Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.
Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.
Alla più bella
Arriviamo insieme.
Arriviamo trafelati e in disordine, ma davanti agli altri dello Spazio lui si comporta come se ci fossimo appena incontrati sul portone.
Decido di ignorarlo. Vivo a Barcellona, ci sono cause migliori da perdere! E lo Spazio ha il problema di tutti gli spazi: prima era meglio. A sentire gli habitué se n’è andata troppa gente, lasciando le redini al Figo e alla sua claque di Morti. È una situazione che all’improvviso voglio cambiare, che so cambiare. Voglio implicarmi in qualcosa, e questo desiderio si traduce sia in spagnolo che in catalano con “voglio bagnarmi”. A Bruno lo scrivo in catalano, per non dare adito a equivoci imbarazzanti: sto per occupare uno Spazio che lui considera più suo che mio, memore com’è di una presunta epoca d’oro che io mi sarei persa.
Comunque sia, lì dentro c’è posto per entrambi.
Lui torna a “passare” da me proprio il giorno della mia prima riunione, “così ci andiamo insieme”. Dice che si ripromette sempre di non tornare, ma poi lo fa, e io non riesco più a mandarlo via.
La riunione è partecipata, c’è addirittura qualche donna. Progettiamo esposizioni, feste per raccogliere fondi, e una serata di beneficenza che si terrà a novembre: con l’entusiasmo della neofita avanzo proposte anche a verbale concluso. Quando restiamo in quattro gatti, e pure Bruno si è eclissato, uno dei Morti di Figo propone di reclutare una bella frequentatrice dello Spazio come cassiera alla prossima festa, a patto che sfoggi una scollatura da antologia. La trovata crea imbarazzo perfino tra gli uomini presenti. Lo racconto poi a Bruno mentre restiamo a chiacchierare sul letto: mi diventa femminista.
“Facciamo tanto i compagni, e poi come strategia di marketing mettiamo alla cassa la più bella!”.
Ancora classifiche. Ancora il promemoria che la più bella è un’altra, è sempre un’altra. Quando è arrabbiato con qualche Morto di Figo, Bruno ne critica prima i difetti, poi i successi, come se fossero stati usurpati a lui. La fidanzata “gnocca” rimane in fondo all’elenco, una postilla alle attestazioni di status, ma intanto sta con uno stronzo, mentre lui prova a fare sempre la cosa giusta… e si deve accontentare di me. Quest’ultima parte non ha bisogno di dirla. Quando glielo farò presente mi risponderà che “ci siamo accontentati a vicenda”, senza rendersi conto che intendiamo cose diverse: io mi sono accontentata delle sue attenzioni a metà, e lui di me, di me e basta.
A volte lo guardo con una pena che non so più provare per me stessa, e per la mia ostinazione a resistere, aspettare. Cosa direbbero allo Spazio, se sapessero di noi due? Chi di noi due si starebbe “accontentando”?
“So che hai un buon successo di pubblico” commenta lui quando, come una bambina, gli riferisco i complimenti di qualcun altro. È lui a consegnare il premio della critica, e io non sono neanche nella rosa finale, altrimenti mi tratterebbe meglio, questo mi è chiaro. Allora continuo a sforzarmi per vincere questo cazzo di premio.
Ma nessuno allo Spazio si fa domande: da me vogliono altro.
Alla fine di un pranzo collettivo in cui ho cucinato per quaranta persone (scuocendo la pasta perché Bruno non si decideva ad assaggiarla), mi chiamano da parte in due o tre. Voglio essere la coordinatrice dello Spazio? Solo per qualche mese. È vero che sono iscritta da poco, ma lavoro sodo, e poi mi aiuteranno. Ci penso solo un momento.
A quanto pare non bisogna essere la più bella, per diventare quella che si sbatte di più.
A venerdì per il seguito!
Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premioproprio figo.
Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.
Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.
Nessuno è fesso
Ci separiamo per un po’.
Non voglio essere “il premio di consolazione” di qualcun altro. Anche a Bruno sembra ingiusto, ma non sa come evitarlo, dice. Ci sono perfino lacrime, non solo mie. Al mio compleanno lui mi porta il pranzo, preparato con le sue mani, poi spera che con questo gesto gli sia risparmiata la cena con gli altri al ristorante. Non lo forzo, ma neanche gli nascondo il mio disappunto. Ho pure tentato di dissuadere l’amica Occhiblù dal raggiungerci con le stampelle: ha avuto un incidente e viene apposta a festeggiare me, e io mi sento un verme, ma non voglio che Bruno faccia il cascamorto con un’altra davanti ai miei occhi. Cosa sto diventando? Alla fine lui arriva a cena quasi finita, mentre Occhiblù sta spiegando che il suo soccorritore, dopo l’incidente, ha finito per chiederle il numero di telefono. Il nuovo venuto approfitta per commentare: “Chiamalo fesso”.
Ma qua nessuno è fesso. A un evento dello Spazio conosco un bel ragazzo moro.
Anche stavolta ho disertato la riunione organizzativa, ma mi è sembrato giusto contribuire ai preparativi, portandomi dietro i vestiti da indossare dopo: tubino nero, calze traforate, e un fiore di stoffa riciclata, per adornare un collarino anni ’90. La regressione all’adolescenza è completa. Quando mi cade il fiore dal collo, lo infilo ridendo nella scollatura, e colgo un momento di imbarazzo nei due invitati a cui verso il vino: davvero a qualcuno viene l’idea balzana di guardarmi? Beh, c’è questo bel ragazzo moro che mi fissa da quando è entrato.
È un architetto, immerso in giri più fricchettoni dei miei. Mentre gli riempio il bicchiere mi parla di una Barcellona notturna e clandestina, popolata da artisti vagabondi e cani che gridano alla luna. Mi racconta di gente che non può permettersi neanche una stanzetta come la mia, rubata a un terrazzo condominiale: le città che progetta lui comprendono anche quella gente lì, non riservano tutto lo spazio al miglior offerente. Vorrei che mi portasse con lui nel suo mondo notturno, ma mentre glielo dico fa il suo ingresso Bruno, tra applausi ironici: finalmente ha trovato la strada del bar! Lui non ha voglia di scherzare: annuncia che andrà via presto perché “ha da fare”, poi si accascia contro una parete e io provo a resistere, ma niente. Abbandono la lezione di architettura per accovacciarmi davanti a Bruno. Tutto bene?
Per un momento il suo sguardo è simile a quello del ragazzo moro. Poi lo vedo sorridere, come se mi avesse colta in flagrante:
“Hai le calze sfilate”.
Mi osservo le gambe: un foro nella trama di filo è più grande degli altri, si nota appena. Lui l’ha notato. La scoperta sembra risollevarlo.
Alla fine aggiungo a Facebook il bel ragazzo moro, ma il primo allarme mi scatta a un evento che mi ha consigliato, in un centro sociale a rischio sgombero. Non è un vero appuntamento, mi sono perfino portata dietro un’amica, ma lui si presenta a spettacolo finito e inizia a conversare con mezzo mondo come se io fossi lì per caso. Posso aspettare “un po’”, mi chiede infine, per bere qualcosa insieme? Lo guardo fisso, gli sorrido e vado a cenare con la mia amica. Qua nessuno è fesso. Al secondo incidente di questo tipo (un appuntamento rimandato a pochi minuti dall’incontro), la breve fitta che avverto allo stomaco mi annuncia che ho visto abbastanza, e che nella mia vita non mi serve altro caos.
La Petulante si complimenta: finalmente ascolto il corpo! Però l’istinto di fuggire dai guai si manifesta con un ragazzo che mi attrae da subito, e sembra desideroso di vedermi. Con Bruno, invece, non avverto nessun mal di pancia premonitore. Ho qualche conclusione in merito? Sì, una: la Petulante è stronza forte. Ma non glielo dico.
Il ragazzo moro non sarà l’unico a distrarmi dalla mia ossessione, ma sarà quello che più mi farà dire: chissà. Una sera mi scrive mentre sono seduta sul letto, con la finestra aperta a sfidare l’uomo col mastino, che fa rumore sulle scale. Sono stanca di temere il suo rancore, e stanca di Bruno, che mi ha appena contattata in chat per sfogarsi sulla sua vita. Così, solo quella sera, mi godo i complimenti del bel ragazzo moro, mentre la playlist passa Pino Daniele. Sensazione unica, perché la musica ti prende anche l’anima…
Le mie mani si muovono nell’aria che si fa tiepida, promettendomi una primavera precoce.
Se il letto si muove, stavolta, è solo per seguire ritmi miei.
A mercoledì per il seguito!
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Ogni altra burrasca
Per quel tuo cuore che io largamente preferisco ad ogni altra burrasca (Amelia Rosselli).
Al risveglio percepisco la sua assenza.
Prima ancora di aprire gli occhi avverto il lenzuolo senza pieghe, e il piumone che scende piatto accanto a me. Il freddo mi invade da qualsiasi lato mi giri. Dal terrazzo condominiale non sento fruscii, né latrati soppressi, ma oggi la cosa non mi conforta. Tendo l’orecchio in cerca di passettini: d’estate la gatta dei vicini mi entra addirittura in casa, e me la ritrovo all’improvviso sotto al letto. Adesso, anche se facesse caldo, avrei paura a lasciare le imposte aperte. Non so perché la gatta mi abbia adottata, perché venga anche quando non ho cibo per lei.
Il buco che avverto allo stomaco non verrà colmato dal poco latte rimasto, anche se è tutto per me, e nessuno mi divorerà il pane cafone portato in valigia, che tanto si è fatto già gommoso.
Non ho tempo per le traduzioni in nero: ho un appuntamento tra un’oretta, con un gruppo di compaesani in vacanza. Mentre mi insapono davanti allo specchio mi chiedo: perché sono tornata a frequentare italiani? Troppi di loro pretendono ancora la trafila di farsi desiderare, cedere al momento giusto, adattarsi al ruolo dell’animale braccato che, però, si lascia catturare “solo quando vuole”… Questo balletto non mi interessa, non lo inizierò ora. Ma all’improvviso so perché, per qualcuna, è un’arma di difesa.
A pranzo coi compaesani mi scopro a scimmiottare gesti che un tempo mi sorgevano spontanei. L’arte di sfottersi a vicenda, così tipica delle mie parti, è diventata per me un gioco noioso. Che bisogno abbiamo di saltarci sempre alla gola?
Gli altri perseverano: in un dialetto che non so imitare fanno la gara a “chi è più fallito”, ma poi serrano i ranghi, con la familiarità degli amici cresciuti nello stesso palazzo. Io sono cresciuta in un villone anni ’70, con la proibizione di giocare in strada coi figli dei vicini: passavano le macchine. E il dialetto di quei bambini era il codice di una tribù a cui non dovevo appartenere.
Quando mi arriva davanti il dolce, che non voglio nemmeno assaggiare, penso che non appartengo più a nessuna terra, a nessuna lingua. Appartengo solo alla pelle di Bruno. E a modo mio la possiedo.
Al ritorno, sulle scale c’è troppo silenzio. L’odore si fa insostenibile man mano che salgo: i bisogni di un cane. Sulla parete dell’ammezzato, una scritta dal colore sospetto avverte che qui dentro ci sono topi. Accanto alla scritta c’è la porta dei filippini, colpevoli di aver invaso di antenne il terrazzo condominiale. Il figlio più giovane non può più giocare in terrazzo, così lo fa in strada, col piccolo tunisino del quarto piano. Se mi vede passare mi saluta in italino perfetto. Sua madre è quella che ha “risposto male” all’uomo col mastino, che l’ha punita tagliando i fili delle antenne. È stata questa madre filippina a chiamare per prima l’agenzia immobiliare, perché ripristinasse la serratura del terrazzo. Ma l’uomo col mastino l’ha cambiata ancora una volta, poi due. Tanto quella è casa sua.
La polizia dice che per intervenire le servono prove.
Turandomi il naso raggiungo il mio piano e mando un messaggio a Bruno. Gli dico: va bene, si fa come vuoi tu.
È l’ultima volta che sono io a tornare.
A venerdì per il seguito!
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Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.
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Ti avevo avvertito
La mia è una rabbia ipocrita.
Di ciò che vomito a Bruno in chat penso ogni parola: gli sembra normale catapultarmi in quella sua classifica campata in aria? Scommetto che alle donne dà anche i voti da uno a dieci!
Ma ciò che mi ferisce di più è che, per lui, non sono neanche un sette.
Bruno mi oppone una logica stringente: eppure me l’aveva premesso! Lui non sa mai cosa dire e cosa no, cos’è che il mondo è disposto a sentire. Sembra convinto che mettere le mani avanti lo assolva da tutto. Io ti avevo avvertito.
Anche l’uomo col mastino mi aveva avvertito. Eravamo quasi amici: l’italiana dell’attico e il tipo che era cresciuto nel palazzo, restandoci grazie a un antico calmiere sugli affitti. Si censurava quando voleva prendersela coi guiris, stranieri bianchi come me: ci chiamava turistas. Aveva incassato impassibile il mio “No, grazie” quando, dopo una birretta dietro l’angolo, mi aveva invitato a prendere un bicchiere da lui. Prima mi aveva mostrato scherzando gli addominali scolpiti, e mi aveva pure spiegato che, da bambino, giocava a calcio dove adesso c’era il mio terrazzo. Quella era casa sua, mi aveva avvertito. Eppure non poteva più abitarla a suo piacimento: il mio terrazzo era chiuso da un muricciolo, e quello attiguo, accessibile all’intero condominio, era invaso “dalle antenne dei filippini”. Adesso come faceva lui, a prendere il sole nudo?
Aveva tagliato i cavi delle antenne senza sapere che tra quelle c’era anche la mia. Pensava che gli dessi ragione lo stesso: tanto ce l’aveva coi filippini, io a casa sua potevo restare! Poi aveva scoperto cheç, in fin dei conti, non gli ero tanto solidale. Era stato poco prima che si procurasse il mastino.
Anche adesso sento rumori, ma è troppo presto. Da quando ha cambiato il lucchetto del terrazzo condominiale, l’uomo col mastino sale soltanto di notte. Ma il piccolo tonfo sul mio terrazzo mi spaventa un istante solo: è la gatta dei vicini. La vita non fa poi così paura.
Bruno in chat continua a fare quello ragionevole: vatti a fidare di una che fa l’amicona, quella con cui si può parlare di tutto!
La gatta tigrata mi fissa, in attesa delle crocchette. La osservo e digito:
“Ti va di parlarne dal vivo? Vieni a pranzo da me sabato prossimo”.
A mercoledì per il seguito!
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Devo dire che l’ho sentita in due lingue, e da uomini.
Più amici mi hanno raccomandato, sulla storia di volere figli, di “non dirlo subito a un uomo, che noi poi scappiamo”. Messa così, la questione mi sembra rilevare due cose:
la fragilità di uomini che della “fuga” fanno quasi un orgoglio, un adorabile difetto;
l’idea triste che abbiamo delle relazioni.
Queste ultime, lungi dall’essere un momento d’incontro, di sincerità, di comunicazione efficace, diventano machiavellici do ut des, in cui devi usare strategie per ottenere ciò che vuoi dall’altro, e magari, a dirla tutta, ignori ciò che l’altro voglia sul serio. Dirlo e basta non rientra quasi mai tra le opzioni.
Nella Barcellona da bere non ho molti amici con relazioni stabili, ma sul fronte italiano mi confidano di tutto: a volte mi sembrano liceali che vivono con il tipo o la tipa per cui hanno una cotta, però “non sanno se ricambia”. Altre volte mi sembrano generali che si squadrano attraverso un campo di battaglia – perlopiù la cucina – in attesa di chi farà la prima mossa.
In un rapporto così, fatto di piccole battaglie vinte e guerre mai combattute, si crea un effetto paradossale come quello del climatizzatore col riscaldamento globale: alimentiamo lo stesso problema che, in teoria, staremmo risolvendo momentaneamente.
Per questo rivendico il mio diritto alla sincerità, che parte da quello, poco alla moda, di sapere ciò che voglio. Se so che voglio figli, come mi può andar bene con uno che non ne vuole? Omnia vincit amor un par de ciufoli. Allo stesso modo non voglio rapporti a distanza, perché cerco un contatto fisico quotidiano, e ho imparato ad assicurarmi che per l’altro non sia un problema nel caso, frequente nella Barcellona mileurista, che entrassero più soldi a me (l’orgoglio inculcato negli uomini sull’argomento è duro a morire). Le circostanze della vita potrebbero farmi cambiare idea sulle mie priorità, ma il punto è questo: se sappiamo cosa vogliamo, e sappiamo comunicarlo, siamo sicuri di volerlo mandare a monte per “l’ineluttabilità dell’amore”?
Perché so che queste di sopra possono sembrarvi aride elucubrazioni. Anche io sono cresciuta guardando Disney, e apprendendo dalla pubblicità che col rossetto giusto finirò per uscire con Jason Momoa. Ed è così affascinante l’idea che lì fuori ci sia una persona, e una sola, che vada bene per me, che manderà a monte tutti i miei progetti (tipo l’eliminazione del soffitto di cristallo) e basterà guardarci per capirci.
È un’idea affascinante, ma complica la vita invece di rallegrarla, quando non la rovina.
Perché qui siamo oltre il pensiero per cui l’amore romantico “crea false aspettative“: a me sembra, piuttosto, che crea falsi bisogni. Perché di uno che mi mandi a monte i progetti, francamente, non ne ho bisogno: se ancora considerassi sul serio l’ipotesi di una relazione, ne vorrei una che mi accompagnasse nella mia vita, invece di stravolgerla.
Per questo ho tradotto un articolo de La Vanguardia di quelli che di solito salto a pie’ pari, sulla “psicologia di coppia”: questo qui mi sembra utile e scritto bene. Il che, considerata la testata che lo ospita, è quanto dire.
Spero ne facciamo una “via di fuga”, questa sì intelligente, da una vita di bugie e sotterfugi che non meritiamo.
(Traduco qui sotto quest’articolo di Rocío Navarro Macías, pubblicato sull’edizione online de La Vanguardia del 28/10/19. Lo faccio perché la questione della sincerità mi sembra una delle più paradossali tra le faccende umane: come ideale è un pilastro della nostra società, ma spesso viene del tutto rimossa dalla nostra educazione sentimentale. Magari, con una persona cara, ci viene infinitamente più spontaneo “farglielo capire”, o arrabbiarci, rispetto a dire esattamente cosa ci affligge e perché.)
Forse c’è un errore, tu non parli bene…
Ottenere uno scambio d’informazioni fluido è la chiave per mantenere la connessione emozionale e una relazione soddisfacente
Il fatto che lo scambio d’informazioni non fluisca scatena una serie di sfortunate circostanze in una coppia: “La comunicazione è la risorsa fondamentale per mantenere un rapporto di coppia soddisfacente”, spiega Nando Quesada Pérez, psicologo esperto in terapia di coppia del Centro de Psicología Bertrand Russell di Madrid.
D’altronde, è comune che sorgano problemi man mano che la relazione avanza. Uno dei motivi che provocano queste difficoltà è un aspetto inerente alla condizione umana: i cambiamenti che si producono nelle persone nel corso del tempo. “Non dimentichiamo che una coppia è formata da due individui che sono in continua evoluzione. Sarebbe davvero eccezionale se le necessità, gli interessi o le preferenze di ciascuno dei due fossero sempre alla pari” aggiunge.
Le conseguenze di non aggiornare tutti questi aspetti si associano a situazioni di stress, litigi e frustrazione. A questo si unisce la sensazione di stare insieme a qualcuno che, realmente, non conosciamo più. Questa situazione, inoltre, provoca una disconnessione emozionale che incide sulla difficoltà di arrivare ad accordi o decisioni più complesse. La buona notizia è che si può lavorare per stabilire una buona comunicazione e con quella migliorare molti ostacoli che appannano la relazione.
Gli scogli da affrontare
Miti romantici, aspettative poco reali
Nessuno riceve un manuale d’istruzioni per saper gestire la coppia. Di solito neanche si pensa alla questione finché non cominciano a sorgere i primi problemi. La questione è che, a meno che non si sia esperti in materia, la comunicazione nei rapporti affettivi non è affatto semplice. Inoltre, esistono molti miti romantici che creano aspettative poco reali e iniziano a ostacolare lo scambio d’informazioni.
“Un esempio di ciò è ‘il mito della divinazione’, che consiste nel credere che il o la partner dovrebbe sapere cosa voglio o come mi sento per il semplice fatto di amarmi. Questo fa sì che tacciamo alcune cose, perché ‘non dovremmo neanche dirle'” confida Quesada.
A questo si aggiungono altri ostacoli, come la capacità di esprimersi in modo corretto con il compagno. “Questo può inibire la comunicazione e aggiungere ulteriori problemi da risolvere” spiega.
L’atteggiamento
Più tempo si sta insieme, maggiore è la necessità di comunicazione
Quando s’inizia una relazione di tipo romantico, di solito entrambe le parti hanno interessi e obiettivi comuni. Però, col passare del tempo, è difficile che l’evoluzione di entrambi vada nella stessa direzione. “Può trattarsi di una specializzazione eccessiva all’interno della famiglia. Per esempio, tu ti occupi dei bambini, della casa, del contatto con la famiglia, e io dell’economia, della burocrazia annessa, e degli affari. Questo, dopo tanti anni, può generare due universi mentali molto diversi” analizza lo psicologo clinico Esteban Cañamares.
Di solito, il fenomeno progressivo di non riconoscere più l’altra persona ha come effetto una disconnessione emotiva. “L’inizio delle relazioni è molto più semplice, perché generalmente non ci sono decisioni rilevanti da prendere, al di là di cenare in un determinato posto o vedersi ‘a casa tua o a casa mia’” rivela Quesada. Si tratta di una tappa in cui la comunicazione è più facile e sensoriale. “Inoltre ci troviamo in condizioni biochimiche specifiche. Man mano che passa il tempo, ci torniamo a stabilizzare da un punto di vista chimico e cominciano ad arrivare decisioni più complesse da risolvere. È allora che si richiede una comunicazione più sofisticata. Qui, di solito, cominciano le difficoltà” confida Cañamares.
Lo specialista ricorda che esistono quattro atteggiamenti che deteriorano una coppia. “L’indifferenza o l’evitamento, come ad esempio il fatto di guardare il telefonino quando l’altra persona sta cercando di comunicare qualcosa, o rimandare costantemente il momento di parlare. Un’altra cosa è la critica globale, con etichettature non necessarie come ‘sei uno sconsiderato’. C’è anche l’ironia o il disprezzo, con cui si sminuiscono i desideri dell’altro; e, per ultimo, il contrattacco“.
A volte il messaggio che vogliamo trasmettere non è quello che comunichiamo
Comunicare con assertività non è sempre facile. Dipende dal carattere, dallo stato emotivo che ci troviamo ad affrontare e dall’abilità di mantenere una postura ferma e essere chiari nell’esprimerla. Però, oltre a questa capacità, esistono altri aspetti che possono rendere difficile in certa misura il fatto che il messaggio che vogliamo dare giunga a destinazione.
“Magari si sta usando una formula non adeguata (come dare all’altra persona la responsabilità del mio malessere), un canale di comunicazione infelice (WhatsApp a volte non è la migliore opzione per certe cose), un momento inopportuno (come una fase di grande stress lavorativo)… Inoltre, dobbiamo tenere in conto che il destinatario del messaggio può avere difficoltà e distorsioni nella sua interpretazione al momento di riceverlo” spiega Quesada.
Le interferenze tra quello che vogliamo trasmettere e ciò che realmente comunichiamo possono venire anche dagli stessi conflitti interni. “La causa può risiedere nel fatto che i nostri veri interessi si impongano al momento di comunicare” aggiunge Cañamares. Per questo, è fondamentale fare un’autovalutazione della situazione prima di lanciare il messaggio.
Migliorare la comunicazione è un compito non solo necessario per chi parla, ma anche per chi ascolta. Però esistono strumenti applicabili in entrambi i casi che possono facilitare il processo. “Questi schemi possono essere complessi se prima non c’è un esercizio individuale interno per aggiustare aspettative o rivalutare credenze che possono stare interferendo nel modo di agire” avverte Quesada.
Un lavoro semplice che può fare la differenza per chi ascolta è evitare termini assoluti come “sempre”, “mai”, “tutto”, “niente”… In questo modo si trasmette un atteggiamento più flessibile, che darà luogo a un’atmosfera più conciliante.
Allo stesso tempo è importante trattare un solo argomento in ogni conversazione, per non correre il rischio che si finisca per parlare di qualcosa di diverso da quello che abbiamo proposto.
Altri aspetti da valutare sono legati all’empatia. “Il ponte tra due persone è molto più bravo se proviamo a capire l’altro, e non pretendiamo il contrario. Va considerato anche il linguaggio non verbale, perché diciamo di più con il tono, i gesti e la postura che con le parole” confida l’esperto in terapia di coppia.
Inoltre, ricorda che è importante evitare di dare la colpa al/alla partner del nostro proprio malessere, perché genererebbe una resistenza da parte dell’altra persona.
È importante anche trovare il momento opportuno per parlare. Sia il contesto che lo stato emotivo influiscono in modo evidente nella comunicazione. Risulta ovvio pensare che una situazione di stress non è il miglior momento per cominciare a parlare, ma quando si sente il bisogno di sfogarsi con urgenza si ignorano molti di questi fattori condizionanti.
“La fluidità nella comunicazione può essere difficile quando, da un punto di vista emotivo, siamo molto reattivi o vulnerabili; è preferibile parlare in condizioni di serenità” raccomanda Quesada. Per questo, è meglio rimandare la conversazione se siamo particolarmente stanchi, c’è un bambino che piange o si presenti qualsiasi altra situazione che alteri lo stato d’animo.
“A volte è interessante anche scegliere il posto adatto. Può essere raccomandabile uscire dalla zona abituale di conflitto, associata alle discussioni, e parlare in un altro posto, prendendo qualcosa da bere, facendo una passeggiata…” conclude.
Buon San Faustino! Scherzo, è una minchiata, come il giorno che lo precede. O meglio, tutto può essere una minchiata a seconda di come lo si vive, prendete l’8 marzo in Italia prima di Non una di meno! Anche San Violentin… ehm, San Valentino, dipende da se è questione del tubbbo di Baci Perugina o se è un giorno di più per celebrare l’amore. Ma quale amore?
A vent’anni ero un’entusiasta devota di San Faustino, al che, come spesso accade in queste circostanze, mi si diceva: “Fai così perché non sei fidanzata”. Certo! Ero uscita dal tunnel da poco per mia volontà, e mi sentivo liberata dal giogo di un fidanzamento di paese: a sedici anni ci si aspettava spesso che noi ragazze uscissimo solo con la “dolce metà”, e la mia era tra i pochi maschi a non pretendermi fissa in casa in sua assenza. Ma tanto, la volontà di starmene a volte da sola era “indice di poco amore”, e donne nate appena vent’anni prima di me mi confessavano candidamente che non mi capivano: “Io, senza quello che oggi è mio marito, non volevo uscire proprio”. Ancora fino a ieri, compaesani di ogni età trovavano stranissimo che il mio convivente e io coltivassimo spazi e attività diversi, per unirci solo quando lo desideravamo (quello che gli anglosassoni chiamano “tempo di qualità“). L’idea è: o state appiccicati con la colla, o non vi amate. E “infatti” scoppiate.
A me sembra vero l’opposto: sono buoni tutti a restare insieme quando glielo impongono le convenzioni sociali – prima ancora delle questioni economiche post-matrimoniali*. “Me so’ lassato c’ ‘a guagliona e ‘o pate mo’ me vo’ struppia’ “, recitava la sigla ironica di un programma campano: magari, dopo una rottura, padre e fratelli non arrivavano alle mani, ma le comitive si sfasciavano eccome. Anni prima delle app d’incontri, gli amici che sono stati pionieri di Badoo mi assicurano che bastava spostarsi di mezz’oretta da casa propria, e le stesse ragazze che nel loro paese “non lo facevano mai al primo appuntamento” si concedevano una serata di passione anche subito.
Anatema! Amore fast-food? Non saprei. Quando sono tornata in Italia dopo la libertà inglese (cioè, subito amanti e se va bene ufficializzate) ho capito il senso sociale, pur senza condividerlo, del “farsi desiderare”, visto che, anche in ambienti illuminati come la mia facoltà, il corteggiamento faceva da discriminante tra una “storia seria” e una relazione clandestina. D’altronde, se venivi promossa a fidanzata ufficiale – caso raro se ti eri prima “concessa”, cit. , passavi dal poter anche morire sotto un’auto al dover rendere conto dei tuoi spostamenti e, in qualche caso, perfino dell’abbigliamento (“Questa minigonna te la metti anche quando non ci sono?”). E stiamo parlando di casi non isolati, di appena dieci anni fa.
In tempi ancor più recenti, un film italiano come Perfetti sconosciuti ha ottenuto un record d’incassi e almeno tre rifacimenti (conto il greco, lo spagnolo e il francese) per un’idea semplice: in una cena tra amici, le coppie mettono il cellulare a centrotavola col proposito di leggere tutti i messaggi che arrivano. Vi giuro che il perché di tutto questo me lo son dovuto far spiegare dai miei alunni, gli stessi ragazzi che, secondo La Vanguardia, hanno uno “scopamico” (o scopamica) nel 45% dei casi.
E allora, chiedo così per sapere, vogliamo proprio giurarci amore eterno e poi metterci le corna in segreto? Magari ci raccontiamo pure che “taciamo perché confessare sarebbe liberarci la coscienza al prezzo di far soffrire l’altro”, finendo per sentirci eroici perché abbiamo rotto un patto di “fedeltà” (?) che non eravamo tenuti a sottoscrivere. Sì, perché continuo a pensare, come a vent’anni, che nessuno è di nessuno, e che l’unico corpo che possiamo “controllare” è il nostro. Se oggi preferisco una monogamia non normativa è per quieto vivere e per questa crisi personale, da cui il mio interesse per l’amore è uscito piuttosto malconcio.
Confesso però che di Mari Luz Esteban, pioniera nella decostruzione dell’amore romantico, non mi è piaciuta una dichiarazione (che non trovo) in cui suggeriva che “chiediamo un po’ troppo all’amore”: semplificando, secondo lei possiamo innamorarci di qualcuno che però non andrebbe bene per costruirci una famiglia, o per averci chissà che momenti di passione, dunque è eccessivo pretendere di trovare tante cose insieme nella stessa persona. Il mio primo pensiero è stato: “Mai fare l’errore di credere che qualcosa non esista, solo perché noi magari non l’abbiamo vissuto”. Ok, è stato anche detto a me nella fase “single per scelta mia“, prima che tornassi a esserlo per scelta altrui!
Però la domanda resta: perché, di tutti i tipi di relazioni possibili, ci attacchiamo come cozze al più difficile da ottenere? E senza neanche che sia migliore o peggiore di altri! A ben vedere, pretendiamo:
un’attrazione che sfidi il tempo, quando è la cosa più volatile del mondo (ricordo un altro articolo americano che presentava una coppia di genitori nell’atto di “sforzarsi a provare ancora attrazione l’uno per l’altra”);
un’esclusività che si concilia sempre di meno con la speranza di vita, e il sistema economico che vede precari anche gli uomini (quindi vacilla anche l’esigenza pratica di “mantenere la famiglia”, a cui specie le donne sacrificano così tanto);
una gerarchizzazione dei sentimenti, per cui spesso, quando sei in coppia, sparisci per i tuoi amici, per poi riapparire se finisce tutto;
un opportunismo dei sentimenti, per cui riesci sempre a giustificare con un gesto altruistico qualsiasi decisione tu prenda in campo emotivo: non vuoi figli “per il loro bene” vs “chi non ha figli è egoista”; fedeltà autoimposta “per non far male all’altro” vs tradimenti nascosti “per non farlo soffrire”; mantenere una relazione infelice “perché se la lascio si ammazza” (sicu’?) vs interromperla perché “non sei tu, sono io”.
Mi sa che dopo la risposta istituzionale (“la società cambia più lentamente della sua economia”), ci tocca la spiegazione paracula: meglio continuare a sognare un amore a dir poco difficile da ottenere, e attribuire tutte le storie finite al fatto di “non averlo ancora trovato”. I sogni aiutano il quieto vivere.
Per fortuna, le stesse studiose dell’amore romantico ammettono che non c’è una formula per tutti, che una coppia monogama può diventare inutilmente tossica, come anche il poliamore può diventare un “supermercato dei sentimenti”: a me, per esempio, ha colpito questa youtuber poliamorosa che dichiara che i suoi partner si spaventano quando dice che “si sta innamorando di loro”! E allora perché c’è la parola “amore” in “poliamore”?
Qualsiasi forma di relazione abbiamo scelto o assunto come nostra, vivere qualcosa in cui ci sentiamo intrappolati va contro la lodevole tendenza umana a risparmiare tempo e fatica, e guadagnarci in salute!
Forse si tratta ancora una volta di cucinare con gli ingredienti che abbiamo, cioè fare buon uso di ciò che ci porta la sorte.
Oggi non so la sorte, ma il calendario ci porta San Faustino. E San Faustino sia!
(Un esempio di amore sanissimo…)
* Siamo educati fin da piccoli a sentirci “incompleti”, specie le ragazze, senza qualcuno accanto e figli in cantiere: sono “la più grande gioia che una donna possa avere”, mentre qualche mamma meno italiana mi confessa che per lei non lo è stato, è stata sì una gioia che rivivrebbe, ma non “la” gioia. Segno che sia legittimo pensare che non tutte si vivono la maternità allo stesso modo, e non mi convince del tutto la deriva essenzialista che in Spagna si sta contrapponendo alla problematica equiparazione dei congedi di paternità e maternità. Va anche detto che sono stata trattata come un’idiota da un’attivista ubriaca per il fatto di volerceli, i figli.
La lezione su San Valentino e San Faustino era inevitabile, un 15 febbraio in cui il libro di testo mi dava un’unità sull’anima gemella.
Allora sono andata di meme, con i più cinici trovati su San Valentino, poi ho dedicato al rivale Faustino la lettura di un articolo “indignato” di Famiglia Cristiana: ‘sto povero ragazzo, a ben vedere, non è “single” neanche sul calendario, visto che è sempre accompagnato dal fratello Giovita. Io poi ho pensato a lungo che quest’ultimo fosse una donna, quindi champagne!
Alla voce “svantaggi della vita di coppia” ne ho dovuto aggiungere uno io:
“Non aprire subito agli ospiti per occultare in ripostiglio uno stenditoio pieno di jeans XL”.
So che il proprietario di tali indumenti potrebbe aggiungere nella sezione svantaggi “Non avere mai più ordine in casa”, al che avrei replicato “Io almeno so usare una pentola a pressione” e il conflitto sarebbe andato avanti “per sempre”, come in una favola al contrario.
Va detto che, nei miei vent’anni ribelli, festeggiare San Faustino era il mio modo stupido di contrastare l’aut/aut tra monogamia e ascetismo, ancora sdoganato nella provincia denuclearizzata pre-Tinder. Avrei scoperto solo dopo che l’amore romantico uccide: per allora mi limitavo a dire che mi sfracellava le gonadi.
Adesso so che le soluzioni dei dilemmi esistenziali non si vendono all’ingrosso, ma sono fatte su misura. E anche così, non sempre… “soluzionano”, come diciamo noi italiani a Barcellona che abbiamo dimenticato la lingua natia (posto che la conoscessimo).
Perché a certe persone la vita di coppia fa bene, o è preferibile a una vita da single, e altra gente in coppia proprio non ci vuole stare. Poi c’è chi si trova bene in tutte e due le condizioni, e chi come me sta un amore da single, ma ha deciso di dare una chance alla coperta tirata da un lato solo (il mio). Mi spiace che chi se ne sta per conto suo venga sempre definito un “cuore solitario” alla ricerca dell’anima gemella: ribellatevi, non siete gemelli di nessuno!
Per tutta la lezione di ieri non riuscivo a non pensare a Irene e Tati, due ragazze che non conoscete perché le ho inventate io, in un romanzo che è la cosa più vicina a un figlio che abbia avuto finora. Irene ha scambiato un idillio da Erasmus per le basi di una convivenza, e Tati, che la sa lunga, le spiega che non può costruire la sua vita attorno a un uomo. Poi la costruisce lei intorno a una donna. Finisce che Irene che voleva partire resta, e Tati che voleva restare parte. Raccontato così fa cagare, e magari è vero, ma posso dirvi che Tati aveva le sue buone ragioni (rimettersi in gioco con un viaggio, un nuovo patto raggiunto con l’amata…), come d’altronde Irene aveva le sue (reinventarsi da sola, imparare dai suoi errori…).
Vale anche per la gente in carne e ossa: si tratta di vedere, fatta salva l’incolumità fisica e psicologica degli individui, quale scelta vada bene per noi.
Già sapete, c’è chi per amore finisce a prendere la Bastiglia. E non sempre va benissimo.
No, ragazzi, grazie della fiducia! Mi spiace che adesso, nel seguito a questo post, pensiate davvero che scriva qualcosa di ragionevole e sensato. Io mi limiterei a riprendere il discorso sull’amore in crisi, sui motivi facilmente confessabili (un trasferimento, un cambiamento di vita) e su quello più difficile da ammettere (non siamo più presi come all’inizio). La soluzione più facile? Si diceva, dare per buono il motivo confessabile, colpevolizzare chi dei due lo abbia generato e filare via alla ricerca del vero ammmore, il cui ideale immacolato, con questo escamotage, rimane intatto.
La mia soluzione forse vi deluderà, ma è allo stesso tempo la più semplice e la più difficile: affrontare la parte inconfessabile! Sì, ammettere che anche il più “indistruttibile” degli amori si possa distruggere col tempo.
Sento di aver vinto in una sola frase diversi premi G. A. C., quindi lasciatemi specificare: bisogna valutare in tutta onestà se il nostro amore non giustifica più gli sforzi per coltivarlo. Scusate il linguaggio materialista, ma credo che quasi tutti coloro che siano andati oltre i tre mesi di adorazione reciproca (e in case separate) sappiano che tali sforzi sono tanti. Solo dopo questo lavoro di sincerità potremo capire se il problema confessabile non sia, in realtà, un alibi.
Appurato che non lo sia, che l’altra persona ci ami ma voglia davvero trasferirsi, lasciare tutto per rinchiudersi in monastero in Nepal, farsi asportare i genitali piuttosto che figliare, allora sì che si tratta di decidere.
Non dico per forza scegliere, come si sceglie in un aut aut, tipo “o resti/ci riproduciamo/torni ateo o ci lasciamo”, ma almeno decidere. Avere il coraggio di dirci:
“Tu vorresti affrontare un rapporto a distanza, o è meglio lasciarci?”. (“Sì/No/Forse”).
“Piuttosto che avere figli mi castro. Ti va bene o preferisci cercare qualcuno che ne voglia?”. (“Sì/No/Forse”).
“Nam myōhō renge kyō” (e qui si potrebbe rispondere con “Afammocc’ “, noto mantra napoletano).
Decidere! Dio mio, che brutta parola.
Non è più facile dirci che, se i suoi progetti sono cambiati nel tempo, vuol dire che non ci amava abbastanza da continuare quelli iniziati con noi? In altre parole, non è meglio perdere un amore, piuttosto che perdere l‘amore?
Peccato che non sia possibile perdere qualcosa che, così come ce l’immaginiamo, non è mai esistito.
Non fraintendetemi: esiste l’amore.
Ma l’amore eterno che si alimenta da solo e non conosce crisi, soprattutto quello che sopravvive senza problemi alla nostra paura di decidere, mi sa che non è mai esistito.
Se esiste, si nasconde così bene che non vale la pena cercarlo. Perché lui non cerca noi.
E come avrebbe detto nostra nonna: “Chi ti vuole, ti cerca”.
L’amico, un po’ più giovane, ha preso una stanza a Napoli, prima esperienza senza i genitori.
È evasivo. Poi mi spiegano che frequenta una ragazza.
Come quella che volevamo rifilare a un altro, vari anni fa, ma che probabilmente già allora si vedeva con l’attuale fidanzato, conosciuto in chat.
O la ragazza seduta vicino al palco nella birreria in paese, che il cantante ogni tanto la guarda e nessuno sa niente, nessuno dice niente, ma lei si è messa un vestitino con dei tacconi neri che sembra ancora più bassa, un nanetto sui trampoli, e non se ne accorge, rapita. E parte il totoscommesse: si tengono, o no?
Si vedono, si frequentano, si tengono, o semplicemente un occhiolino. Quando non si scade nel volgare. Pure nella terra dei fidanzati in casa è come se le coppie dovessero passare per questa fase di rodaggio che osservo con indulgenza, divertimento quasi. Perché non stiamo parlando di scopamicizia, ma proprio di gente che si ritrova allacciata a una festa, o comincia a chattare una sera, e semplicemente si assaggia, si sperimenta e conosce piano senza passare per la fase m’ama non m’ama, innamoramento selvaggio seguito da un corteggiamento serrato, contrapposto a una resistenza più o meno ipocrita. No, la libertà di movimento e di testa degli ultimi anni prevede di consumare quasi subito l’attrazione, per lasciare spazio al grande punto interrogativo del poi. Dopo aver tolto i giornali dalla macchina, che si fa? Si resta insieme o chi s’è visto s’è visto?
E paradossalmente il bacio rubato dei nonni diventa la prima cosa che ottieni.
Anzi, ripenso alla grandiosa nonna di un’amica salernitana (e non cominciate che non so trascrivere il salernitano):
– Ma io nun capisco, nuje nun puteveme fa’ ‘a prova, ce l’evemo piglia’ comm’erano, e vuje che facite ‘a prova po’ ve lassate ‘o stesso?
Sì, si lasciano lo stesso. Anzi, in qualche caso non si mettono proprio. Dopo essersi assaggiati per un po’ vedono che non è cosa e buonanotte. Intanto la fase ibrida è durata mesi e non sempre gli amici se ne accorgono.
Ma a quel punto, capirete, anche il concetto di coppia clandestina è cambiato.
E leggo tanti libri con doppia trama, una bella coppia degli anni ’40 e un’altra, confusa e infelice, di oggi: la prima è sempre perfetta, oh, quasi quasi vorresti che ti cadessero addosso le bombe, se devono essere l’unico impedimento a un amore che trionfa.
Ovviamente succede perché sotto le bombe non c’eri, e perché forse non hai mai visto quelle vedove che, come diceva Italo Svevo, da una parte piangono il defunto e dall’altra sono incoffessabilmente risollevate. Per essere tornate libere da un giogo nato da qualche affacciata furtiva a un balcone, da sguardi quindicenni lanciati a uno con cui, prima di chiedergli i soldi delle bollette, non si erano mai davvero parlate.
A meno che non fossero pratiche come la nonna di un’altra amica: “Me ne proposero due, ma alla fine presi tuo nonno perché almeno lo conoscevo”. Matrimonio felice.
Certo, l’altro estremo, ai miei occhi, resta quello che chiamo il divano IKEA. Prendersi a rate senza mai stabilire cosa siete, così eviti di farti carico della responsabilità dell’altro. Una scopamicizia, se la fai bene, è onesta, il divano è una terra di nessuno ambigua, fatta di gelosie difficili da gestire ma guai a fare un passo avanti e dire “Ok, che stiamo facendo?”. Perché l’ambiguità è chic e non impegna. Soprattutto non impegna.
Magari si fa perché l’alternativa, dalle mie parti, può essere ancora portare le paste la domenica e diventare +1 sugli inviti alle feste, in un rapporto asfittico che quando finisce corri a cercarti avventure al grido di “Esco da una storia importante, non voglio impegni”.
E poi l’ambiguità a volte sembra l’unica cosa che si avvicini agli amori epici che ci propinavano con le favole. Il tormento clandestino, la fragilità e precarietà dei sentimenti come bandiere, finché non finisce e uno dei due fragili e precari viene avvistato sul lungomare liberato con un pallone gigante a forma di cuore.
È questo che volete?
Io no. Rispedisco al mittente la morbosità autoindotta dei nonni e l’ammore da discount dei nipoti. Il sesso ben venga, ma quando si parla di amore attenzione. Maneggiare con cura. Chiamarlo per nome e invitarlo a entrare. Ma non della serie ue’, il caffè sai dove sta, l’asciugamani in bagno è pulito, scusa ma ho da fare. No. A sto punto lascialo fuori.
L’ospite è sacro specie se è lì per restare.
Tanto vale prendere una tazzina del servizio buono, e fargli spazio sul divano.