27. AFFILATA
Ho trasformato Fame in una sorta di recital! Qui trovate il capitolo 27 di questa versione, in cui si consuma il più tristO (più che “triste”) degli addii.
Grazie, sempre!
27. AFFILATA
Ho trasformato Fame in una sorta di recital! Qui trovate il capitolo 27 di questa versione, in cui si consuma il più tristO (più che “triste”) degli addii.
Grazie, sempre!
Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.
Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

“Uno fa degli errori, ma poi si può anche correggere”.
Lo dice con un mezzo sorriso, ma ha gli occhi bassi. Lo dice perché mentre tirava un predicozzo dei suoi contro l’amore mordi e fuggi, e i corpi usati come passatempo, ho piantato i miei stivali sulla sedia (indosso di nuovo i jeans) e ho mormorato: “Come sei nobile”.
È l’unico momento di imbarazzo tra me e Bruno, alla festa di arrivederci a Già: il mio ragazzo starà via diversi mesi, per le ricerche relative al dottorato che sta finendo. Dopo, però, verrà a vivere con me, o magari ci troveremo un posto meno gelido e più grande, senza lutti a impregnarne le pareti.
A Già ho mostrato i quadri, i divani in penombra e i gatti stesi sui davanzali dipinti a olio. Gli ho detto che adesso ho fame di quelli, della serenità che mi trasmettono. Gli ho detto anche di Bruno, e del fatto che non so se mi riprenderò. Ma ce la metterò tutta, nell’ultimo anno non ho fatto altro che provarci. Anche questo mi sembra un tradimento, il più strano di tutti: cedo a Bruno la dignità di amante abbandonato, la palma di martire truffato dalla vita.
“Uno fa degli errori, ma poi si può anche correggere” mormora Bruno senza alzare gli occhi.
Siamo diventati l’uno l’errore dell’altra.
Alla fine un po’ ci riesco, a cambiargli la vita. Lo faccio quando ho smesso di provarci, e convivo con Già in una bella casa che, rispetto all’attico gelido, era giusto dietro l’angolo, come tante cose che cercavo invano. Dopo tutti i miei sforzi inutili, per cambiare la vita di Bruno mi basta girargli un’offerta di lavoro, che avevo rifiutato perché ormai ero insegnante. Stavolta quello di segnalargli offerte era un favore che aveva chiesto lui, una cosa che voleva, e a me ritornano in mente le parole che avevo sibilato a mio padre prima di quella assurda risonanza elettromagnetica: possiamo aiutare solo chi lo desidera.
A me ci pensa Già, che mi adora. E comunque non ha bisogno di farlo, per trattarmi bene. Nei mesi trascorsi lontano da Barcellona ha ascoltato spesso una canzone dei 24 Grana, gli stessi che cantavano “Uccidimi”. Questa di Già però era una canzone buffa, quasi allegra: da che neanche mi piaceva, è diventata pure mia.
A un certo punto mi giunge voce che per Bruno c’è stata un’altra ragazza, dopo la Biondissima. Ma è finita presto, e con gran sorpresa dell’amico dello “scoop” (sempre lo stesso!) completo io il racconto: Bruno trovava che le mancasse qualcosa, e in ogni caso non poteva vederla spesso perché “aveva da fare”.
Ormai ho imparato che è inutile prenderla sul personale, chi ci ferisce non lo fa solo con noi. Non siamo “speciali” neanche in quello, ed è meglio così.
Questa storia finisce quando ritorno a sorpresa allo Spazio. Ho rinunciato da tempo a quell’incarico di rappresentanza e temo di non conoscere più nessuno, così ho chiesto a Già di accompagnarmi al concerto programmato per la serata. Con lui mi sono assegnata un progetto speciale: creare un rapporto così bello che, anche se finisse in malo modo (come succederà), vorremmo continuare a esserci nelle rispettive vite (come succederà).
Tenendoci la mano salutiamo Bruno, intrappolato in una conversazione con una sconosciuta che gli piace, ma che trova noiosa. Mi accorgo all’istante di entrambe le cose, e mi ritrovo a lanciargli un’occhiata ironica, di quelle che ti aspetteresti dalla fidanzata di un amico. Mo’ ti arrangi, testone.
Bruno si svincola solo quando inizia il concerto del suo amico cantautore, lo stesso che era in visita la prima volta che lui mi ha spiegato che non ero niente di che. Un giorno scoprirò che dopo il concerto il cantautore, ignaro del fatto che nessuno sapesse, aveva detto di me: “È l’unica con cui ho visto Bruno star bene. Solo che con lei non ci voleva stare”.
Intanto, però, l’artista chiama Bruno dall’angolo che fa da palco: loro due, annuncia al pubblico, hanno scritto qualcosa insieme.
L’interpellato rifiuta di accostarsi al microfono, ma dall’angolino in cui me ne resto con Già lo vedo incurvare la schiena e capisco, mentre la canzone comincia.
Prima che inizi il silenzio, ho una cosa da chiederti.
La canzone parla di Bruno, e anche di me. Parla del suo dolore per la Biondissima, e del mio per lui. Non può farci niente, in quella canzone ci sono anch’io. C’è la sequenza del lutto che abbiamo provato entrambi in stanze separate, ugualmente buie e lontane: abbandono, incredulità, e una solitudine che verso la terza strofa diventa la tentazione oscena di andare avanti.
Prima che inizi il silenzio, tu vattene via.
Ogni nota mi risuona nel ventre che si contrae un momento, poi si distende insieme a me che già canto.
È qui che finisce la storia. Finisce col dolore di Bruno che è anche il mio, e finisce con la speranza che, per una volta, pure ci unisce. Ormai so che la nostra canzone non esiste, ma non importa.
Finalmente ho trovato una canzone per noi.
Grazie per aver letto Fame!
Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.
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Nella stanza mi assale l’aria.
Mi arroventa la pelle con un odore dolciastro, e la sua immobilità mi colpisce più della stanza stessa: è rimasta uguale a quando ci dormivo e venivo svegliata dalle auto che correvano in strada. Bruno non mi ha aperto la porta coi libri già in mano, come avevo sperato, poi si è sorpreso di vedermi nei jeans che all’improvviso preferisco ai soliti abitini. Adesso si stende sul letto, gettandosi addosso la coperta che doveva avvolgerlo un istante prima. Dà per scontato che siederò alla scrivania, di fronte a lui, ma non mi osserva per sincerarsene. Con lo sguardo fisso davanti a sé, come quando mi stava mollando, mi parla di una malattia che di solito è innocua, ma che a sentirlo quasi lo ammazzava.
La vera malattia è un’assenza che io non posso colmare. Posso solo agguantare i libri e trovare una scusa per filarmela, ora che sul serio mi viene l’affanno. Almeno non ho bisogno di chiedergli dove sia il bagno. Mi fa sorridere la tazza sbreccata, orfana del mio spazzolino. Poi poso gli occhi sullo specchio e soffoco un grido.
Ho delle macchie rosse sul petto. Anche il collo è picchiettato da puntini dello stesso colore. Che sia una risposta cutanea alla mia agitazione? Ma no, mi succede anche quando faccio docce troppo calde… In ogni caso, pochi minuti in quella stanza mi hanno lasciato quei segni addosso.
Tornando in camera non resisto: mi offro di aprire la finestra. Bruno non risponde subito, l’idea sembra spaventarlo un po’. Ma non si oppone, abituato com’era a me che provavo a fargli del bene. A volte ci riuscivo pure. Mentre recupero la borsa, un fruscio smorzato mi ricorda l’altra missione da compiere.
“Biancheria!” grido come un’imbonitrice, mentre la bustina cade sul letto. “Tienili pure, che non sono della mia misura…”.
Lui osserva i boxer puliti che aveva lasciato a casa mia una delle ultime volte. Non sono stata in grado di buttarli, né di restituirglieli prima di adesso. Non cambia espressione, sembra riflettere.
“Meno male” sentenzia infine. “Un ricambio mi serviva proprio”.
Adesso ho abitato il suo dolore.
Me lo sono visto addosso, e mi sono accorta che ne conoscevo ogni tratto. Tutto ciò che posso fare è lavorare il mio, di dolore: trasformarlo in noia, nell’esercizio quotidiano che ci vuole a star bene. È una routine impeccabile, interrotta solo dai nostri incontri sporadici. Tutti ridicoli.
“Dobbiamo trovare una fidanzata al nostro Bruno!” ammicca una ragazza alla festa di tesseramento dello Spazio. Lo dice come se progettasse una spedizione in Antartide. Mi limito a un sorriso e a un’alzata di spalle: in quel caso perfino lui, a evento finito, mi manda un messaggio per dirmi che gli dispiace per “l’incidente”.
Ma sono esposta di continuo a situazioni del genere. Una settimana prima, dei Morti di Figo mi avevano proposto davanti a tutti, a mo’ di sfida, di “sedurre Bruno”, che aveva gli occhi altrove. Io avevo scherzato: “Ah, no, Bru’, lo sai che con me non hai nessuna speranza!”. Non avevano riso, ero passata per una che se la tirava.
Un’altra sera lui è molto loquace, mi afferra le spalle come se ci si volesse appoggiare, e io mi irrigidisco a quel tocco ormai estraneo. Poi mi scopro a osservarmi le braccia come se quel gesto, da solo, potesse lasciarmi addosso dei lividi.
Un istante dopo, dalla piazza su cui affaccia lo Spazio ci giungono accordi che riconosco subito, e Bruno deve interrompere il suo sproloquio per osservarmi. Scusa, faccio, questa canzone mi mette un po’ d’ansia. Lui sorride all’idea: perché Mr. Brightside dovrebbe mettermi ansia? Non rispondo. In testa mi risuona il rullare monotono della cyclette, lo strusciare delle mie gambe magre, la battuta d’arresto delle ruote mentre visualizzo lui a letto con la Biondissima, a schermi unificati.
Prima o poi parleremo sul serio, ora lo so.
Il momento arriva quando meno me lo aspetto, a una serata in cui siamo complici almeno nella determinazione a sentirci esclusi. La padrona di casa se ne accorge, e ruba tempo ai suoi ospiti fighetti per parlare con noi due: forse ci tiene entrambi nel suo elenco di persone strane, e ci intrattiene come i bimbi che siamo (o eravamo), fino alla fine della festa.
La questione viene fuori all’improvviso, mentre sotto i lampioni di Gràcia dividiamo la strada per la metro. C’è subito accordo su una cosa: lui non vuole parlare della Biondissima, e io approvo in pieno la sua risoluzione.
Riusciamo lo stesso a fare le quattro, davanti alla metro ormai chiusa. A un certo punto lui alza la voce:
“Dopo non sono mica tornato da te con la coda tra le gambe!”.
Lo rivendica come se quella fosse una gran prova di rigore morale. Io non gli dico che mi sono scoperta a scrutare le invitate anche alla festa di quella sera: di sicuro gliene piacevano almeno un paio, se soprassedeva sulla scarsa altezza di una. Non gli parlo dei digiuni, né dell’istante sul balcone. Inizio a indottrinarlo sulla vulgata junghiana, come farei con le “seguaci” del mio blog.
Non fare come me, gli dico, non restare con la fame. Prima o poi, la parte di te che stai ignorando si libererà dall’angolo in cui l’hai rinchiusa, e ti trascinerà nella prima esperienza insalubre che le dia l’illusione di saziarsi. Tanto vale che la nutri tu, concludo. È l’unico modo per non esserne schiavi.
La parte più convincente della predica è quella in cui scoppio a piangere.
Un istante dopo, mi ritrovo premuta contro i bottoni della sua giacca. È un abbraccio diverso da tutti quelli che mi ha dato. È l’abbraccio di due che hanno sofferto insieme senza accorgersene.
Quest’abbraccio qui non lascia lividi.
A mercoledì per il seguito!
Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.
Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.
Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Va a finire che rimando sempre.
Non vado mai da Bruno a prendere i libri per l’esame di omologazione: ogni giorno sfido me stessa a non contattarlo, e comunque sono troppo occupata a litigare con la coordinatrice del corsetto online, che avrei dovuto iniziare quando era cominciata la crisi. A quanto pare sarei stata offensiva nei toni con cui ho criticato una delle letture obbligatorie: l’accusa non mi è arrivata in privato, ma è stata postata nel forum virtuale condiviso con gli altri alunni. La coordinatrice è una dottoranda senza titoli per insegnare. La sua professoressa, una figura carismatica nel mondo delle lettere catalane, finirà nei guai per il suo ruolo nell’organizzazione del referendum indipendentista. Intanto dalla segreteria mi fanno sapere che non riavrò neanche un centesimo, se mi ritiro ora che il corso volge al termine.
Anche l’estate sta per finire. L’Amico per eccellenza mi ha raggiunta a Barcellona, ma invece di cercare lavoro come si proponeva se ne sta perlopiù tappato in camera, spaventato all’idea di parlare male lo spagnolo. Ogni tanto perdo le staffe anche con lui.
La parte più odiosa di quando provi a cambiare vita è scoprire che questo non cancella le vite precedenti, e soprattutto le loro conseguenze, che ti accolli come se fossero minori a carico. Resta una punta di rancore verso questa te che prima te le ha affibbiate, poi si dilegua a poco a poco. D’altronde, neanche lei sparirà dalla sera alla mattina.
A un certo punto mi scrive la Divina, quella troppo bella perché Bruno la aggiungesse subito a Facebook: mi racconta di essere venuta alla festa del Poble-sec, il mio nuovo quartiere, e che tra le persone che la accompagnavano c’era Bruno. Peccato non esserci viste, credeva che lui mi avesse avvisata! Forse è stato dopo quel messaggio che ho inviato la critica “offensiva” al corso virtuale.
Ne sa qualcosa anche l’Amico, specie quando lo lascio tre minuti a governare una pasta risottata che mi sto sudando da mezz’ora, e lui la fa scuocere. Mi trattiene a stento dall’afferrare la borsa e piombare fuori, in cerca di una pizzeria da asporto. Io quella roba non la voglio, dichiaro: d’ora in avanti non manderò giù mai niente che non mi piaccia sul serio! Poi finisco per decidere che la pasta non è poi così scotta.
La rabbia è buona, mi ripeto, basta saperla usare. E poi se ce l’ho è perché non ci sto: non trovo più normali delle situazioni che, prima, mi lasciavo scorrere addosso.
Così cerco attività che mi facciano bene. Nelle pause studio sto passeggiando molto per i parchi, e prendo lezioni di lingue negli istituti comunali: in metro, mentre scappo al corso di francese, vedo dei ragazzi francesi andare in spiaggia e penso che vorrei essere loro, conoscere già la loro lingua per saltare il corso, andare a farmi un bagno… Ma non so più affidarmi alla gioia, ai piccoli piaceri imprevisti: mi fa paura l’idea che non dureranno, che all’improvviso mi si ritorceranno contro. Così risolvo prima le incombenze noiose.
La Casa degli spiriti è stata affittata con un contratto regolare, e con un forte sconto perché l’inquilino soprassedesse sulle condizioni disastrate. Non sento troppo l’esigenza di uscire, dunque rientro sempre nelle spese, anche se non arrivo a risparmiare niente. Sono così pallida che sembro anemica, studio tutto il giorno e rimando sempre il momento di sentire Bruno: i pochi contatti con lui non sono stati incoraggianti.
L’ho visto allo Spazio, a una proiezione di inizio estate: il Figo, che ormai spadroneggiava senza me a fargli concorrenza, ha buttato tutto in caciara, con tanto di DJ set finale. Io mi sono ritrovata accanto alla borsa un bigliettino anonimo, che si è rivelato un invito a ballare, e per scoprirne l’autore è partita una caccia all’uomo che ha finito per divertirmi. Bruno non partecipava: attendeva sul ciglio della pista improvvisata che finisse l’ennesimo tripudio swing, messo su a beneficio degli invitati catalani. Quando è scattata l’immancabile I will survive mi sono unita alle danze, iniziando a cantare a pieni polmoni. Ci ho messo un po’ ad accorgermi che non ero l’unica: alle mie spalle, con voce più potente della mia, Bruno masticava le parole di Gloria Gaynor con una furia che non gli conoscevo. Anche in una festicciola scema, l’unica cosa che ci univa era il dolore.
Allora ho abbandonato la pista, e mi sono accorta della coppia.
Si sarebbero sposati di lì a poco, per questo lui non frequentava lo Spazio come prima: lei lo aveva coinvolto nei corsi di danza così in voga tra le ragazze barcellonesi, e lui dichiarava ridendo che, se non ci andava, poteva dire addio alle nozze. Ma ora eccoli che danzavano insieme, trasformando I will survive in una canzone swing. La musica che ballavano, la sentivano solo loro.
Tornando a casa non ho fatto girare subito la chiave nel portone: mi sono allungata sul vicino Passeig de l’Exposició, tra gli alberi che ondeggiavano e le ultime cicale. La voglio anch’io quella danza, mi sono detta, Bruno e io siamo buoni solo a gridare schiena contro schiena, giurando a noi stessi che sopravviveremo.
Solo allora ho ripensato sul serio alla donnina in camicia da notte, che urlava al di là del cancello. L’avevo sorpresa a tentare la fuga dall’ospizio il giorno in cui la storia con Bruno doveva iniziare davvero. Avevo promesso di farle visita.
Quando trovo il numero della casa di riposo, non mi risponde nessuno.
Ci penso un intero pomeriggio prima di scrivere a Bruno: magari può bussare lui un attimo? È ridicolo estendere al di là di ogni logica la mia lotta quotidiana per non scrivergli! Un messaggino veloce mi risparmierebbe il viaggio fino alla strada di casa sua, e pure l’ansia nell’intraprenderlo dopo tanto tempo (ma questo non glielo dico). Lui risponde quasi subito, gentilissimo, e si impegna ad aiutarmi: mi assicura che non gli costa niente.
Quando svanisce nel nulla lo sollecito solo una volta, poi aspetto altri giorni. Infine scovo un numero alternativo, poi un altro, finché la figlia della donnina in camicia da notte non mi informa personalmente, e con molta diffidenza, che a giorni trasferirà la madre in un istituto migliore, appena fuori città. Meglio non destabilizzarla con la visita di una sconosciuta.
Riattacco avvilita da quella mia promessa non mantenuta, e al rimorso si unisce una rabbia improvvisa verso Bruno: perché impegnarsi ad aiutarmi, per poi farmi perdere altro tempo? Alle mie accuse in chat, lui reagisce attaccando.
“La tua era una scusa” sostiene con una sicurezza che mi manda in bestia. “Cercavi solo un pretesto per parlare con me. Lo so perché sto passando anche io per un’esperienza simile”.
Non trovo la forza per rispondere. Dopo settimane trascorse ad annegare nei libri, e a passeggiare con l’Amico, e a lottare con l’ansia pur di non chiamare lui, per una volta che faccio uno strappo alla regola e chiedo un favore (entrambe operazioni che mi costano tantissimo), scopro che non ho neanche diritto a un dolore che sia mio! Ma già, l’unico a soffrire al mondo è lui, per una che ci ha messo trenta secondi a lasciarlo perdere… Ah, beata lei! Stavolta la rabbia ci mette un po’ a trasformarsi in singhiozzi.
L’Amico si rassegna a entrare in camera senza bussare, sapendo di trovarmi rannicchiata sul tatami che già marcisce per l’umidità. Mi accarezza la fronte come se fossi una bambina malata.
“Perché ti accanisci, cazzo?”.
Non so spiegarglielo: forse voglio una prova che con Bruno non sia stato tutto vano, uno schifo che mi abbia sottratto solo tempo e salute mentale.
Ma queste prove si trovano solo in fondo a certe sabbie mobili: ti danno l’illusione di potertici aggrappare, e invece ti rendono così pesante che cadi ancora più giù.
Adesso so che facevo bene a evitare contatti, che voglio restare nel mio mondo sicuro, coi parchi vicini e l’Amico che si occupa di me.
Quando mi sarò rimessa un altro po’, andrò a prendermi i maledetti libri.
A lunedì per il seguito!
Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.
Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.
Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Ottocento è troppo, seicento è giusto.
Ma un fesso disposto a cacciare mille euro sarebbe facile da trovare, per il bell’uomo brizzolato che mi mostra l’attico gelido. È una casa che funziona per esclusione. L’unica stanza degna di questo nome va adibita per forza a camera da letto, trasformando così in salotto lo spazio che la unisce a una sorta di insenatura oblunga: la cucina. Da quella, tre gradini portano a una piattaforma spoglia che è stata sottratta al terrazzo condominiale, insieme a un terrazzino delimitato da una staccionata a rombi. Al di là della staccionata intravedo piantine di marijuana, e la bandiera indipendentista che, mentre arrancavo sulla strada in salita, ho visto svettare sulla facciata color bianco sporco. Le pareti sembrano fatte di carta velina: sentirò tutto ciò che dicono e fanno i vicini. A quanto pare sono pochi, e quasi tutti musicisti, il che non mi rassicura sui rumori molesti… Ma sarà una convivenza pacifica, mi promette il proprietario, e capisco che è cresciuto lì dentro come l’uomo col mastino era cresciuto nel palazzo che reclamava come suo. Solo che questo bell’uomo brizzolato, che nel profilo gmail sta facendo yoga, possiede il suo palazzo per davvero, l’ha ereditato dal padre. Forse è per questo che sfodera un sorriso zen, quando gli chiedo il prezzo e mi preparo a trattare: ottocento è troppo, seicento è giusto.
“Voglio solo quattrocentosettanta euro” annuncia lui.
Ho la faccia di culo di chiedergli uno sconto.
Ovviamente respinge la richiesta, ma si vede che gli sto simpatica. Quello che non sa è che, due ore prima del nostro incontro, mia madre mi ha chiamato per annunciarmi che la nonna era morta. Poche settimane prima, a Pasqua, nonna mi aveva rimproverato benevola perché non ero andata da lei.
La reazione immediata alla notizia è stata quella di “fare cose”: dopo una ricerca folle quanto vana per partire quella notte stessa, ho acquistato il biglietto aereo per presenziare almeno al funerale. Poi mi sono sciacquata il viso: non potevo permettermi di aspettare oltre, dovevo aggiudicarmi l’attico prima di partire.
Salutato il mio nuovo padrone di casa, per omaggiare la nonna visito tutte le chiese che trovo: mi incuriosiscono le madonne sugli altari. Quella del Carme quasi si dimentica di reggere il bambino, che sembra schiaffato lì a giustificare la presenza di una donna su un altare cristiano. La Grande Madre è ancora tra noi, direbbe la junghiana.
Mia nonna era la grande madre della “famiglia degli gnocchi sfatti“. La sua, di madre, l’aveva messa a balia quando era ancora più piccola di quel bambino sull’altare, e la balia era come una madre per lei. Quando la famiglia di sangue se l’era “ripresa”, lei aveva pianto molto. Ti riportiamo a casa, le avevano promesso. Chissà se nonna si sentì mai a casa da qualche parte.
È come uno strappo che nella mia famiglia, saltando qualche generazione, si trasmette di donna in donna: la separazione da una casa reale o immaginaria, che resta lontana anche quando ci siamo dentro.
Gli uomini che ci procuriamo “noi dello strappo” sembrano più brillanti, più interessanti di noi, ma è così evidente che siamo noi a sostenerli che mi chiedo come il particolare sfugga ai più. Mentre accenno un inchino alla madonna del Carme, mi rendo conto che da quando sono adulta mi deve ancora succedere, che uno sostenga me.
***
Chi vive fuori arriva sempre tardi.
Ammesso che fai in tempo per l’addio, non sei stata lì fin dalle prime ore. Sei eternamente in difetto con chi resta.
Io sostengo mia madre nella camminata rituale dietro al feretro: vedere mamma struccata in mezzo a tanta gente mi dà la misura del suo dolore, dello scompiglio portato da un lutto. Stringo mani, mi faccio strada tra volti che non riconosco più, mentre cerco una risposta adeguata alle condoglianze.
Quando mamma annuncia al cimitero che le ossa del nonno riposeranno insieme alla moglie, senza pensarci commento: “Certo che lui sarà entusiasta!”. Lo dico perché coi cugini, passeggiando tra i viali costeggiati da lapidi, abbiamo appena rievocato i litigi un po’ comici di quella coppia d’altri tempi. Anche mamma risponde con uno scherzo, ma si vede che c’è rimasta un po’ male.
“Too much” commenterebbe forse Bruno. Penso a lui solo in quel momento, e penso pure allo Spazio. Devo ripartire la mattina presto per quella sorta di tirocinio che inizia proprio l’indomani: perché l’omologazione funzioni, la frequenza dev’essere obbligatoria. Mia madre è livida al pensiero che io riparta già, ma le ho promesso che tornerò.
Penso a tutto questo mentre vedo la nicchia richiudersi sulla mia infanzia, sui nonni e sui loro litigi davanti agli gnocchi che si sfrangiavano nel cucchiaio. A riscuotermi è una voce che ricordavo giovane. Girandomi mi trovo davanti un uomo distinto, dai capelli bianchi.
“Questa signorina da piccola era splendida, e adesso è solo bellissima!”.
Ci metto un po’ a riconoscere il mio “primo amore”: così lo chiamavano ridendo, in famiglia, quando a quattro anni lo invocavo per giocarci insieme. Lui di anni ne aveva una ventina, e mi trovava molto buffa, e adesso che ha una moglie della mia età è tra quelli che ancora mi ricordano come “una delle più belle bambine mai incontrate”.
“E poi cos’è successo?” provo a sorridere.
Ma lui me l’ha appena detto con adulazione affettuosa: da bambina ero meravigliosa, adesso sono “solo” bellissima. Tra me e me lo correggo: più che altro sono “solo” io, io e basta.
Prima di lasciare il cimitero, un fratello di mio padre ha sottratto dei fiori freschi alla nicchia appena chiusa: li ha portati alla mia nonna paterna, che non ho mai conosciuto. Le mie due nonne erano colleghe a scuola, ed erano cresciute insieme come sorelle. Lo zio è soddisfatto del suo furto innocente:
“A mamma ho detto: ‘Te li manda l’amica tua’”.
Il giorno dopo, mentre scendo dall’aereo che mi ha ricondotta a Barcellona, mi accorgo che non sono tornata da sola: mi sono portata dietro tutte le donne della mia famiglia.
D’ora in avanti camminano tutte insieme a me.
A mercoledì per il seguito!
Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.
Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.
Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

L’amico scuote l’aureola.
“No!” grido.
L’ho stupito: osserva meglio la madonna di legno che sta torturando.
“Vuoi dire che questo cerchio non serve ad appendere la statuetta?”.
Sorrido. Ormai dovrei sapere che ciò che è sacro per qualcuno è ridicolo per qualcun altro. L’amico è un ex vicino del Raval, ha partecipato anche lui alla mia mudanza col carrello da spesa che ha parcheggiato nell’androne: gli cedo gratis le madonnine kitsch e i quadretti che tre mesi prima, al mio compleanno, mi avevano raccomandato di provare a vendere. Ma io voglio sgomberare la casa prima possibile.
“E questa cos’è?” interroga l’amico.
Non vedo subito l’oggetto che mi ha indicato: sto controllando di nuovo il cellulare. Un tempo aspettavo i messaggi di Bruno, adesso a farsi desiderare è il proprietario dell’attico gelido, che a quanto pare è ancora in affitto. Ma sono tenace: ho trascorso il pomeriggio di Pasqua nei pressi del palazzo dove si trova l’attico, in un parchetto del Poble-sec dalle pergole ricoperte di glicini. A vivere da quelle parti, mi rimetterei più in fretta. Ho ripensato a mia nonna, che si rammaricava da Skype perché non ero da lei per Pasqua, ma uscendo dal parco ho sorpassato palazzetti bassi dai colori pastello, e gli edifici moderni del Passeig de l’Exposició, coi balconi di lamiera colorati da qualche bandiera indipendentista. La mia sorpresa mi ha divertito: un quartiere di Barcellona che fosse ancora abitato da barcellonesi? Qualcuno in quelle case sperava in un futuro migliore, e in quello, almeno, volevo credere anch’io.
“Vabbè, questa roba te la lascio”.
Finalmente mi giro, sorprendendo l’amico nell’atto di cacciarsi un Gesù Bambino nella sporta già piena: l’oggetto che mi indicava prima era la mangiatoia.
“Con ‘questa roba’ il bambinello vale di più” gli assicuro.
“Allora è una culla? Anche se è piena di paglia?”.
“Serviva a nutrire un bue”.
Quello crolla il capo. Forse si chiede a che prezzo possa vendere quella paccottiglia incomprensibile.
Anche io ho tante domande su ciò che farò: il trasloco, il mezzo tirocinio che mi inizia allo Spazio… E poi la Petulante mi ha già bocciato il progetto principale.
“Mettiamo pure che trasformi casa tua in un AirBnb: di tutte le persone che te lo potevano gestire, hai scelto proprio…?”.
Non è come pensa, mi ripeto salutando l’amico che si allontana col carrello pieno. Non so ancora niente di licenze turistiche, di permessi e lotte alla gentrificazione, ma sono sicura di una cosa: con Bruno non ci sarebbero contatti. Se accetta la proposta di gestirmi la casa, ci sarà un solo incontro, per un rapido scambio di chiavi, e il resto saranno comunicazioni di servizio e versamenti bancari. Bruno ha bisogno di soldi, e io ora so che, semmai fosse possibile, dovrebbe tornare lui da me e non viceversa. Rinunciare a lui non significa smettere di volerlo aiutare.
È anche per questo che sgombero casa: l’amico agente immobiliare ha già portato degli studenti a vederla, ma nessuno la vuole, è troppo vecchia e lugubre.
Dopo che ho inviato a Bruno la “proposta indecente”, sono così tesa che uscendo dimentico la penna. Me ne accorgo che ormai sono a un passo dalla biblioteca, in una zona senza cartolerie, e per non darmi della cretina mi appello a quei manuali fumosi che sto leggendo sulla sincronicità junghiana: che la mia sbadataggine porti con sé una lezione?
Forse devo accettare con umiltà i miei errori più scemi, oppure devo imparare a chiedere quando ho bisogno di qualcosa, fosse anche una penna in prestito! Ma no, perché? Per una volta mi godrò le letture junghiane senza l’ossessione di prendere appunti…
Entro in biblioteca e, proprio accanto ai tornelli, la vedo.
Chiedo un po’ in giro ma no, non appartiene a nessuno; una penna in biblioteca, che coincidenza incredibile! Il bello è che, rapita dai miei pensieri, quasi non la notavo: forse questa è l’unica lezione possibile.
L’ho appena raccattata, quando mi telefona Bruno.
***
Mentre mi parla inizio a camminare.
Sto avanzando verso la Rambla del Raval, ma stavolta non seguo la strada del mare. Sono solo affari, ricordo, e lui è un po’ impacciato ma gentile: prima di discutere del progetto deve darmi una notizia che “forse già conosco”. Si sposa, decido. La Biondissima è incinta e si trasferiranno nel suo paese, dove lui insegnerà italiano e saranno felici, e…
“Parto”.
Guardo davanti a me la strada sozza, e penso subito a un tarocco che nei mesi più bui pescavo spesso, se mi interrogavo su Bruno: il Mondo. Spesso indica un viaggio. Che scema che ero: Bruno non parte mai. Minaccia sempre di farlo, poi resta. Almeno so per certo che con la Biondissima è finita: dal tono di lui è evidente che quella partenza è una fuga.
All’improvviso c’è qualcosa di nuovo a unirmi a questo Bruno sconosciuto. È una sorta di pietà, forse reciproca: un’umanità di amanti sconfitti, distrutti dai propri sbagli.
Lui invece non afferra i miei accenni ad analisi mediche, alle compresse che ancora prendo per assicurarmi di non produrre latte… In che senso, vuole sapere. Forse gli verrebbe più facile credere di avermi messa incinta, piuttosto che immaginarmi insonne e inappetente (e piena di latte!) per qualcosa che lo riguardi in prima persona.
Quando riattacco non so ancora che Bruno farà il prezioso per un po’, poi respingerà la mia offerta. È facile da immaginare, ma sono troppo distratta dalla scoperta che il mondo è uguale a prima. In fondo, alla Biondissima avevo dato tre mesi, e poi mi viene in mente una frase lapidaria di mamma al telefono, nel caos dei primi tempi senza mangiare.
Che lui stia con un’altra o entri in convento, a te che importa? L’unica questione che ti riguarda è che non vuole stare con te.
Il bello è che stavolta non gli servirei neanche per consolarsi: è chiaro che a questo dolore qua non vuole rinunciare. E io?
Io sono occupata a nutrire questa forza che non mi molla più, che dopo anni di abbandono pretende tutta la mia attenzione.
Il mio corpo, adesso, è aperto solo a lei.
A lunedì per il seguito!
Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.
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Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.
Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Il corpo non sente ragioni.
Un mattino di aprile lo sento prendere forma sotto le lenzuola: rifiuta l’assenza a cui l’ho costretto, reclama il suo spazio. Affondando la mano sotto al lenzuolo riconosco i percorsi che piacevano a lui. E io, dov’ero? Dove sono ora? Devo ritrovare la strada per raggiungere me, solo me. Per un po’ ci riesco, poi succede. Mi balena davanti l’immagine di lui.
Allora balzo fuori dal letto. Non sento più il corpo, non so perché sta correndo in corridoio, a piedi nudi, vestito a metà. So solo che non ci riesco. Non riesco a tradire Bruno con me stessa, e allora mi vedo spalancare la porta del balcone. È quello su cui una notte ero rimasta intrappolata, costretta a osservare la mia vita da fuori. Tra la ringhiera e la pianta dalle radici pensili mi aspetta la strada. È l’istante peggiore. Il mio corpo è staccato da me, per un momento non so cosa sta per fare.
È in quel momento che viene lei. Non la avverto subito, ma sento di nuovo la maniglia sotto le dita e, scivolando a terra, mi ci aggrappo il tempo necessario a riconoscere quella cosa senza nome, la Forza che per salvarmi dalla strada mi butta a terra, sul pavimento.
Stavolta però è diverso. Stavolta ho visto ciò che rischio di fare quando la mia mente insegue i suoi fantasmi, e il corpo deve salvarsi da solo. Devo farli incontrare di nuovo, mente e corpo: unirli come è giusto che sia.
Se c’è un momento, è questo. Non è il crollo improvviso del mio castello di carta, non è la fuga verso il mare, o la mia voce che rompe il silenzio davanti a cento persone. Non è il terremoto, non è il giorno in cui imparo a mettere alla porta un uomo che mi vuole ingannare.
Eccolo il momento, eccomi. Per muovere quei passi in corridoio, per infrangermi contro i vetri di un balcone, ho iniziato a camminare una notte di novembre con un ragazzo che mi faceva ridere, e il mio cammino si arresta ora, davanti a queste radici pensili che si aggrappano oscene alla vita. Anche io scelgo quella, più di tutto. Più di lui.
Dio, devo fare tante cose.
Devo uscire dalla Casa degli Spiriti, dalle pareti ancora sfrangiate sotto la mano di pittura. Devo vedere quell’attico gelido, confidando nella primavera. Devo studiare cose che ho rimandato troppo a lungo.
E devo imparare a camminare: tutte le volte che servono.
Ma in quel momento non serve neanche quello. Mi basta piantare i piedi sul tappeto polveroso che lambisce la porta del balcone, e fare un ultimo appello alle gambe: ci sono. Fredde, indolenzite, ma ci sono.
Così la mia presa sulla maniglia del balcone si fa di nuovo forte, poi si allenta.
Finalmente mi sono rialzata.
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Ma sì, proviamo.
Ormai mangio almeno due pasti al giorno, e dormo più di cinque ore. E poi quand’è che ricompio gli anni di Cristo? Inoltro l’invito a tutte le mailing list, e poi chi viene viene.
Gli psicodrammi mi invadono casa prima ancora che la festa inizi. Il tipo che mesi prima mi aveva chiesto di mediare con la ex mi chiama ora per sapere se può portarsi dietro “un’amica”. Avvisata della richiesta, la ex annuncia che non parteciperà più, anche se il tipo intanto ha deciso a sua volta di rinunciare al suo “+1”. Alla fine il tipo si presenterà da solo, verificherà l’assenza della ex e telefonerà all’amica per farsi raggiungere. Continua la saga dei trentenni con vite sentimentali da scuola dell’obbligo, e io non posso fare la morale a nessuno.
Per mediare invano tra le parti in causa, arrivo un po’ in ritardo all’appuntamento con la parrucchiera: voglio rimuovermi dai capelli il biondo giallastro che mi rendeva un incrocio tra Shakira e Lady Gaga, e ritrovare il mio colore naturale, anche se tutto ciò che posso fare è avvicinarmici con un’ulteriore tinta, un’altra finzione. Tempo al tempo, mi consiglia questa latina di Miami che nella mia vita ha sostituito le catene di parrucchieri, con le apprendiste che mi facevano troppo bionda e si dileguavano in cerca di un lavoro migliore. Questa qui, invece, promette di rimanere.
A casa recupero ombretti e pennelli, ma il correttore non mi riesce a nascondere le occhiaie, e sul volto smunto il mio naso sembra enorme, la bocca larghissima. Il vestito è nero e stretto, con l’orlo di pizzo sulle coppe preformate: fasciata in quello, sembro ancora più magra.
Per l’occasione Bruno è tra i primi ad arrivare. A meno di non contattarlo apposta, mi era impossibile verificare se venisse, né sapevo cosa sperare. C’è come uno scollamento tra il pensiero costante di lui e la visione di quest’uomo coi capelli più lunghi, che come regalo mi ha portato anche quest’anno qualcosa da mangiare. È in bolletta e non trova lavoro, o così gli sento spiegare, in inglese, a una donna alle spalle del buffet. Quando mi giro a vedere chi sia la sua interlocutrice soffoco un’imprecazione: a lei non avevo pensato. Mi ero preparata alla possibilità che Bruno passasse il mio compleanno a sdilinquirsi, come l’anno scorso, davanti all’amica Occhiblù, che si è presentata subito dopo il lavoro facendomi sentire un verme, per il diradarsi dei nostri contatti.
Invece non avevo pensato a questa ex collega dell’azienda che mi aveva licenziata: è proprio il suo tipo, magra e squadrata, gli occhi verdi spalancati in un’espressiome di eterna meraviglia. E la Biondissima, allora? Non devo chiedermelo, devo badare agli altri invitati. Una ragazza che mi ha regalato una crema profumata si lamenta: e la torta? Non ci avevo neanche pensato, né a quella né alle candeline… Avrei avuto paura a esprimere il desiderio.
Il mio stato d’allarme dura poco: Bruno finisce per isolarsi da tutti, gli occhi puntati sul cellulare. Mi tocca tornare a rispondere alla gente che mi dice che sto benissimo in quel vestito, ma cavoli, tanti chili persi saranno salutari?
Verso mezzanotte, i pochi invitati rimasti si stanno organizzando per andare in un bar, a prendere il bicchiere della staffa. Incapace di accompagnarli mi piazzo sulla porta di casa, per il rituale dei saluti.
Ancora auguri, grazie per la festa. Grazie a te.
Ciao, auguri, alla prossima. A presto.
Solo Bruno mi passa davanti in silenzio, gli occhi incollati al telefonino. Riesce a scendersi mezza rampa di scale prima che qualcuno lo rimproveri: che fa, non saluta la festeggiata?
Allora alza la testa tutto confuso, come quando dormivamo abbracciati e si risvegliava troppo presto, svegliando anche me. Stavolta sembra sorpreso di trovarsi su quelle scale, e per un istante deve strizzare gli occhi per mettermi a fuoco.
“Ah, sì, ciao” mugugna, tracciando un gesto nell’aria. E torna al telefonino.
Un giorno mi accennerà che associa la Casa degli spiriti a un brutto ricordo, una brutta notizia ricevuta proprio alla mia festa. Non ho voluto approfondire finché non ho iniziato a scrivere queste pagine, e d’altronde non era necessario. La Casa degli spiriti, teatro delle mie ore più cupe, era per lui associata al ricordo di un’altra. Dell’altra.
Ma sul momento ignoro tutto questo. So soltanto che un unico invitato, tra tutti gli amici e i conoscenti e gli imbucati senza preavviso, un unico invitato se ne stava andando senza salutare, senza neanche riuscire a scorgermi mentre lo guardavo desolata.
Così concludo la serata tra il divano e il balcone, distesa a piangere su un tappeto rosso su cui qualcuno ha fatto cadere dello champagne.
A lunedì per il seguito!
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