Di giorno non faccio altro, più che un lavoro è un’ossessione.
Ho bisogno di riordinare dei fatti al limite del surrealismo che sono accaduti a me, a gente che conosco, e a qualcuno di cui ho letto.
Nessun dramma irreparabile, solo le contraddizioni di una città in cui avere una casa diventa un privilegio, e occuparla… una barzelletta.
Solo oggi, 6 novembre, il mio libro è gratis in formato ebook. Ecco il link.
Non fingerò di aver scritto un horror classico, il vero orrore è il precariato. E il barbiere assassino, a Barcellona, era una leggenda prima di Sweeney Todd.
Di giorno non faccio altro, più che un lavoro è un’ossessione.
Ho bisogno di riordinare dei fatti al limite del surrealismo che sono accaduti a me, a gente che conosco, e a qualcuno di cui ho letto.
Nessun dramma irreparabile, solo le contraddizioni di una città in cui avere una casa diventa un privilegio, e occuparla… una barzelletta.
Solo oggi, 6 novembre, il mio libro è gratis in formato ebook. Ecco il link.
Non fingerò di aver scritto un horror classico, il vero orrore è il precariato. E il barbiere assassino, a Barcellona, era una leggenda prima di Sweeney Todd.
A me la serie sul Gattopardo è piaciuta, ma niente paura, non volevo parlarvi di questo.
È che a un certo punto Tancredi, che è infelice con Angelica ma almeno ha una moglie bella e ricca, dice a Concetta che “È andato tutto come doveva andare”.
A me ‘sta storia ha sempre fatto imbestialire.
Vi cito un’altra pietra miliare: Dirty Dancing. Non fate quella faccia, Baby fa al padre un discorso esemplare, una roba tipo: “Volevi che cambiassi il mondo, ma ciò che intendevi era che io sposassi uno di Harvard e fossi come te”.
Oppure in Dogma, la tizia che si sente dire “Dio ha un piano” grida: “Che c’era di sbagliato nel mio, di piano?”.
Amen, sorella.
Perchè quando io ho voluto essere ragionevole e cercarmi un lavoro, invece di scrivere, la crisi economica ha spazzato sia il lavoro che gli anni sottratti alla scrittura.
Da quando sono folle e faccio scelte che nessuno capisce, scrivo una bellezza e sono contenta.
E poi c’era il tipo catalano multiculturale, e simpatico, gentile frontman di un’associazione che promuoveva scambi culturali e commerciali (più commerciali, sospetto) tra Spagna e Asia. Quando conobbe il mio ex del Raval, e il riferimento da solo dovrebbe farvi capire che si trattava di un pakistano, mi manifestò il suo sgomento, senza spiegarmene il perché. Non riusciva neanche a credere che non capissi, ripeteva: ma tu fai studi di genere! 15 anni dopo, provo a tradurre: tu sei un’emancipata donna europea, che ci fai con un pitocco ignorante che probabilmente ti vuole in casa a figliare? (Ehm, no, era fiero del mio dottorato). Ed era stato questo tipo ad avvicinarci, in cerca di coppie miste. Le voleva, suppongo, miste ma non troppo. Con lui che di pakistano avesse solo la pelle, capi’? Uno che intanto si era “sgrossato”.
Non voglio essere assurda, negare che sia stata meglio con uomini più affini a me per gusti e aspirazioni (le origini c’entrano poco). Ma con loro è finita uguale, e senza i figli che quel tipo così diverso da me, invece, voleva.
Lo so, il mondo va così. Diciamo tanto che gli opposti si attraggono, ma gli studi ci dicono che finiamo per fare ciò che ci si aspetta da noi, con la gente a noi più vicina. E bene così.
Ma davvero le cose funzionano di più, se vanno “come dovevano andare”?
Non nego che abbiano più senso. Solo che forse non è tutto il senso che crediamo.
Ho trasformato Fame in una sorta di recital! Qui trovate il capitolo 27 di questa versione, in cui si consuma il più tristO (più che “triste”) degli addii.
Quando vennero a Barcellona dei delegati di Potere al Popolo, andai alla riunione con piacevoli aspettative e una grande curiosità: e mo’, che ci dicevano?
Quelli che… “noi non siamo scappati dalla nostra terra”, che argomentazioni avrebbero usato mai con noi scappati di casa?
Forse avrete già indovinato. Il discorso s’incentrò su un cauto: “Voi ve ne siete dovuti scappare”.
Era proprio imbarazzante l’idea che volessimo essere lì: perché “la terra”, banalmente, è pure un pianeta, dove purtroppo le ingiustizie sono di casa un po’ dappertutto. Anche le fatidiche radici sono vissute in modo diverso da ogni singolo individuo. Quando rivedo bene La ragazza con la pistola, espatriata per onòre, mi chiedo se io, in realtà, non sia inglese, rispetto a una strepitosa Monica Vitti che rifiuta la birretta con la ex del fidanzato e sembra stare sempre lì a chiedere: “Ma voi non avete sangue nelle vene?”. Sta’ a vedere che io, oltre che inglese, sono anche vampira. E sono sicura che, cinquantadue anni dopo, “vampiri” che sfuggano agli scanzonati cliché da commedia all’italiana si trovino eccome, nella mia terra d’origine. Per questo ripeto che c’è chi parte proprio perché ha coraggio, e chi per coraggio resta.
Dei miei tre espatriati preferiti (e sì, torno al romanzo), Irene è partita per amore, Marco per lavoro, e Tati per “cambiare il mondo” (cosa che d’altronde, con scarso successo, provava a fare anche in Italia). Riescono a trovare quello che cercavano? Non spoilero, ma diciamo che dipende molto da quante aspettative avessero, e da un’illusione diffusa: che le condizioni esterne facciano il grosso del lavoro. Io dico scherzando che fanno il 90%, specie in una città cosmopolita come quella in cui abito: ma, secondo me, ad avere l’ultima parola è quel 10% costituito dal nostro modo di vedere il mondo.
Se quello non funziona, facciamo poco ovunque siamo. La buona notizia è che questa visione del mondo cambia, specie se propiziata da una serie di botte di culo: tipo quella di avere tempo a disposizione, e risorse per utilizzarlo.
C’è gente infatti, non dimentichiamolo, che sembra avere l’incredibile colpa di non possedere il passaporto giusto. E che, agli occhi di chi le dovrebbe rilasciare quest’ultimo, non sembra mai fare abbastanza per ottenerlo, che si tratti di cambiare pannoloni o spaccarsi la schiena in un campo di pomodori.
Alla prima riunione del Sindacato delle inquiline (plurale inclusivo catalano), un signore anziano prese la parola e tuonò contro questi “ragazzini” che trascorrono un anno a Barcellona e quello dopo a Berlino, e intanto fanno lievitare gli affitti nelle zone in cui si concentrano. A una riunione al Pati Llimona sul turismo che distrugge i quartieri, un’infermiera di mezza età sosteneva che certi abitanti italiani e francesi del BarrioGótico vivevano come eterni turisti: si ubriacavano e drogavano senza aggiungere molto alla vita sociale del quartiere.
Peccato che, a parte la sindrome da Little Italy che pure detesto, in tanti espatriano un po’ allo sbaraglio a vent’anni, perché non trovano lavoro in Italia. Allora si fanno un lavapiatti tour in varie città europee, oppure si fermano nel primo posto in cui arrivino a superare i 1000 euro al mese: senza però considerare che un giorno potrebbero non vedersi rinnovato più il contratto per raggiunti limiti d’età. Non di sola droga vive l'”expat”, che poi significa “migrante col passaporto giusto”.
Per fortuna, almeno al signore indignato del sindacato è stato risposto che viaggiare è un diritto, con tutti i problemi che comporta. Io avrei aggiunto che, se non si riesce a istituire un calmiere per gli affitti, la colpa non è di questi presunti hipster internazionali, che non possono neanche votare alle elezioni politiche.
Se vedete bene, per quanto ci sia un abisso tra passaporti giusti e sbagliati, è molto difficile che la colpa dei problemi di una società sia attribuibile a chi ne faccia parte da poco. Il fatto è che viaggiare porta allo scoperto i problemi strutturali: la voglia di “accogliere” nuovi membri nei periodi di bonaccia, a patto che se ne stiano al posto loro, per poi straparlare di radici e d’identità solo quando è rimasto poco da spartire.
Sono storie che troviamo dappertutto, e dappertutto curiamo insieme.
Lo so, questi sono anche carucci. Ora immaginateli fluo.
Ananas. Quelle graziose macchioline sulla camicetta in vetrina, erano ananas.
Con tanto di cespo frondoso, color verde carico.
E niente. Specie da quando vivo qui, sono abituata al fatto che le cose che sembravano piacermi si rivelino spesso agghiaccianti.
La prova lampante ce l’ho quando butto un occhio nei negozi di carrer dels Tallers, nella patetica scorciatoia che prendo per evitare le masse in transumanza dalla Rambla. Oltre all’episodio degli ananas, c’è quello simpatico dei fenicotteri – prima scambiati per roselline – che a stormi rosa fluo popolavano un altrimenti grazioso vestito anni ’50: quando mi sono avvicinata, sembravano lì lì per spiccare il volo sulle frangette tagliate a metà fronte delle altre viandanti.
Che ci posso fare, va così. E così va pure con cose importanti, come l’amicizia.
Perché, vedete, ai primi d’autunno atterrano i ritardatari che risiedevano qui un tempo, ma che per la scappata annuale di rito non hanno trovato un biglietto per l’alta stagione. Arrivano e scoprono, ma ormai non è più una sorpresa, che i compagni di sbronze stranieri sono quasi tutti altrove a fare “lavori seri”, e i rari amici del posto hanno l’agenda piena fino al 2022. È vero, qualche straniero resta, soprattutto se è un’amica, sposata con un catalano dell’interior: dunque, sono minimo quaranta minuti di treno, e trenta euro in “giocattoli educativi”, per andare a conoscere Oriol e Mariona, di 4 e 2 anni.
Questi fanatici della crema solare a ottobre non la prendono bene: si chiedono perché non andiamo più a ubriacarci con loro a Vila Olímpica, o a vedere una cover band degli Oasis al pub irlandese vicino alla Rambla – cose che, devo dire, avrei trovato agghiaccianti anche a diciotto anni: sono nata nonna dentro.
A quel punto, noi pochi superstiti diciamo ai redivivi: benvenuti nel nostro mondo. Perché, vedete, c’è poco da filosofare e psicanalizzare, con Barcellona: la questione è il lavoro. Con stipendi intorno ai mille e passa, per pagarsi stanze che costano quasi la metà, la gente “europea” è quasi sempre di passaggio, e quella del posto fa la sua vita.
Dunque, ai motivi che sfasciano le comitive in paese – il lavoro a tempo pieno, i figli… – si aggiunge quest’estrema mobilità. Anche perché chi resiste di call center in call center, e si vanta di condividere la casa “con una sola persona”, si ritrova sempre meno offerte di lavoro con l’aumento dell’età: un mio alunno d’italiano ha capito subito chi fosse il mio amico appena assunto nella sua multinazionale, perché era l’unico in tutto il piano che superasse i quarantacinque! In effetti, l’azienda si vantava molto di non “discriminare per età”…
Questo quadretto è un po’ più drammatico, come capirete, rispetto agli ananas che imperversano sulle camicette della nonna! Però di buono c’è questo: con le amicizie che durano, ci sono una libertà e un rispetto degli spazi reciproci che difficilmente ho trovato in altre situazioni.
Perché, vedete, da un po’ sto frequentando un australiano del gruppo di scrittura, che vive lontanuccio col marito colombiano, e una polacca sudafricana (!) che è qui da poco, mentre ogni due settimane, famiglia permettendo, un papà francese mi vede per fare uno scambio linguistico. In tutti questi casi, sappiamo benissimo che abbiamo i nostri impegni, la nostra vita, e che rischiamo di non vederci per un bel po’.
Però sappiamo anche che, se il legame sopravvive alle difficoltà esterne, e un po’ anche alle rispettive follie, si può trascinare al pari delle “amicizie di una vita”, che ci siamo lasciati dietro partendo.
Credo sia questione di spirito d’adattamento: l’amico astrofisico, che di borsa in borsa è passato da Barcellona a Bruxelles, può scrivermi dopo tanto tempo, chiedermi se so di stanze in affitto per sua nipote, e intanto raccontarmi un po’ delle relazioni fallite, dei coordinatori di dipartimento che pretendono di viaggiare su Marte, e della gentrificazione diffusa.
A un certo punto ci renderemo conto che avremmo potuto avere la stessa piacevole conversazione dal vivo, dieci anni fa, e che vogliamo rivederci al più presto.
In dieci anni si può cambiare molto, è vero.
Però, scoprire quello di noi che non cambia, e resterà anche quando saremo e faremo altro, è un’arte che s’impara piano.
Non ci resta che imparare anche a condividerla.
(Classicone kitsch che si adatta a tutti i tipi di separazione!)
Tornando a casa, ieri sera, mi sono accorta di due cose terribili:
la mia compagnia telefonica stava affrontando il più spaventoso guasto degli ultimi anni, quindi niente Wifi;
nel negozio sozzoso da asporto si erano dimenticati di darmi le patatine.
Indovinate quale scoperta mi ha fatto disperare di più.
Ho scritto in fretta a una neo-arrivata che vive accanto al locale, e conosce la ragazza, italiana come lei, che ci deve servire in venti alla volta in una zona affollatissima.
“Mi scoccio di tornare indietro” le ho annunciato “mangiati tu le mie patatine!”.
Ho scoperto che la mia interlocutrice era già sul posto.
Reduce di colloqui di lavoro di massa, in cui eliminano candidati con giochetti psicologici, la “vicina” aveva portato alla malcapitata cameriera un po’ di pasta appena fatta.
Le “decostruttrici” autoctone della monogamia approverebbero: basta con ‘sto trincerarsi in coppie escludenti, che si reggono su narrative leziose (su Tinder qualcuno scrive: “M’impegno a non rivelare in giro come ci siamo conosciuti!”). L’importante è la vicina che quando stai male ti porta un brodo caldo.
In questo caso, trattavasi di “pronto soccorso pasta”, in una situazione che avevo lasciato critica (la fila al bancone prometteva di arrivare fino a fuori).
Seguendo il tutto con la connessione del telefonino, ammiravo la foto delle patatine che la cameriera aveva già elargito alla sua vicina: e non perché le offrivo io, ma perché gliele aveva regalate sua sponte, insieme a una mini-insalata servita nella coppetta per la maionese d’asporto (altrimenti sarebbero stati sei euri sei, graciaaas!).
So che anche lei, l’indomita reginetta delle patatine fatte al momento, ha i suoi grattacapi con amici in ospedale, cuccioli rimasti senza umano, e qualche conoscenza con problemi di documenti a cui è stato passato il numero del sindacato che avevo consigliato io, per altri fatti.
Insomma, intanto che sulla pagina della compagnia telefonica minacciavano vendette creative, me ne stavo sulla poltrona-letto che non usavo mai a godermi uno scambio a distanza di modi di dire (“Fanne salute!” scrivevo dell’insalatina, citando la buonanima di mia zia, e mi si rispondeva “Omo de panza, omo de sostanza!”).
Le due mi hanno invitato a raggiungerle, ma ero stanca e mi divertivo già così. Tanto la prossima volta, a mo’ di compensazione per la svista, mi aspetta doppia razione di patatine!
Vi starete chiedendo da un po’ che ve ne frega a voi di tutto questo. Beh, era per dirvi una serie di cose che richiederebbero (in qualche caso hanno richiesto) un post ciascuna.
La prima è che Barcellona è una città tosta. Chi ci viene in vacanza non se ne accorge, ma metti tanta gente in un posto in cui la documentazione per lavorare non è affatto chiara, e l’economia non è poi così florida, con brutte conseguenze sul rapporto stipendi/affitti.
Poi, da capitalista speculatrice gentrificatrice e… mi sono scordata gli altri insulti, un giorno vi spiegherò quant’è complicato affittare a donne, a meno che non siano un’informatica scandinava che si sta girando l’Europa perché non ha bisogno di un ufficio per lavorare. Se latine, le aspiranti inquiline possono avere due telefoni “per risparmiare”, e vai a capire a quale devi mandare le foto dell’appartamento; se “di origine latina”, nel senso proprio di paese cattolico apostolico romano, a volte chiedono di dilazionare l’affitto, o di pagare dopo il cinque del mese, e non sempre capiscono perché un monolocale non ha lo stesso prezzo di un ripostiglio senza finestra riciclato a stanza. Spesso fanno ‘sti lavori di attenzione al cliente da 1200 al mese se va bene (cioè, quanto costa un appartamento di due stanze non proprio periferico), e devi vedere se non le licenziano in uno schiocco di dita il mese prossimo. Chissenefrega di quei pidocchi dei clienti italiani!
Va da sé che, dopo aver partecipato a questa bella iniziativa di Afrofémina, non mi avventuro nemmeno a pensare come dev’essere se hai una tonalità di pelle diversa dalla maggioranza, e non sei cittadina UE, o tutti danno per scontato che tu non lo sia.
Quindi tra compagne di sventura ci si aiuta: ci si porta un piatto di pasta, si fa passare sottobanco una razione di patatine, magari ci si passa a vicenda il pacchetto dell’App che ti consente di prenderti la roba che i locali, a fine giornata, butterebbero.
Sì, le teoriche del poliamore sarebbero fiere di questa solidarietà che a un certo punto si deve costruire, e se si libera un posto da te in ufficio mi fai sapere, e se leva le tende il coinquilino sozzo, con due fidanzate che ignorano la reciproca esistenza, vieni tu.
Sono tutte dinamiche che ho apprezzato e sperimentato, ma che, dopo undici anni qui, osservo un po’ da lontano: un po’ con le mani nei capelli per il caos che combattono, e un po’ (tanto), con ammirazione.
“Dai, vieni anche tu!” mi avevano offerto, gentilmente, le due vicine.
La connessione è tornata verso mezzanotte, e a quel punto avevo già spento il computer.
La prossima volta però ci vado.
(Una canzone che mandavano nel locale, prima che uscissi senza patatine).
Ieri era il compleanno di mio padre, e siamo andati a farci un aperitivo insieme.
Capirai, direte voi.
Invece la frase di sopra ha almeno due particolarità, riassunte da quell’ “insieme”: la prima è che ci trovavamo nello stesso pezzo di mondo, nella fattispecie il paese che ci ha cresciuti entrambi.
La seconda è che mio padre non fa mai l’aperitivo, non fuori casa. Sono anni che cerco di convincere lui e mamma, ma l’usanza è recente – dieci anni o giù di lì sono l’altro ieri, in una cittadina con velleità di capoluogo – e loro sono pantofolai come me, con la differenza che io non lo do troppo a vedere.
Quanto alla prima particolarità, sì, avevo preso l’aereo apposta per il compleanno di papà, perché mio fratello era in viaggio di lavoro: andasse almeno la figlia senza orari fissi, che i manoscritti si possono consegnare invano un po’ dappertutto!
A differenza di quelli programmati, questi ritorni improvvisi e improvvisati sono un ricettacolo di bilanci imprevisti, e non proprio auspicabili, come una foto scattata a tradimento.
Magari vengo immortalata in un vestito carino e fresco, e sembro pronta per uscire, il tempo di ravviarsi i capelli legati all’insù. E invece quello è l’abito che uso in casa – non si vede lo strappo proprio sul… ? – e i capelli sono intrisi di olio per impacchi.
Altre volte l’obiettivo impertinente mi sorprende con i capelli bagnati e un unico asciugamani a rivestirmi, tipo toga romana: in tal caso cominciate a bussare, che scendo. D’estate non asciugo i capelli, indosso tuniche leggere e sono pronta in tre ditate di correttore e due di ombretto (il lucidalabbra lo metto in ascensore).
Insomma, spesso sono tornata in paese con tutto un elenco di “risultati” (case, relazioni, lavori dall’aria stabile) e in realtà era un’impasse che chiamavo movimento. Altre volte, come adesso, sembro in pausa ma mi muovo.
“Hai finito il libro, allora?” mi aveva chiesto con accento texano il tipo che mi aveva vista scrivere per tutto il volo. Non era il primo nonnetto che in inglese si diceva strabiliato dalla velocità con cui scrivo, e sentiva il bisogno di farmelo sapere.
“Sono al terzo quaderno, ci siamo, credo” gli avevo sorriso.
“Hai scritto più di me in tutta la mia vita, devi essere una che pensa veloce” aveva concluso, prima di recuperare il bagaglio a mano.
Sto scrivendo un saggio strano, un po’ diario e un po’ GENDER, sul fatto di voler essere madre a trentotto anni, e di essermi ritrovata single qualche tempo fa. Tra “técnicas de reproducción asistida”, e amici gay (e non) che si propongono, sto scoprendo un sacco di cose di me, e degli altri.
Ieri sera ci siamo alzati dai tavolini all’aperto, che davano sul corso senza però toccarlo, e abbiamo aggirato un coetaneo di mio padre che cullava un bimbo paffutello nel passeggino:
“Sei stanco, a nonno?”.
“Ghghgugh” rispondeva il bimbo.
Stavo per spiegare a mio padre il contenuto dei miei quaderni, poi ho pensato che non avrebbe capito: in fondo aveva respinto anche il concetto di “qualcosa da stuzzicare” a cui l’aveva iniziato la cameriera, così ci erano arrivati al tavolo due miseri sanbitter e un’acqua minerale, mentre gli altri avventori s’ingozzavano di panini e cosette salate.
Portare mio padre a fare un aperitivo è stata un’impresa, e la cosa più facile del mondo. Un’impresa perché ci provavo da anni, e la cosa più facile perché stavolta mi ero limitata a proporglielo sicura di un no, mentre già mi avviavo verso la doccia per fare un giro almeno io, col fresco della sera. E aveva accettato.
Al ritorno mia madre, la più riluttante a scendere (e grazie, gli uomini della generazione di papà sono pronti in due mosse, per le donne è diverso), ha detto che l’avevamo colta alla sprovvista, ma che la prossima volta, magari, viene anche lei.
E niente, le cose succedono solo quando devono succedere.
Il bello di prendersi il caffè con un vecchio vicino del Raval è che comincerà a parlarmi di sua sorella professoressa, poi di quella sposata, poi di suo fratello che sta in Turchia, e di quello che per seguire i corsi va in moto fino a Islamabad… Al che timida gli chiederò: “Quanti fratelli hai, scusa?”. E lui: “Sei”. Insomma, quando ricambio l’onnipresente domanda: “Come sta la tua famiglia?”, rischio di ricevere una luuunga risposta.
La seconda costante è la stessa che si verifica per Abdul: non ci capiremo. Posso stare un’ora a ripetergli che prendo solo un caffè, e poi devo scappare a fare la spesa dal mitico Paki del Parlament (senza offesa, così lo chiamano): terminata la soda hipster che avrà finito per offrirmi, mi porterà in un ristorante pakistano di sua fiducia in attesa di sua moglie e suo figlio “che pranzeranno con noi”. Infine, deluso dalla mia defezione, avviserà per telefono la consorte (filippina, dallo spagnolo perfetto), e scoprirà che lei non aveva nessuna intenzione di scendere di casa, e il bambino dorme ancora. Il sospetto è che non si sia capito neanche con lei, e no, stando a quanto mi accenna lui non è la garanzia di un matrimonio felice. Confesso che a volte anch’io, in Inghilterra, ho fatto solo finta di comprendere, e ripeto l’errore ancora oggi, quando i coinquilini francesi mi parlano alla velocità della luce e capisco di più il loro cane. Ma, contrariamente ai miei amici pakistani, se un equivoco prende pieghe inquietanti so quando fermarmi e affrontare la figura di me’.
Perché, e veniamo al terzo punto, siamo entrambi immigrati. Però io sarei “expat” e i miei ex vicini no. Mia madre ha preso un aereo per aiutarmi con dei lavori in casa, la madre del mio amico non può venire perché ha “problemi col visto”. Santo cielo, io a una che ha avuto sette figli spalancherei le porte di tutti i paradisi.
Nessun problema, comunque. Adesso il mio amico e io abbiamo un’altra cosa in comune: non ci vogliono! Almeno i padroni di casa. Come è già successo a una mia collega italiana, il mio amico voleva affittare uno schifo di due vani senza ascensore, in un palazzo di merda, a 700 al mese, e gli è stato detto: “Vogliamo solo gente di qua”. Da un po’ succede a molti stranieri. E a nulla vale presentare buste paga, garanzie, caparre più consistenti… L’idea è: perché rischiare? Metti che per una volta tornano finalmente al loro paese! Poi chi li acchiappa più.
Il problema è che non attacca neanche cercando di essere pratici: se proprio vuoi discriminare, fallo con chi non può fornirti garanzie di pagamento, buste paga o documenti validi che attestino per quanto possibile che la persona non se ne andrà. Se tutto questo c’è, che ti frega dell’origine di chi ti paga? Magari ti capita quel pazzo del mio ex vicino spagnolo, buttato fuori con la forza dopo averci riempito le scale ogni giorno di cacca di cane.
E non m’importa delle storie lacrimevoli che pretendono di giustificare queste ottusità: la mia vecchia padrona di casa che a momenti conta le forchette, “perché quelli prima di me le hanno distrutto l’appartamento”; la milanese che, avendo avuto problemi con due ospiti arabi, non dava una stanza al mio ex e a sua sorella, cittadini britannici nati in UK con cognomi pakistani; il catalano che non affitta al mio amico perché dei suoi compaesani se ne sono andati senza pagare.
Il fatto è che i miei incubi, quando vivevo a Forcella, li ho avuti con un’inqualificabile coinquilina francese, e sapete che c’è? Il tizio che mi ha preso una stanza ieri mi ha sfottuta: “Ma tu affitti solo ai francesi?”.
“Perché no?” stavo per rispondere. Come dice l’amico con cui ora ho un pranzo in sospeso, “Non è che, perché uno si comporta male, ci comportiamo tutti male!”.
E siccome in tanti non afferrano questo concetto banalissimo, ne approfitto per riportare il contenuto di un meme che ho visto in giro:
Pretendere che i musulmani chiedano scusa per il terrorismo è come chiedere ai musicisti di chiedere scusa per Gigi D’Alessio.
Un po’ di gente in Plaça Catalunya, per i migranti
Ero indecisa tra questo titolo e “La nit degli imbrogli”, pensando alla giornata di ieri.
Lo so, vi starete chiedendo perché non sto già a Repubblica a scegliere i titoli in prima pagina. Ma vedete, la giornata di ieri si era aperta con il tecnico che, in chat, ci chiedeva 60 euro per riparare una serratura “con maniglia nuova”, e 100 per la stessa serratura, senza cambiare la maniglia. Tra il primo e il secondo preventivo era passata una notte di mezzo, e il tipo non aveva neanche avuto l’intelligenza di andarsi a rivedere i WhatsApp iniziali, prima di spararci un’altra enormità.
Era con umore tetro, quindi, che mi apprestavo ad andare alla grande manifestazione contro la Ley de Extranjería, che non permette agli extracomunitari neanche di risiedere ufficialmente nella casa in cui vivono. Queste manifestazioni sono belle partecipate, a Barcellona: infatti eravamo più di mille, e secondo la Guardia Urbana, eh. Solo che, cvd, gli amici che cercavo non erano tra gli energici ragazzi africani (e non) in testa al corteo, ma in coda. Tra autoctoni che, come aveva osservato uno dei compagni, “Sono come noi: contenti di essere qui, ma anche stanchi della settimana di lavoro”. Passo strascicato verso la Rambla, pochi slogan improbabili…
Io mi sono allontanata all’altezza di carrer del Carme, alla vana ricerca di un fabbro nel mio Raval. Tutti chiusi anche lì. Sapete dove l’ho trovato, alla fine? Su Facebook: italiano con buone referenze e tariffe FISSE. Accordo raggiunto su WhatsApp in un breve scambio di battute e fotografie “artistiche”, tra maniglie e lucchetti. Cari luddisti antisocial, sinceramente nun ve capisco.
Il momento di scollamento è venuto la sera, quando il mio telefonino mi ha annunciato in spagnolo che “El primer ministro italiano renuncia a su cargo”. Da Nassirya in poi, quando leggo notizie sull’Italia in un’altra lingua, mi viene questo momento di alienazione in cui non so dove mi trovo.
Poi mi sono ricordata: mi trovo un posto che ci ha messo mesi, a sua volta, a scegliersi un president, con tutti quei candidati in galera o giù di lì. Ok, lo confesso: mi sono chiesta anche se fossi io a portare sfiga.
Tutta la storia della rinuncia di Conte l’ho appresa a casa, più dai drammi su Facebook che dalle notizie: “Il governo lo decidono i mercati!” tuonava anche chi schifa la Lega. “Adesso che si torna a elezioni, vedrai quanto prende Salvini!” si lamentava un altro.
“Meno male, ‘sti fasci non sono saliti al potere” esultavano invece quelli della manifestazione, reduci da un cineforum col film sul giovane Karl Marx. Infatti, la dichiarazione che mi è piaciuta di più è stata: “Riassunto della giornata: The young Karl Marx is for dummies, the old Mattarella is for communists”.
Il riassunto della mia, di giornata, è stato: l’impotenza a volte è un sollievo. Se la porta è bloccata e ho fatto di tutto per aprirla, mi siedo e aspetto il tecnico. Se nei miei due paesi non riescono a formare un governo, oh, mi è bastata la lezione dello scorso ottobre: penso al mio lavoro, ai miei maldestri tentativi di svoltare e faccio il poco che posso.
Per esempio, racconto a chi è rimasto in Italia che qui scendono in piazza 1200 persone (soprattutto autoctone) contro le nuove leggi razziali.
Hai visto mai che, prima o poi, succede anche da noi.