Se lo possono permettere. Nella precarietà dei licenziamenti di massa e dei lavori cancellati dall’AI, non possono concedersi le certezze dei genitori, ma i sogni sì.
Dopo i 30 sono gli unici ad avere ancora un ideale di donna a cui paragonano quelle, reali, che incrociano sulle app o nei loro viaggi zaino in spalla, in un mondo reso piccolo dalle compagnie low cost.
E rimandano la paternità a quando avranno il primo stipendio fisso: decisamente, ci sarà da aspettare.
Ho pensato a tutto questo mentre descrivevo il personaggio di Aqil, in Quando torni, avvisa.
Aqil esiste, come può esistere il personaggio di un romanzo: l’uomo che me l’ha ispirato ha profili social, e ci posta foto, a cui metto mi piace. Famiglia sorridente, posti visitati, tanto cibo di tutto il mondo, fotografato nelle pause dal lavoro.
Cosa c’è sotto, forse, lo so soltanto io.
Aqil non si è mai potuto permettere di essere romantico, o di “capire” che volesse fare nella vita. Da piccolo si è visto risolvere a tavolino il problema di scegliere la donna giusta: una lontana parente, da sposare a studi finiti.
Ma neanche gli studi, condotti a Londra, gli hanno dato occasione di esplorare gli stati di ebbrezza che si concedevano i suoi coinquilini: papà dal Kashmir mandava i soldi che bastavano a laurearsi e trovare un buon lavoro, per mantenere la famiglia. Tutta. Con una pressione del genere addosso, Aqil non faceva che studiare.
Le tentazioni? C’erano, ma lui non sempre le riconosceva. Nella sua vita precedente non c’era spazio per l’esplicito. Tutto era nascosto, o pianificato per tempo.
In tempi recenti l’ho rivisto: meno devoto, con più rimpianti e voglia di recuperare un tempo perduto che, però, gli suscita ancora un misto di curiosità e repulsione.
Forse gli succede ciò che affronta chiunque quando si guarda indietro e ripensa alle strade che non ha preso, alle decisioni che ha rimandato fino a negarsele per sempre.
Perché Aqil è stato felice, tanto, con la vita che gli è toccata in sorte. Ha amato la moglie scelta da altri più di quanto io abbia visto amare donne conosciute in una notte barcellonese e seguite liberamente, per un “sempre” che poi è durato poco.
Invidio Aqil? Per niente. Il lusso delle scelte mi è molto caro, a costo di sbagliarle tutte.
Ma dopo anni a confronto con tante culture, capisco perché la vita può scivolarti addosso più leggera, se sai fin dall’inizio cosa farne.
E un amore di qualsiasi tipo, ma che sia costante, e forgiato per durare, non mi sembra un destino così sacrificato.
Ad Aqil sì, però.
Almeno ogni tanto.
Poi prende un altro volo, scatta un’altra foto al ramen in un localino di Osaka, e pensa quasi che va bene così.
Quando torni, avvisa è disponibile su Amazon a questo link. Fatemi sapere cosa ne pensate!
Per il ciclo “Niente fiori, ma opere di bene”, qui sotto traduco male gli spezzoni di un’interessante intervista a Brigitte Vasallo, autrice di un libro importante sulla decostruzione della monogamia che in Italia è stato pubblicato da Effequ. Per me l’intervista è una chicca: sollecitata da domande poco accomodanti, Vasallo spiega ciò che *non va* del poliamore.
Fin dall’introduzione del suo nuovo libro, lei avverte che il poliamore è rientrato alla perfezione nel discorso neoliberale: consumiamo corpi.
Il poliamore può anche essere una monogamia con un altro nome. È successo che ci siamo messi a smontare la monogamia senza capirla. Ci siamo ritrovati molte volte con una questione numerica – con quante persone stai – senza addentrarci a definire “chi era costei” [la monogamia, n.d.R.].
Ci piace parlare delle relazioni poliamorose, ma non delle ferite che lasciano. Cosa si fa con questa persona, una volta che si utilizza nella “poligamia di mercato”?
Si sostituisce. Come si fa con il cellulare: ne esce uno nuovo sul mercato e, senza chiederci se ne abbiamo bisogno o no, lo sostituiamo. Perché la novità, nelle relazioni, è un valore in sé. Dunque, quando parliamo di libertà nel libro bisogna considerare due linee: quella libertaria, che è un esercizio filosofico classico; un altro tipo di libertà, quella capitalista, nella quale cadiamo costantemente nel poliamore… Una perversione della parola. Se la libertà nell’amore è fare ciò che ti pare e badare solo ai tuoi desideri, dobbiamo ridefinire cosa significa “libertà” e dobbiamo affrontarla da una prospettiva politica.
Sì, è così. Faccio lo stesso quando parlo di uomo, lo indico come marchio registrato, o di donna, a sua volta un marchio registrato. È una lettura semplice, di forte impatto visivo. Non stiamo parlando di ciò che ciascuno fa nella sua vita con le proprie decisioni. Il sistema ci impone molte cose attraverso queste etichette.
Tutto questo si combatte facendo dell’amore uno strumento politico? Non è naïf pensare che smontare le relazioni private possa cambiare un sistema?
Non so se si tratta tanto di pensare che dalla sfera privata si possa smontare un sistema, e la risposta è sì, quanto di pensare fino a che punto i sistemi si ficcano nella nostra sfera privata. È il primo passo per capire tutto ciò. Con l’amore continuiamo a credere che sia una cosa naturale, spontanea e libera da qualsiasi condizionamento. Come se non fosse la costruzione sociale che è. Il nostro modo di provare sentimenti è costruito socialmente.
Nel libro parla di come, per mantenere l’esclusività sessuale, è necessario generare un “terrore costante”. Dice che a un/a partner si potrebbe spiegare facilmente una notte brava, il fatto di bersi un whisky di troppo, ma non una notte di sesso.
Il sesso è trascendete perché ha una serie di connotazioni [cargas]. Però ciò che mi sembra importante è che bisogna aprire il ventaglio delle definizioni di desiderio. Il desiderio si trasforma nella costruzione di un’identità chiusa, e questo presenta alcune condizioni. Quante decisioni che ci vengono date di default potremmo prendere, se definissimo di nuovo questo desiderio? Viviamo una grande penalizzazione della sessualità, ed esiste una alimentazione della sessualità promiscua come conquista, capitale sociale… Ciò che abbiamo bisogno di smontare non è la pratica in sé, ma i fattori condizionanti che portano la pratica a essere così.
La monogamia è definita dall’esclusività. Lei precisa: “Ciò che definisce la monogamia non è l’esclusività, ma la gerarchia di alcuni tipi di affetto sugli altri”.
La base di tutto ciò è la gerarchia. Questo non è un libro di shortcuts, di scorciatoie, ma mi sembra importante pensare che l’argomento dell’esclusività è conseguenza e non causa della monogamia. Perché questo sistema gerarchico funzioni, l’esclusività sessuale è necessaria, perché bisogna costituire un’identità sessuale chiusa.
Il sistema fa competere le relazioni tra loro?
Sì. Puoi avere una relazione di coppia, una relazione a tre, ma senza problematizzare questa gerarchia e cercare un equilibrio. E non si tratta del tempo che dedichi a ogni persona, ma del peso che viene dato ad alcune relazioni rispetto ad altre. Soprattutto se sappiamo e abbiamo incorporato la idea che la costruzione romantica dell’amore, che a me piace amare “amore Disney” (perché non ha niente di buono), è attraversata dalla violenza, e gli occhi che ci servono per vederlo non sono contaminati da questo romanticismo.
A quale violenza si riferisce?
Gli squilibri che si verificano nelle relazioni sono intrinseci alla romanticizzazione delle stesse. Non è una deviazione dal sistema, non è qualcosa di aneddotico, è il sistema in sé a essere così. Questo non vuol dire che non possiamo costruire una relazione. Vuol dire che dobbiamo costruirla in un altro modo. Perché dico questo? Viviamo in un mondo di merda e nell’ora della verità, quando sei malata, inevitabilmente chi si prende cura di te è la famiglia o la persona con cui hai una relazione*. Ma questo è parte delle conseguenze di star costruendo così gli amori: alcuni vincoli hanno la responsabilità di prendersi cura di te, e altri no. Nei contesti queer ci è chiaro, perché continuiamo a essere espulse e dobbiamo costruirci un cuscinetto a partire da altre prospettive che non includano la romanticizzazione. Una delle perdite più gravi che ha provocato questo sistema monogamo è il fatto di disgregare la comunità in atomi molto piccoli: la famiglia nucleare o la relazione normativa, coi suoi annessi e connessi.
(Continua)
*Da donna etero mi sono divertita a questa affermazione perché, hashtag not all men ecc., ci sono studi decennali sulla frequenza con cui gli uomini abbandonano la partner quando questa ha una malattia debilitante.
Ciao! Questo è il solito post in cui vi invito a non sprecare troppo tempo in una cosa inutile, però stavolta c’è un colpo di scena. E pure un esempio, che deciderete voi se leggere o no.
Vedete, a Barcellona un mio amico molto nordico inizia ora una relazione con una “lokal”, e l’ho avvertito sulle possibili sfide di certe differenze culturali, che a volte portano a divergenze politiche (e sull’argomento ci ho scritto un romanzo, perché qualcosina ne so).
Il mio avvertimento/spoiler conteneva forse un pregiudizio su guiri e lokalz? Spero di no. Non ho detto in nessun momento: “Andrà a finire di sicuro così”. Ho solo precisato: “Se andasse a finire così, saprai cosa aspettarti e supererai meglio il problema”.
Ebbene, abbiamo discusso un’ora, l’amico è andato un po’ in ansia e io, oltre ad aver perso sessanta minuti che non riavrò mai, sono passata per la pettegola prevenuta che non si fa i fatti suoi. Quindi il mio consiglio stavolta è: se ci tenete all’amico perdetecelo, ‘sto tempo! Ma che non sia un’ora, cavolo. Gli aiuti non richiesti possono risultare odiosi e poco utili, oltre a sprecare le energie di chi li elargisce. A quel punto io metterei giusto la pulce nell’orecchio, e poi l’amico deciderà se alimentarla o meno: in fondo la vita è sua!
Una delle grandi svolte della mia, di vita, è stata quando ho smesso di voler controllare le esistenze altrui.
Qui finisce il post e comincia l’esempio (nooo, l’esempio no!). Proseguite solo se siete in vena di immergervi in un pezzo di cultura napoletana. Siete ancora lì? Bene, cominciamo!
Prendiamo il signore “sceso dalla Val Brembana” (semicit.) che con accento lombardo mi chiedeva, all’uscita della trattoria Da Nennella, se ormai fossero in chiusura: in fondo erano le due del pomeriggio! Inutile dirvi che quel signore veniva subito segnato come “Fuffi” nella lista d’attesa del mitico Ciro.
Mettiamo che Fuffi venga da noi e ci dica: “Sai? Ho conosciuto una tale Mariarca, detta ‘a Pulitona, che mi piace molto. Vive proprio ai Quartieri, dove lavora quel signore un po’ nervoso che mi chiama Fuffi. Non so in cosa sia laureata, anche se mi sembra che lavori nell’hi-tech, però vorrei approfondire la conoscenza: ho pensato quindi di andarci insieme a un apericena con finger food, poi a una rassegna di Kiarostami“.
A quel punto Fuffi, che è una personcina un po’ ansiogena, potrebbe interromperci: “Grazie ma non voglio sapere tutte queste cose! Preferisco che sia una scoperta quotidiana, sai? Conoscersi a poco a poco, assaporarsi piano come un marron glacé…”.
E noi ci sentiamo un po’ scassagonadi e un po’ “capere”, cioè gente che non si fa i fatti suoi. Avremmo dovuto tacere? Forse. Però cavolo, mettiamo che Mariarca sentendo nominare Kiarostami sbraiti: “Come? ‘Ccà aro’ stamme?’. E si nun ‘o saje tu…”. Oppure commenti il finger food con frasi tipo: “Gli uomini da me vogliono solo una cosa: ‘a marenna p’ ‘a fatica!”. In tal caso io spero che Fuffi e Mariarca si sposino comunque di lì a un anno, e si trasferiscano insieme in Val Brembana, o sul presepe con vista sul Golfo di Napoli (che tanto è in scala 1:1). Forse, però, quella parolina che abbiamo detto a suo tempo al nostro Fuffi potrebbe propiziare il felice esito!
Quindi sì, facciamoci i fatti nostri che è sempre meglio, e soprattutto smettiamola coi pregiudizi: per esempio, l’intramontabile Mariarca è un mito a sé stante, e “le donne di Napoli” sono un mondo variegato, come tutte le donne.
Ma inso’, c’è una regola che vale anche per Fuffi: più ne sappiamo di una situazione/località/cultura, e meglio è.
Specie se siamo capaci in ogni momento di prendere ciò che crediamo di sapere, metterlo da parte e lasciarci stupire dalle cose, per come sono davvero.
(La mia prima Mariarca. In memoria di Loredana Simioli, che ci manca).
Vi capita mai, in questo fiorire imperterrito di fronde che non sanno niente di pandemie, di pensare ad altri rami? Mi riferisco a certe appendici che una volta spuntavano qua e là nella nostra vita, ma che adesso non sembrano affatto fiorire, anzi: sulla loro “fecondità” nutriamo più di un dubbio.
Quando la vita segue un corso preciso, che a volte ci tracciamo noi e altre subiamo, finiamo a contatto con persone che, ben presto, si rivelano dei perfetti intrusi. Non sappiamo più che ci facciano nella nostra rubrica, o nei contatti Instagram, o dall’altra parte di un tavolino, quando addirittura capitiamo a berci insieme un caffè.
A volte sono “presenti giustificati”, nel senso che in un altro momento della nostra vita avevano tutte le ragioni per essere lì: compagne di scuola, vicini di vecchia data, gente conosciuta in periodi di transizione, o nei numerosi imprevisti che ci può riservare la nostra giornata. Altre volte boh, sono incidenti di percorso: il collega insegnante che durante il nostro tirocinio era simpatico e disponibile, e poi, se lo invitiamo al take-away in pausa pranzo, se ne esce con una battuta mica tanto scherzosa su quanto odi i cinesi.
La pandemia, dicevo altrove, mi ha insegnato le mie priorità. Una di queste è fare ciò che voglio del mio tempo, nei limiti del possibile. Il mio nuovo mondo forse è qui per restare, o magari si raggiusterà ancora alla fine di tutto. Le persone, invece, non devono restare per forza. Intendiamoci, non sto parlando di interrompere amicizie che durano da trent’anni, oppure di fare una brutta faccia alla segretaria d’ufficio che adesso vediamo solo al di là di uno schermo. Dico solo che possiamo desiderare il meglio a certa gente che non c’entra niente con la nostra vita di adesso, e allo stesso tempo desiderare di non doverci avere più tanto a che fare, che spesso sarà un sollievo per entrambi.
È opportunismo, pensarla così? A me sembra opportunista il contrario: abituarci a qualcuno è più facile che tagliarci i ponti, è un lavoro a bassa manutenzione che, però, sfianca sul lungo termine.
E poi, non si se vi capita, ma i motivi urgenti che ci spingevano a “mantenere il contatto”, i presunti benefici reciproci, non hanno quasi mai resistito alla prova della pandemia: quell’attività di volontariato faceva più bene ai senzatetto, o ai nordici annoiati che si sentivano eroi per un fine settimana? L’associazione culturale che diventa la succursale di un partito, quanto merita i nostri sforzi? La pagina goliardica sui social vale tanto sforzo di moderazione, se poi prova a lucrare sugli utenti?
Naaah.
Dai che è quasi primavera: armatevi come me di cesoie, accette virtuali, quello che ve pare. Già sapete.
Se c’è una cosa che abbiamo imparato dall’ultimo anno, o almeno credo, è l’arte di scoprire sotto quali rami conviene ripararci.
L’idea non mi faceva troppa impressione finché lo dicevo scherzando e senza troppi rimorsi, pensando a un onesto do ut des (vedi coparenting).
Poi ieri un ragazzo caruccio, nel quartiere marsigliese che mi ospita, mi ha prima chiesto una sigaretta, poi una moneta, poi dieci minuti per prendersi un caffè insieme. Allora il pensiero è rimasto lì troppo a lungo perché fingessi di non accorgermene: “Semplice, no?”. Il mio famoso problema come-divento-madre-a-38-anni-da-single, risolto così. Ovvio che mi sono allontanata senza accettare il caffè, ma mi sono fatta schifo da sola comunque, per due motivi: l’immenso potere che aveva lui, quello ancora maggiore che avevo io. Lui aveva quel solo, grande potere: seguirmi senza che sembrasse troppo strano, “Che cosa romantica, anzi!”. E poi farla franca se mi violentava, visto che non credo che la mia resistenza vada al di là della sola vista di un temperino, o del primo cazzotto. Dopo vai a spiegare alla polizia “che ci facevi da sola”, come sei sopravvissuta e perché non hai venduto caro l’onore.
Anzi, sapete che? Se una cosa poteva lasciarmi ben sperare, sul fatto che l’avrebbero creduto colpevole, era quella sbagliata: il ragazzo era arabo. Se sono loro, rubano le nostre donne. Se no… “Esistono anche le denunce falzzze”.
E niente, me ne sono andata verso il porto meditando su tutti i poteri che invece avevo io, che ero quella bianca, di classe media, ancora per un po’ sotto i quaranta, che conosceva le lingue “che contavano” e poteva permettersi di decidere a chi fare l’elemosina e a chi no.
Una volta sul molo ho risposto fiduciosa al saluto di un altro ragazzo, nerissimo, che mi si è seduto accanto: come immaginavo, dopo quella gentilezza si è immerso nella sua musica e si è fatto i fatti suoi. Nella mia esperienza francese, “assediare donne” è un privilegio per uomini bianchi, o appena un po’ scuri.
La cosa sarebbe andata liscia se non fosse stato per Nonna Abelarda, qui coi capelli velati, che cercava la foto perfetta in cui immortalare un Soldino armato di spada al neon blu. Per riprendere bene il porto, l’indomita signora prima ha fatto spostare me, poi mi ha fatto chiedere lo stesso al ragazzo che ascoltava musica, infine mi ha sbolognato il cellulare e si è messa in posa col nipote, salvo poi obbligarmi a ripetere lo scatto: il tempo che l’importuno battello si allontanasse sullo sfondo, lasciandola al suo Pulitzer per la fotografia.
Risultato: io e l’altro poveretto importunato ci siamo messi a scherzare in inglese (lui non riteneva il mio francese abbastanza buono…) sul surrealismo di tutta quella scena, e tra una chiacchiera e l’altra siamo passati a parlare di Marsiglia e Barcellona, della mia famiglia, e della sua: tre sorelle, che per vivere intrecciano i capelli delle turiste al porto di Marsiglia. Di fronte alla necessità, si diceva, l’appropriazione culturale passa in secondo piano.
Il ragazzo si lamentava del fatto che avesse degli amici ipocriti, anche con le fidanzate: sparavano un sacco di palle e andavano con chi volevano. Lui cercava una persona seria, a Dio piacendo, e non gli piaceva mentire. Vi confesso una mia colpa tremenda: decido spesso di concedermi il lusso della fiducia nell’umanità. Con tutte le diffidenze e precauzioni del caso, ma me lo concedo. Gli ho dunque spiegato che, per quanto mi riguarda, sto benissimo da sola, e al massimo lascerei la solitudine per una prospettiva di famiglia. Qualsiasi “via di mezzo” non m’interessa, per quanto amici più o meno filo-femministi o comunisti mi diano il consiglio, comune in realtà ai peggio maschi alfa, di non rivelarlo subito a eventuali uomini che mi piacciano. Il “Se no scappano” è il messaggio sottinteso di questi benintenzionati, che non capiscono una cosa: è proprio dagli uomini che scappano – che scappano dai miei desideri, almeno – che preservo la mia sacra solitudine.
Il mio interlocutore, in ogni caso, non aveva nessuna intenzione di squagliarsela: ascoltato tutto questo, si è offerto come aspirante compagno di vita, posto che la nostra conoscenza ci avesse portato a scoprire di “andare d’accordo” e, soprattutto, “trattarci bene”, che era un po’ la sua massima aspirazione: mi sono ricordata quando, a vent’anni, prendevo in giro i testi scarni di certa musica nera del ‘900, che si risolvevano in una trafila di “He treats me kind“, “I’ll treat you right“. E che era, il “buonasera” come fine ultimo nella vita?!
Scherzi a parte, con Romeo lì già cominciavo a cadere in preda al nervosismo, e a pensare a un modo di tagliare la corda io, stavolta! Per la verità temevo l’inseguimento, visto che sulla strada per il porto avevo incrociato per ben tre volte un garzone di fruttivendolo che mi aveva provato a parlare fuori al suo negozio, qualche incrocio più su. Confidando ancora in un commiato tranquillo, ho spiegato al ragazzo del porto che in tre giorni me ne sarei andata pure, e non m’interessavano i rapporti a distanza.
Ci credereste? Aveva la soluzione anche per questo: veniva a vivere a casa mia a Barcellona! Si spostava lui, “per me”, perché chi non risica… E lui era disposto a “rischiare la vita”. In che senso, ho chiesto. Mi è sembrato esitare un po’: nel senso, ovviamente, che lasciava la sua vita marsigliese per vedere se con me avrebbe funzionato… Lo ammetto: da borghese cinica e dotata del passaporto “giusto” ho cominciato a chiedermi come stesse messo lui a documenti, memore com’ero dell’unica, ormai celebre, dichiarazione di matrimonio che abbia mai avuto: “Vuoi sposarmi? Ti do cinquemila euro” (era il mio ex pako, sempre in difficoltà con il visto spagnolo). Il marsigliese, comunque, era disposto a portarmi in quello stesso istante dalla sorella “parrucchiera” – quella delle trecce – perché mi sincerassi delle sue intenzioni.
No, mi spiace, l’inizio di una relazione non lo vedo così, gli ho risposto, e mi sono alzata. Dopo il legittimo sospetto sulla disperazione di chi facesse una proposta simile, mi sono chiesta quanta ne dovessero avere quelle che accettavano, e se corressi mai il rischio di raggiungere quel livello, man mano che la prospettiva di una famiglia da libro Cuore si allontanasse sempre di più.
Come temevo, l’aspirante compagno di vita mi ha seguita, ma solo per dirmi “un’ultima cosa”: magari, a parlarci su Instagram avremmo almeno approfondito la conoscenza… Ok, ho pensato, se il mio Instagram mi salva da questa situazione sgradevole, e sia.
Adesso, credetemi, la spiegazione cinica non basta. Siamo d’accordo sul fatto che attrazione e desiderio c’entrassero poco con le profferte che ho ricevuto, ma ho letto abbastanza sul rapporto tra amore e cultura, e soprattutto ho conosciuto abbastanza persone di mezzo mondo, da sapere che il mero calcolo non spiega tutto tutto. In Crítica del pensamiento amoroso, Mari Luz Esteban parla di una coppia mista che, a quanto pare, si è messa insieme per motivi pratici, e l’amore era solo un accessorio che è spuntato dopo, con criteri molto diversi da quelli che vediamo in un film di Hollywood. Esteban cita anche l’autrice di noir Ingrid Noll: parlando con un’europea, una donna cinese di umilissime origini spiega che è sul punto di sposare un tedesco “per amore della sua vasca da bagno”. Traduco la fine della lunga citazione:
E tu parli d’amore! Di noi due, una ama un uomo, e un’altra, una vasca da bagno. In Cina, i matrimoni sono sempre stati unioni di convenienza. Nel mio caso, lui ottiene sesso esotico e io, la vasca da bagno: è uno scambio equo. Però tu poni la questione al tuo compagno in modo molto diverso: tu ottieni tutto il sesso che vuoi… E lui, per giunta, ti pulisce la vasca da bagno.
Adesso, come intuirete se seguite il blog da un po’, scatta l’aneddoto personale. Un ragazzo ivoriano che ho conosciuto secoli fa, e mi voleva semplicemente portare a letto, mi ha sgamata sui social anni dopo, a documenti ottenuti, in preda a non so che crisi nostalgica che gli portava a rimpiangere quando, a comportarsi meglio, avrebbe potuto avermi (cioè, mai?). Così, senza promesse di raggiungermi né niente. No, il cinismo non sempre spiega tutto.
Resta da chiedersi chi, tra me e questo ragazzo del porto, sia più malato di romanticismo: lui, che trova che “lasciare tutto per seguire una tizia conosciuta una sera” sia un’ipotesi possibile, e magari in realtà non aveva niente da perdere. Oppure io, che penso ancora che per “costruire qualcosa” ci voglia chissà che slancio, che premessa solida, rispetto a un semplice accordo estemporaneo tra individui senzienti.
Ma, come sospettavo fin dall’incontro iniziale col mendicante-provolone – quello che voleva prima una sigaretta, poi un caffè da prendere insieme – l’idealizzazione amorosa è costruita apposta per edulcorare uno scambio d’interessi, che Virginie Despentes, nel consigliatissimo King Kong Théorie, smaschera e rinnega in due righe che pure traduco: “Ho sempre saputo che avrei lavorato, che non sarei stata obbligata a sopportare la compagnia di un uomo che pagasse il mio affitto”.
Quando uno schema così semplice si rompe, quando, tra crisi economiche e non, diventa poco chiaro chi paghi l’affitto di chi, non sai neanche tu qual è la vittima, e quale il carnefice, e in quali momenti siamo entrambe le cose.
Il capitolo da cui ho preso la citazione di Despentes s’intitola: “Je t’encule ou tu m’encules?”.
Coincidenza? A questo punto, io non credo proprio.
Solo che in spiaggia non ci vado, e no, ancora non ho visto i calanchi. Le città le visito con la metodologia René Ferretti, come sa bene chi mi rincorreva disperato con una cartina in mano, la prima volta che mi sono persa tra i vicoli di Barcellona.
Marsiglia è il secondo anno che la vedo da sola, stavolta in una vacanza fine a se stessa, senza altre tappe né motivi diversi da quello di conoscerla un po’ meglio. Ho già scoperto che – spoiler – non farebbe per me neanche se mi venisse sul serio l’idea di lasciare Barcellona, in cui resto non per passione, ma per inerzia: alla fine sto bene, perché andar via.
Tante cose vanno avanti così, e non capisco tanto chi preferisce la passione alla tranquillità, non in questo momento della mia vita. Se si possono conciliare, bene, se no tranquillità for ever.
Però Marsiglia ha un altro vantaggio: ero qui esattamente un anno fa, nel momento più fatidico della mia vita adulta, zeppo di tutti i cambiamenti possibili, nel bene e nel male.
Quelle vacanze dovevano essere eclettiche e affollate, e si sono rivelate solitarie a metà percorso. Dovevano essere una sorta di quiete prima della tempesta, e invece ecco arrivare fin dall’inizio i primi tuoni: anche in senso letterale, durante il mio piovoso soggiorno a Roma!
Un anno dopo sono qui a raccontarlo, e posso raccontare un’altra cosa: niente di quello che prevedevo per me “da lì a un anno” è successo, nel bene e nel male. Almeno, non è successo come me lo immaginavo. Le svolte risolutive non si sono confermate tali, gli errori commessi non si sono rivelati madornali…
Questo sì: resta in piedi il progetto. La rotta che avevo intrapreso era quella giusta, l’unico problema quando si fanno progetti è accettare che non si possono mai prevedere tutti i fattori in gioco, neanche a essere proprio Mago Mariano.
Nell’acquisto di una casa non si possono prevedere certi intoppi burocratici che, come si dice a Napoli, “ciaccano e ammierecano”, cioè ti complicano questioni che credevi semplicissime, mentre ne risolvono altre che ti assillavano.
In un lavoro complicato come quello di scrivere, non si può fare una diagnosi sulla salute mentale di chi si muove in quel mondo, anche se è facile prevedere che non sarà altissima.
Infine, nelle relazioni di qualsiasi tipo, la fregatura è che, quando c’è una crisi, ogni minima decisione (incontrarsi o meno, parlare prima o dopo, chiedere quei soldi o scordarseli) può avere conseguenze irrevocabili, e allora i piani lasciano il tempo che trovano e si procede sempre un po’ a tentoni. Anche quando si hanno ben chiari i propri desideri, e le cose che siamo disposti o meno a tollerare (che in questi casi, però, slittano sempre verso soglie inaspettate).
Tra eccessi di analisi e banalità assortite, forse l’unica grande soluzione è anche la più ovvia: se abbiamo in testa un percorso che ci convince, seguiamo quello, ma prepariamoci a sorprenderci, nel bene e nel male. Anche i viaggi organizzati al millimetro avranno sempre qualche fattore che sfugga al controllo.
Ma questi sono consigli miei, anche un po’ banali: seguiteli solo se vi “risuonano” nei corpi già abbronzati (come vi schifo!) e sudati almeno quanto il mio.
Altrimenti, se c’è una cosa che ho imparato in quest’anno, è: non seguire i consigli. Non fraintendetemi, ascoltarli è importante, specie se ci fidiamo di chi ce li dà, che magari ha anche assistito da vicino al problema che vuole aiutarci a risolvere. Però una cosa è osservare, e un’altra sentire, anche quando sembra che da soli non riusciamo a cavare un ragno dal buco (e povero ragnetto, meno male!). In questioni personali, la soluzione meno idiota che viene in mente a noi è quasi sempre meglio di una super-intelligente, escogitata da chi non è nei nostri panni.
Non so voi ma d’ora in avanti, almeno gli errori, li voglio fare da sola.
E l’alloro che c’entra? C’entra, c’entra (da YouTube).
Facciamo un gioco.
È un indovinello, che ha a che vedere con quello che tra una risata e un link musicale cerco spesso sul blog, cioè: il rapporto tra identità e identificazione. E chemminchia è?!
Le storie, gente. Le storie.
Quelle che ci risuonano dentro come esseri umani nati con un certo tipo di genitali – a cui diamo un certo tipo di significato – in una certa parte del mondo, da una famiglia con una determinata posizione sociale.
Possiamo raccontare la nostra storia in mille modi, alcuni utili, altri controproducenti o addirittura letali. Non siamo quasi mai noi a sceglierci le storie, o il modo di guardarle, ma quasi sempre possiamo ribaltarle e farle nostre.
Adesso vi presento una donna che racconta la sua storia, e quella della sua terra. Ve la taglio nei punti che si ripetono o vi aiuterebbero troppo a indovinare, e lo faccio ahimè con violenza sintattica, con qualche corsivo mio e senza faticosi puntini sospensivi: alla fine, solo dopo che avrete fatto il gioco, vi metto il link originale da cui godervela tutta.
Il gioco, si diceva, è un indovinello.
Secondo voi, di dov’è questa donna? Di quale terra sta parlando?
Via!
“Ah, se vengo lì e lo trovo io…!” dicevano le nostre madri quando perdevamo quel capo d’abbigliamento e chiedevamo con fare tiranno che venissero loro a cercarlo… Non le vedevamo, perché non abbiamo mai visto niente di quello che facevano. Il loro lavoro era reso completamente invisibile, e neanche ora che siamo “femministe formate” riusciamo ad aprire gli occhi e guardare alle nostre radici da un punto di vista intersezionale, che evidenzi le nostre origini e la nostra cultura: il sud che smacchiava le vergogne del nord, e che sopravvive trascinandosi in silenzio la sua discriminazione storica.
Quanto alla sua negazione storica… Non più.
Questo progetto è una sfida: un tentativo di riscattare questa intersezionalità nei nostri sguardi. È la base per cominciare a vederla e smettere di silenziarla. Perché niente è uguale qui. Neanche il femminismo… Vogliamo riscattare anche la potenza delle nostre radici che tante volte è ridicolizzata in altri luoghi: quella delle nostre nonne, delle nostre antenate, delle nostre poetesse… il ritmo meraviglioso dei nostri accenti. Vogliamo convivere con la convinzione che dare un altro significato – per noi – pure è possibile.
Vogliamo rompere il tabù delle violenze che ci opprimono ogni giorno come la mancanza di ammirazione e di riconoscimento per il fatto di parlare così. Vogliamo cacciare dalle nostre vite quel commento tanto snervante, “Che accento simpatico!” quando stai esponendo la tua posizione politica in assemblee di altri luoghi. Vogliamo cacciare dalle nostre vite questi commenti che ci giudicano, ci squalificano, ci tolgono il potere, e ci invitano a cambiare il nostro modo di gesticolare e i nostri linguaggi per adottare le forme egemoniche.
Questo è il nostro modo di parlare e di esprimerci, e ci va bene così. Fatevene una ragione!
Vogliamo rivendicare la nostra forza e potere e cominciare a parlare delle personalità della nostra terra che, nel corso della storia, sfidarono con la loro arte, i loro scritti, le loro parole… le norme di genere. Il mondo ha molto da imparare dai nostri linguaggi e dalle nostre posizioni di fronte alla vita. Vogliamo riscattare le figure storiche sconosciute che – con la loro ribellione – ci hanno lasciato una grande eredità. Non erano solo folcloristiche e, se lo erano, ci piace anche questo di loro. Perché credete che non abbiano niente da dire?
Vogliamo generare un femminismo e un transfemminismo della nostra terra, senza tabù né complessi.
Non vogliamo ridurre il femminismo della nostra terra a una sola cosa, però crediamo che è necessario cominciare a parlare delle nostre origini e di tutte quelle violenze che riceviamo per quelle. Dobbiamo cominciare a vedere la trasgressione e la sovversione nelle nostre stesse radici, recuperare il nostro passato di lotta e parlare di questo tra noi, nella comunità… recuperando anche gli spazi di vicinato, di quartiere, che ci caratterizzavano.
Inoltre crediamo che non ci sia maggiore invisibilità di quella imposta dietro un simulacro di uguaglianza che è falsa, non è reale. Non ci considerano “uguali” in altri luoghi, la situazione economica di questa parte del territorio nazionale è deplorevole, continuiamo a essere vittime di stereotipi costanti e le nostre scelte di vita sono ingabbiate sempre all’interno di questi.
Abbamo svolto il lavoro di cura per buona parte delle generazioni di questo stato, per anni e anni: puliamo le vostre case, accudiamo la vostra prole in condizioni di precariato che neanche vengono riconosciute.
La maggioranza di donne della nostra terra ha costruito la storia con le ginocchia conficcate nel suolo. Siamo orgogliose di loro e non vogliamo disprezzare il loro lavoro come sempre è stato fatto; però vogliamo “vendicarle” e dare un nuovo significato al lavoro di cura.
Questa dinamica del sud in cui le vicine sono le nostre potenziali compagne di vita: rompere le pareti che ci separano e convivere tutte sotto lo stesso alloro. Vogliamo rompere la tradizione del dolore nelle nostre case.
Credi che non esista un “transfemminismo” nella nostra terra? Be’, trema perché…
Però il testo vi risultava familiare, vero? Anche perché i privilegi sono una brutta bestia, dappertutto.
Infatti vi svelo un segreto di cui non vado proprio arcifiera: pensando a chi di voi non parla lo spagnolo, per un nanosecondo mi sono detta “E ringraziate che ‘sto manifesto andaluso dovete solo leggerlo, e non ascoltarlo!”.
Tipo la dichiarazione dei redditi, seduta su una panchina in Via Luca Giordano.
Oppure il Lascia o raddoppia a distanza per vendere casa.
Oppure leggevo un brano del mio racconto contenuto in questa raccolta: il piglio allegro della presentazione mi aveva fatto escludere il passaggio, un po’ didascalico, che voleva provare al pubblico che noi vegani non siamo il diavolo. Ma sembra che oggi, ancor più del seitan preconfezionato a peso d’oro, vanno di moda i pregiudizi.
Soprattutto, giravo per Piazza Garibaldi, tra i baretti che una volta vendevano marenne unte, e che ora sono pizzerie fresche di restyling, in cui qualche cameriere nero “come il carbon” s’industria a parlare l’inglese che i colleghi autoctoni non tanto masticano.
In una traversina del Corso Umberto, tra icone sacre del XIX secolo, i negozianti pakistani chiudevano le saracinesche tra i pochi turisti e gli autoctoni che rincasavano: avevo trovato il posto in cui avrei potuto essere di qualsiasi posto, l’unico che ormai senta davvero mio.
Resta l’impressione che il problema non sia solo di etnia, ma di classe: in Italia non vogliono i poveri. Forse si sarebbero levati meno offendicula se l’autore del brano di cui sopra avesse dichiarato che ad abitare in quel palazzo ci sarebbe venuto “l’ambasciatore del Senegal“. Stessa cosa del mio antico proprietario, a Forcella (…), che aveva schifato un vietnamita perché “non voleva cinesi”, per poi andarci d’amore e d’accordo quando aveva visto che era uno studente fuorisede come tanti. Il pregiudizio è che tutti gli stranieri non nordici siano migranti, e che tutti i migranti siano poveri. E i poveri, si sa, sono anche brutti, sporchi e cattivi. Metti che sputano a terra e fermano le ragazze più di tanti miei compaesani. Metti che l’odore dei loro cibi invade le scale più del ragù, e, se non ti piace respirare quello un’intera domenica, si vede che era carne c’ ‘a pummarola.
W i poveri, dunque, e se stranieri meglio ancora: ci permettono di passare sottogamba le evasioni fiscali, la caccia alle raccomandazioni, e la paura che nostro figlio non trovi mai lavoro. E non perché c’è uno straniero a rubarglielo, che nostro figlio “non ha studiato per tanti anni per andare a raccogliere pomodori”; ma perché chi concentra tutta l’attenzione su quanto siano brutti, sporchi e pericolosi gli stranieri non è in grado di dargliene uno.
Alla luce di tutte queste osservazioni, è la prima volta che mi sento davvero straniera anch’io.
Come ultimo post sulla tristissima pagina di storia italiana (e umana) che è stata la vicenda Aquarius, condivido il comunicato dell’associazione che da cinque anni è parte integrante della mia vita barcellonese. Se vi va, condividete:
NON CI RAPPRESENTANO
L’Associazione Altraitalia Barcelona, costituita da italiane e italiani residenti in Catalogna, esprime la propria approvazione rispetto alle scelte del governo spagnolo e della Generalitat valenciana sulla questione Aquarius. Siamo felici di vivere in una città che non ci fa sentire “immigrati”, e che per volontà della sindaca Ada Colau ha aperto fin dall’inizio del suo mandato le porte ai rifugiati. Siamo orgogliosi di toccare con mano il fatto che tutti quei valori che, a detta della destra italiana, porterebbero alla disgregazione dell’identità, sono invece il fondamento di una città aperta e inclusiva, dove persone di ogni provenienza e credo hanno potuto trovare una nuova casa.
Non possiamo che guardare con preoccupazione agli ultimi sviluppi della politica italiana, caratterizzati dall’allarmante centralità di un discorso identitario che ha creato le premesse per le desolanti prese di posizione razziste del ministro dell’interno Salvini. Ci preoccupa che queste posizioni sembrino essere condivise da buona parte di questo governo, e da una porzione significativa della popolazione.
La Spagna e la Catalogna non sono un paradiso libertario, contrariamente a quello che vorrebbe far credere una certa lettura superficiale della realtà. Ma crediamo che Barcellona in particolare, pur con tutti i suoi problemi, rappresenta la realizzazione dei peggiori incubi di Salvini e dei suoi sodali: famiglie LGBTI numerose e attive, lotte femministe che sono diventate coscienza collettiva, il razzismo populista che, persino in un contesto identitario come quello catalano, è inesistente.
È per questo che, forti della nostra esperienza, possiamo dire, ora più che mai: restiamo umani.
Barcellona, 18 giugno 2018.
Associació AltraItalia Barcelona
info@altraitaliabcn.org
Nota
L’associazione Altraitalia Barcelona è nata nel 2009 da un gruppo di italiane e italiani residenti in Catalogna appartenenti a diverse tradizioni della sinistra nostrana. L’intenzione, da subito, fu quella di interagire con il contesto politico della nostra patria d’adozione: da qui derivano le molteplici iniziative attraverso le quali, nel corso degli anni, abbiamo cercato di lavorare alla costruzione di una memoria storica condivisa tra Italia e Catalogna.
Nel corso della Grande Guerra, un soldato italiano scambiava per spie dei commilitoni che, semplicemente, parlavano a voce bassa tra di loro. Il rapporto in cui denunciava l’accaduto (lo trovate qui, insieme a un resoconto più accurato della vicenda) conteneva almeno un paio di volte espressioni come “a me non la si fa”. Era furbo, il soldatino. E i tre accusati erano particolarmente sfigati: lungi dall’essere spie, rischiavano grazie a tanta astuzia il plotone di esecuzione.
Cento anni dopo, più modestamente, il vigilante di un supermercato su Avenue de Flandre scopriva un reperto sospetto nella borsa di una tizia di vostra conoscenza (oui, c’est moi). Si trattava di un pacchetto di gallette di riso. So che molti di voi mi sbatterebbero davanti a un plotone d’esecuzione per il solo fatto di mangiare quelle, ma ciò che interessava allo scrupoloso addetto alla sicurezza era la provenienza del pacco: vuoi vedere che l’avevo rubato nel negozio su cui vegliava?
Che fosse un tipo “accorto”, l’avevo notato fin dal mio ingresso nel negozio: si era messo alle calcagna della cliente entrata prima di me, che apparteneva a un’etnia spesso bollata come propensa ai furti (come quella di lui, d’altronde, e la mia, ma questa è un’altra storia).
Ma tanto io, ormai l’avrete capito da altri post, ero in cerca di una cosa sola: filo interdentale. E non l’avevo trovato neanche lì. Stavo dunque lasciando il negozio, quando mi ero sentita richiamare:
“Madame! Madame!”.
Tornando indietro dal mio detective preferito, avevo capito solo: “Votre sac”. Ok, la borsa. L’avevo aperta. Tatatataaan. Il pacco sospetto. Avevo mormorato nel mio francese spaventato: “L’ho comprato da Auchan“. Mi ero pure impappinata, dicendo “a Auchan”, quasi alla catalana, invece di “chez”. Ma tanto lui aveva capito solo “L’ho”.
Mi aveva, però, risparmiato la lezione di francese, e si era limitato ad ammonirmi: avrei dovuto mostrargli la borsa fin dal mio ingresso, per segnalargli il possibile equivoco. Peccato che nessuno dei supermercati visitati durante il soggiorno parigino prevedesse una norma simile. Anzi, mi avevano sorriso cerimoniosi anche quando ero entrata con lo scialletto d’ordinanza avvolto intorno alla borsa (particolare che, anni addietro, mi era valso addirittura una perquisizione della police nationale, convinta che nascondessi della droga).
Ero uscita dal supermercato con una strana sensazione: il tipo aveva fatto, come si suol dire, “nient’altro che il suo dovere”. Ma insomma, senza infrangere nessuna regola di quel genere di stabilimento (ero colpevole solo di avere una borsa capiente e di non aver comprato nulla) ero stata sospettata di furto ed esposta al rischio di una lunga trafila di spiegazioni. E tutta la documentazione che potessi offrire era la famosa denuncia, in catalano, del furto di portafogli e carte d’identità.
Una cosa simile (e la pianto con gli aneddoti) mi era capitata durante un mio ritorno a Napoli,nella sorta di bazaar-libreria al piano terra dell’aeroporto. Nel tentativo di infilare l’uscita per me più comoda, non mi ero resa conto che le porte che cercavo di aprire fossero bloccate. L’equivoco aveva attirato l’attenzione del proprietario, che mi aveva lanciato un’occhiata strana e si era incaricato personalmente di perquisirmi quando, uscendo dalla porta giusta, avevo inspiegabilmente provocato l’azionamento dell’allarme. Un allarme particolarmente sensibile, visto che ancora non avevo varcato davvero il metal detector. Ma qui rischio di passare per paranoica io.
“Questo libro…?” mi aveva chiesto il mio perquisitore, estraendo un testo dalla borsa.
“Questo libro è spagnolo” gli avevo fatto notare io.
Da lui avrei potuto rubare al massimo un’opera di Federico Moccia, ma ero pronta a giurargli che non avrei ceduto alla tentazione.
Allora mi aveva lasciata andare, ringraziandomi pure per la collaborazione.
Perché viviamo in altri tempi, rispetto a cento anni fa, i plotoni d’esecuzione sono sporadici e soprattutto virtuali (anche se non sempre, purtroppo).
Ma nella linea d’ombra tra “fare il nostro dovere” e peccare di eccesso di zelo, continuiamo a pensare, ogni tanto, “a me non la si fa”.
Non la si fa alla padrona di casa che, protestando di non essere razzista, dichiara di non affittare il suo appartamento “a stranieri”, almeno a quelli provenienti da “certi paesi”. Anche se mi piacerebbe mostrarle gli appartamenti devastati da suoi connazionali in cui, da studentessa, mi sono ritrovata a vivere.
Non la si fa nemmeno a chi ritiene che informarsi sulla nazionalità della mia ladra di portafogli sia determinante e cambi molto, per me: fosse stata una svedese, sarei rimasta certo con più gioia senza documenti e coi soldi contati!
Insomma, tutta questa gente a cui non la si fa, non la fa mai a nessuno?