Sceglietevi.
Il link al libro è questo.
Chi è andato a vivere all’estero si sarà fatto questa domanda almeno una volta al giorno: che ci faccio qui?
Che ci faccio in un posto in cui la gente parla questa lingua che non capisco prima della terza birra, che sembra incazzata quando è contenta (e viceversa) e ha un’idea opposta alla mia di pranzo e cena?
Ok, magari non ogni giorno, ma almeno una volta alla settimana, mi sa che ve lo sarete chiesto.
Allora perché mi sentivo come se fossi la unica al mondo a provare frustrazione, confusione, smarrimento? Semplice: perché non era come me l’aspettavo.
A Manchester avevo un amico spagnolo che dopo qualche mese a provare a socializzare si chiudeva in camera a dormire alle sette di sera. O una collega sudcoreana di master che è sparita un paio di settimane, e alla seconda già sapevo cosa sarebbe successo: sarebbe arrivata una mail confidenziale della segretaria di dipartimento, ad avvertire che era tornata al suo paese. Avrebbero cercato di rimborsarle parte della retta.
Nonostante questo, mi credevo l’unica al mondo a sentirmi sola e spaesata in un posto pieno di gente che mangiasse fagioli al sugo a colazione.
Allora, siccome tra le tante cose buone là c’è lo psicologo gratis all’università, un bel giorno sono andata e ho spiegato tutti i miei problemi. Mi sono sentita rispondere seraficamente:
– That is so normal.
E mi sono ritrovata iscritta a un corso di mindfulness, meditazione “pratica”, che in quella prima occasione ho ignorato e irriso malamente (adesso, 10 anni dopo, la pratico 15 minuti al giorno).
Ok, poi in quella vecchia, sporca città, sono rimasta un paio d’anni. Ma quelli che se ne andavano, perché lo facevano?
Indovinate un po’: perché non era come se l’aspettavano. Perché credevano di avere le idee chiare su cosa dovesse significare la loro esperienza: tanti amici nuovi da tutto il mondo, sorridenti come nel dépliant dell’Erasmus, che li avrebbero subito accettati. Anche nelle stravaganze che un perfetto sconosciuto non è tenuto a comprendere.
Alcuni dei miei compagni di sventura, poi, pretendevano che niente cambiasse rispetto a casa. Che dispensare pacche sulla schiena in un posto in cui la distanza spaziale tra persone raddoppia dovesse incontrare la stessa benevolenza che a Palermo. Che la mania continua di scattare foto non fosse percepita da nessuno come sooo antisocial. Che la pasta la dovessero fare uguale che in Italia, e sta storia di mangiarsi una patata ripiena per pranzo fosse solo un errore nel menù.
Insomma, quante più aspettative si fossero fatti, meno resistevano.
Io, in un primo momento, ho covato molto rancore verso quella psicologa col capello platinato e il rossetto rosa shocking, che invece di dirmi che ero la nuova Virginia Woolf mi ha messo in posizione del loto a inspirare ed espirare al suono di una campanella. Ma col senno di poi le sono quasi grata.
Perché invece di dirmi che avevo un problema, mi ha invitato ad affrontare tutto: lo spaesamento, l’alienazione, la solitudine. E dargli la giusta importanza. Solo allora ho potuto vivere tutto il processo d’integrazione e scoprire le tante cose belle che quella città serbasse a chi sapesse guardare. Ho potuto innamorarmi, fumare shisha al gelsomino (so’ troppo tossica) e godermi un concertino con mostra per tre pounds. Farmi amici del posto che bestemmiassero in lingue conosciute solo ai Gallagher ma poi, al contrario dei colleghi Erasmus, mi chiamassero anche da sobri.
Tutte cose che non avevo previsto prima di atterrare e che, se si fossero attenute al mio rigido schema di “come avrebbe dovuto essere il mio Erasmus”, non ci sarebbero mai state.
Per questo, intanto che siamo occupati ad aspettarci cose, la vita prende il suo corso senza neanche chiederci il permesso. E se sappiamo accantonare i nostri progetti così rigidi, perché coniati lontano dalla realtà che ci aspetta, ci riserva le giuste sorprese. Tante sono negative, ma le positive non mancano.
Insomma, mentre siamo troppo occupati a controllare tutto, la vita ci sfugge di controllo per prendere il verso giusto.
Capita spesso.
Soprattutto se glielo lasciamo fare.
Vabbuo’, io volevo farvi tutto un discorso sul passato che va lasciato alle spalle e muore Pino Daniele. Ecchecca’.
Ci provo lo stesso. Mi chiedevo come aveste passato queste feste. Mangiando panettone e giocando a carte? (Così accontento Nord e Sud). Qualcuno ha lavorato tutto il tempo e massimo rispetto, altri si sono presi una lunga vacanza.
Quelli come me, gli espatriati, avranno questa sensazione familiare di aver vissuto in una sorta di buco spazio-temporale, dormendo nella stanza in cui giocavano alle costruzioni e sentendosi interdetti alla cassa del supermercato, al momento di decidere in che lingua chiedere lo scontrino. Ma anche chi continua a vivere nel posto in cui è nato, nel rito delle feste di Natale vive giocoforza in una dimensione senza tempo, piena di ricordi e di attività sospese.
Per me è tutta salute, questo piccolo viaggio nel tempo che non ci assorbe, perché salvo qualche ovvia nostalgia sappiamo che qui non è più casa nostra, o meglio che lo sarà sempre ma il nostro presente e altrove. E allontanarci un po’ da quel presente, dalla casa in affitto che abbiamo in un altro paese, ci aiuta a vederlo meglio, a immaginarcelo, a programmarlo un po’, se vogliamo.
Le feste sono un’occasione d’oro, col cambiamento temporale che si portano in coda, per immaginare con calma e al riparo come vogliamo vivere questa nuova vita che tanto millantiamo su facebook e nella lista dei buoni propositi.
Sì, perché negli ambienti sicuri e conosciuti della nostra infanzia (un viaggio non sarebbe la stessa cosa) possiamo permetterci di cambiare occhiali, di vederci in un modo diverso, di dirci che quando torneremo alla nostra nuova casa vorremmo fare cose diverse. Di ogni tipo. Dal cambiare panettiere, che quello sotto casa è comodo ma fa pagnotte precotte, al non farci mettere più i piedi in testa da chi sappiamo noi, e smettere di dare a quella persona in particolare tutto questo potere sulla nostra vita. Tra un piatto di struffoli e una rimpatriata con gli amici abbiamo recuperato un senso di ciò che siamo, di ciò che vogliamo essere, e abbiamo scoperto che funziona anche lontano da quel contesto.
Anzi, le cose che ci preoccupano e ci angosciano nella vita di ogni giorno, viste da fuori sono quasi sempre sminuite, riprendersi i nostri occhi di bambini aiuta a vedere meglio lo scenario che ci siamo preparati da adulti. Anche le incongruenze.
E allora che facciamo, la deludiamo, la bambina che ancora si aggira tra le bambole impolverate che meditiamo seriamente di lavare?
Ok, quella voleva un castello e un principe azzurro e tutte quelle cose leziose che venivano comprese nel prezzo della casa di Barbie.
Ma su una cosa, scopriremo, siamo ancora d’accordo con lei: che dobbiamo vivere più meglio che possiamo.
E per una volta la maestra si sbagliava, a correggerla. Per una volta l’errore l’abbiamo fatto noi da adulti, a non accontentarla.