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Da nonsoloshoppingsesto.blogspot.com.es

Quando scesi dall’aereo Napoli-Manchester avevo 22 anni, e non sapevo come arrivare allo studentato in cui avrei trascorso l’Erasmus.

Agli Arrivi trovai un piccolo comitato di benvenuto per studenti: mi scambiarono per una della loro università. Così rimediai un passaggio senza capire cosa stesse succedendo.

Quando uscii dall’Aeroport del Prat di Barcellona, di anni ne avevo 27 e avevo fatto credere ai miei di avere già l’ostello prenotato. Invece presi un taxi (ignoravo l’esistenza dell’Aerobus) e mi feci portare alla stazione di Sants, da cui mi dedicai alla ricerca di ostelli.

Scrivo questo per dire che si parte sempre un po’ alla ventura, ma prima di farlo, secondo me, è meglio disporre di almeno uno dei seguenti requisiti:

  • un gruzzoletto per permettersi di non dormire sotto i ponti intanto che si cerca casa e lavoro (e non scattate col “grazie ar c…”, che non sapete in quanti si vantino di essere partiti con 150 euro);
  • la consapevolezza che, a partire senza progetti precisi, si potrebbe tornare a casa dopo pochi mesi (e la capacità di sopportarlo);
  • facoltativo ma importante: non essere troppo arrabbiati con l’Italia. L’incazzatura ci sta, l’odio profondo porta con sé un problema: scoprire che la rabbia è costante, sono i suoi bersagli a cambiare. Per chi ne è affetto, passare dal detestare gli italiani a fare lo stesso coi catalani è un attimo.

La questione è che, nel confronto Italia-estero, la prima gioca in svantaggio per un unico, fondamentale dettaglio: è una sola, o così crede qualcuno. Mentre l’estero, come idea astratta, ha l’unico grande vantaggio di non essere Italia.

È quindi quel luogo paradisiaco, vagamente mitologico, in cui finalmente potremo realizzarci, dire addio a raccomandazioni e familismo amorale e trovare la felicità. Lo dicono i giornali, parlandoci delle “nostre eccellenze” e sorvolando spesso su chi a 10 anni dalla partenza fa ancora lavori poco specializzati, e vive in stanze in affitto (che ci sta, se i suoi obiettivi erano quelli, ma erano quelli?).

Il problema principale di questa non-Italia? Quando finalmente diventa un posto, un indirizzo a cui bussare per una stanza, una fila in un Commissariato sempre difficile da contattare, si scopre che, contrariamente ai pronostici, viverci non è facile.

Specie se il posto che abbiamo scelto ha più del 30% di disoccupazione giovanile, e magari è una città dove l’affitto medio costa ormai intorno agli 800 euro mensili.

Io non so se chiamarlo selezione naturale, espressione positivista che non amo, il fenomeno per cui gente arrivata a settembre a Barcellona approfitta delle vacanze natalizie per tornarsene in Italia senza far troppo rumore. Credo sia una triste realtà che possa toccare a tutti. Ma soprattutto alle seguenti categorie:

  • ventenne indeciso se partire per Londra, Berlino o Barcellona, che scrive su pagine d’italiani all’estero per chiedere “se c’è lavoro anche per lui, che non parla la lingua locale”;
  • trentenne deluso da Londra e a caccia di sole, ma non di stipendi bassi a fronte di affitti sempre più alti. Si meraviglierà di tre fenomeni per lui inspiegabili: l’inglese qui non compensa l’assoluta ignoranza dello spagnolo; lo spagnolo non è l’italiano con le “s” alla fine; il catalano non è un dialetto;
  • coppia giovane che s’informa sulla vita all’estero solo dopo la partenza. Fuitina 2.0? No, “voglia di mettersi in gioco”. In un posto in cui solo per prendere il NIE ci metti due settimane quando ti va bene. Per fortuna quelli con figli al seguito tendono a informarsi prima un po’;
  • coppia matura che pensa di cambiar vita, ma invece d’investire il gruzzoletto accumulato in anni di lavoro malpagato viene con gli stessi piani del ventenne di cui sopra, e trent’anni di differenza: lavoretto malpagato per “imparare la lingua”. Tra i due profili, indovinate quale assumano;
  • professionista della gastronomia: quando gli spieghi che il prodotto ultralocale che vorrebbe esportare viene già servito almeno in due forni e tre pasticcerie, spiega che però il suo è “artigianale”. Sicuramente gli italiani in loco aspetteranno di assaggiarlo, per cambiare negozio, e gli autoctoni noteranno la differenza;
  • arrabbiato col mondo (vedi sopra): ci sarà sempre un paese migliore di quello in cui si trova ora. Se è in Italia anela alla Spagna, se è in Spagna alla Germania. Però, quando si rivolge a un avvocato per farsi dare una buonuscita più congrua (chissà perché lo licenziano così frequentemente) scopre che, guarda un po’, gli avvocati si pagano. Anche alla prima consulenza. Paese di parassiti, dirà sperperando il sussidio di disoccupazione, quella volta che sia riuscito a resistere abbastanza nello stesso posto per ottenerlo.

Menzione a parte per chi risponde a distanza a un annuncio per cameriere o lavapiatti, senza ancora aver fatto neanche il biglietto aereo. E spiega pure che “Se gli fanno una buona offerta lascia l’Italia e parte”. Non si capisce se quest’offerta gli debba venire prima o dopo che si faccia la fila davanti all’annuncio “cercasi”, esposto cinque minuti fa fuori al locale.

Quindi il mio non è, come può sembrare, un invito a non partire. È un invito ad accompagnare lo “Stay hungry, stay foolish” a frasi un po’ più utili per evitare pure lo “Stay sotto un ponte”.

Partite pure, se volete “mettervi in gioco”, sapendo da prima quali difficoltà troverete e giungendo alla conclusione che non vi fermeranno.

Altrimenti succede sempre la stessa storia:

Così ognuno fugge se stesso, ma a questi di certo, come accade,

non riesce a sfuggire e, suo malgrado, vi resta attaccato e lo odia,

poiché malato non afferra la causa del male.

E se proprio dovete fuggire da voi stessi, almeno fatelo in un posto in cui una stanza stia sotto i 400 euro!

Risultati immagini per il quarto stato funny Bella gente, oggi è Primo Maggio e dovrei lasciare la parola alla festa, ammesso che la si possa chiamare così.

All’impegno, allora. Al confronto, alla voglia di venire fuori da questa crisi economica senza sempre scendere a compromessi, e senza cedere al ricatto morale dell’ “O questo o niente”.

Prima di lasciarvi a manifestazione e concertone, volevo però raccontarvi un aneddoto un po’ triste sul documento che ci sta facendo impazzire un po’ tutti, a Barcellona: il NIE, requisito indispensabile per non lavorare a nero.

Non siete tutti abituati, vero, a mettervi nei panni degli stranieri che cercano lavoro?

Ebbene, premesso che una carta d’identità europea ci risparmia le umiliazioni di altri lavoratori, ultimamente a Barcellona è diventato quasi impossibile prendere appuntamento nel Commissariato preposto per ottenere questo documento. Chi ci riesce accende un cero alla Madonna di Montserrat*.

Intanto, qualcuno dei neoarrivati scopre che fuori città è più facile ottenerlo, nonostante più di un dubbio sulla legittimità dell’operazione, per una persona che risieda a Barcellona.

Allora scattano nelle pagine italiane i seguenti consigli, che riporto pedissequamente (nb: “cita” o “cita previa” in questo caso vogliono dire “appuntamento”):

1) “Ho trovato cita fuori barcelona ma.quando mi sono presentato mi hanno respinto non.essendo il mio comune di residenza… risiedi a.Barcelona??? li lo devi fare. E tutto bloccato? nin è un loro problema e intanto tanti soldi buttati non trovo lavoro con.un cavolo di Nie provisional [Nie provvisorio, ndR. Questo utente sostiene di essersi rivolto a un avvocato]”
2) “Io ho sentito di un pakistano he ti prende la cita previa, ovviamente a pagamento, chiedi qua sul grupoo che lo aveva scrito qualcuno qua, secondo me è una buona opzione”
3) “Si dai pakistani ti prendono circa 15 euro ma la.procedura che fanno e la misma che faccio io e dunque nada cita disponibile solo per extracomunitari”
4) “Sant adrià de besos!
Indirizzo: Avinguda de Joan XXIII,2, Sant adriá de Besos, Barcelona.
Trovati lì alle 5 di mattina, i poliziotti ti daranno un numero con cui ritornare alle 9 in poi. Se fai tardi non riceverai il bigliettino (tipo quello quando vai dal salumiere) in quanto danno solo 15 bigliettini al giorno!
Buona fortuna”
5) “Rubi…stesso treno che va a Terrasa ma qualche fermata prima vai alle 7 del mattino e aspetti che l ufficio apra…ore 8…tanto troverai già altre persone a farti compagnia”
6) “se non riesci a trovare l’appuntamento dovresti fare come ti dicevo.. 5.15 max a sant’adrià per fare le fila per la cita del giorno stesso. Un mio collega è andato alle 7 a badalona per fare la fila per la cita, che gliel’hanno invece data per due settimane dopo.. io sono stata miracolata a trovare la cita previa per bcn alle 14 di un giovedì”

 

Ah, già, dimenticavo. Per prendersi il NIE, indispensabile per lavorare, c’è bisogno di un requisito fondamentale: il lavoro o i soldi. Già vi vedo chiedermi: “Mi serve un lavoro per poter lavorare?!”. Ebbene, sì.

Ufficialmente, bisogna dimostrare di avere “i mezzi per mantenersi in Spagna“. Dunque, o è necessario avere un lavoro, o bisogna disporre di una cifra pari a circa 5.160 euro in banca.

A questo si riferisce il titolo del post, ispirato a una chat privata con un ragazzo appena arrivato che mi chiedeva: “Non ho capito perché devo avere i soldi per poter lavorare!”.

Il fatto è che un’azienda, ormai, senza NIE non ti assume. E, a meno di disporre dei 5.160, senza contratto di lavoro il NIE non lo rilasciano. Da qui il serpente che si morde la coda: per avere il NIE devi lavorare, per lavorare devi avere il NIE.

Soluzione: il precontratto di lavoro. Documento non vincolante in cui l’azienda manifesta l’intenzione di assumere il lavoratore previo ottenimento del NIE.

A questo punto scatta… Sì, avete indovinato: il racket dei precontratti!

Ok, in realtà non ho prove sufficienti ad affermare che sia un fenomeno diffuso. Però, sulla pagina che modero, ogni tanto si vedono messaggi tipo: “Ragazzi, qualcuno mi fa un precontratto falso? Vi prego!”.  Lo so, manovra scaltra in una pagina pubblica.

Un tipo ci provò, invece, a mettere l’annuncio: “Ti serve il NIE? Contattami in privato!”. Venne fuori che questo aveva la partita IVA e chiedeva 300 euro per simulare un’assunzione. Eliminato e bloccato dalla pagina.

La mia testimonianza preferita sul precontratto finto è questa:

“Esperienza odierna a Terrassa, in fila dalle 4.30. Becco il numero 5. Mi siedo e l’impiegata odiosa subito mi dice che ci vuole un precontratto. Torno a Barcellona in treno, ne ottengo uno di gran fortuna e torno in tempo per pagare la tassa e prendere il NIE. In poche parole, pare che stiano stringendo la cinghia anche a Terrassa, dove sono stati rimbalzati tutti quelli senza contratto oggi. Quindi consiglio di avere già un precontratto a tutti quelli che vogliono andare a Terrassa”.

Mi dicono che ‘ntender no la può chi no la prova, ed è vero: ho fatto il NIE quando era ancora facile.

Mi dicono che lo stato spagnolo sia solo arrivato tardi a queste manfrine, già diffuse nell’Unione Europea.

Mi dicono che la gente che viene qui ogni anno, dall’Italia, sembra più una massa di ingenui che venga a “tentare la fortuna” che una congerie di “eccellenze” e “cervelli in fuga”, come ama definirci certa stampa italiana.

Sarà. Ma aggiungete anche questo tassello alle difficoltà assurde che comporti oggi trovare un lavoro, attività sempre più difficile, che ormai non richiede più solo le antiche bustarelle, le “segnalazioni”, i compromessi politici.

No. Adesso, per lavorare, bisogna avere i soldi.

Buon Primo Maggio! Ce lo siamo meritato.

 

*Devo confessare che, vista la scarsa congestione che ho constatato personalmente nel Commissariato, quando ci sono andata l’altro giorno, ignoro il perché di tante difficoltà. Ma forse i 20 minuti di fila toccati a me (niente, praticamente) non erano sufficienti a comprendere.

Da trerighe.it

Capita che a volte io sia bella che spaparanzata proprio di fronte alla finestra, e mi dica che vorrei entrare in quel pezzo di cielo.

Perché succeda, dalla mia angolatura la finestra non mi deve contenere nient’altro che cielo, in barba ai palazzi. Gradito un gabbiano di passaggio che mi faccia accertare che no, non sto osservando quel lilla fosforescente che avevo sul Paint dell’Amiga 500: quello è cielo vero, e vorrei essere proprio lì.

Mai fare un pensiero del genere, però, dopo che ho preso un aereo.

Perché in quel cielo ci sarò entrata davvero, ricordandomi che non è proprio così poetico.

A parte la fila al check-in, certe istruzioni di sicurezza a bordo suggeriscono un freddo all’esterno che anche la mia vestagliona domestica si trasformerebbe in ghiacciolo.

Poi non so, di quanto cielo stiamo parlando? Magari all’altezza del gabbiano vagante la respirazione sarebbe ancora ok, ma provassi ad andare un po’ più su, e vediamo.

In effetti se per magia riuscissi ad andare su su su, quel blu dipinto di blu diventerebbe nero come il tizzone, a meno di fare quella che Groupon oggi chiamerebbe “The Icarus Experience“.

Meglio tornare al PC, allora. Al gruppo che modero, d’italiani a Barcellona. Per leggerci gli interventi di quelli che, vedendo le foto del Primavera e del Sonar (maro’), e passando una settimanella sulla Rambla (solo a me ha fatto schifo, la prima volta?), hanno pensato “come mi piacerebbe entrare lì”. Essere parte del firmamento di espatriati che tirano a campare a “Barca” (brivido).

Tanto lo so, che sulla pagina trovo tre tipi di post:

  1. Ciao, come si vive a Barcellona? Se mi arriva una buona offerta di lavoro parto subito!”. Da quando ho letto Vivo altrove, immagino cominci così chi emigrando afferma: “Voglio proprio vedere come mi tratta la mia nuova città”. Spero di non suonare troppo kennedyana se suggerisco che la questione andrebbe posta al contrario: come la tratti, tu, la tua nuova città? Infatti questo genere di post porta al secondo tipo, il mio preferito.
  2. Le risposte alle (rare) offerte di lavoro. Sotto l’annuncio commenta qualcuno che chiede “più info”. Al che arriva la proposta: “Passa di persona oggi pomeriggio”. E la replica è: “Sto ancora in Italia. Ma parto subito, eh!”. Il problema è che: a) per lavorare in Spagna ci vuole il NIE; b) il NIE in questo momento è più irraggiungibile del Santo Graal; c) oggi pomeriggio passerà “di persona” un migliaio di gente già munita di documenti e di alloggio. Il che mi porta al terzo genere di post.
  3. “Possibile che non si trovi una stanza, in questa città?!”. E io già a far sì con la testa, che gli affitti sono diventati impossibili. E poi è vero, alle e-mail degli annunci non rispondono nemmeno, tanta è la domanda. Uh, delle truffe online non ne parliamo! Poi però, alla soluzione più avanguardistica che io possa suggerire (“Scegliti un quartiere e chiedi in giro a chiunque”) viene risposto con sufficienza: “Ovvio che sono ancora in Italia! Non sono mica così sprovveduto da partire senza prima aver trovato stanza”. Dolce figlio dell’estate! A parte che conosco una che nove anni fa è atterrata senza neanche un posto in ostello (e magari i suoi lo stanno apprendendo in questo momento), io ti auguro in bocca al lupo con le seguenti, interessantissime proposte che riceverai, magari le uniche finché non entri nel tunnel delle agenzie e dei “provini” inflitti da potenziali coinquilini:                               a) Pastore protestante africano che affitta una riproduzione della Reggia di Caserta in pieno centro, a un prezzo inferiore ai 500 euro (quanto vale ultimamente una “doppia uso singola” a Sagrada Familia). Ti manda un questionario per capire se vuole lasciare la stanza a te e, bontà sua, decide di sì. Sfortunatamente è già in Africa, ma se gli mandi l’acconto ti spedisce le chiavi per posta. Se non rispondi subito ti fa chiamare da un suo emissario che, di fronte alla tua insistenza per visitare l’appartamento, ti proporrà di vederlo “solo da fuori”. b) Signore olandese la cui figlia è appena tornata da Barcellona, abbandonando l’appartamento dignitoso e insolitamente economico che paparino le aveva comprato intanto che studiasse là. Adesso il povero vorrebbe affittarlo, magari a te (e spedisce il questionario). Ebbene sì, sei il prescelto! Se porti caparra e prima mesata in contanti, ti consegnerà le chiavi un’incaricata di AirBnb, piattaforma che in quest’occasione, guarda i casi della vita, si occupa pure di affitti a lungo termine. Sì, verrà una donna, l’oculato padre sa anche questo. Ti prego, vacci, dolce figlio dell’estate, ho sempre avuto la curiosità di scoprire che succede al momento dell’incontro. Pure AirBnb è curioso, insieme alla Polizia postale. c) Giovanotto italiano che per una caparra piuttosto modica, magari sotto i 100 euro, dopo molti scambi WhatsApp di cui faresti bene a conservare gli screenshot, ti riserva una stanza. Per farsi versare la cifra ti manda la sua tessera sanitaria europea (la carta d’identità era banale), con una foto riuscita pure maluccio, se vuoi il mio parere. Lasciami dire da moderatrice che questo terzo benefattore è il mio preferito. Quando l’avrai accusato di truffa sulla mia pagina, cancellerà il suo profilo. Intanto un utente misterioso, con tre amici e una sola foto, comincerà ad accusare TE della stessa cosa, per poi annunciarti che sei stato denunciato per diffamazione. Intanto, il post con la tua accusa verrà segnalato ripetutamente alla moderazione, a cui arriveranno anche minacce di denuncia da gente non iscritta alla pagina. Magari la richiesta d’iscrizione arriverà subito dopo, e un’ora esatta dopo quella a Facebook. Io il numero di un buon avvocato te lo do, dolce figlio dell’estate, ma magari il suo onorario supera la caparra che hai perso.

Torniamo alla finestra, va’.

Un pezzo di cielo non è meno bello, se scopriamo quanto costi raggiungerlo.

Tutt’è capire anche questo.

Risultati immagini per when life gives you lemon squeeze Un mio amico è finito come tanti a lavare piatti a Londra, intanto che cerca di conquistarsi una faticosa carriera accademica. Con la sua dolce metà, italiana pure lei, il progetto era appunto restare lì a costo di darci di Svelto per tutta la vita.

Finché a lei, d’improvviso, non si presenta la Possibilità. Lavorare proprio nel suo settore, ma oltreoceano. E allora lascia alle commedie di Hugh Grant la romanticheria di rinunciare, sapendo che sacrificare la sua carriera le farà perdere anche l’amore, in un oceano di rancore e rimpianti.

D’altronde, salutare l’amore per una carriera comunque incerta nemmeno le piace. Però vivono insieme da tre anni, capite? Non c’è più lo slancio da tossicomani del “Ti seguirò in capo al mondo” (per poi pentirsene), e ormai sanno a memoria in che stato l’altro lasci il tubetto del dentifricio, al mattino. Ma proprio per questo, perché hanno un legame solido e sereno invece degli entusiasmi effimeri da inizio storia, non vorrebbero perderlo.

Adesso capite, di cosa parlo? Altro che win-win. Io ci vedo un lose-lose grande quanto Buckingham Palace.

Non ne ho fatto mistero parlandone col mio amico in chat, e chiedendogli come si sentisse.

Mi ha dato due risposte piuttosto strane, che volevo condividere con voi.

  1. Per certi versi, mai stato meglio. Lui si era assuefatto a questa vita stressante nella City, con questa storia rafforzata e insieme fiaccata dal tempo. Niente di meglio per rimettersi in gioco che perdere gli obiettivi prefissati, le definizioni che ci siamo autoimposti. Adesso deve per forza chiedersi: perché? Perché mi andava bene, la vita in fondo noiosa che facevo nella speranza di un domani non meglio definito? E adesso che la sua compagna minaccia di partirsene da un momento all’altro, ha dovuto rivalutare tutte quelle cose nel loro rapporto che ormai dava per scontate. Sicuro di essere disposto ad alzarsi senza che lei gli dia un bacio assonnato per augurargli il buongiorno? E se ne è sicuro, perché è rimasto tre anni a riceverlo? Insomma, la crisi destabilizza, ma ci rende anche totipotenti, come cellule non differenziate, spalancando baratri che possono inghiottirci per un po’ e poi portarci in altri mondi.
  2. Con buoni ingredienti, risultato mai pessimo. L’amico mi ha raccontato che alle elementari, per il suo compleanno, aveva insistito per prepararsi lui la torta da portare a scuola. Per orgoglio non ammetteva che il risultato non fosse eccelso, ma una volta in classe non si decideva a fare le porzioni. La maestra allora aveva reclamato per sé la prima fetta, commentando: “Se è fatta con ingredienti buoni, non può mai essere davvero cattiva”. Tanti anni dopo, adesso che la sua vita se ne va a carte quarantotto, il baldo giovine si accorge di quanto siano solide le fondamenta su cui l’ha costruita, riempiendola di aspirazioni ragionevoli e persone di cui fidarsi. Una vita così difficilmente verrà sconvolta del tutto da circostanze esterne non proprio tragiche. Se anche dovesse lasciarsi con la compagna, non sarà lanciandosi piatti e rimanendo con ferite insanabili.

Il mio amico non mi frega: “guardare il lato positivo” è spesso un contentino di fronte all’impotenza cronica rispetto al 70% di cose che ci succedono.

Però ha ragione lui:  è anche la scelta più conveniente da fare. Nella peggiore delle ipotesi ci si ritrova comunque infelici, ma con gli strumenti per venirne fuori, ridefinirsi, tornare a vivere bene.

In questo momento, quella torta di compleanno bruciacchiata, mai assaggiata, me la immagino più buona della pastiera di Scaturchio.

E mi manca più di qualsiasi cosa abbia gustato, credendo che me la sarei goduta per sempre.

L'immagine può contenere: una o più persone

Incredibile foto di Fulvio Ambrosio

A Barcellona se sgomberano un centro sociale scende in piazza mezzo quartiere.

Non i fricchettoni, proprio i vecchietti.

E quelli che si beneficiavano delle distribuzioni gratis di alimenti in questi tempi di crisi feroce. Quelli che andavano ai corsi gratuiti, che partecipavano alle attività culturali e ricreative. In quartieri ormai ben poco popolari come Gràcia.

Per certi sgomberi la gente non muove un dito, e questo dice molto. I centri che fanno bene alla popolazione sono tanti e si vedono, in una città in cui un solo proprietario può avere non so quante palazzine vuote per un’operazione di mercato. E il mio presidente preferito (dopo di me!) cerca casa perché gli hanno chiesto il 55% in più d’affitto.

Per questo, pur non condividendo diversi aspetti del movimento okupa, come viene chiamato qua, riconosco e rispetto un’attività sociale che spesso le istituzioni non sanno garantire. E so che si tratta solo di una parte della gigantesca costellazione di movimenti sociali che può ospitare una città.

È per questa confusione lessicale e semantica (“i centri sociali contro Salvini”?!) che mi dispiace che in Italia si cada ancora nella trappola di guardare cosa facciano duecento persone su migliaia di manifestanti che gridavano slogan, esibivano striscioni, facevano sentire la loro voce. Lasciamo perdere le mie dispute coniugali sull’inutilità o meno di esercitare violenza, che finiranno con la defenestrazione dell’aspirante facinoroso. Adesso parlo proprio di proporzioni tali da non giustificare titoli come questo.

Ho letto in giro diversi commenti critici verso la manifestazione di sabato. Alcuni li comprendevo, pur non condividendoli. Altri erano fatti da uomini che consideravano particolarmente strategico difendere la libertà di parola sul razzismo. Non scarseggiavano le donne convintissime di sapere cosa fosse una manifestazione, cosa un centro sociale, pur mancando di evidenti informazioni di base sull’argomento.

Soprattutto  ho trovato pericolose generalizzazioni.

È curioso che i giornali vengano creduti solo quando facciano sensazionalismi, solo quando sfoggino il titolo che meglio riassume cosa pensino di movimenti non inquadrati nei partiti che appoggiano: “Scontri con la polizia”.

E mi fa male al cuore pensare che la vecchietta non esattamente punkabbestia che abbracciava il palo allo sgombero del Banc Expropiat (una vicenda che mi vede in netto disaccordo col centro sociale per la gestione dei tumulti) sembri capire meglio cosa sia in gioco, al di là della solita domanda su chi sia il vero nemico da combattere. Sulla questione del nemico in Italia rispondiamo da tempo con una citazione mutilata e decontestualizzata di Pier Paolo Pasolini (che non amo particolarmente, ma difendo il diritto degli autori a essere citati bene!). Allora evitiamo di nominare “nemici” e soffermiamoci sulla posta in gioco.

I diritti. Questa parolaccia in cui nel mio paese non sembriamo credere neanche più, allora sfottiamo chi la invoca, credendoci furbi nel nostro cinismo, pardon, realismo.

La questione sul diritto di parola a uno che predica l’odio razziale (caratteristica di un movimento politico che nel nostro paese è illegale) è come l’uovo di Colombo. Da un punto di vista meramente strategico, non so se faccia meglio lasciar parlare o manifestare energicamente il proprio dissenso. Quel che so per certo è che non saremo tanto noi a pagare le conseguenze di questo dilemma, ma le vittime di quest’odio razziale. E questo per me è intollerabile.

Ma per favore, non riduciamo ogni tentativo di dissenso a una fede cieca nel fatto che i centri sociali siano degli sbandati pericolosi, che una manifestazione di migliaia di persone sia un gigantesco scontro con la polizia.

E infine: piantiamola-di-citare-a-sproposito-Pasolini.

Non ce lo cachiamo per 364 giorni all’anno.

L’unico in cui potremmo lasciarlo quieto, che riposi in pace almeno lui.

Risultati immagini per italiani all'estero Le riconosci subito. Non c’è bisogno di sentirle parlare spagnolo coi pronomi sbagliati. Mi riferisco alle italiane che Barcellona ci vengono “per caso”: non per un progetto di vita o per ragioni politiche, ma per una borsa di studio, per un trasferimento di lavoro, o magari per seguire un uomo.

Lungi da me dire che siano tutte uguali, eh.

Mi limito a fornire un elenco di possibili frasi identificative sui social, con le risposte consigliate:

  • “Devo andare a un aperitivo, ma ho paura di uscire di casa da sola. Qualcuno potrebbe accompagnarmi?” [Quindi per paura degli sconosciuti ti va bene che ti scorti un perfetto sconosciuto, purché italiano]
  • “Qualcuno conosce un’estetista italiana? Help!”. [Perché le autoctone la ceretta te la fanno a zig zag]
  • “Vorrei fare lo scambio linguistico, ma preferirei con una ragazza, con un uomo non so cosa mi potrebbe succedere”. [Se lo incontri in pieno giorno in un bar affollato, ti succederà una cosa terribile: dividerete il conto del caffè a metà, centesimi compresi!]
  • “Vorrei fare lo scambio linguistico con una ragazza perché al mio ragazzo di Poggibonsi che dico? Che vado a incontrare un uomo “per farci lezione”?”. [Sì, ma prima assicurati che abbia posato la clava]

Tutte domande che per me ne tradiscono una sola, grande quanto la Sagrada Familia: come me la cavo per conto mio dopo che mi hanno insegnato che non posso? Partendo da una premessa vera (le donne sono più esposte degli uomini ad attacchi sessuali e violenze) per arrivare a una conclusione sospettosamente sbagliata: le donne devono aver paura di tutto.

E nella paura di quelle imbattutesi nella situazione di dover fare ciò che temono, vedo tutte le contraddizioni di questo precetto un po’ ridicolo.

Allora dico loro: vedrai che ci farai il callo. Che andrà tutto bene. E non ti trincerare in un ghetto d’italiani, non ti cercare cavalier serventi o “appartamenti di sole ragazze”.

La paura ci sta tutta, ci hanno abituati spesso a gente più grande che faccia tutto per noi o ci accolga benevola perché sì: vedo genitori scrivere annunci per cercare le stanze ai figli, o ragazzi di ventun anni in cerca di assunzioni a distanza come camerieri, in barba alla fila di candidati residenti in loco coi documenti già in regola. Dolci figli dell’estate.

È una vera sfida. Ma le ragazze che l’intraprendono dopo un’educazione pensata per averle vicino casa a “conciliare famiglia e lavoro”, devono pagare sulla loro pelle tutte le limitazioni che si sono viste infliggere, a cui hanno finito per credere.

Perdonatemi allora, care italiane appena sbarcate a Barcellona, se divento enfatica e vi invito a fare qualcosa in particolare: non cedete al ricatto del “Non sono ancora pronta”. Con questa scusa, parte del Parlamento spagnolo della Repubblica voleva negare il voto alle donne (temendo che avrebbero votato per la destra). Con questa scusa, in un libro che trovo indegno di Harper Lee, l’avvocato Atticus Finch (sì, nel film è Gregory Peck) si opponeva ai diritti civili degli afroamericani.

No, per una volta chiediamoci davvero: “Se non ora quando?”.

Qui da dove scrivo io, non è ancora una bestemmia.

vestitocinese Sabato sera a casa mia si stava per consumare un dramma.

Il mio ragazzo l’ha fiutato quando gli è arrivato l’imperativo categorico dal bagno:

– Aiutami a chiudere la cerniera!

Era il vestito cinese.

Riesumato per una festa di Carnevale dal secondo armadio, quello pieno di cimeli di epoche passate che “prima o poi mi andranno di nuovo” (campa cavallo).

Come questo vestito, preso a Parigi nell’Anno Domini 2001 in un bazaar a cento metri e quattro anni di distanza dalla prima chiesa cinese in Francia (consacrata nel 2005).

La proprietaria del negozio, una signora cinese che avrei ritrovato immutata dieci anni dopo (beata lei!), aveva osservato il mio corpo ventenne modellato da quest’abito lungo a giromanica, nero con fiori dorati e tipico colletto alto a far da contrasto coi due spacchi laterali. Aveva scosso un po’ la testa ed estratto da una fila di abiti lo stesso modello, ma in versione giallo dorato a fiori fucsia:

– Meglio questo, no?

Non sapevo come spiegarle che anche il colore scelto da me mi sarebbe costato i commenti acidi di qualche compaesano coi capelli scolpiti dal gel (gli uomini) e gli occhialoni a goccia (le donne).

I tipici italiani che oggi distinguo immediatamente sulla Rambla, a caccia di paella surgelata e sangria del discount, che pagano come appena fatte ai ristoranti dei dintorni.

Perché intanto il vestito, e il mio corpo, ne hanno fatta di strada. Subito dopo l’acquisto, nella famiglia che mi ospitava a Parigi, un italiano che si occupava di import-export mi aveva chiesto sorpreso:

– Come hai fatto a trovare un capo esattamente della tua misura, con le taglie cinesi?

– Sarà che hai un corpo cinese – gli avrebbero risposto indirettamente qualche tempo dopo, intendendo minuto e somigliante a una tavola da surf, culone a parte. Fatto sta che oh, avevo trovato il vestito perfetto. Che fosse nero e dorato, con doppio spacco, era solo un particolare.

Devo dire che la stoffa ci mise un bel po’ a non riconoscere più il corpo trentenne che intanto era passato per le delizie angloindiane e continuava a sperimentare cucine espatriate in Catalogna.

Niente paura, però, a risolvere problemi di peso ci pensa l’amore! Mi calzò di nuovo quasi perfetto al compleanno di uno il cui tira e molla non mi stimolava certo l’appetito. Io lo dico sempre: gli ex sono meglio della Lambertucci!

A quella festa fui piuttosto ammirata, e proprio di fronte al core ‘ngrato, il che nel nostro triste mondo malato è una soddisfazione non da poco.

– Perché non prendi un po’ dai tuoi amici? – gli chiesi divertita, abbracciandomi l’ultimo che mi aveva fatto i complimenti.

– Perché sono un coglione! – rispose lui. E devo dire che mai affermazione sua fu più onesta, potenza della magia cinese.

Vi giuro che questo sabato sera, invece, sono stata ignara della partecipazione dello stesso individuo alla festa di Carnevale a cui ero diretta, fino a una scorsa rapida, appena uscita dalla doccia, alla chat di Facebook.

Di qui la convocazione imperiosa del mio ragazzo, rassegnato ad attendermi un po’ (di solito ce la giochiamo).

Ma fin dalle sue prime impacciate lotte con la cerniera sulla schiena ho saputo quello che già immaginavo: non andava. E stavolta era per sempre.

RIP, abito cinese, ormai sono benedetta da una vita più propensa a farsi noiosa che triste, e da un compagno che invece vuole proprio vedermi felice, meglio se davanti a un chilo di bravas de yuca.

Il corpo che disegnavi così bene non esiste più.

Il che non è esattamente un male, eh. Come dice Isabel Allende parlando della bellona di Zorro: “Le belle donne imbruttiscono con l’età. Quelle come me non invecchiano più di tanto, e alcune addirittura migliorano d’aspetto”.

E una volta che abbiamo preso il vizio di accettarci esattamente come siamo, tutti gli sforzi per stare “in forma” non arriveranno mai all’affanno e all’affamamento volontario per rientrare in un vecchio abito.

Ho quindi riposto il vestito cinese nel secondo armadio. Magari ci incontreremo di nuovo, non per la mia incapacità di scegliermi gli uomini, ma per un cambio di metabolismo che mi faccia unire al club di quelli che mangiano un bue al giorno e restano un’acciuga.

Ma con un culo così non ci sarei mai entrata, nel vestito cinese.

https://www.youtube.com/watch?v=E_8IXx4tsus

 

Lo so che è da tempo che non scrivo resoconti cazzari dei miei pomeriggi più surreali, ma facciamo una cosa: io vi racconto quello di lunedì scorso e ci pensate voi a trovargli una profonda morale nascosta. Affare fatto? Cominciamo.

Allora, sono le cinque passate, sono in casa reduce da un’ora di step, in attesa delle uova fresche del Montseny promessemi da un amico brasiliano, che ha lasciato tutto per vivere in montagna. All’improvviso il mio pusher ecobio mi annuncia via WhatsApp di non poter più effettuare la consegna a domicilio. Al massimo posso incontrare la sua compagna, ma solo a Plaça Universitat, e solo tra mezz’ora: è incinta e partorisce a maggio.

Senza neanche docciarmi mi precipito fuori nella seguente tenuta: felpa rossa cinese di pile infiammabile, due taglie più grande; pantajazz di Decathlon (come i pantacollant, ma a zampa); scarpe dello stesso magazzino, col risvoltino fucsia fosforescente.

Ovviamente alla fanciulla avevo dato appuntamento fuori al Buenas Migas e lei si schiaffa giusto all’altro lato della piazza, proprio l’ultima panchina. E le dodici uova che compro sono racchiuse in due cartoni precari, tenuti fermi a stento da uno spago e rigorosamente non imbustati. Così imparo a vivere in città.

Mi vendico a mia insaputa rivelando alla venditrice che secondo il suo compagno partorirà a maggio. Metà giugno, corregge sorpresa e irritata. Magari è una premonizione, butto lì. Ma dalla sua faccia mi rendo conto che non capisco un cazzo di gravidanze e me la batto.

Dopo uno scone di consolazione al Buenas Migas (se dobbiamo gentrificare, che sia per una giusta causa), sempre con le uova in bella mostra accanto al matcha, mi dico che sono quasi le sette ed è inutile tornare a casa, se alle otto e mezzo comincia il film che vorrei vedere. M’incammino dunque verso il Renoir Floridablanca (tra i pochi cinema in lingua originale della zona) a comprarmi il biglietto in netto anticipo: Jackie è appena uscito, più tardi ci sarà la fila. Siccome perfino un’anziana signora comincia a sfottermi per il carico di uova, decido di farmi una spesona al supermercato accanto alla biglietteria (un euro e 50 in totale) per procurarmi una busta.

Eccomi qui di fronte al cinema con la mia tenuta “sportiva” e una busta della spesa, che qualche italiano over 30 amante del Pippo Chennedy Show avrebbe potuto aspettarsi da me un: “Tenissene ciento lire? Aggia vede’ ‘o film d’ ‘a Portmànnn“.

Mentre racconto l’avventura delle uova in un messaggio vocale ai miei, ridendo da sola per il mio abbigliamento, arriva Viggo Mortensen.

No, non me lo sto inventando. Il mio sogno erotico numero due (il primo è Paul Bettany e il terzo Juan Diego Botto) si ferma alla cassa del cinema con una signora alta e magra che compra due biglietti, mentre lui si guarda intorno circospetto.

Via libera, nessuno lo ha riconosciuto. Tranne forse una tipa losca in tuta cinese, con una busta della spesa che sembra contenere uova, ferma nella stessa postazione della mendicante che di solito si mette lì a vendere accendini.

Ma la presunta fan, chissà chi sarà, fa la vaga con lo sguardo fisso sull’orizzonte, o meglio sul tabellone dei film, dicendosi che no, quel piacente signore sulla sessantina sarà solo uno mooolto somigliante ad Aragorn.

E poi va bene la sfiga, ma possibile che l’unico incrocio di sguardi che mi sia dato su questa terra con Viggo mi debba vedere conciata così, con delle uova in mano? No, non può essere, non può…

– Ha’ vitto Moonlight?

Ok, la domanda non era per me (“Hai visto Moonlight?”), però quella che mi giunge è la voce del Capitan Alatriste, con l’accento argentino di chi in Argentina ci ha vissuto. Viggo Mortensen, appunto. Sì, sono una di quelle fan che sanno tutte ste cose.

Scappo a casa, un po’ per nascondermi e un po’ perché l’ora abbondante che ho d’attesa la potrei pur spendere posando le cazzo di uova e regalandomi una bella doccia.

No, non è nella speranza di rivedere Viggo, figurarsi.

Quante probabilità ci sono di ritrovarmelo a guardare Jackie in sala con me?

E infatti al ritorno al cinema finisco seduta dietro alla sua accompagnatrice.

Ma siccome il posto accanto al mio è libero, con abile mossa mi piazzo proprio alle spalle di lui.

Non l’avessi mai fatto!

Non è uno spilungone, ma in questa nuova versione capello bianco corto ha una vertigine proprio sulla sommità del capo, che negli occasionali sussulti di lui per baciare la compagna (maledeeetta!), si pianta direttamente nel naso di Natalie Portman. Che magari lui chiamerà Naty.

Credetemi, il miglior modo di togliervi dalla testa il vostro sogno erotico è vederlo trasformato in un ciuffetto di capelli bianchi davanti al cervello schizzato di Kennedy (non Pippo, proprio JFK).

Specie se smette di coprire lo schermo solo durante i titoli di coda, dileguandosi poco prima che si riaccendano le luci.

Al ritorno a casa riconosco definitivamente su Google gli zigomi della sua fidanzata barcellonese, attrice famosa pure lei. Ma avrei dovuto abbandonare ogni dubbio già durante la proiezione, quando la vertigine bianca si era impennata in un guizzo di riconoscimento alle prime note di…

No, siamo seri, quanti argentini potevano riconoscere la voce di Richard Burton in Camelot, Anno Domini 1960?

E soprattutto, avete trovato una morale a questa storia, a parte “Vai ad allevare galline nel Montseny”?

Io mi assesto su “La sfiga è cieca, ma la fortuna ci vede benissimo”. Scritto proprio così.

Volevo incontrare Viggo Mortensen, una volta nella vita, e sono stata esaudita. Magari non proprio come credevo, e lui non era più né single né Aragorn, ma d’altronde io non ero presentabile. Insomma, viva la vita che ci dà sempre quello che vogliamo, mai al momento giusto, mai come ci immaginavamo. Ma quello si chiama “avere aspettative” ed è un problema.

Per festeggiare v’invito a pranzo. Frittata. Di dodici uova. Fresche di pollaio, eh.

 

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Esticazzi? 🙂

Io noto una cosa: soddisfare le aspettative sociali non basta. Dobbiamo anche volerlo fare. Amare il Grande Fratello, insomma.

È il meccanismo perverso presentato a una mia amica che nei primi anni 2000 voleva andare in vacanza col ragazzo. Secondo il responso che ricevette in famiglia, non era sufficiente che sua madre glielo proibisse, non “doveva” desiderarlo lei.

Così come i rampolli di ceto medio dovrebbero essere entusiasti fin da piccoli di andare al liceo, nel mio caso un laboratorio fantastico di quello che mi sarebbe toccato se fossi rimasta nel mio paese: raccomandazioni, competizioni per il voto più alto, frustrazioni di alcuni insegnanti scaricate sugli alunni e l’eterno refrain “Se sei martello, batti, se sei incudine, statti”.

Abbiamo visto ultimamente che, una volta venute meno le condizioni per realizzare la missione sacra assegnataci fin dall’infanzia, non tutti ci stanno a continuare.

Circola molto la lettera di un trentenne suicida che i genitori propongono come spunto di riflessione su un modello di società che non funziona.

Sarà che in questi giorni tutti i miei amici italiani su facebook parlano di Sanremo, ma a me è venuto da pensare al meno articolato biglietto di un ventottenne, Luigi Tenco, in cui leggevo una delusione e una rabbia simile, e per una questione che può sembrarci molto triviale, come le scelte della giuria sanremese.

Perché accosto lettere così diverse di due giovani uomini, vissuti in epoche differenti? Perché, avendo superato da un po’ anche la loro età, mi rendo conto che la mia generazione, tra le altre cose, soffre di ansia di riconoscimento. Ci hanno detto che avremmo avuto lavori decenti e famiglie del Mulino Bianco, come i nostri genitori, e pare proprio che non sia così, o non nelle stesse condizioni.

Un paio di passaggi della lettera del trentenne mi ricordano anche l’idea che il mondo “dovesse esserci consegnato” in un certo modo, e “avrebbe dovuto accoglierci, invece che respingerci”. Sono d’accordo sulla seconda frase, ma la prima non sarà stata un’illusione collettiva?

Diciamo che per tutta un’epoca ci hanno fatto credere che il mondo sarebbe stato uguale a quello che imparavamo a conoscere mentre bevevamo latte e Nesquik, davanti allo stupidario televisivo quotidiano. Che gli uomini avrebbero avuto a disposizione una bella compagna disposta ad allevare i loro bambini, mentre loro portavano a casa il grosso dei soldi, e le donne avrebbero coronato, conciliando brillantemente “casa e lavoro”, il sogno più bello: quello della maternità.

Non sentite anche voi il classico rumore da disco graffiato, come nei flashback dei film? Eppure vari amici miei hanno avuto difficoltà a dichiararsi gay: a sentire mia madre “non c’erano gay nella sua scuola”, e la risatina con cui noi figli accogliamo quest’affermazione la dice lunga sui mondi diversi che abitiamo. In tanti se ne sono dovuti (nel mio caso, voluti) andare via dal posto in cui sono nati e, quando pensano ai figli, possono trincerarsi dietro all’affermazione di “non potere ancora”, per le difficoltà economiche, così da non porsi nemmeno il problema se li vogliano o no.

Alcuni uomini, non solo in Italia, continuano a pretendere che, lavorando sodo, avranno automaticamente la bonazza di turno ai loro piedi, e troppo spesso, ma veramente troppo, si arrabbiano se non è così. D’altronde tante donne etero continuano ad avere un’idea della mascolinità come rifugio e protezione che personalmente trovo squalificante per loro e avvilente per gli uomini stessi, e che si estrinseca in pagine come questa, che mi provocano quella che in Spagna si chiama vergüenza ajena (quando ci vergogniamo noi per qualcun altro).

Io, come ho già scritto qua, campo felice con 1000 euro al mese: quando è stato che mi sono posta il problema che non fossero abbastanza? Quando, tornando in Italia per le vacanze, mi sono sentita dire che fossero pochi, magari da quasi-pensionati con oltre 30 anni di lavoro fisso alle spalle. Che pretendono di scalare dal calcolo delle mie entrate quello che pago di affitto (allora a Barcellona chi arriva ai 500 è un nababbo!), e che vedono la pensione come unica alternativa a una vecchiaia di fame e di freddo.

Finché il mio migliore amico, dopo l’ennesima mia sfogata, mi ha detto: “Se non sono sereni con quello che rende serena te, è un loro problema”.

Minchia, sì! E dovrebbero ricordarselo tutte le trentenni a cui chiedono “A quando un bimbo?”, tutti i diciottenni a cui i genitori impongono Ingegneria anche se loro vogliono fare Lettere, tutti quelli che non tanto ci stanno ad attaccarsi allo stesso giogo delle generazioni precedenti: l’idea che ci sia un solo modo di vivere, e se deviano da quello arrivederci.

Il “diritto” alla felicità, personalmente, non lo concepisco. Pretendo il diritto al lavoro, il diritto alle condizioni economiche giuste per avere una famiglia, se voglio. Non importa, come obietta ogni tanto qualche  bomber “che si è fatto da solo”, che possa crearmeli io. Lo faccio già. Intanto un sistema politico che si suppone mi rappresenti dovrebbe garantirmeli o non sta lavorando bene. Ma i diritti finiscono qua.

Per una volta devo dare ragione a chi credeva che quella per la felicità fosse una ricerca.

E quella, purtroppo per una società che insegue una ricchezza inesauribile da contendersi come un osso, quella possiamo cercarcela unicamente da soli, con le nostre forze, e coi mezzi che abbiamo a disposizione nell’epoca in cui siamo nati.

Sono fermamente convinta che, superato l’eterno scoglio delle aspettative, ce la possiamo fare.

 

 

Risultati immagini per fish climb tree  Avete presente la storia inflazionata del pesce e dell’albero? Ma sì, la frase attribuita erroneamente ad Einstein, sul fatto di giudicare qualcuno secondo parametri non affini a tutti. Com’era?

Ognuno è un genio. Ma, se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi, lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido.

Ecco, una roba così.

Quante volte facciamo quest’errore, e quante volte lo infliggiamo a noi stessi. Forse, semplicemente, abbiamo paura di quello che riusciamo a fare, o pensiamo che non sia importante quanto altre attività più alla moda, o apprezzate socialmente. Io stessa ho ingaggiato un’allegra battaglia con gli amici d’ingegneria, nei nostri vent’anni, su chi avesse più meriti tra ingegneri e letterine. Al che loro dicevano: “Certo, se lavoro male io cade un palazzo…”. E noi? Oltre a provare ancora a combattere il tanto chiacchierato analfabetismo funzionale, ci batteremo fino alla fine perché Nietzsche e Capitan Harlock non siano considerati simboli della destra.

Insomma, bando alla falsa modestia, se abbiamo una qualche dote dobbiamo apprezzarla! Io potrei dirvi cosa indossavate quando ci siamo visti la prima volta, fosse anche trent’anni fa, o raccontare imbarazzanti aneddoti su vostri trascorsi mooolto passati, a meno che non compriate il mio silenzio.

La mia buona memoria sarà una caratteristica meno spettacolare di un fisicaccio che mi catapulti sulle passerelle di Parigi, o nelle fiere più pacchiane di abiti da sposa! Né mi farà fare esattamente i miliardi di un genio della finanza.

Ma è un peccato che, se abbiamo delle caratteristiche poco apprezzate a Natale dallo zio fallito che ci interroga, tendiamo a fregarcene, o a sminuirle.

Il collega che mi aveva riveduto un po’ la tesi di master me l’aveva detto: “Mi piace come scrivi e lo sai, ma sai anche che la commissione lo troverà troppo informale, personale. Quindi camuffa un po’ le parti emotive, scrivi più frasi come ‘Da questo brano si evince…’ “.

E invece no. Invece quella tesi che parlava di ragazzi morti appesi a un filo spinato meritava forse un maggiore rigore scientifico, ma non una lacrima di meno. E chi prova a spacciare per scienza l’assenza di lacrime, a mio parere, non ha capito un cazzo né di quella guerra, né di tutte le altre.

Di che stiamo a parlare, quindi?

Be’, di coerenza, fedeltà a se stessi, consapevolezza di quello che sappiamo fare, nel bene e nel male.

E di non disprezzare il nostro mare tranquillo, solo perché l’arrampicamento sugli alberi non è mai stato il nostro forte.

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