Di giorno non faccio altro, più che un lavoro è un’ossessione.
Ho bisogno di riordinare dei fatti al limite del surrealismo che sono accaduti a me, a gente che conosco, e a qualcuno di cui ho letto.
Nessun dramma irreparabile, solo le contraddizioni di una città in cui avere una casa diventa un privilegio, e occuparla… una barzelletta.
Solo oggi, 6 novembre, il mio libro è gratis in formato ebook. Ecco il link.
Non fingerò di aver scritto un horror classico, il vero orrore è il precariato. E il barbiere assassino, a Barcellona, era una leggenda prima di Sweeney Todd.
Di giorno non faccio altro, più che un lavoro è un’ossessione.
Ho bisogno di riordinare dei fatti al limite del surrealismo che sono accaduti a me, a gente che conosco, e a qualcuno di cui ho letto.
Nessun dramma irreparabile, solo le contraddizioni di una città in cui avere una casa diventa un privilegio, e occuparla… una barzelletta.
Solo oggi, 6 novembre, il mio libro è gratis in formato ebook. Ecco il link.
Non fingerò di aver scritto un horror classico, il vero orrore è il precariato. E il barbiere assassino, a Barcellona, era una leggenda prima di Sweeney Todd.
Te la sei cercata? Non basta: te la devi meritare.
Ma l’avrei scoperto solo a casa, il tempo di far cadere dal pero due commesse de La Central in c. Mallorca, che sembravano ignare di cosa fosse la… Cultura de la violación (2019, pubblicato inizialmente da Flâneur nel 2017). Poi una delle due ha scoperto quale fosse la casa editrice, e in un balzo mirabile ha sottratto alla mensola più alta questo libricino, che pareva un pamphlet. Sette euro.
Ero già pronta a leggerlo nel bar della libreria ma, quando mi sono arresa all’afa della terraza e mi sono installata all’interno, ho sperimentato la carrambata del secolo: seduto accanto a me c’era un compagno delle medie di mio fratello! Avevamo venticinque anni da riassumerci davanti a un café con hielo, e tra le tante novità c’era il fenomeno descritto da Giulia Blasi: sempre più uomini si fanno sentire anche in Italia contro la cultura dello stupro.
Dunque mi toccava tornare a casa, coi capelli appiccicati alla schiena sudata, per poter aprire il libro e… leggere della violenza a Brigitte Vasallo.
L’attivista non ne aveva mai parlato prima, ma ha ricevuto la prima gogna mediatica per le sue riflessioni sul caso de La Manada: una profusione di commenti sul fatto che a Vasallo, una “bollera malfollada” (“lesbicaccia che non scopa”), non poteva mai succedere ciò che era accaduto alla ragazza violentata (letteralmente) dal branco. E allora, avverte l’autrice, se le donne sono disumanizzate e considerate un oggetto, e se “l’unica possibilità di esistenza dell’oggetto è attraverso il soggetto”, si arriva al paradosso: te la devi meritare, la violenza. Devi esserne degna, perché nella cultura dello stupro diventa un “regalo di esistenza, una ricompensa per l’oggetto”. Le prove? L’immagine dei tweet ricevuti a proposito de La Manada, tra i quali per me vince ZoteParo: “A questa lesbicona femmigrulla non la stupra neanche il moro più in astinenza, aaarrrgggggg” (p. 17, l’ultima parola è copiata paro paro, il resto qui e in seguito è una traduzione mia).
Non è mica una questione di uomini e donne, spiega Vasallo: secondo il CDC, un bambino su sei e una bambina su quattro subiscono abusi sessuali prima di compiere 18 anni. Dunque, ciò che le vittime di stupro hanno in comune “non è il fatto di essere donne, ma il fatto di essere state violentate da uomini”. Lo stupro non si riduce a “uomini stupratori e donne stuprate”, ma a una questione di “potere strutturale spalleggiato da meccanismi di cosificazione”, che hanno come bersaglio le persone in posizione subalterna. Nelle campagne antistupro c’è il mostro cattivo, o la vittima che piange: mai che impugnasse una pistola, perché, come Vasallo segnala altrove, decostruire la mascolinità significa che gli uomini ora possono piangere, ma decostruire la femminilità non include l’idea che le donne possano usare la violenza. No, devono essere le vittime perfette. “Per poter disporre di un’altra persona, bisogna disumanizzarla, renderla irriconoscibile, esogena, alterizzarla” (p. 15). Mi viene da pensare all’immagine del “pezzo di carne” (che di certo, postilla vegana, non “alterizza” solo gli individui della mia specie!), ma Vasallo imperversa: c’è una dinamica dello stupro come castigo, come affronto che uomini di origini geografiche diverse si fanno tra loro, attraverso i corpi delle donne che rappresentano la patria. Ecco qua la prospettiva “razziale”: a Colonia quanti uomini bianchi commisero abusi? Quante donne razzializzate subirono quegli abusi? E Abu Grahib non è stato il tipico esempio di stupro usato verso degli uomini (anche da militari donne) come arma da guerra?
A questo punto entra in contropiede Úrsula Santa Cruz Castillo, nel secondo saggio del volumetto: può il genere come categoria di oppressione spiegare la violenza esercitata su donne razzializzate e impoverite dai colonialismi? “Continueremo a insistere sul patriarcato come sistema di oppressione comune a tutte le donne?” si chiede Castillo a p. 27, e mi ricorda la giovanissima attivista latina che non riesco più a rintracciare, ma che ironizzava su TikTok: “Beata te, se il massimo dell’oppressione che ricevi è per il fatto di essere donna!”. Anche Castillo non le manda a dire: “Il vostro universalismo ci nega e ci annulla”, in quest’Europa che promuove il modello della femminista egemonica “emancipata”, che l’8 marzo grida “Se toccano una, ci toccano tutte” intanto che lo stato guatemalteco assassina proprio un 8 marzo 43 ragazzine e adolescenti che non erano bianche, né europee, dunque non erano “donne”. Non sono donne neanche le molte migranti cis e trans che “si definiscono come lavoratrici sessuali, mettendo in discussione e decostruendo il discorso stigmatizzante, moralista e vittimista del femminismo abolizionista e molte associazioni di ‘salvatrici delle puttane'”.
Castillo è arrabbiata e sa che è un problema (vedesse quanto lo è in Italia, dove il tone policing la fa da padrone!): le femministe bianche si sentono “aggredite” dai sistemi di lotta delle razzializzate, ma se fossero nei panni di queste ultime capirebbero la necessità di togliersi “questi occhiali che vedono solo il genere” (p. 35), e ripenserebbero un po’ la tanto nominata sorellanza.
E qui, non venitemi a picchiare apposta, ho pensato all’ultimo accorato appello della scrittrice che ha unito e commosso mezza Italia, e che ci invitava a non dividerci tra noi facendo il gioco dei misogini: l’idea in sé mi trova d’accordissimo, anche perché non ho motivi particolari per sentirmi esclusa o incazzata più del dovuto. Ma capisco l’attivista di cui sopra che su TikTok chiosava: scusate, ma la sorellanza io ce l’ho con le mie compagne di lotta.
Certo, è così umano pensare che i “veri problemi” sono (letteralmente) i cazzi nostri. La moglie spagnola di un amico considerava delle piagnucolone quelle che non apprezzavano il catcalling, mentre spiegava a un mio ex che il suo problema era quello di mettersi sempre con delle femministe (ehm). Poi è scesa in trincea per i diritti delle donne (o meglio, i suoi), quando ha capito che nella sua azienda non l’avrebbero considerata al pari dei colleghi uomini. Antifemminista, mica scema.
Non so cosa risponderebbe a Deyanira Schurjin, che mi chiede: quella per arrivare in Europa è una “rotta” o un’avventura? Perché nel secondo caso chiunque può essere il tuo stupratore, torturatore o prosseneta, e nel primo, con un po’ di fortuna, ti violenta solo il tuo protettore, o al massimo qualche amico suo. In quelle che furono colonie occidentali, lo stupro è un’arma da guerra, o uno strumento perpetrato da organizzazioni criminali, mentre nel cosiddetto Occidente la vecchia struttura di dominazione maschile è presente “in un formato di minore intensità” (p. 41), reso invisibile e naturalizzato: la maggior parte della violenza di genere è costituita da atti individuali. Ma non ci inganniamo: anche quello porta alla vessazione e denigrazione e può degenerare nel femminicidio, perché “gli elementi centrali nella configurazione del dominio maschile sono esattamente gli stessi”. Nelle zone di conflitto, invece, “il corpo della donna si trasforma in un’ulteriore parte del territorio”, con un’aggravante in quei casi in cui le donne subiscono anche la violenza privata dei propri compagni, “allo stesso modo delle donne occidentali” (p. 42).
Inutile indignarsi con condiscendenza, formare associazioni al grido di “Mai più!”, e denunciare la violazione dei diritti umani, che ormai sono soprattutto “la base teorica del modo in cui si produce la ricchezza”, e invece di promuovere una distribuzione equa del potere perpetrano “i processi dominanti di divisione sociale, sessuale, etnica e territoriale” (p. 45). Dell’excursus, per me sconcertante, che l’autrice fa su Camille Paglia e le sue critiche al “femminismo egemonico”, vorrei segnalare soprattutto questa idea: per le donne razzializzate l’unica opzione è difendersi, invece di finire distrutte e senza risorse. D’altronde esiste un femminismo bianco “della vendetta”, che Schurjin individua in Despentes, Solanas, Salander e altre. Confesso che qui mi è venuto da pensare alle trappole del cosiddetto empowerment, tra cui quella di colpevolizzare le vittime, ma ancora una volta mi devo ricordare che, se violentano me, almeno ho il passaporto giusto per recarmi dalla polizia.
Concludo con i quesiti di Ana Llurba, che fa un excursus sul mito della partenogenesi nel Mediterraneo e mi ha messo in crisi sul “consenso” di Maria di Nazareth: non so il vostro parroco, ma il mio al catechismo lo dava per scontato! Ok, quell'”Io sono la serva del signore” arriva ex-post, però Dio è onnisciente… Vabbè. Da tutto questo retaggio culturale, secondo Llurba, ci è rimasta “un’eco misogina che difende la vittima solo se è stata previamente santificata” (p. 58), nella collaudatissima dicotomia (denunciata perfino da Jovanotti!) tra la vergine e la puttana.
Questo libro mi ha fatto riflettere anche nei punti in cui non sono d’accordo: è minuscolo ma ben compatto, su tutti i fronti. Spero venga tradotto presto in italiano, e…
… Ok, non resisto e concludo con un ultimo auspicio di Brigitte Vasallo:
“La decostruzione del razzismo, del maschilismo, della omo-lesbo-transfobia ecc. non è un privilegio di gente benestante con vite facili e stupide, senza nessun trauma e senza altre occupazioni che quella di psicanalizzarsi in eterno. Al contrario. Delle nostre ferite, possiamo farne un rizoma” (p. 13).
Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.
Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.
Presenze
Da cosedinapoli.com
Non mancano i volti buoni.
Nella Casa degli spiriti approdano due amici di passaggio per Barcellona, reduci entrambi da una rottura sentimentale. Uno dei due, napoletano, non fa che ripetere che “noi donne” siamo questo e quest’altro, al punto che resto zitta solo perché non ho le forze per replicare. L’altro, madrileno, l’ha presa così bene che il tempo di posare la valigia e sta già chiacchierando su Skype con l’ex. Alla fine ci tornerà insieme e avranno due bambini, ma intanto ci indottrina: si no puede ser, no puede ser. Perché noi italiani la facciamo così tragica? Tutta colpa del Vaticano! Io e l’altro napoletano dovremmo dare uno schiaffo morale al papa e coricarci insieme: almeno ci facciamo compagnia…
“Perché non ci dormi tu, con me?” lo sfotto, strizzando l’occhio al napoletano. “Voi spagnoli parlate tanto, ma poi…”.
Lo vediamo filare nella stanza degli ospiti, e ne ridiamo. Quella volta non mi sveglio alle cinque del mattino per piangere.
Viene anche mia madre, per “aiutarmi coi lavori in casa”: forse quello è il primo viaggio che fa da sola. Mi hanno sempre affascinato le donne della mia vita, coi loro gnocchi sfatti e le scelte così diverse dalle mie. Mamma mi porta tante cose da mangiare, e La Settimana enigmistica, che diventa il suo passatempo barcellonese insieme alla lettura delle notizie: al contrario di me non ama uscire, e adora la casa che io detesto.
Non saprò mai in che lingua riesca a litigare col capomastro, un giovedì che rincaso tardi per ritirare della paella da asporto. Dai monosillabi di lui capisco che mamma si è “permessa” di suggerire un colore diverso da quello concordato per tinteggiare le stanze, e lui non può prendere ordini da due clienti diverse. O da due donne? Non glielo chiedo. È ormai evidente che si era accollato la tinteggiatura solo per aggiudicarsi l’impianto elettrico (per il quale poi non mi rilascerà l’apposito bollino). Anche stavolta il mio corpo agisce prima di me, e mentre accompagno alla porta il furfante sto già chiamando un imbianchino suggerito da un altro frequentatore dello Spazio: un artista che pretenderà subito le chiavi, per poter dare priorità ad altri incarichi, e dopo un mese di tinteggiature notturne e capatine alla dispensa non mi praticherà lo sconto promesso.
Se i lavori in casa sono un inferno, quelli a Barcellona lo sono di più.
L’artista-imbianchino si farà aiutare proprio dall’amico che me l’aveva consigliato (altra coincidenza strabiliante!), e che mi saluterà ironico al mattino, quando mi vedrà uscire dalla stanza a mezzogiorno passato.
Non gli spiegherò che a volte piango fino all’alba, quindi mi addormento tardissimo, e comunque mi tengo il computer sul comodino, in caso sia abbastanza lucida per seguire il corsetto online. A tinteggiatura finita, sotto la mano di pittura fresca scorgerò ancora brandelli di parato.
Poco prima che mia madre riparta, un’attrice napoletana viene a propormi un progetto artistico che non andrà in porto, e a darmi una dritta: nel suo palazzo al Poble-sec si sta liberando un atticuccio piccolo e gelido, e a buon mercato. Aspetto che mamma prenda l’aereo per contattare il proprietario. La Casa degli spiriti sfida ogni mio tentativo di sentirmici bene.
Per qualche giorno mi fa visita pure una madre che mi sono scelta io: la professoressa che mi ha iniziata al femminismo accademico, e che tutta entusiasta farà avanti e indietro con dépliant di musei e bigiotteria da mercatino, chiedendosi perché io sia così refrattaria a divertirmi.
In suo onore invito gente dello Spazio, armata di bombolette e striscioni intonsi: parteciperemo al corteo dell’8 marzo! In mailing list ho scherzato sul fatto che stavolta non griderò lo slogan “La taglia 38 mi stringe la patata!”, e un’attivista queer si è prodigata in una filippica sull’uso dell’ironia nella lotta al patriarcato. Ho capito, replico, ma ormai la 38 non mi stringe un bel niente. Dovrei forse restare a casa?
No. Mentre prepariamo gli striscioni, qualcuno chiede notizie di Bruno: a quanto pare non frequenta lo Spazio da un po’ (come me, d’altronde), e non si trova in un periodo felice. Prima che gli altri possano replicare, scappo a preparare altro caffè.
Alla manifestazione mi diverto, grido slogan, mi commuovo. Un video dei The Jackal mi ha confermato che l’8 marzo in Italia significa ancora mimose e spogliarelli, e questa cosa a quanto pare farebbe molto ridere. A Barcellona, mentre il corteo si prende tutto il centro, la vetrina di un negozio italiano di intimo viene bombardata di scritte, con sommo scandalo della figlia di un Guardia Civil, trascinata alla manifestazione da una collega che bazzica lo Spazio. Io fisso come ipnotizzata quei reggiseni di pizzo dozzinale, imbottiti pure se vestono una terza abbondante. A seppellirli è bastato un colpo di bomboletta: “Stop alla pressione estetica!”. È la prima volta che mi imbatto in quell’espressione.
“Noi uomini pretendiamo troppo da voi” aveva ammesso Bruno una volta. La frase mi aveva infastidito anche così: qualsiasi pretesa era troppo, non importava se fosse grande o piccola…
Scaccio via il ricordo e agito di più lo striscione.
Qualsiasi cosa pretenda Bruno, non è più affar mio.
A mercoledì per il seguito!
Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premioproprio figo.
Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.
Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.
Scoop!
Mi rivedo nell’atto di ridere, mentre scelgo un’oliva.
L’amico invece sgranocchia delle patatine, già stanco delle mie lagne.
L’ho reclutato all’ultimo momento per festeggiare la fine del trasloco, che è durato quasi tre giorni. I vicini pakistani che caricavano gli scatoloni sui loro carrelli mi rivolgevano le stesse tre frasi in inglese o in spagnolo, mentre io in urdu sapevo dire tipo “ti amo” e “lenticchie”: come risultato dell’esperimento linguistico, dopo aver già pagato i duecento euro pattuiti mi sono ritrovata il ripostiglio ancora ingombro. I vicini e i carrelli erano spariti, e il giorno dopo dovevo riconsegnare le chiavi, o addio caparra.
Mentre risalivo a prendere le ultime cianfrusaglie, sulle scale mi ha seguita una donna tarchiata, coi capelli ondulati color biondo platino e le zeppe di sughero molto alte. Non era la prima volta che la vedevo: a parte i capelli mi ricordava Iside, la prostituta dal cuore d’oro di Brutti, sporchi e cattivi. Le ho dato la precedenza perché reggeva due buste della spesa, e sono riuscita così a coglierla mentre si fermava davanti a una certa porta, armeggiando con un mazzo di chiavi dall’aria antica. L’uomo col mastino deve aver sentito il frastuono, perché si è affrettato ad aprire.
Così l’ultima immagine che mi rimane di lui è quella di un’ombra al di là di una porta socchiusa.
“Ancora non riesco a usare la chiave” ha ridacchiato Iside, accentuando un’inettitudine che di solito non deve avere. Avrà già capito quanto piaccia, a lui, salvare le donne che trova maldestre.
Stavolta ho sorriso anch’io: uno che cambiava serrature ogni giorno non faceva niente per riparare la sua! Magari pure quella era un ricordo d’infanzia…
Poi è stato il mio turno di chiudere a chiave, per l’ultima volta: niente piagnistei, dovevo cercare un Internet point che mi stampasse i documenti per il corsetto online, il cui inizio è imminente. Giorni prima un’impiegata del Consolato mi ha messo in guardia, il titolo finale mi verrà riconosciuto solo nell’università che impartisce il corso. I dubbi su quella faccenda mi erano venuti da un po’, ma ormai la retta era pagata.
Quando già stringevo in pugno i documenti, incerta se tornare addirittura a casa per riporli in un luogo sicuro, ho deciso in extremis di chiamare l’amico, che vive a cinquanta metri dalla Rambla del Raval e a duecento dalla mia nuova casa. È uno dei pochi con cui ho legato allo Spazio, e so che frequenta pure il bar in cui Bruno ha lo scambio linguistico con quella tizia biondissima.
Sono quasi le otto di sera ed è domenica, al centro della Rambla del Raval c’è la “tenda berbera”: un bar tutto drappeggi e tavolini bassi che viene montato solo il fine settimana. I proprietari magrebini non servono alcool, ma frullati e tè alla menta, qualche bibita gassata e tante olive.
Fino a poco tempo prima non sputavo i noccioli: mi faceva schifo vederli nel piatto mezzi rosicchiati, piuttosto preferivo il mal di pancia! L’amico ride della mia rivelazione, lieto di interrompere i discorsi sul triangolo svogliato che lui porta avanti, e sul tizio misterioso che mi tiene “in sospeso” da un anno. Anche stavolta non faccio nomi, ma brandisco uno stuzzicadenti come se fosse una spada: “Se quello lì non torna presto, non mi trova più”. E infilzo un’altra oliva.
L’amico approva la decisione senza fare ulteriori commenti. Il suo volto già si illumina di un sorriso più frivolo:
“Sai lo scoop?”.
Ma sì, spettegoliamo un po’! Almeno diamo un senso alla serata. L’amico fa una pausa teatrale, poi aggiunge:
“Il nostro Bruno si è innamorato…”.
Nell’istante in cui esita ho il tempo di pensare che Bruno l’ha fatto di nuovo: ha parlato a qualcuno della nostra “frequentazione” senza nominarmi. Poi l’amico prosegue:
“Si è innamorato di una con cui ha lo scambio linguistico, in quel bar che…”.
“Una tizia biondissima?”.
L’amico affoga la delusione in un sorso di tè.
“Ah, allora già lo sapevi! Vabbè, ormai lo sanno tutti”.
A venerdì per il seguito!
Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premioproprio figo.
Sentite, magari il mio migliore amico se l’è inventato, ma una volta se ne uscì che, a Pearl Harbor, i cuochi che meno soffrirono di stress post-traumatico furono quelli che lanciarono patate agli aerei giapponesi.
Fedeli a questa leggenda, in casa mia stiamo “lanciando patate”, cioè stiamo facendo cose che non contano granché nell’economia del cosmo, ma ci aiutano a sentirci utili. Per esempio, ci stiamo occupando delle visite al veterinario di questa gattina. Lascia che, quando discutiamo i dettagli col suo umano preferito, ci sentiamo rispondere che non ci sta con la testa, facessimo noi: al contrario di lui, noi non abbiamo mai avuto “i russi in città”, non in quel senso lì.
Sì, nel mio paese d’origine ci sono tante di quelle migranti che la Pasqua ortodossa si festeggia nella piazza principale, e la prole di queste signore mi fa sentire una nanerottola fin da quando va al ginnasio!
Nella mia città d’adozione, invece, stanno cancellando le prenotazioni in un ristorante che offre sottaceti fantastici: ma niente, prenotazioni cancellate anche se il tipo che serve ai tavoli (sospetto sia il co-proprietario) parla catalano e ha un figlioletto che si chiama Oriol. Ok.
Noi, intanto, lanciamo patate. Portiamo la gattina al veterinario, mangiamo i fantastici sottaceti. Per chi potesse fare di più, le iniziative si moltiplicano: portare generi di prima necessità, o anche ospitare mamme ucraine con prole al seguito (e nel vostro caso verranno proprio loro, non un senzatetto un po’ despota di nome Cri).
Poi, adesso che Sam arriva in libreria, scoprirete quanto quel rompipalle ami Dostoevskij.
Ieri sera ho accompagnato un amico a un pub in cui lui lavorava in un momento difficile della sua vita.
A quei tempi sembrava che con l’amico potessimo stare insieme, ma il momento era così difficile che lui non era pronto per una relazione. Infatti non ne ha avute da allora.
Il pub era uno di quelli che potrebbero trovarsi in ogni parte del mondo, a parte il fatto che la presentatrice del quiz domenicale traduceva le domande anche in spagnolo. Il mio amico ha trovato subito l’ex collega con cui voleva parlare, ma quello aveva appena smontato, e giocava a freccette con un compaesano scozzese. Il mio amico non si aspettava di trovarsi a tu per tu pure con l’altro, che lo ricordava ai tempi in cui era un barman depresso e maldestro.
Risultato: sono rimasta impalata diversi minuti, in attesa che 1) i due scozzesi mi degnassero di uno sguardo; 2) l’amico mi presentasse. Mi tornava alla mente il mio primo fidanzato, in paese, quando si fermava a salutare amici che mi ignoravano. Timidezza, li giustificava il fidanzato, oppure arretratezza mentale: le ragazze degli altri non si guardavano neanche. Io ci rimanevo malissimo, perché nella mia vita avevo fatto una cosa del genere solo con Angelo Branduardi. Un’estate, il cantautore era venuto con la famiglia nel mio stesso villaggio vacanze, e una volta l’avevo incontrato a spasso con la figlia, mia coetanea. Avevo invitato la figlia a un’attività dello junior club e, sapendo che il padre si beava di quell’anonimato vacanziero, l’avevo ignorato a costo di sembrare maleducata. A parte questa illustre eccezione, mi sono sempre premurata di riconoscere l’esistenza di chi si trovava a un metro dal mio naso.
Ieri sera l’amico mi ha ritrovata al bancone del pub, alle prese con una clara che non bevevo da anni, e mi ha chiesto scusa, invitandomi a giocare a freccette coi due scozzesi sprucidi. Ma io detesto le freccette, e ormai ero presa dal quiz: la presentatrice era una donna inglese sulla cinquantina, e faceva domande toste per il suo pubblico anglosassone.
“Cosa vuol dire la frase latina ‘omnia vincit amor’?”
La tipa aveva messo subito le mani avanti sulla pronuncia: “O ai tempi di Cesare non c’eravate neanche voi, oppure avete in soffitta un quadro molto speciale…”. E questo era un riferimento ovvio alla sua, di cultura. Ma in effetti la sua pronuncia del latino era un ibrido tra quella anglosassone, la nostra e lo spagnolo. Il risultato era tipo: “Omnia Vicky amòr”. Ho pensato subito alla ragazzina robot della serie anni ’80, e anche al fatto che Mr. Virgilio su questa storia ha toppato: l’amore non vince tutto.
Non ha vinto, per esempio, l’incapacità del mio amico di avere una relazione in un momento difficile. Non ha vinto neanche l’amicizia che l’amico sente oggi per me, ma che è venuta meno davanti a due persone che l’avevano conosciuto al picco della vulnerabilità.
Insomma, Vicky, mi sa che non è il tuo momento di entrare in scena. Non quando si parla dei trionfi dell’ammore.
Però ci si prova: quando ho lasciato il pub, l’amico è venuto a casa mia a scusarsi ancora e a spiegare, e abbiamo cenato insieme. L’amore è imperfetto e ha mille forme, e a volte viene usato per giustificare roba che non volete nella vostra vita.
Ma è la migliore soluzione che abbiamo in questo momento: coltiviamolo come meglio possiamo.
E la prossima volta vado da sola al quiz, e sbanco il montepremi.
Sulla strada per la Fiera vegana, ho beccato una ventenne che mangiava la papaya. Era seduta su una panchina e scodellava i semi col cucchiaino di plastica. Dicono che i semi di papaya siano miracolosi col ciclo, anche se io preferirei sempre un’anestesia locale e una pompa svuotante… Ma il punto è un altro. Io, che osservavo la ragazza, avevo nel borsone pronto per la fiera tre contenitori da asporto: uno per la lasagna, uno per la parmigiana e un terzo per due tranci di pizza. Ue’, avevo un amico a cena, mica mangiavo tutto io!
Ma comunque, intuirete che c’era una bella differenza con una che a ora di pranzo se ne stava su una panchina a mangiare la papaya… Oddio, adesso il mio vi sembrerà uno di quei post atroci in cui una donna deride le altre, troppo virtuose o discinte per i suoi gusti, e spiega come lei sia taaanto diversa.
E invece volevo solo dire che, quando vent’anni ce li avevo io, nel mio paesone c’erano teorie molto peculiari su quale fosse il pasto ideale: i nostri genitori mangiavano rigorosamente due piatti impegnativi (pasta o riso, più carne o pesce) e la frutta, almeno a pranzo. Qualsiasi deviazione da questa consuetudine era salutata con sospetto, anche se, francamente, non bisognava essere a dieta per saziarsi al primo round!
Adesso, invece, quello che viene considerato un pasto completo è, tipo, l’antipasto dei miei tempi! Sarà che vivo in una terra felicemente inappetente (si scheeerzaaa, ma quell’insalata come primo piatto…). Sarà che il millantato “piatto unico” di Jimmy Joy mi lascia tutt’altro che sazia… Insomma, ho intuito il passaggio da un’idea peculiare di pasto completo a un’altra ancora più peculiare, per una serie di motivi che a volte sono buoni e a volte no.
Un compitino che dovevo consegnare per il master (ho preso un’insufficienza, ma questa è un’altra storia) mi ha portato a leggere un’analisi comparata tra le modelle da sfilata e quelle online, che non sapevo appartenessero a categorie diverse: la conclusione era che, per rientrare negli standard di bellezza attuali, buona parte delle candidate doveva assumere sempre un fabbisogno energetico inferiore alle proprie esigenze giornaliere. Però dare per scontato che una magra si sta limitando a tavola pure è discriminatorio verso chi, come me, ha un fisico minuto (lascia che poi ci penso io a rimpolparlo…).
Nel paesone della mia adolescenza, per le donne vigevano ancora le forme felliniane, per cui “un bel culo” (che, per Mickey Rourke in Domino, è il didietro minuto e tonico di Keyra Knightley) al paese mio aveva ancora le dimensionivantate dalle maggiorate anni ’50.
Tutto questo per dirvi: prima di fare qualsiasi analisi sulla pressione estetica e i suoi dettami, rendiamoci conto che è una roba assolutamente aleatoria. E verrà cambiata da fattori come il prossimo film di culto, o una crisi economica, o gli stilisti che decidono che le supermodelle costano troppo e non sono più efficaci come attaccapanni.
E no, non concluderò dicendo minchiate come “Le vere donne hanno le curve”, o peggio, “È una questione di salute!” (la scusa preferita della grassofobia).
Dico solo: rendiamoci conto di quanto sia arbitrario ciò che può condizionarci la vita. Tipo la manfrina del BMI.
La papaya a me non piace, ma se la prossima volta trovo la ragazza di prima a mangiare banane, me ne prendo una. Poi, però, lasagna!
Niente, volevo solo aggiornarvi sull’operazione tramonto, che era il mio unico proposito di inizio anno: smetterla coi pretesti, e scendere a godermi il cielo, nell’unico momento di vita sociale che mi concedo in questi tempi contorti.
Ebbene, ogni volta che intravedo nuvolette rossicce al di là delle antenne, mantengo fede alla promessa di ricordare (non con angoscia, ma con rispetto) che quel tramonto lì non tornerà più. La storia di Angelina, invece, mi aspetterà ancora al ritorno, così come il compitino per il master: 300 parole che ho cancellato senza accorgermene l’ultima volta che le ho barattate con un bel tramonto!
Tanto vale, dicevo, il rispetto: dei nostri desideri, di noi.
A volte, “non ho tempo per questo” si traduce in “ho altre priorità“. Facciamo che queste priorità, nei limiti del possibile, siano quelle che ci rendono felici.
Bam! Il primo gennaio mi si scassa il computer. O meglio, la batteria non si carica più.
Sarà stata l’acqua rovesciata da Archie a San Silvestro? Il bicchiere era a un chilometro e mezzo dal portatile, ma la mia ciorta non si fa spaventare da queste quisquilie, specie ora che devo consegnare cinque saggetti in inglese entro il 10 gennaio, per il master in psicologia, e il 31 mi scade un concorso letterario, in cui mi menerò a kamikaze con Angelina: sono prontissima! Ancora devo finire la prima bozza.
Capirete che l’amena scoperta del computer scarico veniva da me accolta con la consueta sobrietà e pazienza zen (i vicini possono confermare, specie per il salmodiare in sanscrito). D’altronde vi ho parlato spesso della mia difficoltà ad accettare di non avere il controllo della situazione, e l’anno è iniziato con la sensazione che non controllavo una ceppa di niente. I sostituti di Cristobal ancora non avevano trovato una casa: che facevo, li mandavo in strada? D’altronde i casi di covid aumentavano, quindi gli ospiti che sarebbero dovuti subentrare ai ragazzi erano in forse.
E poi, di primo gennaio dove lo trovavo un servizio assistenza per il PC? (No, non funzionava neanche la chat dell’applicazione). E il giorno dopo sarebbe stata domenica… Non potevo nemmeno rallegrarmi della pausa lavorativa per tante persone sottopagate, perché bastava uscire di casa per trovare un negozio di scemenze aperto in vista dei Magi.
Al che, dopo un pianterello inaugurale del 2022, ho eseguito due azioni molto strane: 1) ho “fonato” di nuovo il computer dal lato della batteria, come già avevo fatto la sera prima; 2) ho sbagliato a inserire il caricatore, attaccandolo a una porta laterale che non avevo mai usato prima.
Ci credereste? Funzionava come nuovo! Il mio master era salvo, e Angelina era sempre una ciofeca, ma in fondo avete mai letto le prime bozze di Proust? No, erano fantastiche lo stesso, lasciamo perdere.
Almeno permettetemi di correggermi sulla questione “cose che non controlliamo”, dopo anni che il mio pippone sul blog si riassumeva con: “Non puoi farci niente: accettalo e farai spazio per pensare ad altro”.
Invece, il mio pimpante inizio anno mi ha insegnato che:
A volte sì che possiamo farci qualcosa, tipo sbagliare porta sul pc. Ma sono rimedi così a cazzo di cane che è inutile anche provare a congegnarli. Meglio aspettare l’ispirazione, o direttamente la botta di culo.
In ogni caso, non è vero che non possiamo farci niente: possiamo fare, appunto, tutto il resto.
Tutto il resto delle cose, intendo. Nel mio caso, ho mandato il pc a fa’ un bagno (stavolta metaforico), e sono uscita a godermi un sole miracoloso, nell’ora d’aria concessami dalle circostanze.
Al ritorno mi ero un po’ arripigliata e, senza neanche drogarmi, mi sono cimentata nelle soluzioni improbabili di cui sopra.
Riassumendo: avete questioni che sfuggono al vostro controllo? Mandatele a quel paese e fate tutto il resto. A quel punto le stronze sono capacissime di risolversi da sole.