.  Così se la vede lui: con o senza risvolto, con o senza spilletta… Mi chiedo perché non abbia ancora sfoggiato la mia impareggiabile creazione: il cappello Norman Bates!

E a proposito di fare due cose insieme…

2. Preparo il pranzo sulla cyclette! Sì, lo so che è poco zen, e che Elsa Pataky, nel suo libro di esercizi, si arrabbia con le ragazze che leggono mentre fanno cardio. Ma siccome non aspiro a diventare né maestra zen né figa come Elsa (altrimenti ci riuscirei se-du-ta-stan-te), ho investito in una cyclette e uno step domestici (vedi qui), e li uso sistematicamente mentre faccio altro. Sullo step lavoro al pc e parlo su Skype; sulla cyclette accostata a un piano d’appoggio sgrano fagioli, pelo ortaggi, sguscio nocciole… Quando sto scrivendo scene particolarmente divertenti del mio fantastico nuovo romanzo (lo trovate nei migliori angoli di casa mia, scritto a penna), ho scoperto che una situazione del genere ben si presta a renderle ancora più ridicole. Insomma, come assicurarsi il Nobel e il Premio Fitness in una volta sola! Quando si dice ottimizzare.

E a proposito di ottimizzare…

3. Faccio un’OTTIMA maionese con l’avena! No, al contrario di quanto suggeriscano i miei denti non ho origini equine. Trovo solo che una maionese tutta vegetale sia particolarmente delicata, così l’ho scoperta alla mela (basta usare 5 cucchiaini di purè di frutta al posto dell’uovo nella ricetta) e soprattutto al latte d’avena (che faccio in casa con l’estrattore). Attenzione, perché non venga una brodaglia informe bisogna scaldare un po’ del liquido in un pentolino con la lecitina di soia. Comincio a sospettare che con questo principio si possa trasformare quasi tutto in maionese.

E a proposito di usi insoliti degli ingredienti da cucina…

4. Mi metto la farina sui capelli! O meglio, ogni tanto faccio uno shampoo di farina di ceci. Niente male! È poco pratico perché va fatto ex novo ogni volta, ma se consideriamo che si tratta davvero di mescolare farina, acqua e magari aceto o limone (o un olio essenziale)… La vera svolta c’è stata quando sui capelli mi sono schiaffata l’olio di cocco, in preparazione allo shampoo vero e proprio: mai venuti così morbidi! L’unica è sciogliere davvero un cucchiaino d’olio in una tazzina d’acqua, o vi tenete l’effetto ‘nzevato (unto) a vita.

E già che ci siamo…

5. Non bevo più acqua! No, scherzo, ma per problemi di ritenzione idrica, a cui attribuisco disonestamente anche la trippazza da “me piace ‘o magna’ “, ho preso una sorta di sciroppo alle erbe nella mia erboristeria preferita, che sciolgo in una bottiglia d’acqua liscia da un litro e mezzo. Così quando sono in casa bevo solo quello, e fuori tendo a ordinare l’acqua gassata come se fosse chissà che lusso. Il pancino ringrazia.

E per chiudere con le bevande…

6. Distruggo cerimonie millenarie! È che mia zia mi ha rovinata portando dal Giappone del tè fantastico, che ho scoperto essere matcha. Sì, quello della cerimonia del tè. So che in Italia sia arrivato in una versione cafona che piace anche a me: il matcha latte. D’altronde, a ordinarlo nelle catene hipster, lo mescoleranno pure col pennello d’ordinanza (che a Las Arenas vendono per 15 euro…), ma sono 4 euro a tazzina. Sapete che c’è di nuovo? Investite 13 euro per 100 grammi da una signora a Sant Antoni: ne basta una punta di cucchiaino in 200 ml d’acqua. Vi fate 100 tè in santa pace ed è fantastico. E qui arriva il sacrilegio! In barba alle ricette online rispettose del cerimoniale nipponico, la mia versione è: scaldo un po’ la tazza (vuota) nel microonde, ci verso la punta di cucchiaino di matcha, aggiungo l’acqua quasi bollente, giro e via. Mazinga nun te temo! Consideralo una vendetta per la pizza delle parti tue. Anzi, vuoi una tazza?

https://www.youtube.com/watch?v=C4aZTiiyW7w

 

 

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Da nonsoloshoppingsesto.blogspot.com.es

Quando scesi dall’aereo Napoli-Manchester avevo 22 anni, e non sapevo come arrivare allo studentato in cui avrei trascorso l’Erasmus.

Agli Arrivi trovai un piccolo comitato di benvenuto per studenti: mi scambiarono per una della loro università. Così rimediai un passaggio senza capire cosa stesse succedendo.

Quando uscii dall’Aeroport del Prat di Barcellona, di anni ne avevo 27 e avevo fatto credere ai miei di avere già l’ostello prenotato. Invece presi un taxi (ignoravo l’esistenza dell’Aerobus) e mi feci portare alla stazione di Sants, da cui mi dedicai alla ricerca di ostelli.

Scrivo questo per dire che si parte sempre un po’ alla ventura, ma prima di farlo, secondo me, è meglio disporre di almeno uno dei seguenti requisiti:

  • un gruzzoletto per permettersi di non dormire sotto i ponti intanto che si cerca casa e lavoro (e non scattate col “grazie ar c…”, che non sapete in quanti si vantino di essere partiti con 150 euro);
  • la consapevolezza che, a partire senza progetti precisi, si potrebbe tornare a casa dopo pochi mesi (e la capacità di sopportarlo);
  • facoltativo ma importante: non essere troppo arrabbiati con l’Italia. L’incazzatura ci sta, l’odio profondo porta con sé un problema: scoprire che la rabbia è costante, sono i suoi bersagli a cambiare. Per chi ne è affetto, passare dal detestare gli italiani a fare lo stesso coi catalani è un attimo.

La questione è che, nel confronto Italia-estero, la prima gioca in svantaggio per un unico, fondamentale dettaglio: è una sola, o così crede qualcuno. Mentre l’estero, come idea astratta, ha l’unico grande vantaggio di non essere Italia.

È quindi quel luogo paradisiaco, vagamente mitologico, in cui finalmente potremo realizzarci, dire addio a raccomandazioni e familismo amorale e trovare la felicità. Lo dicono i giornali, parlandoci delle “nostre eccellenze” e sorvolando spesso su chi a 10 anni dalla partenza fa ancora lavori poco specializzati, e vive in stanze in affitto (che ci sta, se i suoi obiettivi erano quelli, ma erano quelli?).

Il problema principale di questa non-Italia? Quando finalmente diventa un posto, un indirizzo a cui bussare per una stanza, una fila in un Commissariato sempre difficile da contattare, si scopre che, contrariamente ai pronostici, viverci non è facile.

Specie se il posto che abbiamo scelto ha più del 30% di disoccupazione giovanile, e magari è una città dove l’affitto medio costa ormai intorno agli 800 euro mensili.

Io non so se chiamarlo selezione naturale, espressione positivista che non amo, il fenomeno per cui gente arrivata a settembre a Barcellona approfitta delle vacanze natalizie per tornarsene in Italia senza far troppo rumore. Credo sia una triste realtà che possa toccare a tutti. Ma soprattutto alle seguenti categorie:

  • ventenne indeciso se partire per Londra, Berlino o Barcellona, che scrive su pagine d’italiani all’estero per chiedere “se c’è lavoro anche per lui, che non parla la lingua locale”;
  • trentenne deluso da Londra e a caccia di sole, ma non di stipendi bassi a fronte di affitti sempre più alti. Si meraviglierà di tre fenomeni per lui inspiegabili: l’inglese qui non compensa l’assoluta ignoranza dello spagnolo; lo spagnolo non è l’italiano con le “s” alla fine; il catalano non è un dialetto;
  • coppia giovane che s’informa sulla vita all’estero solo dopo la partenza. Fuitina 2.0? No, “voglia di mettersi in gioco”. In un posto in cui solo per prendere il NIE ci metti due settimane quando ti va bene. Per fortuna quelli con figli al seguito tendono a informarsi prima un po’;
  • coppia matura che pensa di cambiar vita, ma invece d’investire il gruzzoletto accumulato in anni di lavoro malpagato viene con gli stessi piani del ventenne di cui sopra, e trent’anni di differenza: lavoretto malpagato per “imparare la lingua”. Tra i due profili, indovinate quale assumano;
  • professionista della gastronomia: quando gli spieghi che il prodotto ultralocale che vorrebbe esportare viene già servito almeno in due forni e tre pasticcerie, spiega che però il suo è “artigianale”. Sicuramente gli italiani in loco aspetteranno di assaggiarlo, per cambiare negozio, e gli autoctoni noteranno la differenza;
  • arrabbiato col mondo (vedi sopra): ci sarà sempre un paese migliore di quello in cui si trova ora. Se è in Italia anela alla Spagna, se è in Spagna alla Germania. Però, quando si rivolge a un avvocato per farsi dare una buonuscita più congrua (chissà perché lo licenziano così frequentemente) scopre che, guarda un po’, gli avvocati si pagano. Anche alla prima consulenza. Paese di parassiti, dirà sperperando il sussidio di disoccupazione, quella volta che sia riuscito a resistere abbastanza nello stesso posto per ottenerlo.

Menzione a parte per chi risponde a distanza a un annuncio per cameriere o lavapiatti, senza ancora aver fatto neanche il biglietto aereo. E spiega pure che “Se gli fanno una buona offerta lascia l’Italia e parte”. Non si capisce se quest’offerta gli debba venire prima o dopo che si faccia la fila davanti all’annuncio “cercasi”, esposto cinque minuti fa fuori al locale.

Quindi il mio non è, come può sembrare, un invito a non partire. È un invito ad accompagnare lo “Stay hungry, stay foolish” a frasi un po’ più utili per evitare pure lo “Stay sotto un ponte”.

Partite pure, se volete “mettervi in gioco”, sapendo da prima quali difficoltà troverete e giungendo alla conclusione che non vi fermeranno.

Altrimenti succede sempre la stessa storia:

Così ognuno fugge se stesso, ma a questi di certo, come accade,

non riesce a sfuggire e, suo malgrado, vi resta attaccato e lo odia,

poiché malato non afferra la causa del male.

E se proprio dovete fuggire da voi stessi, almeno fatelo in un posto in cui una stanza stia sotto i 400 euro!

Da trerighe.it

Capita che a volte io sia bella che spaparanzata proprio di fronte alla finestra, e mi dica che vorrei entrare in quel pezzo di cielo.

Perché succeda, dalla mia angolatura la finestra non mi deve contenere nient’altro che cielo, in barba ai palazzi. Gradito un gabbiano di passaggio che mi faccia accertare che no, non sto osservando quel lilla fosforescente che avevo sul Paint dell’Amiga 500: quello è cielo vero, e vorrei essere proprio lì.

Mai fare un pensiero del genere, però, dopo che ho preso un aereo.

Perché in quel cielo ci sarò entrata davvero, ricordandomi che non è proprio così poetico.

A parte la fila al check-in, certe istruzioni di sicurezza a bordo suggeriscono un freddo all’esterno che anche la mia vestagliona domestica si trasformerebbe in ghiacciolo.

Poi non so, di quanto cielo stiamo parlando? Magari all’altezza del gabbiano vagante la respirazione sarebbe ancora ok, ma provassi ad andare un po’ più su, e vediamo.

In effetti se per magia riuscissi ad andare su su su, quel blu dipinto di blu diventerebbe nero come il tizzone, a meno di fare quella che Groupon oggi chiamerebbe “The Icarus Experience“.

Meglio tornare al PC, allora. Al gruppo che modero, d’italiani a Barcellona. Per leggerci gli interventi di quelli che, vedendo le foto del Primavera e del Sonar (maro’), e passando una settimanella sulla Rambla (solo a me ha fatto schifo, la prima volta?), hanno pensato “come mi piacerebbe entrare lì”. Essere parte del firmamento di espatriati che tirano a campare a “Barca” (brivido).

Tanto lo so, che sulla pagina trovo tre tipi di post:

  1. Ciao, come si vive a Barcellona? Se mi arriva una buona offerta di lavoro parto subito!”. Da quando ho letto Vivo altrove, immagino cominci così chi emigrando afferma: “Voglio proprio vedere come mi tratta la mia nuova città”. Spero di non suonare troppo kennedyana se suggerisco che la questione andrebbe posta al contrario: come la tratti, tu, la tua nuova città? Infatti questo genere di post porta al secondo tipo, il mio preferito.
  2. Le risposte alle (rare) offerte di lavoro. Sotto l’annuncio commenta qualcuno che chiede “più info”. Al che arriva la proposta: “Passa di persona oggi pomeriggio”. E la replica è: “Sto ancora in Italia. Ma parto subito, eh!”. Il problema è che: a) per lavorare in Spagna ci vuole il NIE; b) il NIE in questo momento è più irraggiungibile del Santo Graal; c) oggi pomeriggio passerà “di persona” un migliaio di gente già munita di documenti e di alloggio. Il che mi porta al terzo genere di post.
  3. “Possibile che non si trovi una stanza, in questa città?!”. E io già a far sì con la testa, che gli affitti sono diventati impossibili. E poi è vero, alle e-mail degli annunci non rispondono nemmeno, tanta è la domanda. Uh, delle truffe online non ne parliamo! Poi però, alla soluzione più avanguardistica che io possa suggerire (“Scegliti un quartiere e chiedi in giro a chiunque”) viene risposto con sufficienza: “Ovvio che sono ancora in Italia! Non sono mica così sprovveduto da partire senza prima aver trovato stanza”. Dolce figlio dell’estate! A parte che conosco una che nove anni fa è atterrata senza neanche un posto in ostello (e magari i suoi lo stanno apprendendo in questo momento), io ti auguro in bocca al lupo con le seguenti, interessantissime proposte che riceverai, magari le uniche finché non entri nel tunnel delle agenzie e dei “provini” inflitti da potenziali coinquilini:                               a) Pastore protestante africano che affitta una riproduzione della Reggia di Caserta in pieno centro, a un prezzo inferiore ai 500 euro (quanto vale ultimamente una “doppia uso singola” a Sagrada Familia). Ti manda un questionario per capire se vuole lasciare la stanza a te e, bontà sua, decide di sì. Sfortunatamente è già in Africa, ma se gli mandi l’acconto ti spedisce le chiavi per posta. Se non rispondi subito ti fa chiamare da un suo emissario che, di fronte alla tua insistenza per visitare l’appartamento, ti proporrà di vederlo “solo da fuori”. b) Signore olandese la cui figlia è appena tornata da Barcellona, abbandonando l’appartamento dignitoso e insolitamente economico che paparino le aveva comprato intanto che studiasse là. Adesso il povero vorrebbe affittarlo, magari a te (e spedisce il questionario). Ebbene sì, sei il prescelto! Se porti caparra e prima mesata in contanti, ti consegnerà le chiavi un’incaricata di AirBnb, piattaforma che in quest’occasione, guarda i casi della vita, si occupa pure di affitti a lungo termine. Sì, verrà una donna, l’oculato padre sa anche questo. Ti prego, vacci, dolce figlio dell’estate, ho sempre avuto la curiosità di scoprire che succede al momento dell’incontro. Pure AirBnb è curioso, insieme alla Polizia postale. c) Giovanotto italiano che per una caparra piuttosto modica, magari sotto i 100 euro, dopo molti scambi WhatsApp di cui faresti bene a conservare gli screenshot, ti riserva una stanza. Per farsi versare la cifra ti manda la sua tessera sanitaria europea (la carta d’identità era banale), con una foto riuscita pure maluccio, se vuoi il mio parere. Lasciami dire da moderatrice che questo terzo benefattore è il mio preferito. Quando l’avrai accusato di truffa sulla mia pagina, cancellerà il suo profilo. Intanto un utente misterioso, con tre amici e una sola foto, comincerà ad accusare TE della stessa cosa, per poi annunciarti che sei stato denunciato per diffamazione. Intanto, il post con la tua accusa verrà segnalato ripetutamente alla moderazione, a cui arriveranno anche minacce di denuncia da gente non iscritta alla pagina. Magari la richiesta d’iscrizione arriverà subito dopo, e un’ora esatta dopo quella a Facebook. Io il numero di un buon avvocato te lo do, dolce figlio dell’estate, ma magari il suo onorario supera la caparra che hai perso.

Torniamo alla finestra, va’.

Un pezzo di cielo non è meno bello, se scopriamo quanto costi raggiungerlo.

Tutt’è capire anche questo.

Risultati immagini per italiani all'estero Le riconosci subito. Non c’è bisogno di sentirle parlare spagnolo coi pronomi sbagliati. Mi riferisco alle italiane che Barcellona ci vengono “per caso”: non per un progetto di vita o per ragioni politiche, ma per una borsa di studio, per un trasferimento di lavoro, o magari per seguire un uomo.

Lungi da me dire che siano tutte uguali, eh.

Mi limito a fornire un elenco di possibili frasi identificative sui social, con le risposte consigliate:

  • “Devo andare a un aperitivo, ma ho paura di uscire di casa da sola. Qualcuno potrebbe accompagnarmi?” [Quindi per paura degli sconosciuti ti va bene che ti scorti un perfetto sconosciuto, purché italiano]
  • “Qualcuno conosce un’estetista italiana? Help!”. [Perché le autoctone la ceretta te la fanno a zig zag]
  • “Vorrei fare lo scambio linguistico, ma preferirei con una ragazza, con un uomo non so cosa mi potrebbe succedere”. [Se lo incontri in pieno giorno in un bar affollato, ti succederà una cosa terribile: dividerete il conto del caffè a metà, centesimi compresi!]
  • “Vorrei fare lo scambio linguistico con una ragazza perché al mio ragazzo di Poggibonsi che dico? Che vado a incontrare un uomo “per farci lezione”?”. [Sì, ma prima assicurati che abbia posato la clava]

Tutte domande che per me ne tradiscono una sola, grande quanto la Sagrada Familia: come me la cavo per conto mio dopo che mi hanno insegnato che non posso? Partendo da una premessa vera (le donne sono più esposte degli uomini ad attacchi sessuali e violenze) per arrivare a una conclusione sospettosamente sbagliata: le donne devono aver paura di tutto.

E nella paura di quelle imbattutesi nella situazione di dover fare ciò che temono, vedo tutte le contraddizioni di questo precetto un po’ ridicolo.

Allora dico loro: vedrai che ci farai il callo. Che andrà tutto bene. E non ti trincerare in un ghetto d’italiani, non ti cercare cavalier serventi o “appartamenti di sole ragazze”.

La paura ci sta tutta, ci hanno abituati spesso a gente più grande che faccia tutto per noi o ci accolga benevola perché sì: vedo genitori scrivere annunci per cercare le stanze ai figli, o ragazzi di ventun anni in cerca di assunzioni a distanza come camerieri, in barba alla fila di candidati residenti in loco coi documenti già in regola. Dolci figli dell’estate.

È una vera sfida. Ma le ragazze che l’intraprendono dopo un’educazione pensata per averle vicino casa a “conciliare famiglia e lavoro”, devono pagare sulla loro pelle tutte le limitazioni che si sono viste infliggere, a cui hanno finito per credere.

Perdonatemi allora, care italiane appena sbarcate a Barcellona, se divento enfatica e vi invito a fare qualcosa in particolare: non cedete al ricatto del “Non sono ancora pronta”. Con questa scusa, parte del Parlamento spagnolo della Repubblica voleva negare il voto alle donne (temendo che avrebbero votato per la destra). Con questa scusa, in un libro che trovo indegno di Harper Lee, l’avvocato Atticus Finch (sì, nel film è Gregory Peck) si opponeva ai diritti civili degli afroamericani.

No, per una volta chiediamoci davvero: “Se non ora quando?”.

Qui da dove scrivo io, non è ancora una bestemmia.

Lo so che è da tempo che non scrivo resoconti cazzari dei miei pomeriggi più surreali, ma facciamo una cosa: io vi racconto quello di lunedì scorso e ci pensate voi a trovargli una profonda morale nascosta. Affare fatto? Cominciamo.

Allora, sono le cinque passate, sono in casa reduce da un’ora di step, in attesa delle uova fresche del Montseny promessemi da un amico brasiliano, che ha lasciato tutto per vivere in montagna. All’improvviso il mio pusher ecobio mi annuncia via WhatsApp di non poter più effettuare la consegna a domicilio. Al massimo posso incontrare la sua compagna, ma solo a Plaça Universitat, e solo tra mezz’ora: è incinta e partorisce a maggio.

Senza neanche docciarmi mi precipito fuori nella seguente tenuta: felpa rossa cinese di pile infiammabile, due taglie più grande; pantajazz di Decathlon (come i pantacollant, ma a zampa); scarpe dello stesso magazzino, col risvoltino fucsia fosforescente.

Ovviamente alla fanciulla avevo dato appuntamento fuori al Buenas Migas e lei si schiaffa giusto all’altro lato della piazza, proprio l’ultima panchina. E le dodici uova che compro sono racchiuse in due cartoni precari, tenuti fermi a stento da uno spago e rigorosamente non imbustati. Così imparo a vivere in città.

Mi vendico a mia insaputa rivelando alla venditrice che secondo il suo compagno partorirà a maggio. Metà giugno, corregge sorpresa e irritata. Magari è una premonizione, butto lì. Ma dalla sua faccia mi rendo conto che non capisco un cazzo di gravidanze e me la batto.

Dopo uno scone di consolazione al Buenas Migas (se dobbiamo gentrificare, che sia per una giusta causa), sempre con le uova in bella mostra accanto al matcha, mi dico che sono quasi le sette ed è inutile tornare a casa, se alle otto e mezzo comincia il film che vorrei vedere. M’incammino dunque verso il Renoir Floridablanca (tra i pochi cinema in lingua originale della zona) a comprarmi il biglietto in netto anticipo: Jackie è appena uscito, più tardi ci sarà la fila. Siccome perfino un’anziana signora comincia a sfottermi per il carico di uova, decido di farmi una spesona al supermercato accanto alla biglietteria (un euro e 50 in totale) per procurarmi una busta.

Eccomi qui di fronte al cinema con la mia tenuta “sportiva” e una busta della spesa, che qualche italiano over 30 amante del Pippo Chennedy Show avrebbe potuto aspettarsi da me un: “Tenissene ciento lire? Aggia vede’ ‘o film d’ ‘a Portmànnn“.

Mentre racconto l’avventura delle uova in un messaggio vocale ai miei, ridendo da sola per il mio abbigliamento, arriva Viggo Mortensen.

No, non me lo sto inventando. Il mio sogno erotico numero due (il primo è Paul Bettany e il terzo Juan Diego Botto) si ferma alla cassa del cinema con una signora alta e magra che compra due biglietti, mentre lui si guarda intorno circospetto.

Via libera, nessuno lo ha riconosciuto. Tranne forse una tipa losca in tuta cinese, con una busta della spesa che sembra contenere uova, ferma nella stessa postazione della mendicante che di solito si mette lì a vendere accendini.

Ma la presunta fan, chissà chi sarà, fa la vaga con lo sguardo fisso sull’orizzonte, o meglio sul tabellone dei film, dicendosi che no, quel piacente signore sulla sessantina sarà solo uno mooolto somigliante ad Aragorn.

E poi va bene la sfiga, ma possibile che l’unico incrocio di sguardi che mi sia dato su questa terra con Viggo mi debba vedere conciata così, con delle uova in mano? No, non può essere, non può…

– Ha’ vitto Moonlight?

Ok, la domanda non era per me (“Hai visto Moonlight?”), però quella che mi giunge è la voce del Capitan Alatriste, con l’accento argentino di chi in Argentina ci ha vissuto. Viggo Mortensen, appunto. Sì, sono una di quelle fan che sanno tutte ste cose.

Scappo a casa, un po’ per nascondermi e un po’ perché l’ora abbondante che ho d’attesa la potrei pur spendere posando le cazzo di uova e regalandomi una bella doccia.

No, non è nella speranza di rivedere Viggo, figurarsi.

Quante probabilità ci sono di ritrovarmelo a guardare Jackie in sala con me?

E infatti al ritorno al cinema finisco seduta dietro alla sua accompagnatrice.

Ma siccome il posto accanto al mio è libero, con abile mossa mi piazzo proprio alle spalle di lui.

Non l’avessi mai fatto!

Non è uno spilungone, ma in questa nuova versione capello bianco corto ha una vertigine proprio sulla sommità del capo, che negli occasionali sussulti di lui per baciare la compagna (maledeeetta!), si pianta direttamente nel naso di Natalie Portman. Che magari lui chiamerà Naty.

Credetemi, il miglior modo di togliervi dalla testa il vostro sogno erotico è vederlo trasformato in un ciuffetto di capelli bianchi davanti al cervello schizzato di Kennedy (non Pippo, proprio JFK).

Specie se smette di coprire lo schermo solo durante i titoli di coda, dileguandosi poco prima che si riaccendano le luci.

Al ritorno a casa riconosco definitivamente su Google gli zigomi della sua fidanzata barcellonese, attrice famosa pure lei. Ma avrei dovuto abbandonare ogni dubbio già durante la proiezione, quando la vertigine bianca si era impennata in un guizzo di riconoscimento alle prime note di…

No, siamo seri, quanti argentini potevano riconoscere la voce di Richard Burton in Camelot, Anno Domini 1960?

E soprattutto, avete trovato una morale a questa storia, a parte “Vai ad allevare galline nel Montseny”?

Io mi assesto su “La sfiga è cieca, ma la fortuna ci vede benissimo”. Scritto proprio così.

Volevo incontrare Viggo Mortensen, una volta nella vita, e sono stata esaudita. Magari non proprio come credevo, e lui non era più né single né Aragorn, ma d’altronde io non ero presentabile. Insomma, viva la vita che ci dà sempre quello che vogliamo, mai al momento giusto, mai come ci immaginavamo. Ma quello si chiama “avere aspettative” ed è un problema.

Per festeggiare v’invito a pranzo. Frittata. Di dodici uova. Fresche di pollaio, eh.

 

Risultati immagini per gael garcia bernal Nei miei primi tempi a Barcellona, quando ancora reggevo la movida locale, mi toccò una coinquilina memorabile. Era una tipa simpaticissima e intelligente, amica di amici, ma svitata totale, eternamente imbronciata perché era finita in una casa di guiris (termine locale e vagamente razzista per indicare turisti e/o forestieri “occidentali”). La domenica noi stranieri ci aggiravamo per casa come zombie, reduci da nottate all’ultimo chupito, e lei era lì, con tutto il suo entusiasmo, a cercare di resuscitarci con mille dépliant di sconti per i musei e link assortiti su jam session di flamenco non turistiche nel centro storico.

Finì che me la portai a ballare un paio di volte, ritrovandomi sistematicamente a reggerle la candela con qualche sconosciuto incontrato al bancone di un bar. Siccome capitò lo stesso ad altri amici guiris, diventò una fonte inesauribile di battute tra noi.

Però mi rimase impressa la prima uscita insieme: la mia amica aveva adocchiato un ragazzo dal faccino regolare, occhi bassi, avvolto in un giubbottone col bavero alzato fino al naso. Il tempo di spostarci dallo Sugar Bar al Magic e il timidino si era pressocché denudato, rivelandosi la copia palestrata di Gael García Bernal. Non feci in tempo a congratularmi con la fanciulla per la vista lunga, che me la ritrovai premuta contro il mio orecchio a farmi la seguente dichiarazione: “Maria, è troppo bello! Mi fa paura!”. Già cominciavo ad assicurarle di essere più che lieta di salvarla da un simile fastidio, accollandomi io il peso di ballarci, quando lei si spiegò meglio:

– Mi piacciono sempre i falsi timidi che si rivelano personaggi istrionici e assurdi. È proprio la loro ambivalenza a renderli pericolosi, finiscono per spezzarmi il cuore e sparire dalla circolazione.

Ok, confesso che nella musica rimbombante del Magic, e al terzo mojito, la mia amica non si espresse proprio così. Ma la sostanza era quella.

A tanti anni di distanza le rendo un omaggio tardivo, perché senza essere esperta di psicologia suppongo che si trovasse in un loop che conosciamo in tanti:

  • quello che identifichiamo come amore ci sorge “spontaneo” solo per persone che ci fanno male;
  • “rieducarsi” a un amore che ci fa bene significa perdere, appunto, questa spontaneità.

In un certo senso ci sono passata anch’io e riconosco l’aspetto più brutto di una questione del genere: non esiste una soluzione ideale. Se siamo così, è quasi impossibile innamorarsi di una persona che ci prenda molto E ci faccia anche bene.

Si finisce o in situazioni orribili (come sanno anche i miei amici maschi attirati da psicopatiche) o in rapporti un po’ più complicati, magari senza il trasporto adolescenziale dei primi casi, in cui la prospettiva di essere felici diventa un lavoro quotidiano. Perché, parliamoci chiaro, un finto agnellino che ci diventa il re della pista è facile, da amare. Il giorno dopo sparirà, poi ci cercherà di nuovo, poi tornerà a sparire, e ci lascerà con l’idea di quanto sarebbe bello insieme “se solo” ci considerasse di più. E la certezza di non scoprirlo mai.

Figurarsi com’è difficile con qualcuno che già di per sé non ci offre la droga a cui siamo abituati, che si mostra noiosamente interessato e disposto a restare, costruire qualcosa ogni giorno, col rischio di rivelarsi non “troppo” bello ma fin troppo umano, con tanto di piccole e grandi manie che solo una lunga frequentazione può rivelare.

Quindi uff, detesto le situazioni come quelle della mia amica, stile “o bevo il veleno che mi piace o mi sorbisco una sbobba che non voglio”. Però quelli con la mia serenità, ormai si sarà capito, sono gli unici compromessi a cui scendo volentieri. Innanzitutto perché non nascono dal nulla, per amare qualcuno dev’esserci qualcosa di fondo che non si acquisisce in nessun modo, c’è o non c’è. La base su cui costruire il resto ci vuole. E poi non si tratta di un vero compromesso: anche il masochismo sentimentale è un comportamento acquisito, che abbiamo ripetuto tanto spesso da avercelo in automatico. Infine entra in gioco una sfida che può generare dipendenza quanto le relazioni tossiche: fare quello che possiamo, con gli strumenti che abbiamo.

Si tratta di “esercitarci” in un ruolo per noi insolito: diventare la parte di noi determinata a essere felice. Un lavoraccio di quelli che, però, sono ben retribuiti.

Per la cronaca, la mia amica quella notte finì a casa di “Gael”, che prima di un amplesso piuttosto deludente le spiegò per un paio d’ore la sua recente svolta spirituale, con tanto di lettura di brani da non so che testo sacro. Ovviamente il giorno dopo era bello che sparito.

Cosa vuoi di più dalla vita?

Scusandomi per l’uso privato del mezzo pubblico, dico solo due parole: buon anniversario.

 

Risultati immagini per sowing Torno a Barcellona con un po’ di ritardo e più tempo di quello che vorrei (il tempo libero è più gradito quando è una scelta) per fare bilanci.

Quelli in Italia sono stati giorni importanti, è stato bello parlare con persone che avevo un po’ perso di vista, nelle infinite peripezie che a distanza non avvengono quasi mai in sincrono, e che spesso si raccontano in differita.

Mi sono ritrovata davanti ad amici che ricordavo con 10 anni di meno e con caratteristiche che non hanno più, o che sono state smussate da esperienze uguali e contrarie alle mie, nonostante le due ore d’aereo di separazione.

In loro ho incontrato anche la me stessa di allora, quella che viveva in Italia e che si aspettavano di ritrovare solo un po’ invecchiata, per finire spiazzati o delusi o incuriositi da questa sconosciuta che si confonde con lo spagnolo, ma parla ‘n faccia nella lingua dei nonni. Dalla comodità del senno di poi ho rinfacciato due o tre errori anche a lei, a quella che sono stata.

Le ho insegnato infatti questa che vi sembrerà una banalità, ma che a me è costata cinque chili di peso e mezzo guardaroba: se t’impegni, magari non ottieni sempre quello che vuoi, ma ottieni spesso quello che dai.

Se presti ascolto e attenzione, sarà più facile che ne prestino a te, fosse anche per decidere che non la meriti.

Se offri sincerità, spesso l’altra persona si predispone a essere altrettanto sincera.

Non ti dirà “ti amo”, se non lo sente. Ma magari un “non ti amerò mai” è più atrocemente benefico che i “non lo so” che ti attiravi con la tua passata ambiguità.

Sta storia che “si semina ciò che si raccoglie” ci va spesso di  traverso, quando non raccogliamo quello che volevamo.

Però in nessun momento era stata quella, la questione. Al massimo, si sa, possiamo seminare bene e sperare in un tempo clemente.

E calmare l’ansia ricordandoci che: 1) ci abbiamo provato, 2) non è stata la paura a fermarci.

A volte è tutto quello che possiamo fare.

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  1. Non importa quanti anni io abbia, in paese funziono come i vecchietti del film Risvegli. Ho sempre la stessa età di quando sono partita: 22 anni. Perché non faccio la vita sociale di una ventenne? Semplice: a vent’anni non ne avevo una! Il problema è quando mi metto a dire cose tipo: “Carino, il ragazzo del bar! Come mai non lo conoscevo?”. E poi, facendo due calcoli, scopro che potrebbe essere mio figlio.
  2. VeramÈnte! Hai voglia a barcamenarti tra l’accento spagnolo e l’italiano regionale, epurato da un vecchio corso di dizione… Quando c’è da cantare insieme al coro della parrocchia, sgamato in azione durante una passeggiata, le mie “e” aperte ritornano bassoliniane.
  3. Davanti a qualche vecchio cancello mi giro ancora guardinga, presagendo minacce ormai inesistenti. Probabilmente mi ricordo d’istinto di qualche antico cane ‘e canciello, figura mitologica metà loppide e metà fauci spalancate. Requie e pace, vecchio mio. Insegna agli angeli a latrare con gli stessi decibel di un allarme antifurto.
  4. Nun me piace, ‘o presepio. Niente, le tradizioni natalizie continuo a schifarle non poco. Fortuna che, per sopraggiunta anzianità dei “piccoli” di famiglia, non dobbiamo più seguirle come un tempo. Per esempio, i dessert mi sono sempre piaciuti morbidi e cioccolatosi (canditi o uvetta no, grazie), mentre i dolci di Natale che compra papà possono essere usati come corpo contundente per i ladri di capitoni (e questi ultimi, fosse per me, potrebbero campare cent’anni).
  5. Mi piace il paesello! (Che poi in fondo è un paesone). Non sono cieca, mi rendo conto che cambia, perfino in meglio. Ci sono portici, giardinetti, bar carini. Una coppia gay può addirittura passeggiare per il corso e tornare a casa con tutte le articolazioni a posto. C’è pure un commerciante pakistano che mi vende le spezie e il riso che piacciono a me, meravigliandosi del fatto che li conosca. Anche la mia vecchia chiesa si è data la ripulita del “Tutto cambia perché niente cambi”, portata da questo papa porteño che qui piace tanto. Ma i bambini del coro sembrano divertirsi un sacco, a cantare Tu scendi dalle stelle col berretto di Babbo Natale.
  6. Non sono la sola! Neanche i miei parenti conoscono tutte le strade del paese. Ok, nel mio caso è proprio ignoranza, mentre nel loro, magari, via Cavour è meglio nota come “addo’ sta ‘a baccalaiola”. Bel contrappasso per Cavour! Resta il fatto che a volte, per indicarmi una via precisa (il civico continua a essere pleonastico) devono cercarla su Google, come i comuni mortali. Non era possibile, che sapessero anche quelle stradine minuscole intorno al corso, col marciapiede ridotto a una base per i pali della luce. A proposito…
  7. Non riesco a camminare! Il suolo barcellonese sarà spesso monotono, ma in genere è comodissimo. In paese, qualunque paio di stivali indossi, rischio sempre di sbattere a terra come gli “amichetti del mare” che mi venivano a trovare con le scarpe buone. Ormai. per passare tra la barriera di auto e i marciapiedi ristretti di cui sopra, mi puntello contro il palo della luce in un accenno di lap-dance, che dicono mi riesca piuttosto bene.
  8. Ricordi! Si rivelano ancora più invadenti dei simpatici insettini neri nella mia dispensa barcellonese. Eventi di 8 anni fa mi sembrano risalire all’altro ieri. Ripenso all’improvviso a interrogazioni di grammatica sostenute con gente che adesso porta i figli a scuola. E che fine ha fatto quel vestito Phard per cui ho fatto la dieta un anno, pur d’indossarlo l’estate seguente? … Ovvio che mi starebbe ancora bene, malpensanti!
  9. Non sono più arrabbiata. Quando temevo di non partire mai, vivevo ogni cosa come una gabbia. Maledicevo chi non capisse che a 16 anni volessi uscire anche senza la scorta perenne del mio ragazzo (poi dicono il “mondo arabo”). Sorridevo avvelenata a chi mi offriva ridendo il suo casco, quando ero l’unica in auto con la cintura di sicurezza. E scherzavo sarcastica sull’ammore segreto che, piuttosto che finire con me, mi avrebbe piantata davanti all’altare, scappando col testimone gay. Adesso li guardo tutti con un sorriso indulgente, lo stesso che mi riservo specchiandomi, e mi dico che, anche a distanza, ne abbiamo passate delle belle. E ancora ne passeremo. Se no cosa avremmo da raccontarci, al prossimo struscio di Natale? Ma il prosecchino per brindare proprio no, mi ubriaco subito. Infatti, per chiudere in bellezza, bisogna ammettere che…
  10. Certe cose non cambiano mai. Tipo le figure di merda.
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