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da mostracatalognabombardata.it

L’altra sera ero a quest’incontro tra un movimento catalano e la comunità italiana, e dovevo rappresentare la mia associazione. L’argomento bombardamenti nella Guerra Civil era coperto da gente più esperta, così avevo deciso di parlare non degli italiani che radevano al suolo Barcellona in nome di Mussolini, ma di quelli che adesso si svegliano alle quattro del mattino per fare la fila per il Nie a Sant Cugat (comunicazione di servizio: non lo fate, adesso anche lì vanno solo per appuntamento).

Alla fine il pubblico aveva gradito e gli organizzatori mi avevano citata un paio di volte, magari un po’ a sproposito perché, quando ho detto che non possiamo votare alle politiche, non stavo raccontando un aneddoto, ma segnalando un’ingiustizia. Però ok.

In particolare mi ha citata un ragazzo che non si poteva certo accusare di guardare solo al passato, visto che gestisce la piattaforma che cerca di salvare il suo quartiere dagli speculatori. Stavolta però non parlava di investitori esteri e gentrificazione, ma di due ragazzi di ottant’anni fa.

Non ricordo bene la storia, ma lei suonava il piano e studiava, prima che una bomba italiana cadesse sulla sua casa e le togliesse quella e il padre, e le insegnasse il significato letterale di “guadagnarsi il pane”.

Anche lui, narrativa simile: la giovinezza con problemi e speranze, poi la guerra, poi la nostra bomba, e l’atrocità di ricominciare daccapo senza affetti e denari.

Questi due si erano incontrati e sposati, e anni dopo, parlandone, avevano scoperto che la loro vita era cambiata lo stesso giorno, per le stesse bombe. Avevano avuto tre figli alla faccia di quel pilota italiano, che magari un giorno sarebbe stato condecorato in Parlamento.

“Questi due” aveva concluso il ragazzo, “erano i miei nonni. E io da ragazzo ho studiato in Italia, e ho scoperto che non era solo il ‘paese della bomba’, ma una terra bellissima. E sono contento di quest’incontro, stasera, con la comunità italiana”.

E allora si era commosso, e anche io, che ascoltavo, mi ero chiesta quanto potesse essere opportuno irrompere sul palco in nome di quei due grammi di rappresentatività che potessi avere come italiana, e abbracciarlo e dirgli “mi dispiace”.

Perché ‘sta storia che siamo brava gente ci ha privati di questa possibilità: del diritto, oltre che del dovere, di dire “mi dispiace”. Pensiamo sempre che non sono fatti nostri, che lo facevano tutti, che ‘sta bomba poteva averla lanciata un tedesco o un franchista (spoiler: no, impossibile) ma era la stessa cosa…

Io poi avrò anche fatto le elementari con Garibaldi, spiritosoni, ma per l’inverno del ’38 ho un alibi di ferro, visto che mio nonno allora aveva diciannove anni.

Però sentite, non regge ‘sta storia che “noi italiani” siamo santi, poeti e navigatori, ma chi lanciava bombe erano “i fascisti”. Noi al massimo eravamo nelle Brigate Internazionali. Eppure i tedeschi si tengono Einstein e Goebbels, Freud e Himmler, Marx e Hitler (ah, no, quello era austriaco, come Conchita Wurst). Si prendono la responsabilità del bene, e del male. È così difficile fare la stessa operazione?

Alla fine ho abbracciato in privato il nipote dei bombardati e il “mi dispiace” mi è rimasto qua, ma nel corso della serata uno più bravo di me aveva già detto: se non possiamo fare giustizia, facciamo memoria.

E credetemi, non c’è nulla di retorico in questo.

 

Risultati immagini per l'urdemo emigrante Lo so, ve lo dico spesso: sono preoccupata. Mi scrivete proprio in tanti.

Gente che per tentare la fortuna a Barcellona vuole lasciare l’Italia, o la Londra della Brexit e degli affitti alle stelle.

Il guaio è che quella gente sicura di trovare qui sole, Mediterraneo e prezzi bassi si vede chiedere anche 600 euro per una singola, se questa ha il matrimoniale e il bagno interno. Ci scherziamo su anche noi che già viviamo qui e più o meno sappiamo barcamenarci in questa nuova burbuja (bolla immobiliare), che ci ha spazzato via ogni eventuale progetto di abbandonare le stalattiti di un appartamento senza coibentazione per “qualcosa di meglio”. Finisce che aspettiamo con trepidazione degna di un horror la scadenza del contratto d’affitto, per vedere di quanto ce l’aumenteranno (tra i miei amici si è sfiorato il 50%).

Quello che mi preoccupa è l’epica del viaggio, e badate che la capisco. Uno scudo ci vuole, per ripararsi dalle inevitabili delusioni, per appenderci le aspettative e i buoni propositi di chi si sente piccolo e senza aiuto in una terra che non conosce.

Nei messaggi che ricevo, chi ha vent’anni si dice disposto a “fare sacrifici” (e mi tratta come sua madre, ma vabbe’). Chi ha la mia età o qualcosa in più dichiara i suoi anni insieme a un pudico “suonati” (32 suonati, 38 suonati), e ovviamente “si rimette in gioco”, o “ricomincia daccapo”. Nella costruzione delle frasi intuisco sottintesi che possono capire solo loro, compromessi che hanno raggiunto con se stessi, piani B che sono disposti a considerare “quando tutto è perduto”. Che so, finire in un paesello a un’ora e mezza da Barcellona e vivere in balia del riscaldamento dei treni regionali. Ehm, si ride per non piangere (o non vomitare: sono l’unica col mal di treno?).

L’ho scritto spesso, quello che più mi colpisce del libro Vivo altrove è che gli italiani intervistati spesso si chiedevano “come li avrebbe accolti la nuova città”. Ritornello pericoloso, perché dovremmo essere noi ad accogliere la città nella nostra vita, nella declinazione che meno ci fa male, che più ci fa crescere.

Perché va bene partire, ma nel nuovo paese ci dobbiamo restare a tutti i costi? Procurarsi il Nie è diventato un’impresa, ma ci conviene dare anche duecento euro a uno sciacallo che ci venda un precontratto? E soprattutto: siamo sicuri di aver lasciato il nostro impiego di cameriera sottopagata per lavorare dieci anni in un call center? Magari ci rallegreremo della farsa di contratto a tempo indeterminato che ci farà almeno sognare un mutuo, quasi impossibile di questi tempi. Fino al giorno in cui ci renderemo vulnerabili al licenziamento quanto un neoassunto col contratto di servizio.

Insomma, ‘sta canzone dell’emigrante non lasciamola a Mario Merola: facciamone un gioco tra noi e le note, cerchiamo “nuovi accordi e nuove scale“, come recitava una canzone della mia adolescenza. O non ci andrà bene. O torneremo indietro, più scoraggiati di come siamo partiti.

Allora se non possiamo permetterci il Gótico (che a me non piace) proviamo la periferia o, se ci sta bene, la provincia. Se per lavorare negli uffici e in certi negozi abbiamo bisogno del catalano, e impariamocelo, cacchio: per noi è più facile.

Se la solita solfa non funziona, cambiamola. Abbiamone il coraggio.

Si armonizzerà con la nostra vita finché ne seguiremo il ritmo.

E quello la Ryanair ce lo lascia ancora portare a bordo.

Risultati immagini per uscimmo a riveder le stelle“Perché l’Inferno di Dante è così famoso, Maria?”.

Questa domanda è giunta a tradimento mentre gli alunni dell’A1 mi sceglievano un hotel a Firenze “con parcheggio e wifi”, tra tre opzioni possibili (il libro di testo proponeva anche un convento di monache).

Ormai, come vi dicevo, lavoro solo perché l’Italia si compra la Spagna. O meglio, qualche alunno innamorato vuole ancora imparare la lingua della sua dolce metà, e i futuri Erasmus sono consapevoli che a Venezia, col loro inglese, potrebbero avere problemi.

Ma lavoro soprattutto in aziende che sono state comprate da imprese italiane, e visto che noialtri non impariamo le lingue, specie se siamo i padroni, non resta che pagare me (poco, infatti siamo quasi tutte donne a insegnare) per scodellare verbi e pronomi, e simulare riunioni di lavoro in italiano.

“Sono stufa della grammatica” sospirava una collega tempo fa, “se potessi organizzare un seminario sull’arte…”.

Magari! È che l’arte non risponde al telefono, non concorda i progetti del giorno col capo e, soprattutto, non sviluppa software in italiano. Dunque sì che si può parlarne, ma senza mai perdere di vista l’obiettivo principale di questi alunni tra i venti e i cinquant’anni, che vengono a lezione con in mano il rapporto da consegnare nell’ora successiva: lavorare in italiano. Mutatis mutandis, il mio ex di Manchester si vantava di “vendere l’inglese ai cinesi come un prodotto qualsiasi, senza tutta quella fuffa culturale delle università”. Ma era mezzo pakistano e mezzo irlandese, e a lezione aveva cambiato il suo nome musulmano in Ted: insomma, con la sua lingua ha un rapporto complicato.

Immaginerete, dunque, la gioia e insieme l’imbarazzo nel ricevere la domanda su Dante mentre eravamo persi nel cortile di “Villa Carlotta, a pochi passi dal centro, cucina toscana e internazionale”. Va detto che l’alunno curioso conosceva l’Inferno solo per il videogioco, e forse per Dan Brown.

Al che ho guardato l’orologio (mancavano venti minuti) e ho raccontato la vita di questo tizio che ha raccolto tutta la filosofia e la società del suo tempo in tre cantiche: poi ovvio che sia famosa la più splatter. Ho raccontato le guerre folli che si facevano allora (oggi, invece…), e la fuga del Nostro verso nuovi lidi, tipo Ravenna: qui è scattato l’aneddoto del nonno, una risposta esemplare dei ravennati ai fiorentini che reclamavano le spoglie del guelfo bianco, “che non avevano voluto in vita”. Ho citato una Francesca travolta dalla bufera, ma ancora innamorata (anche se l’accento di Rimini non lo so fare), e ho concluso con quell’antica telefonata di mia madre al suo dentista, mentre in TV Benigni recitava la Divina Commedia: oh, avevo pensato allora, è la stessa lingua. Settecento anni e quella è rimasta. Contaminata, imposta con la forza, pure un po’ degradata a dire il vero, ma quella è.

“Tutto chiaro, ragazzi? E ora torniamo a Villa Carlot…”.

“Perché le regioni d’Italia sono così diverse tra loro?”.

Ok. Ho chiuso il libro, l’ho riaperto all’ultima pagina, sulla mappa d’Italia, e ho disegnato con l’unghia dell’indice il viaggio dei Mille da Quarto a Marsala. Ho spiegato che brigante se more, ma non c’è da emozionarsi troppo su epoche passate, e ho concluso spiegando che quando un bimbo di ceto medio butta lì una parola in napoletano, nove su dieci gli verrà ordinato: “Parla bene!”. I catalani hanno sgranato gli occhi e commentato: “Ostres!”.

Quindi solo la cultura non la posso insegnare, non così. Bisognerebbe formulare un progetto e rischiarci tempo e soldi, mentre questo lavoro per alcune di noi è stato un gradevole ripiego quando ci siamo viste sbarrare le porte dell’università, dei musei, delle case editrici.

Però ci sono interstizi. Questa parola a me evocava solo cose schifose (tipo quelli tra le mattonelle della doccia, con la muffetta che togli solo con uno spazzolino vecchio…), e adesso invece si è trasformata nella crepa di Cohen, da cui secondo voci di corridoio passerebbe la luce.

Perché so che un’alunna iscritta a un seminario di cultura italiana verrebbe apposta per Dante: ma voglio che Francesca, benché con accento napoletano, parli anche al programmatore informatico che al massimo ha provato a salvare Beatrice nell’ultimo livello di un videogioco.

Noi prof. invece non salviamo nessuno: siamo un esercito pacifico, ossimoro caro ai nostri tempi, che ogni tanto prova a rovesciare l’invito di Calvino a “riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno”.

Noi invece l’Inferno ce l’andiamo cercando, sulla faccia di alunni curiosi che per soli cinque minuti abbandonino la coniugazione dei verbi irregolari per fare domande.

Allora sì, che cominciamo a raccontare.

 

Risultati immagini per valigia di cartone Ho un’amica che è stata l’ultima a partire.

Anche lei, come me, si ritrova i quarant’anni più vicini dei trenta, benché non proprio dietro l’angolo, e anche lei, una volta a Barcellona, non si è fatta prendere subito da quell’entusiasmo da Carnevale eterno che rende altri espatriati un po’ difficili da tollerare. Io avevo vissuto quest’esordio “sobrio” a ventisette anni, dimostrando se ce ne fosse il bisogno che certe teorie su cosa piaccia a trenta e cosa a venti sono spesso luoghi comuni.

Può essere vero, però, che più il tempo passa e più è difficile partire, a meno che in effetti non si fugga da qualcosa come un divorzio, un tracollo economico… Lo dico per far contenti quelli che si sentono una specie di supereroi a non muoversi da dove sono nati.

Parliamoci chiaro, anche la mia amica ha ceduto a quest’affascinante retorica, infatti mi ricorda sempre che “sta ricominciando daccapo a trentasei anni suonati“, ed è subito armatura d’oro, fulmine di Pegasus, e andiamo a comandare armate di curriculum tra le aziende di copywriter sulla Diagonal.

I curriculum li aveva già tradotti almeno in spagnolo, perché se devo pensare alla cosa più saggia che abbia fatto la mia amica me ne viene in mente una sola: si è informata. E molto prima di far passare le sue tre valigie strapiene al check-in di Capodichino.

Pare la più scontata delle misure di sicurezza, e invece è l’ultima che si fa: spesso i nuovi arrivati sono troppo rapiti dal “chi la dura la vince”, e poi si sa, “il mondo è di chi se lo piglia” (ho già detto che Steve Jobs ha fatto più danni delle cavallette?).

Mi ritrovo così delle trentenni che sui social mi chiedono informazioni per insegnare italiano a Barcellona, “anche se non parlano un’acca di spagnolo”. Finiscono per stupirsi: “Ma come, non basta una laurea italiana?”. Ora, io detesto i parrucchieri che attaccano chi si taglia i capelli da sé (presente), quindi non riservo a nessuno lo stesso trattamento da professionista offesa: faccio solo notare che non si è molto competitive, se una scuola deve scegliere tra un’italiana con la laurea e un’altra con laurea, diploma d’insegnamento e documenti in regola per lavorare (sempre io). A questo punto, però, viene la carrambata: le mie interlocutrici o vogliono partire in queste condizioni dalla Germania, lasciandosi alle spalle un lavoro ben remunerato, o vengono al seguito di un compagno già assunto con un modesto stipendio locale. Il “probabilissimo” lavoro d’insegnante era per riuscire a pagare l’affitto di 80 mq a Barcellona (e qui trattengo le risate), e anche una scuola privata al figlio di tre anni, che si sa, quelle pubbliche insomma… A questo punto ricordo i 500 euro per una escola concertada, comunque più economica delle private, e non rido più: penso a questo frugoletto che una volta qui, oltre a dover imparare i pronoms febles, rischia di sciropparsi 30 metri quadri in culo ai lupi e un’iscrizione alla scuola pubblica fatta in ritardo.

La mia amica è partita da sola, ma ancora prima di rivolgersi a me ha avuto la presenza di spirito d’informarsi sui documenti e di trovare un alloggio temporaneo intanto che gira a caccia di stanze non lillipuziane, né proprio in Papuasia.

Perché il problema delle autonarrazioni non è la pretesa sacrosanta di ricominciare a trentasei, cinquanta o settanta suonati: ricordo una negoziante sessantenne che dalla Toscana voleva le trovassi un posto da cameriera! Il problema è scordarsi delle mille cose da fare per riuscirci, tappe che hanno meno a che vedere col “sudore della fronte” e più con ore di fila all’alba fuori a un commissariato, chilometri macinati coi curriculum in mano, eterne rassegne di ripostigli riciclati come stanze a 350 + spese.

Si tratta, dunque, di noia, di esercizio e della costanza di ricordare perché si sta facendo tutto questo, anche quando i perché cambiano.

Solo allora scopriamo il magnifico lusso di “ricominciare daccapo”, e ci godiamo il processo.

 

Da https://it.wikipedia.org/wiki/Calzotata

Vivo in un quartiere, il Poble-Sec, che ha tanti significati quanti sono i suoi abitanti.

Qualcuno che ci è nato, e già da un bel po’, lo vede ancora come un “quartiere operaio”, facendomi chiedere esattamente da quanti decenni non esca di casa: nei suoi sacrosanti tentativi di salvare il “barri”, in catalano, posterà anche foto di uomini addormentati a terra, e le sue rivendicazioni sfoceranno pericolosamente nel concetto a me odioso di “mantenere il decoro”. Però ha dei nipoti che si sono presi lauree, hanno viaggiato, e che nel quartiere vedranno la loro antica colla de diables o de castellers, e inseguiranno un po’ più i diritti e meno il decoro. Certo, per questi giovani di belle speranze gli ambulanti asiatici non sono benvenuti, alla festa del barri, perché sono una mafia: le birre le devono vendere solo loro.

In compenso ci siamo noi, scanzonati trentenni stranieri che cercavano una zona abbastanza centrale ma non troppo incasinata: i “salvatori” di cui sopra ci confonderanno con i turisti e ci accuseranno di girare le capitali europee gentrificando tutto quello che tocchiamo. Avranno ragione? In parte. Purtroppo per alcuni di noi il Poble-Sec è un posto in cui non imparare mai lo spagnolo (il catalano ahahah) e avere sempre un bar aperto fino a mezzanotte in cui mangiare l’unica specialità locale che conosciamo: il montadito.

Ci sono altri stranieri, eh, ma non so come vedano il Poble-Sec perché, in realtà, interagiamo poco: le pakistane sono troppo indaffarate a portare un nugolo di bambini alle giostrine, intanto che loro chiacchierano un po’ in santa pace, e la nutrita comunità latina sembra aver creato un micromondo tutto suo, in cui non sia necessario ricordarsi di vivere in una città europea (se non al lavoro, quando le donne devono pulire camere d’albergo per due euro a stanza, e senza le mance americane).

Ci sono i numerosi senzatetto che vivono, letteralmente, negli sportelli bancomat, quando la polizia non li caccia a beneficio dei turisti: ma s’era detto che “minacciano il decoro”, quindi scusate se mi permetto di menzionarli.

Infine, sì che ci sono i turisti: magari occupano gli appartamenti clandestini che aumentano a dismisura l’affitto ai vicini, e durante le manifestazioni per “salvare il quartiere” incitano dal balcone il corteo, per sentirsi rispondere a volte “Madarfaca!” (l’accento quello è). Per loro il quartiere è: Montjuïc, Mies van der Rohe (per pochi eletti) e, sì, i pinchos del carrer Blai (ma loro diranno “calle Blai”).

Non è una scoperta sensazionale che il significato dei posti ce lo mettiamo noi.

Per me il quartiere si riassume tutto in un angolino della strada dietro casa, che poi era la mia strada fino a un paio d’anni fa: a un certo punto, scendendo in direzione opposta alla montagna, ci trovi a destra uno di quei locali che non si capisce bene cosa vendano, una sorta di bar minimalista con una sedia, un caffè “speciale” e una sola torta conservata sotto una teca, come un diamante (sospetto che il prezzo giustifichi la premura).

Di fronte, invece… Beh, di fronte c’è lui: milanese barbuto che ha affittato un magazzino, ci ha piazzato due tavoli e un letto per lui nell’altra stanza, e ci vende il miglior tiramisù mai assaggiato, oltre a lasagne, salumi e pacchi di pasta italiana a un euro, “consegne anche a domicilio”. In pochi ci siamo seduti a quei tavoli odorosi di sigarette fumate sul retro, ma sul tiramisù siamo tutti d’accordo.

Tuttavia è scendendo che troviamo la chiosa ideale a questo spettacolo, la nota locale che ci dice che il Poble-Sec non morirà mai: il classico Bar Manolo (versione locale del Bar Sport), con fuori il cartello antidiluviano “Tenim calçots”. Ora, i calçots sono una specialità invernale tutta catalana, è molto improbabile che ne abbiano tutto l’anno, a meno che non abbiano trovato il modo di congelarli. Non c’è bisogno però di ricordarlo alla clientela, fatta perlopiù di vicini non ancora disposti a pagare più di due euro per un café con leche. Loro sapranno esattamente quando troveranno calçots e quando no.

Ma passare là fuori mi fa bene, regala alle mie giornate un certo ottimismo: ogni volta mi devo trattenere dall’entrare, ad agosto come a novembre, e scoprire davvero se solo lì, nel giardino di cicche che il proprietario coltiverà sul retro, solo lì i calçots crescono tutto l’anno.

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Da bimboinviaggio.com

Non è necessario cominciare col botto, eh. Rilassatevi, mangiate la fetta di pizza avanzata da ieri a pranzo e preparatevi con serenità al primo giorno dell’anno.

Il 2017 mi ha ricordato proprio questo: dietro ogni brindisi ci sono ore di lavoro in silenzio, con risultati spesso modesti, quasi mai spettacolari.

Ore passate su un foglio Word a cercare di raccontare cosa ti stia succedendo, mentre il mondo intorno sembra essere impazzito. Ore passate a preparare lezioni che credevi poche e invece non finiscono più, e magari l’idea era tenerle su altri argomenti, e in un’aula universitaria. Ma il gioco ormai funziona così: tu ti laurei, ti specializzi, e poi fai tutt’altro, e ringrazi pure che ci sei riuscita.

A volte sì che è un momento, invece: una notizia improvvisa e l’eterna scoperta, una volta di più, che sulla tua vita hai un controllo minimo, per quanto ti sbatta a lavorare e brindare. Se uno proclama l’indipendenza e vola in Belgio, poi sei tu a non vendere casa. Se ti rubano il portafogli a inizio vacanza, la vacanza cambierà. Ci sono cose che di solito si fanno in due, finché non scopri di essere rimasta sola, e ti arrangi.

Insomma, questo botto d’anno nuovo è apotropaico ma fuorviante, se si fa “perché lo fanno tutti”.

E se c’è un proposito da portare avanti nei prossimi 365 giorni mi sembra questo: smettere di fare le cose perché “così si è sempre fatto”.

Ci riusciremo?

Ce lo diciamo tra un anno.

Buon 2018!

 

 

 

 

L'immagine può contenere: cibo

La Parlata Igniorante supera se stessa! https://www.facebook.com/laparlataigniorante/

Allora, a Capodanno a Barcellona si va in piazza con dodici acini d’uva e si aspettano i rintocchi della mezzanotte.

A ogni rintocco s’ingoia un acino (sì, uno per mese). Chi lo fa ogni anno mi giura che finisce con la bocca piena d’uva, e va in giro sputando semini.

Io ve l’ho detto, così dal prossimo Natale mi venite a trovare voi: se ogni anno devo venire al paesone per ammalarmi, grazie ma ho altri progetti per le feste.

Però chi sta da una settimana tra le stesse quattro mura ha tanto tempo per fare riflessioni sceme, e una è sul dolore. Considerata l’importanza di tali quattro mura nella mia storia personale, mi sto riferendo a tutto il dolore possibile: da quello per l’ultimo torroncino papabile che ti fa sparire tua cugina, a quello perché la casa di sotto è disabitata da un po’, ormai.

Sul dolore sono noiosa, penso sempre che la via più efficace sia conviverci. Grazie al ca’, direte voi, ma ad arrivarci ce ne vuole. Avete presente da bambini, quando seduti a tavola al cenone simulavamo noncuranza dopo aver ricevuto un roccocò nelle gengive da nostra sorella? (Basta con le armi bianche, proibiamo i roccocò). Ecco, in quei casi quanto ci mettevamo ad abbandonare tutto l’aplomb inglese per metterci a frignare senza ritegno?

E invece nelle feste il dolore deve avere un posto speciale, secondo me: quello defilato ma fisso del parente non invitato che tanto a tavola si siede lo stesso. Come la pietruzza nel cappelletto di altri Natali più nordici, che si lasciava lì a ricordare che la festa prima o poi finisce e torna il dolore (poi dice che siamo un popolo sadico).

Ecco, funzionerebbe così con tutto, e il Natale è la tipica festa caciarona, cafona qb e lunga a sufficienza da ricordarselo.

Allora, ci vediamo Una poltrona per due e salutiamo col pensiero quello stronzo del capo, che non ci ha detto se a gennaio ci rinnovava il contratto o no.

Litighiamo per chi debba scendere a ritirare il pacco spedito da zia Cassandra, e intanto salutiamo via il secondo anno passato senza riuscire a farci il mutuo.

Guardiamo la bambola di nostra nipote e ci chiediamo se sia poi così saggio metterle in mano solo bambole, e solo a lei, che magari da grande si sente menomata se non ne fa una in carne e ossa, e metti che viene pure un’altra crisi, oppure ancora non si è trovata la quadratura del cerchio tra smettere di seguire le tradizioni e sposarsi con le bambole gonfiabili.

Un giorno la troveremo, però. La quadratura del cerchio, o la ricetta degli struffoli perfetti.

Sarà più facile trovare il guanto destro che zia Gioconda ha fatto a Michelino, perso a un certo punto tra il terzo secondo e il quarto contorno.

Ma vedrete che uno di questi Natali salta fuori anche quello.

Immagine correlata  Mi scoccia un po’ la narrativa del “ci vuole coraggio a restare”. So che chi parte se ne costruisce spesso una uguale e contraria, stile “il mondo è di chi se lo piglia” + massima a caso di Steve Jobs. Ma questa del coraggio di chi resta sta ricorrendo un po’ troppo nelle costruzioni identitarie di collettivi che altrimenti ammiro.

Vi prevengo: mi sono chiesta se a muovere il mio fastidio non sia il senso di colpa che dicono di avere altri… “fuggitivi“. Ma non credo sia così, per due motivi.

Prima di tutto, l’Erasmus e altre esperienze all’estero mi hanno fatto costruire un’identità “transnazionale”: insomma, nostra patria è il mondo intero, per restare in tema di narrative seducenti.

E poi, credo che la cosa più utile che io possa fare, alla luce dei fatti, sia costruire ponti (altro cliché affascinante): confrontare le mie esperienze estere con quelle di chi resta. Continuo a pensarlo anche ora che mi hanno fatto sentire paranoica perché mi preoccupo della gentrificazione a Napoli (“Ma no, è il salumiere che si rifà il negozio per piacere ai turisti!”), nonostante lo sfruttamento dei lavoratori nel settore turistico e l’evidente aumento del costo della vita. D’altronde vivo in una città che, di tutte le critiche mai mosse alla sindaca, non ne ha mai avanzato nessuna contro il termine “sindaca“. So che dalle nostre parti c’è qualcuno che ancora liquida queste cose come quisquilie che distolgono dai “veri problemi”: i suoi.

Specie in tempo di elezioni, poi, alla narrativa del “se ne sono fuggiti” si alterna il “sono stati costretti a fuggire”: in un caso o in un altro, la nostra volontà di scelta va a farsi benedire. Non possiamo proprio decidere per motivi vari di voler fare una nuova esperienza altrove. Lo so, lo so, il buon vecchio Fëdor mi aveva messo in guardia sul rapporto difficile tra essere umano e libero arbitrio: ma qui si degenera.

Allora con un sorrisetto antipatico mi viene da guardare qualcuno che si senta “eroe” per il fatto di essere rimasto (o qualche eroina, che sono anche di più), e chiedere: “Neh, ma siete proprio sicuri che riuscireste a fuggire?”.

Perché non è affatto scontato, eh. È vero, la stagione a Londra e Barcellona se la fanno un sacco di diciottenni senza molti studi, che puntano subito ai lavori più umili “finché non imparano la lingua” (e, paradossalmente, dopo un po’ finiscono a parlare solo italiano nei call center).

Ma… Sicuro che riuscirebbero a restarci, fuori? E che sarebbe una fuga piacevole? Ricordo che mi avvicinavo ormai ai trenta, quando ho letto i primi messaggi disperati di coetanee in vacanza che chiedessero “come funziona la lavatrice”. E continuo a sospettare che non pochi coetanei maschi moriranno prima di scoprirlo.

Sicuro che ci andrebbe tanto di farci sfruttare dietro un bancone da qualche connazionale che approfitta della nostra scarsa padronanza della lingua locale per sottopagarci? Sicuro che ci andrà bene vedercela con agenzie e padroni di casa, e farlo in una lingua straniera? E no, lo spagnolo non è italiano con le “s” alla fine, i francesi se non arrotiamo le “r” non capiscono, e potreste diventare vecchi prima di dire l’unica frase d’inglese (o giù di lì) imparata a scuola: “the book is on the table” (io sto ancora aspettando questo momento). Spassionatamente: guardiamoci sempre Netflix coi sottotitoli in inglese, e forse non tenteremo il suicidio la nostra prima sera a Manchester.

Proviamo poi a farci degli amici che non siano quelli d’infanzia, o di scuola, o del lavoro fisso a cui avrebbe potuto aspirare nostro padre. Magari conosceremo più gente alla festa d’addio di un collega in partenza (evento frequentissimo nelle metropoli), che tra i vicini del nostro stesso palazzo.

Per non parlare delle difficoltà di “fuggire” verso una terra che, checché se ne dica, non è messa proprio benissimo, rispetto all’Italia: a Barcellona non ce la farà mammà, la nottata a Sant Cugat del Vallès per prendersi il Nie, che danno senza appuntamento solo ai primi quindici in fila. È vero che qualche mamma o papà s’iscrive di stramacchio sulle pagine d’italiani all’estero, per aiutare la prole a trovare casa anche a distanza. Ma è una parola lo stesso! La mia padrona di casa potrebbe dirmi all’improvviso, come altri proprietari nel quartiere, che devo lasciarle l’appartamento per “motivi familiari”: in tal caso, posso sospettare legittimamente che in realtà voglia affittarlo per soggiorni brevi al 50% in più del prezzo. Ormai, considerando che 1000 euro a Barcellona sono uno stipendio non disprezzabile, oltre il 50% di quanto guadagniamo serve a pagarci l’affitto.

Morale della favola: tanta gente che “fugge” non resiste tre mesi. Arriva a settembre, dopo un mese ancora non ha i documenti per lavorare e approfitta delle vacanze di Natale per tornare alla chetichella.

Spero che chi “non se la sente di fuggire” sia in grado di fare meglio!

Perché tutti quanti ci costruiamo un’autonarrazione, e l’indulgenza verso noi stessi deve sempre occuparvi un ruolo da protagonista.

Basta che non diventi un racconto consolatorio che impedisca di partire a chi starebbe meglio altrove, e di tornare a chi ha scoperto che non basta un altrove, per stare meglio.

Perché c’è un piccolo particolare da cui non riusciremo a scappare mai: il fatto che le cose, malgrado tutti i nostri sforzi, possano andarci male sia in Italia che in Papuasia citeriore.

Proviamo quindi a esercitare quel poco di scelta che abbiamo senza pregiudicarci nulla, che sia un trasferimento, un ritorno, o la sacrosanta voglia (che dovrebbe essere un diritto) di non muoverci proprio.

A volte ci vuole coraggio a partire, altre volte ce ne vuole a restare.

In tutti i casi, basta trovare il coraggio.

https://www.captiongenerator.com/183232/Hitler-e-il-NIE

 

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Da https://www.express.co.uk/news/uk/758128/Beer-price-UK-pubs-goes-up-6p-pint

Attenzione: la seguente riflessione è così “volemose bene” da risultare quasi natalizia.

Sono passati cinque anni da quando una me più giovane, e infinitamente più melodrammatica, scriveva questo post: parlava di un amico che, nel corso di un’innocua uscita pomeridiana, mi annunciava all’improvviso che il giorno dopo sarebbe partito “per sempre”.

Ok, anche se non vi sciroppate il blog da tutto ‘sto tempo avrete capito che l’amico in questione non mi dispiaceva affatto, nonostante la timidezza e le… barriere linguistiche: diciamo che, se avesse voluto la separazione della sua terra per motivi linguistici, io gliel’avrei appoggiata.

Quell’antico addio “a tradimento” era quindi entrato a far parte della struggente narrativa dei miei primi anni a Barcellona, e delle illusioni (diciamo anche delle “pippe mentali”) che mi facevo allora.

Fino a ieri sera.

Perché secondo voi chi c’era al pub quiz domenicale, seduto a un tavolo di amici comuni? Esatto, lui! Io lo dico sempre, che ci ho i lettori intelligenti.

Quasi non lo riconoscevo, col nuovo taglio, così come lui quasi non riconosceva il pezzo di donna che intanto sono diventata (e solo una delle due affermazioni precedenti è falsa!).

Giocavamo in squadre diverse e nessuno di noi due ha vinto il quiz, anche se il mio gruppo si è aggiudicato a pari merito il premio per l’haiku più creativo (una scatola di biscotti non proprio a prova di vegano).

Ma ho rinunciato al mio progetto di rientrare presto per fare due chiacchiere col redivivo, e constatare che, dopo svariate puntate di Outlander, riesco a capire quasi tutto quello che dice. Forse ci vediamo in settimana per una birra con gli altri, o forse no. In ogni caso sono rientrata contenta anche senza aver vinto il jackpot (impresa quasi impossibile, con quel nerd del mio ragazzo in Italia!).

Tutto questo per dire: era molto più “ad effetto” il finale di cinque anni fa. I poeti romantici suoi conterranei avrebbero sorriso da lassù, se quello di allora fosse stato l’ultimo abbraccio, seguito da un mio crollo sulle scale di casa che Eleonora Duse in confronto è la protagonista di The Lady (erano pure cinque piani senza ascensore…).

Ma sapete che vi dico? Che mi è piaciuto molto di più così.

È stato bello non credere ai miei occhi, cacciare un urletto di svariati decibel e fare due chiacchiere da vecchi amici davanti a una birra (lui) e a un… ginger ale, visto che la mia resistenza all’alcool non è cambiata, intanto.

Insomma, mi è venuto da pensare nientepopodimeno che alla differenza tra vita e illusione.

Solo per concludere, insieme a Calvino, che “se la vita è sempre varia e imprevista e cangiante, l’illusione è monotona, batte e ribatte sempre sullo stesso chiodo”.

Nel dubbio, adesso so quale scegliere.

L'immagine può contenere: una o più persone, persone in piedi, occhiali e notte

Quando avevo l’età di Julien (gli occhiali pre-hipster sono finti!)

Il mercoledì era il mio giorno preferito, ma adesso lo schifo.

Il principio di “accumulare tutti gli impegni in una sola giornata” mi si è ritorto contro alla grande.

D’altronde l’imprevisto è il mio mestiere, visto che noi insegnanti d’italiano all’estero rientriamo nella categoria dei monitores, che è la stessa degli istruttori di palestra e di sci: ho pure provato a chiamare “collega” la scultorea istruttrice della mia ex palestra, ma non l’ha presa benissimo.

Insomma, tra corsi annullati e proposte di lavoro telefoniche, me ne andavo bella bella per carrer Ferran, con lavagnetta dei cinesi al seguito per illustrarci i misteri dell’articolo determinativo, quando ho incrociato un ragazzo armato di volantini.

Se siete venuti almeno una volta a Barcellona avrete visto questi giovani virgulti freschi d’aereo, che per accomodare i loro vent’anni in cinque metri quadri di ripostiglio nel Gotico fanno anche questo, tanto hanno pure i chupitos gratis.

Sono quasi sempre stranieri: i coetanei del posto qualcosa di meglio rimediano, e poi non sempre parlano quattro-cinque lingue. In compenso questi “volantinari” potrebbero parlare uno spagnolo approssimativo, ma vicino alla Rambla chi se ne accorge!

Questo qui almeno non aveva la tenuta da spiaggia di certi colleghi anglosassoni a novembre, il che lo camuffava abbastanza bene tra i passanti. Solo che, proprio mentre lo evitavo per passare, all’ultimissimo momento mi ha fermata.

“A me! A me che sono la catalanità in persona!” ho pensato con un sorriso, guardandomi la trapuntina grigia presa in saldi e le antiche Calzedonia nere che cominciavano a stingere. Cosa avevo sbagliato? Era per gli occhi truccati? I capelli senza frangetta?

A scanso d’equivoci, ho sventolato la bustona con la lavagna cinese, come a dire: “Guarda che vado a lavorare, non sono una turista”. Ma lui imperterrito mi ha chiesto qué tal.

Due ricordi sono affiorati nella mia mente: la sera dell’ultimo esame di catalano, quando il mio orgoglio si era infranto contro il menù mostratomi da un cameriere che mi chiedeva con finto accento inglese: “Paella? Sangría?”; la sera di Napoli-Verona in cui il barista dello Sports Bar mi aveva chiesto se fossi irlandese.

Stavolta ho dunque gettato la spugna e spiegato al ragazzo che andavo di fretta.

Quello non si è dato per vinto e mi ha chiesto di dove fossi. Gliel’ho spiegato. Lui? Francese.

“Mi chiamo Julián” ha dichiarato, con tanto di jota alla madrilena.

E qui mi ha fatto veramente pena. Perché una delle prime cose che perdiamo partendo è il nostro nome. Cosa c’è in un nome? Beh, quello che credevamo di essere fino a quel momento, fino a un minuto prima di diventare “l’italiana” o “il francese”.

Ci ho scritto pure un romanzo, che nessuno ha pubblicato. Ma in effetti faceva un po’ schifo, quasi quanto i mercoledì.

Allora ho deciso di fare un piccolo omaggio al ragazzo. Prima di filar via gli ho detto:

Julien“.

Con la “u” più a culo di gallina che mi venisse.

È rimasto contento, ma non avevo tempo per un patetico scambio di battute nel mio francese: ho incassato il suo bonne soirée e sono tornata ai miei articoli determinativi.

Però, ve lo confesso, per un secondo ho pensato di prendergli il volantino.

Allora avrei regalato lavagna e libro di testo al vagabondo seduto a terra con cinque bicchieri davanti (“cibo”, “fumo”,”LSD”…) e sarei entrata nel bar di Julien a intascare il mio chupito gratis.

Ci sarei entrata come se dall’ultima volta fosse passato un week-end, e non un decennio o giù di lì. Mi sarei messa a scherzare col francesino al bancone, anche se stavolta avrei tenuto bene a mente che mi avrebbe ceduta volentieri al suo amico, se ne avesse trovata un’altra “mejor”. Così come mi sarei guardata bene, stavolta, dallo spiegare al bellissimo barman di Liverpool che ho vissuto due anni a Manchester.

Avrei bevuto dimenticando di dover andare il giorno dopo in biblioteca, specie adesso che la biblioteca è diventata la scuola di lingue, la lezione a Sant Cugat, il colloquio occasionale per entrare nell’ennesimo gruppo di ricerca rimasto senza fondi.

Avrei bevuto alla salute di tutti e avrei dedicato l’ultimo chupito a Julien, che magari a fine serata sarebbe entrato a brindare con me.

Poi sarei tornata a casa col singhiozzo, mi sarei sentita male e mi sarei chiesta che cavolo stessi facendo con la mia vita.

Va detto che è una domanda a risposta multipla, eh, ciascuno trovasse la sua dove meglio crede: in fondo a un chupito di tequila (prima il sale, poi tracanni, poi il limone), o in quel vecchio progetto démodé del tetto sulla testa e del marmocchio da finanziare fino all’università. Tra le due opzioni ci sono anche tante vie di mezzo. Io è da un po’ che ho trovato la mia.

Così, anche questo mercoledì ho sollevato un po’ meglio la borsa che mi scivolava dalla trapuntina, ho stretto forte la busta che cadeva sotto il peso della lavagna cinese, e sono corsa ad ammazzare il resto del mercoledì.

Il mio vecchio mondo lo lascio a Julien.

https://www.youtube.com/watch?v=ECqJP8O6ZoA

 

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