Di giorno non faccio altro, più che un lavoro è un’ossessione.
Ho bisogno di riordinare dei fatti al limite del surrealismo che sono accaduti a me, a gente che conosco, e a qualcuno di cui ho letto.
Nessun dramma irreparabile, solo le contraddizioni di una città in cui avere una casa diventa un privilegio, e occuparla… una barzelletta.
Solo oggi, 6 novembre, il mio libro è gratis in formato ebook. Ecco il link.
Non fingerò di aver scritto un horror classico, il vero orrore è il precariato. E il barbiere assassino, a Barcellona, era una leggenda prima di Sweeney Todd.
Di giorno non faccio altro, più che un lavoro è un’ossessione.
Ho bisogno di riordinare dei fatti al limite del surrealismo che sono accaduti a me, a gente che conosco, e a qualcuno di cui ho letto.
Nessun dramma irreparabile, solo le contraddizioni di una città in cui avere una casa diventa un privilegio, e occuparla… una barzelletta.
Solo oggi, 6 novembre, il mio libro è gratis in formato ebook. Ecco il link.
Non fingerò di aver scritto un horror classico, il vero orrore è il precariato. E il barbiere assassino, a Barcellona, era una leggenda prima di Sweeney Todd.
Ma dove trovate un altro manoscritto che viene letto oralmente aggratisss ogni giorno, e che *non* piace a un noto social?
Anzi, Fb lo trova “ampiamente sgradito”, censurando perfino l’immagine della tizia stramba che appare nel video… Sarà il livello di zerbinaggine narrato a raggiungere livelli di guardia!
Fossi in voi mi fionderei a riascoltare tutto dall’inizio…
Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.
Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.
Fiori da un’amica
Ottocento è troppo, seicento è giusto.
Ma un fesso disposto a cacciare mille euro sarebbe facile da trovare, per il bell’uomo brizzolato che mi mostra l’attico gelido. È una casa che funziona per esclusione. L’unica stanza degna di questo nome va adibita per forza a camera da letto, trasformando così in salotto lo spazio che la unisce a una sorta di insenatura oblunga: la cucina. Da quella, tre gradini portano a una piattaforma spoglia che è stata sottratta al terrazzo condominiale, insieme a un terrazzino delimitato da una staccionata a rombi. Al di là della staccionata intravedo piantine di marijuana, e la bandiera indipendentista che, mentre arrancavo sulla strada in salita, ho visto svettare sulla facciata color bianco sporco. Le pareti sembrano fatte di carta velina: sentirò tutto ciò che dicono e fanno i vicini. A quanto pare sono pochi, e quasi tutti musicisti, il che non mi rassicura sui rumori molesti… Ma sarà una convivenza pacifica, mi promette il proprietario, e capisco che è cresciuto lì dentro come l’uomo col mastino era cresciuto nel palazzo che reclamava come suo. Solo che questo bell’uomo brizzolato, che nel profilo gmail sta facendo yoga, possiede il suo palazzo per davvero, l’ha ereditato dal padre. Forse è per questo che sfodera un sorriso zen, quando gli chiedo il prezzo e mi preparo a trattare: ottocento è troppo, seicento è giusto.
“Voglio solo quattrocentosettanta euro” annuncia lui.
Ho la faccia di culo di chiedergli uno sconto.
Ovviamente respinge la richiesta, ma si vede che gli sto simpatica. Quello che non sa è che, due ore prima del nostro incontro, mia madre mi ha chiamato per annunciarmi che la nonna era morta. Poche settimane prima, a Pasqua, nonna mi aveva rimproverato benevola perché non ero andata da lei.
La reazione immediata alla notizia è stata quella di “fare cose”: dopo una ricerca folle quanto vana per partire quella notte stessa, ho acquistato il biglietto aereo per presenziare almeno al funerale. Poi mi sono sciacquata il viso: non potevo permettermi di aspettare oltre, dovevo aggiudicarmi l’attico prima di partire.
Salutato il mio nuovo padrone di casa, per omaggiare la nonna visito tutte le chiese che trovo: mi incuriosiscono le madonne sugli altari. Quella del Carme quasi si dimentica di reggere il bambino, che sembra schiaffato lì a giustificare la presenza di una donna su un altare cristiano. La Grande Madre è ancora tra noi, direbbe la junghiana.
Mia nonna era la grande madre della “famiglia degli gnocchi sfatti“. La sua, di madre, l’aveva messa a balia quando era ancora più piccola di quel bambino sull’altare, e la balia era come una madre per lei. Quando la famiglia di sangue se l’era “ripresa”, lei aveva pianto molto. Ti riportiamo a casa, le avevano promesso. Chissà se nonna si sentì mai a casa da qualche parte.
È come uno strappo che nella mia famiglia, saltando qualche generazione, si trasmette di donna in donna: la separazione da una casa reale o immaginaria, che resta lontana anche quando ci siamo dentro.
Gli uomini che ci procuriamo “noi dello strappo” sembrano più brillanti, più interessanti di noi, ma è così evidente che siamo noi a sostenerli che mi chiedo come il particolare sfugga ai più. Mentre accenno un inchino alla madonna del Carme, mi rendo conto che da quando sono adulta mi deve ancora succedere, che uno sostenga me.
***
Chi vive fuori arriva sempre tardi.
Ammesso che fai in tempo per l’addio, non sei stata lì fin dalle prime ore. Sei eternamente in difetto con chi resta.
Io sostengo mia madre nella camminata rituale dietro al feretro: vedere mamma struccata in mezzo a tanta gente mi dà la misura del suo dolore, dello scompiglio portato da un lutto. Stringo mani, mi faccio strada tra volti che non riconosco più, mentre cerco una risposta adeguata alle condoglianze.
Quando mamma annuncia al cimitero che le ossa del nonno riposeranno insieme alla moglie, senza pensarci commento: “Certo che lui sarà entusiasta!”. Lo dico perché coi cugini, passeggiando tra i viali costeggiati da lapidi, abbiamo appena rievocato i litigi un po’ comici di quella coppia d’altri tempi. Anche mamma risponde con uno scherzo, ma si vede che c’è rimasta un po’ male.
“Too much” commenterebbe forse Bruno. Penso a lui solo in quel momento, e penso pure allo Spazio. Devo ripartire la mattina presto per quella sorta di tirocinio che inizia proprio l’indomani: perché l’omologazione funzioni, la frequenza dev’essere obbligatoria. Mia madre è livida al pensiero che io riparta già, ma le ho promesso che tornerò.
Penso a tutto questo mentre vedo la nicchia richiudersi sulla mia infanzia, sui nonni e sui loro litigi davanti agli gnocchi che si sfrangiavano nel cucchiaio. A riscuotermi è una voce che ricordavo giovane. Girandomi mi trovo davanti un uomo distinto, dai capelli bianchi.
“Questa signorina da piccola era splendida, e adesso è solo bellissima!”.
Ci metto un po’ a riconoscere il mio “primo amore”: così lo chiamavano ridendo, in famiglia, quando a quattro anni lo invocavo per giocarci insieme. Lui di anni ne aveva una ventina, e mi trovava molto buffa, e adesso che ha una moglie della mia età è tra quelli che ancora mi ricordano come “una delle più belle bambine mai incontrate”.
“E poi cos’è successo?” provo a sorridere.
Ma lui me l’ha appena detto con adulazione affettuosa: da bambina ero meravigliosa, adesso sono “solo” bellissima. Tra me e me lo correggo: più che altro sono “solo” io, io e basta.
Prima di lasciare il cimitero, un fratello di mio padre ha sottratto dei fiori freschi alla nicchia appena chiusa: li ha portati alla mia nonna paterna, che non ho mai conosciuto. Le mie due nonne erano colleghe a scuola, ed erano cresciute insieme come sorelle. Lo zio è soddisfatto del suo furto innocente:
“A mamma ho detto: ‘Te li manda l’amica tua’”.
Il giorno dopo, mentre scendo dall’aereo che mi ha ricondotta a Barcellona, mi accorgo che non sono tornata da sola: mi sono portata dietro tutte le donne della mia famiglia.
D’ora in avanti camminano tutte insieme a me.
A mercoledì per il seguito!
Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premioproprio figo.
Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.
Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.
Risonanze
La bara è lunga e fa un rumore strano.
Lì dentro ho tutto il tempo di ripensare alla sera dell’evento di beneficenza, e a quando poi sono riuscita a mangiare.
L’ho fatto a casa, lontano da Bruno che ho lasciato a lamentarsi con una delle fumatrici sotto il palazzo: una che non gli piaceva, ho valutato odiandomi. Lui spiegava alla fumatrice che per poco non si perdeva l’evento, con tutte le cose che aveva da fare, e nel vetro della porta illuminato da un lampione l’avevo sorpreso a scrutarmi le calze. O magari me l’ero sognato. Magari aveva notato anche stavolta qualche smagliatura nella trama.
Papà invece mi ha squadrato le gambette ossute nei leggings, mentre metteva la mia valigia nel portabagagli, e mi ha subito annunciato che detestava i tarocchi: era un uomo di scienza, lui! “Santa Madre scienza”, l’ho sfottuto.
Da allora lui storpia il nome dell’I-Ching, e conia massime in napoletano contro Jung. Soprattutto detesta il mio corpo, com’è adesso: alla vigilia ho mangiato solo broccoli e lui ha paura, è convinto che io abbia qualche male fisico. Le analisi mediche che mi ha subito inflitto sembrano confermare la sua teoria.
Così sono finita in questa bara oblunga e buia, ad ascoltare rumori strani. I miei livelli di prolattina sono molto alti: da che avevo il ciclo ritardato, adesso potrei addirittura star producendo latte! Interpellata a distanza per gli auguri di Natale, la psicologa junghiana si è premurata di annunciarmi che “mi sto partorendo”.
E invece mio padre mi ha seppellita qui dentro: giorni fa, andando in cucina, ho capito dai sorrisi dei miei familiari che quella era un’imboscata. Avevano già prenotato in clinica, tutto quello che dovevo fare io era sottopormi alla risonanza, e ricordarmi che l’avevano fatto per me. Una volta in clinica, quel distratto cronico di mio padre pretendeva pure che trovassi io il reparto, con la solita notte insonne alle spalle. A quel punto gli ho soffiato in faccia: “Guarda che possiamo aiutare solo chi lo desidera”.
Nel sarcofago divento cintura nera di meditazione: trascorro i venti minuti della risonanza in un viaggio astrale, o qualcosa del genere. Tanto il mio stomaco è talmente vacante che potrei pure vedere la Madonna.
Ovvio che la risonanza non rileva niente di irregolare. In compenso, mi rivela una volta per tutte che ne ho abbastanza. Cristo, sono diventata una lagna! Dai bassifondi della mia mente riaffiora un briciolo di ironia.
Una sera di quelle anonime tra Natale e Capodanno, gioco con due amici su Facebook a storpiare i nomi dei quartieri di Barcellona, associandoli a libri e film famosi: vince a man bassa “Il diario di Hostafrancs”. Rido come una scema, poi me ne accorgo. È questo che voglio per me.
Voglio divertirmi come sto facendo con questi scherzi idioti, e come facevo con Bruno la prima notte passata a ridere, a dirci scemenze fino alle quattro. Quelle risate le ho pagate abbastanza, le rivoglio.
Anche quest’anno mi capita di riascoltare quella canzone napoletana che tradotta si chiama “Uccidimi“, e non andava mica presa alla lettera, ma ormai è andata così.
Prima di capodanno, arriva il terremoto. Il mio istinto di sopravvivenza funziona abbastanza da catapultarmi fuori dal bagno senza scaricare.
In corridoio trovo mia madre appoggiata allo stipite della cucina, come se in quel gesto reggesse tutta la casa. Allora mi appoggio anch’io a una porta a vetri troppo fragile per non tremare tutta. È come se quella fragilità fosse l’unica cosa da salvare.
Ci guardiamo, mamma e io, come vestali assorte in un rito strano, finché le oscillazioni non si fermano. Allora fanno capolino anche gli uomini di casa, che erano rimasti chiusi nelle stanze ad aspettare. Mio padre si mette a cercare su Google, in tutte le lingue, come si dice “È passato il terremoto”.
A quel punto me ne rendo conto: la prima cosa che ho pensato, subito dopo la mia fuga dal bagno, è stata che mi toccava sprofondare in un vortice di detriti senza salutare Bruno. Senza dirgli che lo amavo, e che in fin dei conti non mi dispiaceva, pensarlo felice.
Adesso, però, voglio esserlo anch’io.
A lunedì per il seguito!
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Dove non muoiono le sirene
È il matrimonio a farmi decidere.
I futuri sposi con cui ero stata a cena dopo l’esposizione ci ospitano in costiera per le nozze, e con altri italiani a Barcellona volo fino a certe montagne a strapiombo sul mare, che fanno da sfondo al paese dello sposo.
Sono montagne del Sud Italia, brulle e perfette, fatte apposta per ridicolizzare il mio dolore che passerà, come tutte le cose umane.
Al banchetto nuziale, i piatti destinati a me fanno il giro dei tavoli. Li cedo a chiunque con la scusa della mia transizione a una dieta vegetale, ma nessuno si meraviglia troppo: è un’altra stranezza di noi “stranieri per caso”, approdati alla cerimonia con tenute improbabili e un italiano atroce. Se da fuori sembriamo un’armata Brancaleone, vestita per tutte le occasioni e per nessuna in particolare, al nostro interno le differenze geografiche si notano eccome.
Io e l’altro napoletano abbiamo insistito per offrire una “busta” consistente (che abbiamo finito per versare da soli, senza rivelarne l’importo generoso perché pareva brutto). Se ci svegliamo presto, scendiamo giù al villaggio a prendere i cornetti per gli altri, che magari preferivano solo il caffè. Io non è che mi svegli presto: in realtà non dormo affatto. Singhiozzando con la testa affondata nel cuscino, per non disturbare, riesco a chiudere gli occhi tra lo spuntare dell’alba e le sette in punto, quando suona la sveglia della mia compagna di stanza: dice che dal cellulare nuovo non sa spegnerla. E comunque lei continua a dormire come un sasso.
Al matrimonio, gli uomini del mio gruppo esibiscono cravatte sgargianti o camicie hippie, mentre noi donne sfoggiamo pagliaccetti fioriti, pantaloni lamé con lo spacco, e scarpe più o meno comode. Io sono in abitino lilla, e ho camuffato gli occhi gonfi in sfumature già minacciate dal caldo. Riuscirei quasi a mimetizzarmi con le invitate del posto, se non fosse per i capelli tagliati in una scalatura estrema, tipica di Barcellona, che addosso a me sembra un innesto malriuscito.
“Che problemi abbiamo?” mi viene da pensare a un certo punto. Non riusciamo ad appartenere a nessun posto, e ne facciamo un vanto. Le altre invitate si sono accentuate i ricci con la piastra, e i loro abiti da cerimonia occultano tacchi che toglieranno all’apertura delle danze, sostituendoli con le ballerine che nascondono sotto il tavolo.
Io non ballo, non mangio. A un certo punto mi apparto su uno scoglio, Partenope inappetente e sfatta dall’insonnia. Con gli occhi a quelle montagne logore riesco solo a piangere al cellulare con l’Amico, che non mi regge più.
“Veramente fai? Vai a goderti la festa!”.
Non ci riesco, spiego. E all’improvviso l’eco di quelle parole tra gli scogli mi paralizza. Ma è un momento: subito mi risollevo dalla mia posa di sirena spiaggiata, e mi rassetto il vestito.
Io che non riesco a fare una cosa? Inaudito, devo imparare!
Ecco che riappare l’urgenza di essere all’altezza, di coltivare un’immagine di me che non esiste ancora, ma deve esistere, o “è la fine”, anche se non so mai di cosa.
E invece è l’inizio. È marcio e sbagliato, ma è un inizio. Stasera mi va bene anche questo.
Finalmente mi giro verso quel Mediterraneo mite e aromatico, più familiare di quello che osservo dai moli odorosi di paella surgelata. Mi sono scelta una terra dove il basilico fatica ad attecchire, ma i mostri marini vivono felici, si innamorano e generano terre fertili. Forse le sirene muoiono solo in questo mare qui.
Dov’è che imparano a vivere, invece?
I festeggiamenti sono proseguiti senza di me. Su uno schermo allestito apposta per trasmettere video di amici lontani, un Bruno accaldato e quasi serio augura agli sposi di essere così felici da non crederci neanche loro.
Decido di rubargli quegli auguri, come se per una volta li avesse fatti a me.
A venerdì per il seguito!
Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premioproprio figo.
Ciao! Questo è il solito post in cui vi invito a non sprecare troppo tempo in una cosa inutile, però stavolta c’è un colpo di scena. E pure un esempio, che deciderete voi se leggere o no.
Vedete, a Barcellona un mio amico molto nordico inizia ora una relazione con una “lokal”, e l’ho avvertito sulle possibili sfide di certe differenze culturali, che a volte portano a divergenze politiche (e sull’argomento ci ho scritto un romanzo, perché qualcosina ne so).
Il mio avvertimento/spoiler conteneva forse un pregiudizio su guiri e lokalz? Spero di no. Non ho detto in nessun momento: “Andrà a finire di sicuro così”. Ho solo precisato: “Se andasse a finire così, saprai cosa aspettarti e supererai meglio il problema”.
Ebbene, abbiamo discusso un’ora, l’amico è andato un po’ in ansia e io, oltre ad aver perso sessanta minuti che non riavrò mai, sono passata per la pettegola prevenuta che non si fa i fatti suoi. Quindi il mio consiglio stavolta è: se ci tenete all’amico perdetecelo, ‘sto tempo! Ma che non sia un’ora, cavolo. Gli aiuti non richiesti possono risultare odiosi e poco utili, oltre a sprecare le energie di chi li elargisce. A quel punto io metterei giusto la pulce nell’orecchio, e poi l’amico deciderà se alimentarla o meno: in fondo la vita è sua!
Una delle grandi svolte della mia, di vita, è stata quando ho smesso di voler controllare le esistenze altrui.
Qui finisce il post e comincia l’esempio (nooo, l’esempio no!). Proseguite solo se siete in vena di immergervi in un pezzo di cultura napoletana. Siete ancora lì? Bene, cominciamo!
Prendiamo il signore “sceso dalla Val Brembana” (semicit.) che con accento lombardo mi chiedeva, all’uscita della trattoria Da Nennella, se ormai fossero in chiusura: in fondo erano le due del pomeriggio! Inutile dirvi che quel signore veniva subito segnato come “Fuffi” nella lista d’attesa del mitico Ciro.
Mettiamo che Fuffi venga da noi e ci dica: “Sai? Ho conosciuto una tale Mariarca, detta ‘a Pulitona, che mi piace molto. Vive proprio ai Quartieri, dove lavora quel signore un po’ nervoso che mi chiama Fuffi. Non so in cosa sia laureata, anche se mi sembra che lavori nell’hi-tech, però vorrei approfondire la conoscenza: ho pensato quindi di andarci insieme a un apericena con finger food, poi a una rassegna di Kiarostami“.
A quel punto Fuffi, che è una personcina un po’ ansiogena, potrebbe interromperci: “Grazie ma non voglio sapere tutte queste cose! Preferisco che sia una scoperta quotidiana, sai? Conoscersi a poco a poco, assaporarsi piano come un marron glacé…”.
E noi ci sentiamo un po’ scassagonadi e un po’ “capere”, cioè gente che non si fa i fatti suoi. Avremmo dovuto tacere? Forse. Però cavolo, mettiamo che Mariarca sentendo nominare Kiarostami sbraiti: “Come? ‘Ccà aro’ stamme?’. E si nun ‘o saje tu…”. Oppure commenti il finger food con frasi tipo: “Gli uomini da me vogliono solo una cosa: ‘a marenna p’ ‘a fatica!”. In tal caso io spero che Fuffi e Mariarca si sposino comunque di lì a un anno, e si trasferiscano insieme in Val Brembana, o sul presepe con vista sul Golfo di Napoli (che tanto è in scala 1:1). Forse, però, quella parolina che abbiamo detto a suo tempo al nostro Fuffi potrebbe propiziare il felice esito!
Quindi sì, facciamoci i fatti nostri che è sempre meglio, e soprattutto smettiamola coi pregiudizi: per esempio, l’intramontabile Mariarca è un mito a sé stante, e “le donne di Napoli” sono un mondo variegato, come tutte le donne.
Ma inso’, c’è una regola che vale anche per Fuffi: più ne sappiamo di una situazione/località/cultura, e meglio è.
Specie se siamo capaci in ogni momento di prendere ciò che crediamo di sapere, metterlo da parte e lasciarci stupire dalle cose, per come sono davvero.
(La mia prima Mariarca. In memoria di Loredana Simioli, che ci manca).
L’ultima volta che ho scritto sul blog, dico: vi invitavo a una presentazione. Una delle varie. Riprendo dopo un mese perché mi serviva una pausa, da tutto. Cosa ho imparato dal mio grand tour italiano?
Che i libri si vendono, pensate un po’. Sono prodotti come gli altri. È un’informazione ambigua che ci nascondiamo dai tempi di quel dignitario egizio che annoverava i papiri tra i beni materiali più preziosi in suo possesso: sono merce, si vende. Lo so, per me e per voi sono molto altro. Ma sono anche quello, e le case editrici sono aziende: dunque la ballerina ex GF vende più di me anche se non scrive per mestiere. E va bene così.
Una libraia a Monza mi ha suggerito di piazzare i miei romanzi come se fossero stati saponette, impalata all’ingresso a presentarmi ai clienti: dovevo convincere la gente che il mio prodotto era vincente. Non ha detto proprio così, ma il messaggio era quello. Taaac.
Io dico solo: perché essere multitasking per forza? È una trappola: io i libri li scrivo, la libraia taaac dovrebbe venderli. Meglio pensare all’amica che ha mollato tutto per venirmi a fare da relatrice al Salone del libro.
Per combattere in me la libraia, le piaghe ai piedi del Salone del libro, e la colica notturna che mi è venuta a Torino, adesso sto lavorando a quattro manoscritti. È uno sfogo, non so quanto durerà, e mi è consentito dal fatto che ogni manoscritto è a uno stadio differente: completo ma da rifinire, seconda revisione, prima bozza ma quasi finito, prima bozza ma appena iniziato. A volte li alterno.
Sento che questo è il mio mestiere. Lo svolgo ogni mattina, e ora ogni pomeriggio perché ho mandato al diavolo quel brutto corso di psicologia: troppi soldi per ciò che offriva in realtà. A volte mi è stato insinuato che non potevo definirmi una scrittrice, come una dilettante che spennella tele due volte al mese non si può considerare una pittrice. Io penso che potrei essere una pessima scrittrice, chissà, ma di certo non faccio altri mestieri, a ben vedere non faccio altro: è un privilegio, e un continuo vivere nella mia testa. “Vedo la gente personaggio!” (semicit).
Stamattina scrivevo in un bar col wifi: era il più autobiografico dei miei manoscritti. Dovevo spiegare perché, quando ascolto Mr. Brightside dei Killers, mi si accelera il respiro, mi porto una mano al petto e, se sto parlando con voi, vi sorrido con un po’ d’imbarazzo e spero di non urlare. Spoiler: c’entrano le circostanze in cui ho ascoltato la canzone per la prima volta (il corso di psicologia è servito a qualcosa!).
Sì, ma bando alle spiegazioni: come ve lo faccio sentire, tutto ciò? Come vi faccio entrare nella mia testa mentre sto avendo questo mini-attacco di panico?
Beh, rivivendolo io, che nel bar mi sono immedesimata in quel primo ascolto, e ci ho perso il respiro intanto che continuavo a battere sulla tastiera. Che è una novità recente: un manoscritto così lo scarabocchio prima su un quaderno, con la faccia che… bimba dell’Esorcista, scansate proprio.
Sarò riuscita, adesso, a rendere l’idea sul foglio Word? Questo me lo direte voi.
Niente paura, non cercherò di vendervi il risultato come se fosse una saponetta.
Salutando il barista molisano gli ho augurato buona giornata e buon lavoro.
Lui, che mi vede sempre in simbiosi col computer, ha risposto: “Buona giornata e buon lavoro anche a te”.
Ho sorriso: sì, buon lavoro. Il mio lavoro. Ci vuole ottimismo.
Quando sono in Italia mi sento sempre un pesce fuor d’acqua a vivere altrove, con due gatti per figli, e due ex a completare la famiglia allargata. Però anche l’Italia si fa strana nel senso che piace a me, nonostante le difficoltà.
Ieri ho incontrato due rappresentanti di Oxfam sotto la Coin di San Giovanni in Laterano: uno era “romano di Caianello”, come si è definito, e a 10 anni passava l’estate dai nonni giù. L’altro doveva essere figlio di romani di Quito, ma voleva venire a Barcellona ad aprire una consulenza di marketing. Attento alla concorrenza, gli ho detto. Intanto, proprio da Barcellona, mi arrivavano i messaggi disperati di una romagnola che rischiava di dormire sotto un ponte ieri sera, finché un paio di consigli miei e un trait d’union di napoletani a Barcellona le hanno trovato una sistemazione.
In quel momento, chiamatemi illusa, ho vissuto l’Italia come quello che vorrei fosse sempre: un’entità più che un territorio, o una bella parte della mia terra che si chiama Europa, e non è quella che vediamo in TV. In questa Europa che conosco io, l’inquilino ucraino ospita conterranee in fuga per València, e nel mio paese si apre un progetto per la numerosa popolazione che proviene dalle zone di guerra, compreso Massimo/Maxim, 11 anni, che odiava la casa di fronte alla mia perché era “in costruzione da quando lui era alle elementari”.
In realtà, si diceva, quella casa era in costruzione da quando io andavo all’asilo.
Ma questa è la volta buona, Maximino: stavolta la stanno costruendo davvero. E sì, pare tutta storta, troppo grande in certi punti e troppo scoperta in altri. Ma intanto cresce, ora che di fronte non ci sono più io.